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La riforma dell’appello civile dopo la svolta nelle commissioni parlamentari - Judicium

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1 REMO CAPONI

La riforma dell’appello civile dopo la svolta nelle commissioni parlamentari

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Filtro. – 3. Obiezioni. – 4. Nuovi requisiti di forma contenuto dell’atto di appello. – 5. De profundis alla soluzione più equili- brata. – 6. Giusto processo. – 7. Giurisprudenza della Corte EDU. – 8. Li- mitazione delle nuove prove in appello. – 9. Limitazioni dell’art. 360, n. 5 c.p.c. – 10. Incentivazione del procedimento sommario di cognizione. – 11. Considerazioni finali.

1. - Dopo il passaggio dinanzi alle commissioni riunite «Finanze» e «Atti- vità produttive» della Camera dei Deputati (19 luglio 2012), la riforma del proces- so civile all’insegna della «crescita del paese» si delinea come più incisiva di quella contenuta nel testo originario dell’art. 54 d.l. 22 giugno 2012, n. 83 (1).

L’art. 54 cit. persegue tre obiettivi fondamentali: a) introdurre un giudizio d’inammissibilità per gli appelli che non abbiano «ragionevole probabilità» di es- sere accolti (nuovi artt. 348-bis e 348-ter c.p.c.); b) limitare la possibilità di pro- porre ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 5 c.p.c.; c) incentivare l’attore ad introdurre la causa in primo grado nelle forme del procedimento som- mario di cognizione (art. 702-bis ss. c.p.c.).

È opportuno riepilogare le modifiche.

2. – Quanto al primo obiettivo, si impone una premessa. Nel processo civi- le le corti d’appello si trovano in una condizione molto difficile. Tra la metà del 2010 e la metà del 2011: 162.940 cause sopravvenute, 145.500 definite, 444.908 pendenti. Nel 68% dei casi il giudizio di appello si conclude con la conferma di quello di primo grado. Questi i dati del Ministero della giustizia. Pertanto è giusti- ficato il tentativo di individuare modi accelerati di definizione del giudizio d’impugnazione.

Se si va indietro nel tempo, questa idea trova un qualche fondamento nelle riflessioni della scienza italiana di diritto processuale comparato: «una seria ri- forma del processo civile non è possibile se non viene profondamente riveduto, e ridimensionato, il sistema delle impugnazioni. Un secondo giudizio di fatto, come

(1) Gazzetta Ufficiale, 26 giugno 2012, n. 147, suppl. ord. n. 129. Non si possono studiare in questa sede, le modifiche alla legge Pinto, l. 24 marzo 2001, n. 89 (art. 55).

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dovrebbe essere l’appello attuale, non si giustifica […]. Non si giustifica, perché il vero giudizio di fatto è quello che si pone in rapporto di immediatezza con l’assunzione delle prove e discende da una partecipazione diretta del giudice alle attività istruttorie» (2).

La prassi si ingegna: ad esempio, la terza sezione civile della Corte di ap- pello di Roma ha sperimentato la discussione in camera di consiglio di tutte le cause fissate, due giorni prima dell’udienza, in modo da pianificarne la trattazio- ne, nonché l’adozione del modulo decisorio ex art. 281-sexies c.p.c. Su quest’ultima strada si è messo anche il legislatore appena qualche mese fa (v. le modifiche degli artt. 351 e 352 c.p.c., introdotte dalla l. n. 183 del 2011).

Senza attendere l’impatto pratico di questa riforma, il Governo è interve- nuto di nuovo a perseguire lo stesso obiettivo di accelerazione con altri strumenti.

È stato congegnato così un filtro di inammissibilità incentrato sulla prognosi che l’appello sia privo di una «ragionevole probabilità» di essere accolto. Tale pro- gnosi è formulata dal medesimo giudice dell'appello prima della trattazione dello stesso (art. 348-bis c.p.c.). Il filtro non opera nelle cause in cui è previsto l'inter- vento obbligatorio del pubblico ministero, né nei casi in cui l’attore abbia scelto in primo grado di avviare la causa sui binari del procedimento sommario di cogni- zione (3). All’udienza, prima di procedere alla trattazione, sentite le parti, qualora ricorrano i presupposti dell’art. 348-bis, comma 1 c.p.c. sia per l’impugnazione principale che per quella incidentale tempestiva, il giudice dichiara inammissibile l’appello, con ordinanza succintamente motivata che può limitarsi a rinviare a fatti descritti negli atti di causa, nonché a precedenti conformi. Se non ricorrono i pre- supposti della inammissibilità, il giudice procede alla trattazione dell’appello (4).

In caso di pronuncia d’inammissibilità, diventa impugnabile per cassazio- ne direttamente la decisione di primo grado (5), in coerenza con il fatto che la pro- nuncia di inammissibilità non ha carattere sostitutivo (6). Se la Corte di cassazione accoglie il ricorso (per motivi diversi da quelli indicati dall'art. 382 c.p.c., che si

(2) V.DENTI, Riforma o controriforma del processo civile? Un progetto per la giustizia civile, Bologna, 1982, 288, e M.CAPPELLETTI, Parere iconoclastico sulla riforma del processo civile italiano, in Giustizia e comunità, Milano, 1977, 116, entrambi citati da D.MITIDIERO, Por uma reforma da Justiça Civil no Brasil. Um diálogo entre Mauro Cappelletti, Vittorio Denti, Ovídio Baptista e Luiz Guilherme Marinoni, in Revista de processo, 36 (2011), 83, 84.

(3) Art. 348-bis, comma 2 c.p.c.

(4) Art. 348-ter, commi 1 e 2 c.p.c.

(5) Art. 348-ter, comma 3 c.p.c. In tal caso il termine per il ricorso per cassazione decorre dalla comunicazione o notificazione, se anteriore, dell’ordinanza che dichiara l’inammissibilità. Si applica l’articolo 327 c.p.c., in quanto compatibile.

(6) Un problema secondario, ma meritevole di essere ricordato è la sorte dei provvedimen- ti emanati in secondo grado, compreso quello sulle spese, in caso di accoglimento del ricorso per cassazione. Essi dovranno essere caducati ai sensi dell’art. 336, comma 2 c.p.c., interpretando in senso ampio la nozione di provvedimenti dipendenti dalla sentenza cassata.

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occupa della decisione sulle questioni di giurisdizione e di competenza, nonché della cassazione senza rinvio), rinvia la causa al giudice che avrebbe dovuto pro- nunciare sull'appello e si applicano le disposizioni sul giudizio di rinvio (art. 392 ss. c.p.c.) (7).

3. - L’introduzione del filtro d’inammissibilità in appello presta il fianco alle seguenti obiezioni.

In primo luogo, l’immediata ricorribilità della sentenza di primo grado provocherà un ulteriore appesantimento del carico di lavoro della Corte di cassa- zione, già sovraccarica oltre misura (nel 2011, nel civile: 30889 ricorsi sopravve- nuti; 32.948 definiti; 95.594 pendenti a fine anno) (8) e così difficilmente in grado di garantire l’uniforme interpretazione del diritto, nonostante gli sforzi dei giudici addetti. Come si è osservato: «l’appello infatti serve non solo a dare sfogo pieno alla garanzia soggettiva dell’impugnazione [..], ma assolve anche [..] alla funzione di primo filtro all’accesso in Cassazione. Ed infatti a fronte dei circa centoventi- mila appelli civili annui abbiamo solo circa venticinquemila ricorsi per cassazione (dedotti i ricorsi avverso le decisioni tributarie e i regolamenti di giurisdizione e di competenza): abolire l’appello significherebbe fare aumentare a dismisura il nu- mero dei ricorsi per cassazione in quanto questo sarebbe l’unico rimedio ordinario attraverso cui dare sfogo alla garanzia soggettiva dell’impugnazione: con ulteriore aggravio dei problemi della nostra Corte suprema» (9). Ebbene, in tutti i casi di pronuncia d’inammissibilità l’appello è sostanzialmente abolito. Era da scegliere la soluzione opposta: introdurre un filtro all’accesso al giudizio in cassazione (10).

(7) Art. 383, comma 4 c.p.c., aggiunto dall’art. 54, comma 1, lett. c).

(8) Cfr. http://www.cortedicassazione.it/Documenti/CCStatisticheCivile_2011.pdf.

(9) Così, A.PROTO PISANI, Principio d’eguaglianza e ricorso per cassazione, in Foro it., 2010, V, c. 65.

(10) Una regola, quale l’art. 111, comma 7 Cost., che garantisce sempre il ricorso per cassazione, appare pertanto obsoleta. Il problema si può risolvere aprendo l’art. 111, comma 7 Cost. al bilanciamento con il principio di eguaglianza, che non può essere realizzato se alla Corte di cassazione è praticamente impedito di garantire l’uniforme interpretazione del diritto, ma anche con la garanzia del giusto processo, nella molteplicità di sfaccettature prese in considerazione più avanti nel testo (compresa quella relativa all’esigenza di riservare risorse agli altri processi).

D’altra parte, sul piano della teoria del diritto, si è già sostenuto che il rispetto di un principio non incontra sempre e immancabilmente le limitazioni segnate da una regola espressione di un principio contrapposto. In altre parole, l’effetto vincolante della regola della ricorribilità sempre in cassazione può cedere, in presenza di determinate condizioni, all’effetto di conformazione derivante da quella sintesi di garanzie che è il giusto processo. Insomma, il ricorso in cassazione sempre possibile urta contro il principio di eguaglianza e il giusto processo. Vero è che questa operazione deve essere vagliata da un soggetto particolarmente legittimato, cioè dalla Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi su una questione di legittimità di una norma di legge ordinaria che introduca francamente un filtro al ricorso per cassazione. per un più ampio discorso sul punto, rinvio a R.CAPONI, Contro il filtro in appello e per un filtro in cassazione nel processo civile, in www.judicium.it.

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In secondo luogo, il parametro di giudizio che l’impugnazione non abbia una «ragionevole probabilità di essere accolta» concede un margine di apprezza- mento eccessivo al giudice dell’impugnazione, poiché gli consente di dichiarare inammissibile un’impugnazione che pur abbia una probabilità di essere accolta, sol che questa probabilità sia a suo giudizio non «ragionevole». Non si sa bene che cosa ciò significhi in via generale ed astratta. Lo si potrà sapere solo dopo a- ver letto la succinta motivazione dell’ordinanza che reca questo giudizio. A fronte di un sottilissimo strato di appelli manifestamente infondati sotto ogni cielo, vi sa- rà la maggior parte dei casi in cui il giudizio d’inammissibilità significherà molte cose diverse, a seconda del temperamento e della volontà del giudice che lo pro- nuncia. Accadrà ciò che non dovrebbe accadere: che sul giudizio d’inammissibilità pesino le condizioni di lavoro del giudice dell’impugnazione, predisponendo quest’ultimo ad un giudizio molto severo laddove il carico delle cause pendenti sul suo ruolo sia pesante.

In realtà, l’obiettivo vero della riforma è proprio questo: trasformare quel circa 70% per cento di appelli dichiarati infondati, al termine del processo, in provvedimenti d’inammissibilità con un’attività di cognizione minima, all’inizio del processo: una specie di «quadratura del cerchio». Applicato su larga scala, questo strumento aprirà la porta ad un notevole volontarismo giudiziale e divente- rà un terreno di scontro tra avvocati e magistrati, ove la fisiologica contrapposi- zione di ruoli processuali tenderà a trasformarsi in una ulteriore manifestazione del conflitto tra le due categorie professionali.

4. - In questa prospettiva si lasciano valutare anche i nuovi requisiti di forma-contenuto dell’atto introduttivo del giudizio d’appello, previsti dal nuovo testo dell’art. 342 c.p.c., intonato al § 520, comma 3, frase 2, nn. 1 e 2 del codice di procedura civile tedesco. In particolare si prevede che l’appellante indichi spe- cificamente, a pena di inammissibilità, le parti del provvedimento impugnate, le modifiche richieste alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo gra- do, nonché le circostanze da cui deriva la violazione di legge e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata (artt. 342, comma 1, 434, comma 1 c.p.c., nuovo testo).

La giurisprudenza tedesca interpreta tali requisiti in modo abbastanza ge- neroso e così ritiene che, in relazione all’onere di individuare le parti del provve- dimento impugnate, il mezzo di impugnazione debba intendersi come indirizzato a colpire l’intera decisione rispetto alla quale si registra la soccombenza dell’appellante (BGH, 9 settembre 2008, VI ZB 53/07, indirizzo confermato re- centemente da BGH, 29 marzo 2012, V ZB 176/11). Sui possibili motivi di questo

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atteggiamento ci siamo già interrogati (11): l’appello nel processo civile è un istitu- to su cui pesano notevolmente gli elementi strutturali di fondo di una esperienza processuale, tra cui in primo luogo gli abiti mentali e culturali condivisi dai prota- gonisti della vicenda, avvocati e magistrati. Tali elementi strutturali ricompongo- no i momentanei «sobbalzi» legislativi e giurisprudenziali entro la linea evolutiva di lungo periodo, che nei sistemi di civil law appare ancora oggi fortemente segna- ta da uno scopo del processo civile intonato all’attuazione del diritto oggettivo, nonché da una mentalità che concepisce la risoluzione giudiziaria della controver- sia come una partita in più istanze.

Certamente anche nell’esperienza italiana gli elementi strutturali di fondo prevalgono sui sobbalzi momentanei. Però abbiamo a che fare con un «sobbalzo»

abbastanza lungo, determinato dalle grave situazione di inefficienza in cui versa attualmente la giustizia civile italiana. In questo contesto non può sorprendere che le riforme della giustizia civile siano sempre più frequentemente il terreno di scontro tra avvocati e magistrati. La vicenda attualmente in corso sulla riforma del giudizio d’appello ne è una conferma paradigmatica. Essa divide gli animi. Però non li divide tanto lungo una linea segnata dal confronto e dallo scambio tra ar- gomenti giuridici (come sarebbe auspicabile), bensì soprattutto lungo la linea se- gnata dal ruolo professionale: i magistrati sono quasi totalmente favorevoli alla riforma; gli avvocati sono quasi totalmente contrari. Si scopre così che sono un’eccezione in Italia quegli abiti mentali e culturali condivisi dai protagonisti della esperienza processuale che – insieme ad un potere politico da sempre vigi- lante sulle sorti della giustizia civile statale - costituiscono il motore propulsore dell’efficienza e della effettività della giustizia civile tedesca.

Niente quindi garantisce che l’orientamento flessibile della giurisprudenza tedesca sarà seguito anche in Italia. Anzi, accadrà il contrario: il nuovo testo dell’art. 342, comma 1 c.p.c. è pensato come un ulteriore dispositivo di filtro che ha come parametro il rispetto dei requisiti di forma-contenuto ivi previsti. Ciò si- gnifica in pratica che, mentre per dichiarare inammissibili appelli privi di una «ra- gionevole probabilità» di essere accolti il giudice dovrà svolgere una sia pur mi- nima attività di apprezzamento cognitivo circa la fondatezza dei motivi di appello, in questo caso il giudice dovrà verificare unicamente se l’atto di appello risponde ai requisiti della fattispecie legale di cui all’art. 342, comma 1 c.p.c. e, ove questa corrispondenza non vi sia, dovrà dichiarare l’appello inammissibile.

(11) Cfr. R.CAPONI,Contro il filtro in appello e per un filtro in cassazione nel processo civile, in www.judicium.it.

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5. – Dispiace che in sede di lavori delle commissioni parlamentari non sia passata la soluzione più equilibrata, cioè l’emendamento diretto ad aggiungere il seguente quarto comma all’art. 350 c.p.c.: «nella stessa udienza il giudice, ove ri- tenga l’impugnazione manifestamente fondata o manifestamente infondata, pro- nuncia sentenza dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ra- gioni di fatto e di diritto della decisione, anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi. La sentenza così pronunciata s’intende pubblicata con la sottoscrizione da parte del giudice del verbale che la contiene».

A vantaggio di questa soluzione si potevano invocare ragioni di metodo e di sostanza. Essa si collocava sul solco del precedente intervento legislativo di ap- pena qualche mese fa (le predette modifiche degli artt. 351 e 352 c.p.c., introdotte dalla l. 12 novembre 2011, n. 183), poiché valorizzava un modulo decisorio ana- logo all’art. 281-sexies c.p.c. Inoltre, essa perseguiva l’obiettivo di accelerare il giudizio di appello introducendo il parametro decisorio della manifesta infonda- tezza (o fondatezza). Quindi faceva un passo coraggioso per soddisfare nel modo migliore quell’esigenza che il Governo intende perseguire attraverso l’ambiguo parametro della «ragionevole probabilità» di accoglimento dell’impugnazione.

6. - La soluzione adottata non solleva profili di incostituzionalità.

Nella tradizione di civil law, i valori del giusto processo sono quelli di af- fidare ad un terzo indipendente, imparziale e disinteressato la giusta e efficiente composizione di una controversia, attraverso la dichiarazione del diritto preesi- stente al termine di un processo a cui possono partecipare in condizione di parità, per dire e contraddire, i destinatari degli effetti dell’atto finale. I valori sono quelli di garantire accesso alle corti, nonché di mettere a disposizione un rimedio neces- sario, adeguato e proporzionato (in altri termini: un rimedio effettivo) al bisogno di tutela del diritto dedotto in giudizio, entro un termine ragionevole. Sono i valori attuali del processo civile statale, sedimentati nel corso di una lunga evoluzione:

passata da una fase in cui la garanzia del giusto processo è configurata essenzial- mente come un classico diritto di libertà negativa, e gli obblighi di prestazione a contenuto positivo sono limitati al corretto svolgimento del processo, a fasi suc- cessive, che hanno visto la garanzia del giusto processo spostarsi progressivamen- te verso l’area dei diritti realizzati da notevoli obblighi di prestazione da parte del- lo Stato, salvo il divieto di abuso del processo: l’affermazione del diritto di azio- ne, come diritto di accesso ai tribunali per ottenere una pronuncia di merito; poi, la conformazione che il diritto di azione, inserito fra le garanzie costituzionali, ri- ceve dall’impegno statale a realizzare l'eguaglianza sostanziale; poi, l’istanza di

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effettività dei rimedi (non solo diritto alla sentenza di merito, all’esecuzione ed ai provvedimenti cautelari, ma rimedi calibrati per rispondere allo specifico bisogno di tutela del diritto dedotto in giudizio). Alla fine di questa parabola emergono gli imperativi dell’efficienza della giustizia civile, che però non deve svuotare quest’ultima dei contenuti precedenti: se l’efficienza della composizione della singola controversia non deve perdere di vista l’efficienza nella gestione della massa dei processi, la gestione della massa dei processi non deve perdere di vista che lo scopo di ogni singolo processo civile è la giusta composizione della con- troversia entro un termine ragionevole.

Ebbene, occorre riconoscere che per conseguire questi obiettivi è necessa- rio, ma anche sufficiente, garantire l’accesso pieno ad una corte di primo grado in condizione di gestire un robusto giudizio in punto di fatto e in punto di diritto.

Non è un caso che il processo civile tedesco è efficiente in primo luogo sotto il profilo in cui un processo deve essere in primo luogo efficiente: il proces- so ordinario di cognizione di primo grado (12).

7. - Non occorre garantire l’accesso pieno ad un’intera piramide giudizia- ria.

Questo dato è confermato dalla giurisprudenza della Corte europea dei di- ritti dell’uomo: «il ‘diritto ad una corte’, di cui il diritto di accesso è un aspetto, non è assoluto, bensì è soggetto a limitazioni […], in particolare per quanto con- cerne le condizioni di ammissibilità di un mezzo di impugnazione, giacché quest’ultimo nella sua essenza richiede di essere disciplinato dallo Stato, che gode di un certo margine di apprezzamento a tal riguardo. Tuttavia queste limitazioni non devono restringere o ridurre l’accesso in modo tale o con tale estensione da pregiudicare l’intima essenza di questo diritto; in particolare tali limitazioni non sono compatibili con l’art. 6, comma I Cedu, qualora esse non perseguano uno scopo legittimo, ovvero qualora non vi sia una ragionevole relazione di propor- zionalità tra il mezzo impiegato e lo scopo perseguito» (13). Sulla base di questo criterio, non vi è dubbio che la Corte EDU qualificherebbe come scopo legittimo quello di prevedere un procedimento semplificato di definizione per appelli privi di una ragionevole probabilità di essere accolti.

(12) Per un più ampio discorso, v. R.CAPONI, Aspetti fondamentali del processo civile te- desco (in margine alla traduzione in lingua italiana della Zpo), in Giusto processo civ., 2011, 71.

(13) Corte EDU, 21 giugno 2011, Dobrić v. Serbia, con riferimenti alla precedente giuri- sprudenza della Corte, reperibile nella banca dati ufficiale Hudoc (http://tinyurl.com/hudoc, link abbreviato), che dal 26 giugno 2012 è uscita in una nuova versione, più amichevole della prece- dente.

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Certamente, non si può teoricamente escludere che vengano presentati di- nanzi alla Corte casi di abuso dello strumento. Ma quale efficacia avrebbe un’eventuale pronuncia di accoglimento del ricorso su altri casi rispetto a quello deciso?

Il quesito è di ordine generale. Di tale ordine deve essere anche la risposta (14).

Quando si parla della portata delle pronunce della Corte EDU non si deve mai omettere di collegarle strettamente ai fatti sottostanti, anche se non è sempre facile ricostruirli con precisione ed è ancora meno facile tenerli presenti quando si procede ad ulteriori applicazioni della ratio decidendi ad un nuovo caso e si valuta l’opportunità di un distinguishing (15). La ratio decidendi è saldamente agganciata a quel fatto che si è già verificato nel passato ed ha dato origine alla pronuncia giudiziale, un fatto che proietta permanentemente la propria ombra sul dictum giudiziale, con tutta la maggiore forza che, rispetto alla fattispecie legale astratta, gli deriva sia dall’essersi già verificato nella realtà, sia dal non dover temere la concorrenza della ratio legis. Da un lato, questo tratto rivela la debolezza della portata normativa della pronuncia giudiziale rispetto alla legge, che in apicibus di- scende dal principio della domanda, dal carattere necessariamente reattivo dell’intervento giurisdizionale. Dall’altro lato, questo tratto rivela la forza degli orientamenti giurisprudenziali: la loro capacità di reagire con circospezione, passo dopo passo, fatto dopo fatto, ai mutamenti della realtà (16).

Il problema consiste nell’approfondire come una certa ratio decidendi pos- sa essere applicata ad un altro caso rispetto a quello deciso. L’individuazione dei fatti rilevanti per la decisione del caso è un’opera di selezione e di costruzione, di tipizzazione in una fattispecie astratta (analoga alla fattispecie della norma giuri- dica, laddove quest’ultima rivesta la struttura della regola) (17) dei fatti che il giu- dice trova dinanzi a sé, o meglio dei racconti che ne fanno le parti. È questa fatti- specie ricostruita che è descritta nella ratio decidendi e trova espressione nella massima giurisprudenziale che viene elaborata poi dagli uffici studio della Corte e dalle redazioni delle riviste giuridiche. Ma le regole giurisprudenziali, le rationes

(14) Nei passi successivi del testo si sintetizzano i risultati conseguiti in R.CAPONI, Giusto processo e retroattività di norme sostanziali nel dialogo tra le corti, in Giur. cost., 2011, 3753.

(15) Su questi temi è molto utile la lettura della raccolta di scritti di G.GORLA,Diritto comparato e diritto comune europeo, Milano, 1981. In particolare si segnala «Ratio decidendi» e

«obiter dictum», 331 ss.

(16) Cfr. R. CAPONI, Retroattività del mutamento di giurisprudenza: limiti, in Foro it., 2011, I, 3344.

(17) Cfr. G.GORLA,«Ratio decidendi» e «obiter dictum», cit., p. 332; J.HRUSCHKA, La costituzione del caso giuridico. Il rapporto tra accertamento fattuale e applicazione giuridica, Bologna, 2009.

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decidendi, si applicano a quei casi della vita che giungono dinanzi al giudice, non alla fattispecie astratta che ne viene poi desunta.

Ne segue che l’applicazione di un certo dictum giurisprudenziale ad un al- tro caso rispetto a quello deciso non si può compiere se non attraverso la lettura attenta e integrale del testo della sentenza, e non della massima che ne è stata e- stratta. Due narrazioni complete dei fatti della vita sono da sottoporre a valutazio- ne comparativa: quella del caso deciso e quella del caso da decidere. Si tratta di un lavoro lungo, che è da compiere senza risparmio di energie.

Per ritornare al nuovo art. 348-bis c.p.c., la «decostruzione» della tipizza- zione della fattispecie sottesa al predente, la reimmersione nel flusso della narra- zione processuale degli elementi di fatto stilizzati nella massima, ai fini del con- fronto con il nuovo caso da decidere, rivela quanto sarebbe difficile risalire dall’accertamento di singoli abusi interpretativi ad un giudizio che affermi in via generale l’inadeguatezza di questa norma ad assicurare risultati conformi al giusto processo.

8. – Il legislatore ha colto l’occasione della riforma per limitare il potere di dedurre nuove prove in appello, che è ormai concesso solo se la parte dimostra di non averle potute proporre nel giudizio di primo grado per causa a lei non imputa- bile (art. 345, comma 2 c.p.c., nuovo testo). Ciò desta poche preoccupazioni: alle esigenze di tutela effettive in questa materia (fatti e prove sopravvenute, tardivo rilievo di una questione rilevabile d’ufficio che renda rilevanti nuovi fatti da pro- vare, nullità di atti di istruzione probatoria che impongano una rinnovazione del mezzo di prova) è chiamata a rispondere una ragionevole interpretazione della norma sulla rimessione in termini per causa non imputabile (18).

Inasprimento anche per la proponibilità di nuove prove in appello nel pro- cedimento sommario di cognizione: oltre alla predetta ipotesi di rimessione in termini, sono ammesse solo le nuove prove «indispensabili» (art. 702-quater c.p.c., nuovo testo).

9. – Il secondo obiettivo fondamentale della riforma è la limitazione della possibilità di proporre ricorso per cassazione per vizio della motivazione su que- stione di fatto (art. 360, n. 5 c.p.c.) (19). Esso si realizza in due modi. In primo luogo, si modifica di nuovo il testo dell’art. 360, n. 5 c.p.c. Dalla «omessa, insuf-

(18) Sul punto rinvio a R.CAPONI, La rimessione in termini nel processo civile, Milano 1996.

(19) Su questo punto v. ora, M.BOVE, Giudizio di fatto e sindacato della corte di cassa- zione: riflessioni sul nuovo art. 360 n. 5 c.p.c., in www.judicium.it.

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ficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio» si passa adesso allo «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudi- zio che è stato oggetto di discussione tra le parti». In secondo luogo, qualora l’inammissibilità dell’appello, secondo il nuovo art. 348-bis c.p.c., sia pronunciata per le medesime ragioni di fatto poste a base della decisione impugnata, ovvero qualora l’appello sia rigettato a cognizione ordinaria (con sentenza) per le stesse ragioni, si prevede che non si possa ricorrere in cassazione contro la sentenza di primo grado per il vizio di motivazione ex l’art. 360, n. 5 c.p.c.

Questi aspetti della riforma saranno sicuramente meno incisivi sul piano pratico. Anzi, la nuova modifica del testo dell’art. 360, n. 5 c.p.c. potrebbe essere in notevole misura inutile, come dimostra l’esperienza storica dell’ordinamento italiano sotto il codice di procedura civile del 1865, in cui la Corte di cassazione giunse a sindacare il vizio di motivazione sulle questioni di fatto dichiarando am- missibile la censura sotto il profilo del difetto di motivazione come requisito di forma-contenuto della sentenza. Una conferma del limitato impatto pratico della modifica si ricava dall’esame dell’ordinamento tedesco, che descrive i motivi del- la Revision con la semplice formula della «violazione del diritto» (§§ 545, 546 Zpo), ma comprende entro questa formula anche la violazione della norma sul li- bero convincimento (§ 286 Zpo), in particolare qualora la corte non prenda in con- siderazione adeguatamente l’intero contenuto della trattazione e dell’istruzione probatoria, ovvero compia accertamenti di fatto tra di loro contraddittori. È preve- dibile che la stessa cosa accadrebbe in Italia, per mezzo dell’art. 116 c.p.c., in caso di totale abrogazione dell’art. 360, n. 5 c.p.c. Infine, per poter qualificare vera- mente come incisiva l’abolizione del controllo sulla sufficienza della motivazione occorrerebbe sapere quanti sono i ricorsi per cassazione con cui si censura esclu- sivamente l’insufficienza della motivazione, come effettivamente distinta dalla contraddittorietà. Probabilmente non sono molti.

Quanto all’impossibilità di ricorrere in cassazione contro la sentenza di primo grado per il vizio di motivazione ex l’art. 360, n. 5 c.p.c., laddove l’inammissibilità dell’appello, secondo il nuovo art. 348-bis c.p.c., sia pronunciata per le medesime ragioni di fatto poste a base della decisione impugnata, è irragio- nevole assoggettare allo stesso trattamento la pronuncia d’inammissibilità dell’appello al rigetto dell’appello a cognizione ordinaria (con sentenza) (20), tanto più che si preannunciano ordinanze d’inammissibilità davvero succinte.

(20) In questo senso, M.DE CRISTOFARO, Appello e cassazione alla prova dell’ennesima

“riforma urgente”: quando i rimedi peggiorano il male (considerazioni di prima lettura del d.l. n.

83/2012), in www.judicium.it

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10. – La proposizione in primo grado della causa nelle forme del procedi- mento sommario di cognizione è incentivata, poiché in appello essa è sottratta al filtro d’inammissibilità e sono ammesse nuove prove indispensabili. Tale obietti- vo è manifestato nella relazione che accompagna il decreto legge: «i dati statistici sul procedimento sommario di cognizione segnalano una grande efficienza dello strumento (con cui i giudizi di primo grado vengono tutti definiti in meno di un anno) che, però, essendo nella maggior parte delle ipotesi opzionale, viene utiliz- zato attualmente solo in circa il 4% del contenzioso (anche se tale percentuale è destinata a salire con l'entrata a regime del decreto legislativo n. 150 del 2011 che lo ha reso obbligatorio in plurime anche se settoriali fattispecie). Con le previsioni di cui sopra l'utilizzo dello strumento verrà inoltre incentivato, e anche sotto que- sto profilo verrà migliorata l'allocazione efficiente della risorsa giudiziaria».

Questo proposito è in linea con la ricostruzione del procedimento somma- rio come modello semplificato di trattazione della causa, ma a cognizione piena (21). Il prossimo passo coerente con questo approccio dovrebbe essere quello di attribuire al giudice di primo grado il potere di disporre d’ufficio il passaggio del- la causa dal rito ordinario al rito semplificato, ove l’attore abbia iniziato una causa

«semplice» attraverso il rito ordinario.

11. – Alto è il prezzo che la disciplina del processo civile è costretto a pa- gare in funzione di obiettivi di politica pubblica, ulteriori rispetto alla tutela giuri- sdizionale dei diritti individuali dedotti in giudizio. Questa funzionalizzazione, di per sé, non è strana. Storicamente, essa emerge in Italia in modo palese con l’introduzione del procedimento di repressione della condotta antisindacale (art.

28 l. 20 maggio 1970 n. 300) e conosce una tappa importante con la riforma del processo del lavoro (l. 11 agosto 1973 n. 533). A tale proposito, non possono esse- re più chiare le parole della Corte costituzionale nel giudicare legittimo l’art. 28 dello Statuto dei lavoratori: «la normativa prevista dall’art. 28 non ha soltanto il fine immediato di realizzare una pronta difesa dei lavoratori, ma s’inquadra in un disegno assai più vasto d'interesse generale diretto ad evitare, mediante un proce- dimento sommario ed un provvedimento provvisorio, conflitti di lavoro, lacera- zioni e scontri fra lavoratori e datori di lavoro che possano dar luogo ad agitazio- ni, a scioperi o comunque ad interruzioni di attività lavorativa, le quali turbino l'attività aziendale» (22).

(21) Sul punto rinvio a R.CAPONI, Un modello ricettivo delle prassi migliori: il procedi- mento sommario di cognizione, in Foro it., 2009, V, 334.

(22) Corte cost. 6 marzo 1974, n. 54, Foro it., 1974, I, 963.

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Tale tendenza riprende poi in mutata direzione – dopo una pausa pluride- cennale in cui nei paesi occidentali, a partire dal governo britannico di Margaret Tatcher, ha cominciato a soffiare il vento liberista – con la l. n. 80 del 2005, che inserisce la riforma della giustizia civile in un piano di azione per lo sviluppo eco- nomico, sociale e territoriale del paese. Da ultimo, con il governo Monti, all’insegna delle liberalizzazioni è stato istituito il «tribunale delle imprese» ed è stata ritoccata l’azione di classe (l. 24 marzo 2012, n. 27). È seguita poi la riforma del mercato del lavoro, che ha introdotto un rito speciale per le controversie in tema di licenziamento scaturenti dall’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei la- voratori nella sua nuova formulazione (l. 28 giugno 2012, n. 92). Ma gli esempi si potrebbero moltiplicare.

Il vero problema è quello di verificare se, rispetto agli obiettivi politici che le istituzioni democratiche individuano come preminenti, l’incidenza sulla disci- plina della giustizia civile sia necessaria, idonea ed adeguata. Molte volte si è ri- petuto che l’ineffettività e l’inefficienza della giustizia civile non dipendono pre- valentemente dalla disciplina legislativa, bensì da fattori di ordine materiale, in particolare dalla disponibilità di risorse e dall’organizzazione degli uffici giudizia- ri. Si risponde da molti anni che i soldi non ci sono. Però la spending review ha fatto la sua timida comparsa in Italia solo a partire dalla metà degli anni duemila:

su quali elementi sono state fondate in precedenza queste valutazioni? Mistero.

In ogni caso, l’incalzare della crisi economica ha ulteriormente ridotto gli spazi di manovra, cosicché invece di aumentare le risorse, si aspira a diminuire il numero dei processi (in questo caso: d’appello). In questo contesto, che è radical- mente mutato anche solo rispetto a quello di quattro anni fa, non mi sembrerebbe particolarmente felice la scelta della contrapposizione frontale: le anime belle in- contrerebbero le repliche della realtà.

L’obiettivo deve essere quello di limitare i danni e resistere alla bufera. Il primo strumento, quello della riflessione. Poiché le risorse del servizio giustizia sono – e probabilmente saranno sempre – scarse rispetto al fabbisogno, l’effettività del rimedio giurisdizionale nella singola controversia, cioè la congrui- tà della risposta al bisogno individuale di tutela nel singolo caso, è una variabile dipendente dalla necessità di assicurare l’efficienza del sistema giudiziario nel suo complesso, cioè un’allocazione tendenzialmente ottimale delle risorse rispetto ai risultati medi che il servizio giustizia è chiamato a realizzare nella gestione della massa dei processi (23). Questi sviluppi reagiscono anche sulla stessa elaborazione e conformazione della nozione del giusto processo, che tende oggi ad accogliere

(23) Per un più ampio discorso sul punto, v. R.CAPONI, Il principio di proporzionalità nella giustizia civile: prime note sistematiche, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2011, 389 ss.

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al suo interno la prospettiva di una gestione efficiente delle scarse risorse dedicate alla giustizia. Porta di ingresso della valutazione di efficienza della giustizia civile all’interno del concetto di giusto processo è la garanzia della ragionevole durata (24). Infatti, quest’ultima può essere sì apprezzata in relazione alle caratteristiche concrete della singola controversia sottoposta all’esame del giudice, ma può esse- re realizzata solo chiamando in gioco tutti i fattori che incidono sull’amministrazione della giustizia (25).

(24) Art. 6, comma 1 Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

(25) Troppo spesso il discorso relativo ai fattori che contribuiscono a rendere efficiente la giustizia è condotto a compartimenti stagni, senza sufficiente consapevolezza delle loro interrelazioni. Lo studioso del processo studia prevalentemente le norme legislative ed appunta la propria attenzione sul singolo processo, in sé e per sé considerato, sovente senza tenere conto del fattore delle risorse e del fattore culturale. Il teorico dell’organizzazione si occupa della gestione dell’insieme dei processi ed ha talvolta un’idea approssimativa dei valori che sono sottesi ad una determinata conformazione della normativa processuale. Entrambi in diversa misura, certo più il primo che il secondo, tendono a sottovalutare l’impatto che sul funzionamento della giustizia hanno le conoscenze, le attitudini e in definitiva anche lo slancio ed i sentimenti delle persone che – a livello individuale o collettivo – sono coinvolte nella gestione della «macchina della giustizia».

Si ha frequentemente l’impressione di un dialogo fra sordi, se non addirittura di un «assordante silenzio» sugli aspetti fondamentali.

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