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3. LA SUSPENSE E LO SPETTATORE

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Academic year: 2021

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3. LA SUSPENSE E LO SPETTATORE

Il rapporto tra il cinema e lo spettatore è molto importante. Chi guarda un film può essere inteso sotto differenti punti di vista, a seconda della scuola di pensiero di chi lo prende in considerazione. E’ stato studiato come mera istanza guardante, come insieme di processi cognitivi e reazioni emozionali. Egli è un insieme di tutto questo, essendo un essere umano biologicamente dotato di un sistema visivo, collegato a un sistema celebrale, collegato a sua volta a un sistema emozionale. L’occhio dello spettatore cattura le immagini, l’orecchio i suoni, tutto è elaborato dal cervello e tradotto in un’esperienza che agisce sulle emozioni e, di conseguenza, sul fisico. Una più recente teoria che voglia incorporare lo studio degli effetti di un film sullo spettatore, non può prescindere dal rapporto tra il film e il corpo.71

“Le emozioni sono fenomeni multidimensionali: la loro complessità dipende essenzialmente dal fatto che esse, congiuntamente, hanno profonde radici neurobiologiche nel nostro organismo, sono un’esperienza soggettiva (…), hanno una valenza sociale nelle relazioni con gli altri e sono definite dalla cultura di appartenenza”.72

Quindi anche il contesto in cui il film viene fruito gioca un ruolo fondamentale. Sono molte le teorie, specie negli ultimi trent’anni, che evidenziano come la società, la cultura, il vissuto personale dello spettatore, come la sua personale esperienza di fruitore di film e le sue aspettative riguardo ciò che sta guardando

71Come sostengono ELSAESSER, THOMAS e HAGENER, MALTE. Teoria del film –

un’introduzione. Torino: Giulio Einaudi Editori, 2009, Pag. XI

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influenzino notevolmente come egli riceverà il contenuto filmico e le impressioni che ne ricaverà.

In questo capitolo vedremo come le diverse scuole di pensiero sul cinema abbiano preso in considerazione il ruolo dello spettatore e accosteremo tali teorie al caso della suspense. Vedremo come le teorie psicoanalitiche di Christian Metz sull’identificazione e sulla pulsione scopica dello spettatore abbiano suscitato altre riflessioni in merito alla suspense, e vedremo come, nella semio-pragmatica e all’interno del costruttivismo americano lo spettatore venga considerato in rapporto a sequenze di suspense come un insieme di procedimenti cognitivi ed emozionali legati alle sue conoscenze pregresse in merito e alla condizione di fruizione in cui si trova.

Ma prima di ciò, vedremo come, in seguito a studi sulle nostre attività neuronali di spettatori, sia stata illustrata una teoria sul come e perché la visione di sequenze di suspense genererebbe in noi tanta emotiva e fisica, nonché mentale, partecipazione.

3.1. La suspense nel nostro corpo

Lo stato di suspense si può verificare anche in situazioni di vita reale. Possiamo provare suspense riguardo a un evento che ci tocca personalmente, come un’attesa o una preoccupazione, oppure riguardo a un evento cui stiamo assistendo. In entrambi i casi, come del resto avviene al cinema, lo stato di suspense si può tradurre in emozioni quali ansia e angoscia73 e può condurre a conseguenti

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reazioni fisiche quali aumento del battito cardiaco, sudorazione fredda e diminuzione della salivazione.

E per quanto questo possa sorprendere, vedere accadere qualcosa in un film è sufficiente a scatenare in noi le stesse condizioni che se ci stesse accadendo realmente.

Questo tipo di fenomeno ha incuriosito scienziati e studiosi, portandoli a cercare una spiegazione all’interno delle nostre attività celebrali. Studi recenti all’interno del cognitivismo, della psicologia visuale e delle neuroscienze hanno evidenziato una continuità tra il percepire scene di un film e la vita legata a simili dinamiche dell’attenzione, della cognizione dello spazio e dell’azione, in esperienze dirette come mediate.

Uno studio condotto lo scorso anno da Vittorio Gallese e Michele Guerra ha posto al centro della questione la teoria della simulazione incarnata, l’Embodied Simulation (ES), un meccanismo funzionale del cervello umano attraverso il quale azioni, emozioni e sensazioni altrui sono mappate nelle rappresentazioni neuronali del sistema motore dell’osservatore. Questo sistema è basato sull’operato dei neuroni specchio, quei neuroni motori che si attivano sia che stiamo compiendo un gesto sia che lo stia compiendo qualcun altro di fronte a noi. Studi hanno provato che, sia che noi muoviamo un braccio verso l’alto, sia che lo muova chi sta di fronte ai nostri occhi, questi neuroni si attiveranno nello stesso modo e, anche nel secondo caso, sarà come se fossimo stati noi a muoverci.Si tratta di un fenomeno legato all’apprendimento che ci permette di essere ricettivi nei confronti dello spazio circostante.

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Tuttavia questo sistema non si limita alle azioni: altri studi hanno mostrato che i neuroni specchio agiscono anche su emozioni e sensazioni. 74

Come un bel sorriso può essere contagioso, osservare sul viso di un conoscente i segni del pianto o della rabbia ci comunica uno stato emotivo e, alle volte, ce lo trasmette per empatia. Questo perché, come simuliamo nella nostra testa azioni che vediamo, attivando il nostro sistema motore, così usiamo i nostri circuiti neuronali affettivi e senso-motori per mappare le esperienze emozionali visibili sui volti degli altri.

Infine, questo tipo di meccanismo funziona anche riguardo gli oggetti presenti all’interno del nostro spazio di agibilità: se vediamo un oggetto manipolabile, come una chiave, nel nostro cervello si attiverà la funzione motore necessaria a prenderlo in mano o ad agirvi in qualche modo.75 Questo ci permette di essere consapevoli circa le nostre possibilità d’interazione con lo spazio peri-personale - lo spazio sul quale possiamo agire - e con gli oggetti che lo compongono, incluso il nostro corpo, che ne è posto al centro.76

Quando guardiamo un film, questi tre fenomeni legati ai neuroni specchio (simulazione di movimento, empatia emotiva e percezione dello spazio come manipolabile) si verificano esattamente come nella vita quotidiana.

Il cosiddetto effetto di realtà, che viene inevitabilmente preso in considerazione quando si paragona il vedere un film all’assistere a un fenomeno della vita quotidiana, permette già una prima spiegazione del perché queste immagini in movimento hanno un tale potere su di noi. Un film è forse il medium più vicino al

74 GALLESE, VITTORIO e GUERRA, MICHELE. “Embodying movies: embodied simulation

and film studies” in Cinema: Journal of philosophy and the moving image, 3 (2012), Pag. 184

75 GALLESE e GUERRA, Pag. 185 76 GALLESE e GUERRA, Pag. 186

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nostro modo di vivere la realtà e, di conseguenza, più percepiamo ciò che vediamo come realistico, più ne siamo affetti.77

Ma ben prima che possiamo rispondere a livello cognitivo, il nostro corpo ha già una risposta fisiologica durante lo scorrere del film, una risposta creata dall’effetto di risonanza che provoca in esso risposte cinestetiche, come riflessi muscolari, impulsi motori, eccetera. Il film, in quanto oggetto in movimento, agisce come stimolo fisiologico,78 coadiuvato dalla risonanza acustica provocata dai ritmi della colonna sonora. Prima ancora d’intersoggettività, il sistema ES ci permette di parlare di intercorporeità. Genera in noi il Sentimento del corpo, l’attivazione nello spettatore di “rappresentazioni non linguistiche dello stato del corpo associate con le azioni, le emozioni e le sensazioni osservate”.79

Già nel 1884 William James, vicino alle teorie di Hugo Münstenberg, assegnava una particolare importanza ai cambiamenti corporei che seguono le percezioni. Sosteneva che “senza gli stati corporei che seguono la percezione, questa sarebbe puramente cognitiva” e che le emozioni fossero “speciali forme della sensibilità accompagnate da modificazioni fisiologiche particolarmente intense”.80

Il nostro coinvolgimento spettatoriale, quindi, sarebbe una diretta conseguenza del nostro sistema ES, che scatena in noi sensori motori e sensazioni emotive che rispecchiano quelle che scorrono sullo schermo.

Considerando l’ES in rapporto alla suspense, Gallese e Guerra citano Bordwell: “a great deal of what contributes to suspense in films derives from low-level modular processes. They are cognitively impenetrable, and that creates a firewall

77 GALLESE e GUERRA, Pag. 183 78 GALLESE e GUERRA, Pag. 192

79 Cit. GALLESE e GUERRA, Pag. 193, T.d.A. 80 Cit. William James in CAROCCI, Pag. 13

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between them and what we remember from previous viewing”.81 Questa dimenticanza delle esperienze cinematografiche precedenti non ci ricollega, forse, alle teorie di Chateauvert del capitolo precedente?

Al cinema, restare inattivi e al buio ci rende più percettivi, più propensi a dimenticare la nostra condizione e, con una sorta di transfer, a proiettarci su ciò che, invece, in quel momento si muove, agisce, vive e sente.82 Seppure a una distanza di sicurezza, quello che accade ai personaggi in una sequenza di suspense è l’unica cosa che accade a noi e la viviamo come reale, pur consapevoli della nostra impossibilità di azione.

Questo tipo di fenomeno permette di giustificare, in opposizione alla teoria di Chateauvert, la nostra partecipazione anche a scene di suspense nelle quali non avviene un collegamento tra personaggio e spettatore, come nel documentario Nanouk del Nord (Robert J. Falherty, 1922). Osservare gli eschimesi che danno la caccia alle foche, per quanto questa caccia sia già avvenuta moltissimi anni fa e per quanto né la struttura del montaggio né la musica favoriscano l’identificazione, anche uno spettatore appena giunto in sala non potrà non provare un leggero moto di apprensione e partecipazione, nel momento in cui i suoi sensori motori saranno attivati. 83

Il film, attraverso il movimento della macchina da presa e il montaggio, si struttura come un corpo mobile, il primo punto di contatto con lo spettatore, prima ancora che con i personaggi.

81 Cit. David Bordwell in GALLESE e GUERRA, Pag. 194 82 GALLESE e GUERRA, Pag. 196

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Gallese e Guerra considerano la famosa inquadratura della chiave di Notorious (Alfred Hitchcock, 1946) come esempio d’incorporazione delle reazioni dello spettatore nello stile e nel linguaggio del film. Si riferiscono all’inquadratura dall’alto della sala da ballo che gradualmente scende e si restringe per inquadrare il dettaglio della mano di Ingrid Bergman che stringe la chiave. A loro avviso, con quest’inquadratura il regista desidera contattare lo spettatore a un livello pre-cognitivo sfruttando le potenzialità del movimento di macchina e promuovere un approccio incarnato capace di accrescere l’effetto di suspense. Prima di condividere le esperienze dei personaggi, lo spettatore condivide le esperienze della macchina da presa.84

Nella scena precedente, quando Alicia si trova sulla soglia della stanza del marito per prendere la chiave dalla sua scrivania, abbiamo un movimento di macchina che appare come una soggettiva: dalla soglia si avvicina alla scrivania. Noi spettatori, convinti d’incarnare il personaggio, siamo pronti ad afferrare le chiavi. Questa sensazione di potenziale azione è però frustrata da Hitchcock, nel momento in cui ci mostra che Alica, in realtà, non si è mossa, è sempre sulla soglia. A questo punto la tensione sale in noi, l’urgenza diventa maggiormente impellente e l’effetto di suspense cresce.85

Hitchcock chiamava queste strategie frustration, a causa della sensazione che inevitabilmente creavano nello spettatore.86

84 GALLESE e GUERRA, Pag. 200 85 GALLESE e GUERRA, Pag. 203 86 BORDWELL, Pag. 44

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La frustrazione che proviamo ci ricorda che, per quanto i nostri sensori motori ci facciano percepire il contrario, noi non possiamo agire sulla scena, e questo crea tensione in noi, dovendo affidare l’intera faccenda alle mani dei personaggi. I differenti sguardi dell’occhio-cinepresa implicano diversi gradi di risonanza nello spettatore. Da film a film, come da movimento a movimento, da emozione a emozione, la nostra reazione sarà differente.

Per quanto scientificamente attendibili, queste teorie hanno il limite di considerare colui che guarda come un insieme di neuroni e meccanismi celebrali e fisiologici che, salvo disturbi, sono uguali in ognuno. Di conseguenza non tengono in considerazione le differenze di reazione che possono intercorrere tra spettatore e spettatore. Queste differenze sono importanti, soprattutto al momento di valutare il riscontro di un film. Come mai, sebbene a livello neuronale, cognitivo e fisico, agli stimoli di un film reagiamo tutti (o quasi) allo stesso modo, le recensioni di un film sono spesso così diverse?

Intorno a questo quesito ruotano gli studi che considerano lo spettatore non più solo come istanza guardante o attività cognitiva, ma come individuo caratterizzato da una psiche e da un vissuto variabile da soggetto a soggetto.

Nel paragrafo successivo vedremo come la psicoanalisi abbia affrontato il tema dell’identificazione e delle pulsioni alla visione radicate nella psiche dello spettatore.

3.2. La psiche dello spettatore

 

Come abbiamo visto nel capitolo precedente, un film o un momento di suspense presentano il più delle volte degli elementi al loro interno che favoriscono un

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coinvolgimento intellettuale ed emotivo con lo spettatore. Tuttavia, oltre la pellicola, esiste lo spettatore, e il suo rapporto con il testo filmico non è da tralasciare.

Ben prima che gli studi sulle attività neuronali iniziassero, diversi studiosi s’interessarono al fenomeno della partecipazione emotiva dello spettatore e s’interrogarono su come essa potesse scaturire.

“Le teorie d’impianto psicoanalitico hanno considerato l’esperienza filmica a livello globale, offrendo una teoria generale che desse conto del presunto funzionamento universale del dispositivo cinematografico (cioè delle condizioni dell’esperienza spettatoriale) per poi andare alla ricerca (…) di configurazioni singolari, (…) indagando in particolare il vissuto soggettivo dello spettatore”.87 Uno dei fondatori di tale corrente di pensiero, Christian Metz, nel suo testo Il significante immaginario, pur sottolineando l’importanza della “macchina cinematografica” in quanto entità con ingranaggi economici, finanziari, sociologici e psichici, s’interessa principalmente all’ingranaggio psichico dello spettatore.88

A fondare la base delle teorie psicoanalitiche sullo spettatore si trovano i concetti metziani d’identificazione e pulsione.

3.2.1. L’identificazione

Studiosi come Christian Metz affrontarono il processo dell’identificazione da un punto di vista psicoanalitico. Egli è tra i primi che prende in considerazione il

87CAROCCI, Pagg. 59-60

88 ODIN, ROGER. “L’entrata dello spettatore nella finzione” in Il discorso del film. A cura di L.

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processo di fruizione di un film non come la ricezione di un oggetto chiuso, ma come la ricezione di un oggetto “riflettente” sul quale noi spettatori inevitabilmente ci vediamo proiettati, fruendo noi stessi insieme al film. Secondo Metz la ricezione di un film è, quindi, condizionata da chi lo sta guardando e lo stesso film sarà un oggetto diverso da spettatore a spettatore. 89

La teoria di Metz prevede che, una volta riconosciuta l’entità di film di ciò che ci appare sullo schermo, ci s’identifichi prima con la macchina da presa e con ciò che essa vede (identificazione primaria) e, in seguito, con un personaggio, generalmente il protagonista (identificazione secondaria), anche se ciò può variare.90

Lo spettatore, specialmente al cinema, dove si trova in una condizione si “sotto-motricità” (seduto immobile) e “sovra-percezione” (al buio, con lo sguardo fisso sullo schermo luminoso), s’identifica completamente con ciò che fruisce e con il modo in cui lo fruisce.91 Il senso che egli attribuirà a ciò che vede e le sensazioni che ne scaturiranno saranno legate al tipo di filtro attraverso cui il film dovrà passare, ovvero al tipo di condizione mentale, psicologica e culturale in cui lo spettatore si trova.

Se l’intento del film è farmi percepire la suspense in una determinata sequenza, sarà bene che la mia identificazione non vacilli, o l’obiettivo non sarà raggiunto. Secondo Metz delle inquadrature, un montaggio o dei movimenti di macchina che catturano la mia attenzione per la loro singolarità mi allontaneranno da quella condizione di identificazione, facendomi concentrare più sull’involucro che sul

89 METZ, CHRISTIAN. Cinema e psicanalisi, Venezia: Marsilio Editori, 2002, Pag. 56 90 METZ, Pag. 58

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contenuto del film.92 Forse per tale ragione i momenti di suspense sono raramente strutturati in modo da catturare l’attenzione su elementi altri dalla vicenda.

Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, le reazioni emotive che un momento di suspense genera nello spettatore possono avere in lui anche dei riscontri fisici, che anche Francis Vanoye paragona a quelli provocati dalle montagne russe.

Poiché lo spettatore è fermo, sono gli elementi induttivi del film quali suoni e immagini a provocare in lui tali sensazioni. Nelle sequenze di suspense lo spettatore s’immerge nella realtà dei personaggi in pericolo.

Secondo la teoria dell’identificazione, l’emozione dello spettatore riflette la risonanza che s’instaura tra certi elementi della rappresentazione e altri della sua storia personale. La suspense scaturirà quindi da un incontro tra questi due elementi che può avvenire a differenti livelli. Esistono anche i casi limite: 1) Il caso della suspense come struttura ritmica, quasi musicale e astratta, appoggiata da un minimo di contenuto rappresentativo, che lavora per induzione diretta. In questo caso, certe sequenze, pur non avendo nulla in comune con gli spettatori, agiscono su di loro grazie alla forza del loro ritmo, che connette gli spettatori alle loro pulsioni primordiali. In questo modo la suspense entra in fase con i ritmi biologici e risuona ugualmente per ogni spettatore, come abbiamo osservato nel paragrafo precedente. 2) Al contrario la suspense è generata solo da strutture rappresentative e dal loro eco negli spettatori, senza messa in campo di tecniche

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empatiche come quella del ritmo e il suo effetto varierà totalmente da spettatore a spettatore.93

Per Vanoye l’ancoraggio proiettivo della suspense non è rigido su un personaggio e su un solo tipo di emozione. Esso può fluttuare da un ruolo all’altro e stimolare, nel corso di una medesima sequenza, diversi tipi di reazione.

Egli identifica tre figure ricorrenti: la Vittima, l’Aggressore e il Salvatore. La suspense non assegna necessariamente allo spettatore uno di questi ruoli, ma lo istalla sui lati di un triangolo che percorrerà fino alla fine della sequenza. A seconda di chi si trova al vertice, ci sarà un diverso tipo di emozione: paura, nel caso della Vittima, eccitazione, nel caso dell’Aggressore, ansia, nel caso del Salvatore. Questi stati emozionali possono alternarsi rapidamente all’interno dello stesso episodio, creando effetti complessi. La suspense, allora, altro non sarà che la tensione tra questi tre stati emotivi, e lo spettatore si troverà in uno stato misto di ansia e speranza di sapere, di vedere, di sviluppo, variabili anche a seconda delle sue caratteristiche.94

Come esempio della sua tesi, Vanoye considera una sequenza da Velluto Blu (David Lynch, 1986). Jeffrey, il protagonista, si è infiltrato in casa di Dorothy, una cantante che potrebbe avere a che fare con il mistero dell’orecchio da lui trovato dentro una scatola. La sua amica Sandy resta fuori per avvertirlo in caso dell’arrivo della proprietaria dell’appartamento.

La suspense della scena deriva dal fatto che Jeffrey, avendo commesso un’infrazione, si trova in una situazione di rischio. Se venisse scoperto potrebbe

93 VANOYE, FRANCIS. “Le suspense et la partecipation émotionelle du spectateur” in

CinémAction, 71 (1994), Pag. 33

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passare dei guai. Si trova, quindi, al vertice del triangolo come potenziale Vittima di una Dorothy-Aggressore, salvabile però dall’intervento di Sandy-Salvatore.95 Quando Dorothy rientra e Sandy non riesce ad avvertire Jeffrey, egli si nasconde, per ritrovarsi ad assistere a una scena sadomasochistica in cui Dorothy è la Vittima di un tale Frank, che fa da Aggressore. Jeffrey gioca un ruolo di Salvatore in potenza, ma egli non può agire, poiché è nascosto.96

In tale momento Jeffrey e lo spettatore condividono la medesima situazione, frustrante e piacevole allo stesso tempo.

Egli si è cacciato in quella situazione per seguire la propria curiosità, come lo spettatore che segue il film per sapere cosa accade in seguito. Stiamo in ansia per lui, soprattutto nel momento in cui ci rendiamo conto che Dorothy sta rientrando e lui non sente il segnale del clacson di Sandy. Ma nel momento in cui egli, nascosto, si trova ad assistere a una scena che, pur provocando in lui il desiderio d’intervenire non gli permette di farlo, obbligandolo a guardare di nascosto con voyeuristico piacere, si trova a condividere la medesima situazione di uno spettatore che assiste a tale scena in una sala cinematografica.

Come un effetto specchio, lui s’immedesima in noi e noi in lui. Noi spettatori, già identificati con lui in virtù del suo ruolo di protagonista e per il rischio che sta correndo, ci troviamo a rispecchiarci ancora di più con la sua condizione nel momento in cui essa diventa la nostra. Jeffrey-Spettatore, o Salvatore in potenza, siamo noi.

95 VANOYE, Pag. 35 96 VANOYE, Pag. 36

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3.2.2. Le pulsioni dello spettatore

La teoria psicoanalitica metziana non si ferma alla questione dell’identificazione. Si pone una domanda importante all’interno dell’indagine sulla partecipazione spettatoriale: perché guardiamo un film? E perché ci piace, anche se ci trasmette emozioni di ansia e tensione come quelle legate alla suspense?

Secondo Bernard Rimé, la rievocazione in arte di un’emozione designa il processo per il quale l’individuo tende a riarticolare le sue esperienze emozionali. La rievocazione implica un orientamento sociale, uno sforzo di formulazione, di fatti ed eventi ma anche di sensazioni e sentimenti. Il desiderio del racconto, della rappresentazione delle emozioni, si articola su questo processo. Si delega la rievocazione a un testo di carattere finzionale. Più la rappresentazione sarà carica d’indici di realtà più la rievocazione emotiva sarà immediata e intensa. Il cinema, con la sua qualità fotografica e la presenza di attori, presenta forti indici di realtà. La cosiddetta impressione di realtà del cinema si basa su due qualità del film: far dimenticare allo spettatore il supporto e l’artificiosità della rappresentazione e quella che Daniel Bougnoux chiama l’efficacia iconica, ovvero la distinzione tra indice, icona e simbolo. L’icona, intesa come immagine, si lega al simbolico dell’immaginare per implicare sensazioni ed emozioni. Poiché un film è un misto d’indici, icone e simboli può giocare a volontà per portare lo spettatore in uno spazio di confluenza tra il mondo reale e quello della storia.

La rievocazione delle emozioni alimenta l’emotività a differenti gradi.97

Mentre si persegue una rievocazione catartica ma sublimata delle emozioni, le pratiche culturali spettatoriali si orientano verso la riattivazione d’intensità.

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Reintegrano l’emozione, quel raptus somato-motore, quella parte di controllo cognitivo chiamato “sincope” in un continuum logico, una storia. L’emozione rievocata è diversa da quella primigenia vissuta e s’inserisce in una struttura d’informazioni, si offre alla comprensione e ristabilisce l’unità e la continuità dell’esperienza.98

Christian Metz sostiene, invece, che radicato in noi si trovi un desiderio di vedere, una pulsione scopica.

Questo tipo di pulsione si legherebbe a una pulsione di natura sessuale, quella che Lacan chiama pulsione invocante. Questo tipo di pulsione colloca il piacere, secondo Lacan, non sulla presenza dell’oggetto o sull’atto in sé ma sulla sua mancanza, sul desiderio della sua presenza che porta alla stimolazione dell’immaginario. Secondo Metz questo tipo di azione avviene anche al cinema: la distanza dagli eventi e il desiderio di assistere a ciò che mi viene mostrato in una sequenza temporale di cui mai mi sazio lo permettono.99 Un film che incarna alla perfezione questo tipo di pulsione, soprattutto in relazione alla suspense e al delitto, è L’occhio che uccide (Michael Powell, 1960)100, dove un operatore cinematografico uccide con la sua cinepresa le vittime che riprende, insaziabilmente ossessionato dal desiderio di filmare la morte e rivederla.101 Questa pulsione scopica, questo desiderio di vedere, colloca me spettatore nella stessa posizione del voyeur che trae piacere dal solo guardare ciò che mai potrà

98 VANOYE, Pag. 33 99 METZ, Pag. 71

100 Il titolo originale, guarda caso, è Peeping Tom, un modo di dire inglese che significa

“guardone”. N.d.A.

101 DE MARCO, GIUSEPPE. Cattivi pensieri – Manuale di cinema thriller, noir, psychokiller.

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raggiungere e che scorre sotto ai suoi occhi senza che egli possa agirvi in alcun modo.102

Partendo da questo assunto, altri studiosi hanno preso in considerazione analoghe pulsioni che genererebbero piacere nello spettatore durante la visione di momenti di suspense.

Paul Léon spinge la teoria sesso-centrica psicoanalitica fino a comparare la funzione della suspense alla funzione dell’orgasmo, “un movimento che solleva, gonfia, porta al limite dell’esplosione”.103

Sia per Léon che per il suo collega Christophe Mansier, la suspense si creerebbe quando lo spettatore, mentre guarda una sequenza di un film, si vede venir tolto una o più costituenti fondamentali della sequenza e va in tensione alla ricerca di quest’elemento mancante. Invece, quando appare all’improvviso un elemento in più, lo spettatore reagirebbe di sorpresa.104 Entrambe le situazioni stimolano lo spettatore, riscuotendolo dalla passività. Ma la suspense, come abbiamo visto, non è mera ricerca intellettuale. Stimola soprattutto l’emotività. Analogamente l’inatteso arriva direttamente al cuore dello spettatore.

Secondo Léon, la suspense sostiene, con la tensione e le attese che veicola, l’intera natura del cinema. È ciò che ci fa vibrare con ciò che scorre sullo schermo.105

Ad esempio, riprendendo l’esempio di The elephant man, il fatto che l’uomo elefante non venga mostrato prima che numerosi personaggi ne abbiano compiuto

102 METZ, Pag. 71

103 Cit. LÉON, PAUL. “Le désir de suspense” in CinémAction, 71 (1994), Pag. 17

104 MANSIER, CHRISTOPHE. “L’attente et l’inattendu: suspense et surprise” in CinémAction, 71

(1994), Pag. 24

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una descrizione carica di emotività crea in noi spettatori una forte aspettativa nei suoi confronti, un’aspettativa accompagnata dalla tensione nei confronti di una creatura che ci è descritta come tra le più orribili mai viste.106

Secondo Mansier suspense e sorpresa agiscono a livello inconscio, come i sogni. E il cinema sfrutta i suoi elementi principali per creare questo collegamento tra film e spettatore. La libido spettatoriale è stimolata dall’alternarsi di elementi mancanti ed elementi in più: ciò genera energia, come le due polarità magnetiche positive e negative, un’energia che spinge avanti l’azione. In particolare, lo spettatore resterà folgorato quando a un momento di suspense seguirà uno di sorpresa, evento tipico dei film horror, perché egli, già eccitato dalla tensione provocata dalla suspense (mentre si chiede che cosa sta per accadere) sarà sensorialmente più che ricettivo per l’inatteso.107 Questo moltiplica l’emozione che scaturisce nello spettatore. L’associazione di atteso e inatteso agisce allora in una verosimile simbiosi, in un continuo presente, dove ogni effetto stimola gli altri.

Da notare che l’atteso e l’inatteso non ricadono in una categoria filmica perché riguardano le impressioni dello spettatore e, quindi, il suo personale livello di attaccamento alla storia e al discorso del film.

L’energia schierata dalla loro vicinanza permette l’adesione.108

106 CAROCCI, Pag. 94 107 MANSIER, Pag. 25 108 MANSIER, Pag. 26

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Secondo Léon esistono cinque tempi che punteggiano il percorso cinematografico dello spettatore: 1) Intenzione 2) Attesa 3) Attenzione 4) Tensione 5) Rilassamento.

1) Intenzione: Ho una buona disposizione a rispettare le regole dell’istituzione cinematografica e i suoi rituali.109 Mi predispongono a fruire le sequenze di

suspense come tali durante la visione di un film.

2) Attesa: Attendo l’uscita di un film.110 Quest’attesa mi stimola e stuzzica il

desiderio che si colma solo una volta iniziato il film. L’attesa della risoluzione di una sequenza di suspense mi mantiene in tensione.

3) Attenzione: La mia attenzione si focalizza sullo schermo, dimenticando il resto. Riesco persino a cancellare intellettualmente la testa del mio dirimpettaio che copre parte del telo. Divento tutt’occhi e tutt’orecchi. Mi trasformo in un voyeurista. Eclisso il mio corpo e divento tutt’uno con ciò che scorre sullo schermo e reagisco fisiologicamente (palpitazioni, sudore etc…).111

4) Tensione: Elementi al di fuori dal film, come i vicini che fanno chiasso, m’infastidiscono. Il corpo dello spettatore cinematografico è sconvolto, immobile, preso dalla storia.112 E vado in tensione se qualche sfasamento nella storia (nella sua lunghezza o cattiva realizzazione) mi annoia.

La tensione provocata dalla suspense, invece, è piacevole, perché non allontana da ciò che sto fruendo. 113

La tensione è provocata sia da non sapere l’esito di ciò che sta accadendo sotto i miei occhi, che dalla mia impossibilità ad agire per intervenirvi, immobile e immerso nel buio come sono.114

109 LÉON, Pag. 18 110 LÉON, Pag. 19 111 LÉON, Pag. 20 112 LÉON, Pag. 20 113 LÉON, Pag. 21

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5) Rilassamento: Nella poltroncina mi posso accomodare, fino a trovare una posizione talmente comoda da sonnecchiare, lasciando sullo sfondo la vicenda cinematografica. Posso anche, appunto, non seguire la vicenda, ma interrogarmi feticisticamente115 sulla sua realizzazione, fare l’analista, osservare meramente la

tecnica.116 Posso fare ipotesi, andare avanti e indietro sulla storia.117

Le cinque fasi illustrate da Léon formerebbero una curva crescente e poi decrescente, la stessa curva che Mansier illustra all’interno della sua riflessione, una curva effettivamente molto simile a quella riscontrabile in un corpo durante un amplesso, e in particolare alle quattro fasi del rapporto sessuale enucleate da William Masters e Virginia Johnson: 1) Eccitamento 2) Plateau/Stazionamento 3) Orgasmo 4) Risoluzione.118

Nell’immagine sottostante ho messo a confronto le quattro fasi del rapporto sessuale di Masters e Johnson (a sinistra) con quella che Mansier ha messo a punto per illustrare il crescendo della suspense (a destra). Se lo scopo di Mansier era illustrare come i momenti di sorpresa contribuiscano al crescere della tensione, fino a un picco che sfocia in un successivo rilassamento, l’accostamento di tali curve si presta al sostegno della teoria di Léon, che vuole suspense e orgasmo all’interno della stessa classe di sensazioni.

114 LÉON, Pag. 22 115 METZ, Pag. 83 116 LÉON, Pag. 22 117 LÉON, Pag. 23 118http://en.wikipedia.org/wiki/Masters_and_Johnson consultato il 28/11/13

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Figura  1:  Le  quattro  fasi  del  rapporto  sessuale  secondo  Masters  and  Johnson119  a  confronto  con  un  grafico   elaborato  da  Christophe  Mansier  in  merito  all’andamento  emozionale  dello  spettatore  durante  sequenze  di   suspense.120    

Secondo lo psicanalista Jacques Hassoun, invece, la suspense agisce in noi in quanto siamo tutti potenzialmente colpevoli di commettere un delitto.121 Definisce la suspense (usando la parola suspens, che vuol dire “eccezionale”)122 come un’attesa nella quale l’argomento sparisce interamente, un momento di ricerca senza fine di un obiettivo. Accecato da questa tensione, lo spettatore preda della suspense non può rilevare il dettaglio che rischia di chiarire e affrettare il disvelamento.

Perché il dolore “squisito” di questo sentimento è costantemente ricercato?

Secondo Hassoun lo spettatore s’identifica con il personaggio, specialmente quando esso è in pericolo, minacciato, preso nella rete della sua colpevolezza. Perché siamo tutti potenzialmente colpevoli di un misfatto, di un desiderio inconfessabile. Per lo studioso, raramente ci s’identifica con il poliziotto, tendiamo a proiettare la nostra immagine speculare su colui che, in qualche modo,

119 Curva disegnata su un modello proveniente da

http://nuke.studiopsicologiamancioli.com/Home/tabid/466/language/es-ES/Default.aspx consultato il 08/01/14

120 MANSIER, Pag. 27

121 HASSOUN, JACQUES. “A la racine, un sentiment de culpabilité” in CinémAction, 71 (1994),

Pag. 28

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è perseguitato. Il tema del doppio, spesso usato da Hitchcock, riconduce a quello delle personalità multiple, tra le quali almeno una malvagia deve nascondersi. Hassoun ritiene che lo spavento non agisca allo stesso livello della suspense: lo spavento gioca sull’inatteso, sull’inimmaginabile, mentre che la suspense agisce a livello dell’omonimia, di ciò che già si conosce, ma dentro al quale si possono trovare delle piccole distorsioni, degli scivolamenti, che ci fanno dubitare delle nostre percezioni e ci pongono in tensione.123

Il suspens è la messa in scena della problematica del doppio che, a partire da una colpevolezza banale, permette di introdurre una coerenza: quella dell’indecidibile legame tra dubbi e suspense.

Questo ci provoca la soddisfazione che si ha quando viene applicata una regola. C’immedesimiamo in colui che è accusato di un crimine e partecipiamo con lui speranzosi di trovare la prova della sua innocenza.

La struttura del film, lunga a sufficienza per mostrare ogni svolgimento della storia, ma non troppo da stancarci, si accelera man mano che lo svolgimento si avvicina, mantenendo alta la tensione. Siamo tesi come e per il personaggio. Il suspens è l’irruzione nel quotidiano di un elemento banale che svela la verità dell’argomento, quella di una colpevolezza sconosciuta che permette che l’intrigo si lega intorno a una cecità: il destino?124

Personalmente trovo difficoltà a condividere la teoria di Hassoun, specie in merito al senso di colpa atavico, mentre sono più comprensibili i ragionamenti, a loro volta basati sulle teorie di Metz e Lacan, di Léon e Mansier. Indubbiamente esiste

123 HASSOUN, Pag. 29 124 HASSOUN, Pag. 30

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una pulsione che ci spinge a guardare, una pulsione del tutto voyeuristica, quasi morbosa, che ci provoca piacere nell’osservare, in tensione partecipativa, il rischio e le sofferenze in cui i personaggi si trovano. La cosiddetta frustrazione, che provo a causa della mia incapacità di agire, è sempre accompagnata da un piacere di natura spettatoriale. Tali sensazioni sono legate alla mia posizione di osservatore e al mio desiderio, sollecitato dalla suspense, di spingere avanti l’azione. La funzione della suspense è, in questo caso, quella di solleticare la mia pulsione alla visione, stimolare le mie aspettative, tenermi sulla corda, in modo tale che, per seguire tale pulsione, io prosegua la visione del film nella direzione che il film stesso vuole darle.125

Nei paragrafi successivi vedremo come l’attività dello spettatore, intesa come insieme di processi cognitivi e reazioni emozionali, sia stata presa in considerazione da altre correnti di pensiero.

3.3. L’attività dello spettatore

Abbiamo visto come la psicoanalisi applicata al cinema e alla suspense tenda a riconoscere nello spettatore una serie di elementi e atteggiamenti ricorrenti legati alla condizione di essere umano, ma che determinano comportamenti e reazioni differenti al film a seconda della condizione della psiche di ognuno.

Un'altra corrente di pensiero, legata al cognitivismo e identificabile in David Bordwell come costruttivismo americano, concentrò le proprie teorie sull’attività dello spettatore di fronte a un testo filmico. Quest’argomento interessò, con

125 Per altre teorie su cinema e psicoanalisi vedere le teorie sulla castrazione e il modello edipico

all’interno del cinema classico in BELLOUR, RAYMOND. L’analisi del film. Torino: Edizioni Kaplan, 2005 e il capitolo 4.3, dove vedremo come tali teorie si affianchino all’approccio hitchcockiano alla suspense.

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termini simili ma in un’ottica differente, lo studio di Roger Odin all’interno della semio-pragmatica.126

3.3.1. Gli schemi dello spettatore

David Bordwell nel suo testo Narration in the fiction film, prende in considerazione il ruolo dello spettatore cinematografico.

Bordwell lamenta che nella maggior parte delle teorie sulla narrazione filmica si tenga pochissimo conto dell’attività dello spettatore e che esso venga principalmente considerato come una passiva istanza guardante. Solo Ejzenstein, osserva Bordwell, considera l’attività mentale dello spettatore, che include aspettative e poteri inferenziali. Bordwell si associa a questa teoria, dando inizio a una corrente d’analisi cinematografica che coinvolgerà altri studiosi per considerare fondamentale l’attività dello spettatore.127

Il punto di partenza dell’approccio di Bordwell è che la comprensione della storia da parte dello spettatore sia il principale scopo della narrazione.

Le premesse che pone sono che, quando egli parla di “spettatore”, si riferisce a un’ipotetica entità che esegue le operazioni rilevanti alla costruzione di una storia a partire da ciò che il film le sta mostrando, applicando dei protocolli di comprensione – che Bordwell intende enucleare.

L’approccio di Bordwell allo spettatore non disdegna la psicanalisi, ma si concentra principalmente agli aspetti cognitivi e percettivi della visione. Di conseguenza sceglie consapevolmente di lasciare fuori gli aspetti dell’emotività.

126 Un ulteriore studio sule attività dello spettatore è riscontrabile nei lavori di Daniel Dayan, studi

che riflettono sulla performatività dello spettatore, ma che non pertengono la nostra riflessione sulla suspense.

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S’interessa di quegli aspetti della visione che conducono alla costruzione della storia e del suo mondo, presumendo che la comprensione di un film da parte dello spettatore sia teoricamente separabile dalle sue reazioni affettive, sebbene prenda poi in considerazione come degli elementi affettivi si possano legare ai processi cognitivi.128

La teoria sulla percezione che Bordwell abbraccia ha natura costruttivista e ritiene che percepire e pensare siano procedimenti attivi e diretti verso uno scopo.

Una volta percepito qualcosa, il nostro organismo costruisce un giudizio percettivo sulla base d’inferenze.

Creare inferenze è una nozione centrale nella teoria costruttivista.

Attività cognitive e percettive sono legate ad attività inferenziali che tendono ad anticipare la definizione di ciò che avviene intorno all’organismo, usando gli schemi che la mente ha accumulato durante la vita attraverso le esperienze. Durante la visione di un film percepiamo immagini e suoni, nonché la fusione di essi, e il nostro cervello o applica schemi acquisiti in precedenza per comprendere ciò che vede, o ne acquisisce di nuovi in quel momento.129

Gli schemi generano anche ipotesi circa cosa sarà la prossima cosa da vedere. Quindi, attraverso le attività mentali che compiamo durante la visione di un film, noi lo completiamo, lo arricchiamo, con le nostre inferenze. Chi realizza un film deve inevitabilmente tenere conto di questo.

La teoria costruttivista considera vedere un film come un processo psicologico dinamico che manipola una varietà di fattori.

128 BORDWELL, Pag. 30 129 BORDWELL, Pag. 30

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1) Capacità percettive: Il cinema è un medium che dipende da due deficienze fisiologiche del nostro sistema visuale. Primo, la retina non è in grado di seguire rapidi cambiamenti d’intensità luminosa. Più di cinquanta flash per secondo creano l’impressione di una luce ferma. Secondo, il fenomeno conosciuto come movimento apparente avviene quando l’occhio percepisce tante strisce in movimento come una sola immagine. Questo ci permette di creare una continuità visiva nella nostra testa, specialmente se siamo al buio e concentrati sullo schermo.130

2) Conoscenze ed esperienze pregresse: Guardando un film, applichiamo schemi derivanti dal confronto con la vita quotidiana, con altre opere d’arte, con altri film. Sulla base di questi schemi facciamo supposizioni, creiamo aspettative e confermiamo o confutiamo ipotesi. Tutto, da riconoscere oggetti e comprendere i dialoghi al comprendere la storia del film, prevede l’utilizzo di conoscenza pregressa.

3) La struttura e la materia del film stesso: Nel cinema di narrazione il film offre strutture d’informazione – un sistema narrativo e un sistema stilistico. Il film narrativo è fatto in modo d’incoraggiare lo spettatore a eseguire la sua attività di costruzione della storia. Il film presenta indizi, percorsi e gap che modellano l’applicazione degli schemi dello spettatore e il tentare ipotesi da parte sua.

Questi tre fattori sono in costante interazione, Bordwell li separa solo per descriverli meglio.

Nel comprendere un film di narrazione, lo spettatore cerca di afferrare la continuità filmica come un insieme di eventi che accadono in diversi ambienti e uniti da principi di causalità e temporalità. Comprendere la storia di un film

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significa afferrare cosa, dove, quando, come e perché succede. Red Hastie distingue tra vari tipi di schemi di comprensione.

La Tendenza centrale o schema prototipo, coinvolge l’identificazione di membri individuali di una classe attraverso norme consolidate. Sono usati per identificare agenti, azioni, obiettivi e luoghi. Aggiungono informazioni mancanti e provano i migliori modi di classificare i dati. Si tratta di schemi che si legano alle aspettative di classificazione e comprensione tipiche di ognuno di noi. Chi percepisce tende a usarli come griglia di comprensione e raggruppamento per una narrazione, specie per creare connessioni di tipo temporale e causale.131

I template e gli schemi prototipi sono assunti da quelli che Hastie chiama schemi procedurali, quei protocolli operazionali che acquistano e organizzano dinamicamente informazioni. Sono loro a entrare in gioco quando i template non sono sufficienti. Agiscono permettendo allo spettatore di registrare il flusso d’informazioni che gli arrivano durante la proiezione e di dargli un senso man mano che la storia scorre, componendo i pezzi come un puzzle, applicando contemporaneamente le conoscenze pregresse e quelle fornite dal testo.

La maggior parte di queste operazioni avviene nella mente dello spettatore a livello inconscio.132

Nella nostra cultura chi percepisce un film è attivo e preparato, ha l’obiettivo di tirar fuori una storia da ciò che fruisce. Per far ciò applicherà gli schemi con i quali definire eventi narrativi e unificarli attraverso i principi di causalità, tempo e spazio e compirà inferenze e ipotesi.

131 BORDWELL, Pag. 34 132 BORDWELL, Pag. 36

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Secondo Bordwell, uno spettatore che comprende una storia è comunque un essere umano che, per la sua natura, può sbagliare nel processo di comprensione. Può sbagliare in seguito a una conoscenza non adeguata, a un’applicazione sbagliata degli schemi, alla stanchezza. Emozioni e condizioni fisiologiche della ricezione influenzano, dice Bordwell, la comprensione. Il desiderio personale di vedere la storia formarsi in un modo piuttosto che in un altro, aspettative nei confronti di un evento o di un personaggio, sono esempi di come la nostra personalità emotiva in realtà ci condizioni nel processo del vedere e comprendere una storia al cinema.133 Inoltre, questo miscuglio di anticipazione, compimento e conseguenze bloccate, ritardate o capovolte possono esercitare un grande potere emotivo su di noi.

Secondo Meir Sternberg, lo spettatore agisce inferendo e costruendo ipotesi. Il primo centro intorno al quale si formano ipotesi è ciò che Sternberg chiama suspense: anticipare e soppesare le probabilità di futuri eventi narrativi.134

Se a tale istanza accostiamo le teorie di Bordwell sugli schemi e i procedimenti cognitivi già presenti nello spettatore al momento della visione, il nostro discorso viene a ricollegarsi con quello del capitolo precedente.

La suspense come strategia narrativa tenderà a presentare degli elementi ricorrenti che entreranno a fare parte del bagaglio culturale dello spettatore, creando in lui aspettative e capacità di riconoscere ricorrenze.

I processi cognitivi dello spettatore alle prese di una sequenza di suspense tenderanno, secondo la teoria di Bordwell, a fargli compiere delle anticipazioni, a spingersi in avanti, creando quel meccanismo di attesa e tensione messo in luce

133 BORDWELL, Pag. 39 134 BORDWELL, Pag. 36

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anche dalle altre teorie. Lo spettatore userà i dati in suo possesso per riconoscere che la sequenza in cui si trova è una sequenza di suspense e sfrutterà gli elementi del film per ricostruire nella sua mente il quadro che la situazione gli presenta, specialmente se è in grado di ricondurla ad altre da lui vissute in precedenza. Applicando gli schemi prototipi, ad esempio, sarò in grado di riconoscere elementi tipici della suspense confrontandoli con quelli trovati in situazioni di suspense in film visti nel corso della mia vita. La mia capacità di applicare tali schemi non sarà mai la stessa del mio vicino di posto, essendo essi stessi basati sulla mia personale esperienza di spettatore di suspense. Se tali schemi non fossero sufficienti, gli schemi procedurali mi aiuterebbero a colmare tale vuoto grazie alle informazioni presentate nel corso della sequenza e, la volta successiva, sarei pronto a riconoscere gli elementi ricorrenti.

Questa teoria, pur tenendo di gran conto l’attività dello spettatore, non considera altro che le sue attività cognitive. Nel primo paragrafo di questo capitolo abbiamo visto come, invece, attività cognitiva ed emozionale siano profondamente legati. Anche la teoria semio-pragmatica di Roger Odin, specialmente parlando di messa in fase, si pone in contrasto con il cognitivismo, nel momento in cui s’interessa delle attività emozionali dello spettatore e del loro ruolo nell’influenzare la fruizione di un testo filmico.

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3.3.2. Semio-pragmatica e suspense

“L’emozione filmica nasce dall’interazione tra l’attività autonoma di un individuo e i caratteri specifici del dispositivo”.135 La teoria semio-pragmatica parte proprio da quest’assunto.

Secondo Roger Odin il senso di un testo di natura finzionale viene determinato dall’atteggiamento dell’emittente (il film) e, soprattutto, del ricevente, il pubblico destinatario. Per atteggiamento egli intende l’insieme di reazioni, cognitive ed emozionali, che si verificano durante la visione di un film.

Non radicale ai livelli del collega Colin, arrivato ad affermare la non esistenza del testo, Odin sostiene che emittente e destinatario - in quanto dotati di competenze comunicative - siano coloro che, applicando dei modi di produzione di senso, attribuiscono un senso al contenuto.

Odin definisce diversi modi di produzione di senso che lo spettatore dovrebbe applicare a seconda del suo contesto di fruizione e di come egli si approccia a ciò che sta guardando.

Ad esempio, nel caso di un film narrativo che presenti degli elementi di suspense, io spettatore so in primo luogo di trovarmi di fronte a un film di finzione che narra una storia in modo completo e coinvolgente: sono portato ad applicare dei modi di produzione di senso di tipo finzionale, perché m’immergo emotivamente nella storia, adottando il regime finzionale come regime di coscienza.136 Quando non posso fare a meno di porre attenzione sull’uso che l’emittente fa dei codici del

135 Cit. CAROCCI, Pagg. 60-61 136 ODIN, 1988, Pag. 265

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linguaggio filmico, adotterò un modo di produzione di senso di tipo estetico,137 e così via. Posso adottarne più di uno nel corso della visione dello stesso film. La particolarità di quest’approccio di fruizione è il suo essere individuale, variabile a seconda del tipo di spettatore: magari uno spettatore occasionale non applicherà gli stessi modi di uno studioso di cinema o un esperto di noir. Inoltre, come fa notare Odin, la mia chiave di lettura può essere diversa da quella assunta dall’emittente, ovvero chi ha fatto il film.

Nel momento in cui io fruisco un film di finzione applico un processo di Finzionalizzazione, che Odin articola in sette fasi.

1) DIEGETIZZAZIONE: Operazione con cui io costruisco mentalmente il mondo del film, la Diegesi. (Fase 1)

2) NARRATIVITÀ: Livello nel quale agiscono dei processi che mi permettono di trasformare ciò che vedo in un racconto.

2.1) Narrativizzazione: Creazione di un racconto embrionale in attesa di Narrazione, ad esempio durante i titoli di testa. (Fase 2)

2.2.) Narrazione: Costruzione di un racconto compiuto attraverso una serie di operazioni. (Fase 3)

2.2.1.) Conferimento di una coerenza alle azioni attraverso l’elaborazione di un’isotopia semantica: percepisco le azioni che i personaggi svolgono come coerenti in quanto inserite in un contesto che, poiché dotato di vari elementi ridondanti, è sentito come realistico e pertinente alle azioni che vi si svolgono. Il contesto di un film è pieno di elementi non direttamente legati o necessari

137Quello che Metz chiamerebbe feticistico in METZ, CHRISTIAN. Cinema e psicanalisi,

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all’azione, come determinati elementi d’arredo o gesti dei personaggi che, per il fatto di esistere, rendono coerenti le azioni principali che, prive di questi elementi, risulterebbero decontestualizzate.

2.2.2.) Strutturazione di un sistema di forze: identifico nei personaggi delle forze che si oppongono, che creano delle trasformazioni o le ostacolo.

2.2.3.) Strutturazione di una sintagmatica temporale.

2.3.) Discorsivizzazione: Identificare nel racconto un sistema di valori, una morale, veicolati da un’entità alla quale mi rivolgo come portatore della verità: il Moralizzatore. Io spettatore sono portato a dare per vero ciò che mi viene mostrato e mi appello al Meganarratore138 come portatore di valori e verità in rapporto a ciò che egli mi mostra. Le azioni si strutturano paradigmaticamente in funzione dei valori che veicolano e così fanno gli attanti. (Fase 4)

3) MESSA IN FASE: Processo che mi fa vibrare affettivamente a ritmo di ciò che il film mi fa vedere e sentire. Io m’identifico in ciò che vedo e i miei desideri si uniscono a quelli dei personaggi. Identifico i miei valori con quelli veicolati dal film e percepisco le marche di enunciazione come una manifestazione dell’opinione dell’Enunciatore circa ciò che mi mostra. In questa fase riconosco e introietto i valori che il testo filmico veicola sulla base di ciò che mi viene fatto vedere e come. (Fase 5)

4) FITTIZZAZIONE: Costruzione della struttura della finzione. Il fatto di essere consapevole di star fruendo un prodotto conchiuso, montato, con titoli di testa e di coda e magari un doppiaggio delle voci, contribuisce a sviluppare in me il processo di Fittizzazione. All’inizio del film, il logo della casa di produzione e i

138 Termine che riconduce a GAUDREAULT, ANDRÉ. Dal letterario al filmico. Sistema del

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titoli che scorrono insieme alle immagini m’indicano l’esistenza di un Enunciatore fittizio, responsabile delle funzioni sintattiche del film. Mi abbandono a esso, senza porgli domande. (Fase 6)

5) COSTRUZIONE DI UNA STRUTTURA ENUNCIATIVA: costruzione da parte dello spettatore di un Enunciatore reale della finzione, portatore dei valori e del significato del film. Esso è l’istanza del Discorso del film. Quando guardo un film so per conoscenza pregressa che dietro alla sua creazione esiste un insieme di persone che Odin definisce Enunciatore Reale della Produzione. In generale, quando fruisco un film di finzione, m’interesso relativamente poco a quest’entità, a meno che io non sia interessata a trovare un riscontro autoriale o stilistico, un legame costante tra questa/e persona/e e il suo/loro lavoro. Guardando un film come Psyco non posso fare a meno di pensare ad Alfred Hitchcock, autore del film e dei valori che veicola, che, attraverso il linguaggio del mezzo di cui è padrone, si rende responsabile del racconto e del suo discorso. Odin mette l’accento sul fatto che, comunque, l’Hitchcock nella mia testa è una mia costruzione mentale, non il vero Hitchcock: infatti l’enunciatore reale non è mai una persona empirica. (Fase 7).139

Secondo lo schema proposto da Odin 140, io spettatore applico il Modo Finzionalizzante, in questo modo.

Il film comincia. Io, un po’ perché seduto in un cinema, un po’ perché i titoli di testa me lo ricordano, sono consapevole di star guardando un film (Fittizzazione) e fruisco il racconto come originato da un Enunciatore Fittizio. Riconosco come

139 ODIN, ROGER. Della Finzione. Milano: V&P Università, 2004 140 ODIN, 2004, Pag. 98

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accettabile il mondo che il film mi rivela (Diegetizzazione) e seguo con attenzione le vicende che l’occhio accondiscendente del mostratore e il montaggio mi permettono di seguire (Mostrazione e Narrazione). Mentre seguo la Storia, l’Enunciatore Reale degli Enunciati si manifesta, scegliendo di mostrarmi tutto ciò che è necessario affinché io mi faccia un’opinione sulla storia e sui personaggi, e il modo in cui mostrarmelo. Man a mano che il film prosegue, il Discorso del film si fa più chiaro e, alla fine, ricevo la Morale del film.

A mio avviso questo tipo di procedura, adatto a un film per la sua intera durata, si può considerare applicabile anche alla più breve durata del processo narrativo che abbiamo detto essere la suspense. I modi di produzione di senso che applico al film sono gli stessi che entrano in gioco nel momento di suspense, poiché io posseggo delle pre-conoscenze e delle competenze spettatoriali che mi fanno riconoscere determinati elementi e m’indirizzano nell’interpretare la sequenza come facente parte della categoria “sequenza di suspense”.

Durante un momento di suspense ho già costruito mentalmente, attraverso la diegetizzazione, il mondo in cui la sequenza si svolge. Come abbiamo visto nel primo capitolo, la suspense non richiede un’ambientazione particolare. Richiede, tuttavia, che io spettatore non mi soffermi troppo a interrogarmi sull’ambiente stesso. Salvo che esso non sia una delle fonti di tensione, come all’interno di un film horror dove un bosco misterioso o una casa abbandonata assumono importanti connotazioni per la paura, io spettatore non devo perdermi nella contemplazione dello spazio o interrogarmi sulla verosimiglianza del mondo che mi viene presentato, o rischierò di distrarmi rispetto agli eventi della sequenza e di perdermi l’effetto della suspense. Ciò vuol dire che il film stesso non deve darmi

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modo di farlo, proponendomi mondi stranianti in cui io non posso proiettarmi perché privo di riferimenti. Inoltre, se non eclisso il supporto non riuscirò a permettere all’identificazione di avvenire e la suspense non avrà su di me alcun effetto. Per tale motivo, forse, la suspense si trova raramente all’inizio del film. In molti film di genere horror o thriller, spesso già a livello dei titoli di testa la narrativizzazione agisce creando un effetto di proto-suspense, un desiderio di suspense, magari attraverso l’uso suoni misteriosi, di una musica suspenseful o di didascalie che mettono in guardia lo spettatore circa “strani eventi”. In questa fase noi spettatori ci carichiamo di attesa, consapevoli del genere di storia che incontreremo durante la visione del film.

Infatti, come sottolinea Odin, perché io spettatore possa “vibrare” con il film la presentazione di un mondo non è sufficiente, serve un racconto, una storia, dei personaggi che si attivino in un sistema opponente di forze e valori, compiendo azioni coerenti con il contesto e strutturate su una sintagmatica temporale.141 Osservare l’insieme delle azioni e degli obiettivi dei personaggi durante il corso del film attiva in me il processo di narrazione. Durante una sequenza di suspense questo processo riguarda identificare l’insieme di eventi all’interno di una struttura coerente. Tale sequenza avrà con un inizio e una fine, verso la quale noi e i personaggi tenderemo pieni di ansiosa partecipazione, poiché riconosciamo il sistema di forze opponenti in gioco, i rischi a cui i personaggi sono sottoposti e, specie nel caso delle cosiddette “corse contro il tempo”, il potere del tempo. Come abbiamo già accennato, è fondamentale, per la suspense, che lo spettatore comprenda ciò che sta accadendo a un livello tale da interrogarsi sulla risoluzione

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della sequenza e le sue conseguenze, piuttosto che su ciò che sta accadendo in quel momento. Altrimenti non avrebbe ragione di stare in tensione, poiché non ne capirebbe il motivo. Io che guardo devo comprendere il sistema di forze, chi si trova con e chi contro il protagonista, e cosa egli potrebbe rischiare. Devo poter comprendere che ruolo gioca il tempo, e la sua articolazione deve essere coerente o potrei perdere il filo della comprensione e, di conseguenza, la suspense. Secondo Odin il tempo, attraverso le tipiche complicazioni che ostacolano il raggiungimento dell’obiettivo durante i momenti di suspense, gioca attivamente come forza contraria al personaggio.142

Riconoscendo il sistema di forze contrapposte, le identifico come negative e positive e, secondo Odin, attraverso il processo di discorsivizzazione, riconoscerò i valori che esse veicolano, identificando la costruzione paradigmatica. Individuando le forze come positive e negative elaboro un discorso e un responsabile del discorso, colui che orienta la mia adesione.

Nel momento di messa in fase, io spettatore vibro a ritmo con il film, di una vibrazione fondamentalmente emozionale. “La messa in fase è una modalità della partecipazione affettiva dello spettatore al film”.143

Per Odin la messa in fase, seppur legata all’emotività dello spettatore, non può prescindere dal processo cognitivo di costruzione del racconto. Il modo in cui egli comprenderà il film, adottando gli schemi – i modi di produzione di senso – che possiede, influenzerà la sua reazione emotiva.144

142 ODIN, 2004, Pag. 30 143 Cit. ODIN, 2004, Pag. 42 144 ODIN, 2004, Pag. 43

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Un modo per mettermi in fase consiste, secondo Odin, in un’operazione psicologica: connetto il mio desiderio spettatoriale con quello operante nella storia raccontata.145

Le operazioni psicologiche individuate da Odin sono, a mio avviso, facilmente accostabili ai processi d’identificazione: essi variano dall’immedesimazione con un obiettivo, con un personaggio, con un tema. L’identificazione può avvenire sia in concordanza, e in questo caso vibrerò insieme al film, oppure in discordanza, e vibrerò in opposto al film.

Odin, rispetto alla teoria psicoanalitica, compie un’ulteriore osservazione: le reazioni in termini di messa in fase non sono tutte uguali. La mia reazione dipenderà da me come spettatore, dal mio insieme di valori, dalle mie conoscenze, dalla mia predisposizione a un certo tipo di vibrazione. Quindi, di nuovo, la mia messa in fase potrà essere ben diversa da quella del mio vicino di posto.

La messa in fase può strutturarsi per “performare” lo spettatore, programmando in suoi giudizi di valore, veicolando la sua adesione.146 Ma la sua disponibilità ad accettare quest’indicazione non potrà essere certa.

Secondo Odin, “la messa in fase è un’operazione di omogeneizzazione: essa duplica il lavoro di omogeneizzazione del racconto attraverso l’omogeneizzazione del posizionamento affettivo dello spettatore rispetto alla dinamica narrativa e discorsiva (i giochi di valori) del film”.147

Il processo di fittizzazione, che mi permette di riconoscere la natura finzionale di ciò che sto vedendo e di abbandonarmi ad esso, non avviene in modo particolare

145 ODIN, 2004, Pag. 45 146 ODIN, 2004, Pag. 55 147 Cit. ODIN, 2004, Pag. 58

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nel caso della suspense. Fruire un film sapendo che gli eventi mostratimi non sono reali non diminuirà la mia tensione. Essa piuttosto potrà accrescere, come vedremo poco più avanti, se l’enunciatore proponesse quegli stessi eventi come “reali”. In quel caso verrebbe a mancare l’enunciatore fittizio, mentre, sia dietro un film di finzione che un prodotto documentario, riconosco l’esistenza di un insieme di figure autoriali che si caratterizzano come istanza enunciativa reale, ovvero l’idea che posso avere di coloro che hanno creato il film.

Secondo Odin “il contratto enunciazionale fittizio ha conseguenze particolarmente forti a livello affettivo”.148 Poiché riconosco la natura di finzione di ciò che sto vedendo, posso abbandonarmi a essa senza difese e con ciò il racconto può trasmettermi i valori che l’enunciatore reale degli enunciati voleva farmi arrivare. In tale modo, anche durante una sequenza di suspense, l’enunciatore può veicolare tematiche assiologiche (come il rapporto edipico)149 attraverso il racconto in cui io mi trovo immerso.

Se m’interrogassi eccessivamente sull’enunciatore reale mi troverei ad applicare un modo di lettura documentarizzante150 e, mi allontanerei dalla narrazione e finzionalizzazione 151 e, per tale motivo, dalla suspense. Se rifletto sullo stile, i valori e i motivi che hanno spinto l’enunciatore a prendere certe scelte piuttosto che altre, se guardo il film pensando a lui mentre lo realizzava mi pongo in una condizione che mi rende impermeabile alla suspense.

Ad esempio, alcuni dei miei amici, guardando il mio corto thriller, si lasciavano distrarre dal fatto che l’avessi realizzato io, e mi chiedevano come avessi girato

148 Cit. ODIN, 2004, Pag. 85 149 Vd. Cap. 4.2.

150 ODIN, 2004, Pag. 73 151 ODIN, 2004, Pag. 74

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certe scene, o facevano altre domande che li distoglievano dalla narrazione e impedivano loro l’identificazione e la partecipazione emotiva necessaria per la suspense.

Questa “sospensione dalla suspense” non sarebbe probabilmente capitata, però, se io avessi presentato il film come “una documentazione video di una cosa che mi è capitata”. In quel caso, i miei amici avrebbero tentato di identificare nel testo elementi di veridicità, come ad esempio la presenza di luci naturali, un montaggio quasi assente e altri elementi che denotassero la non preparazione del profilmico e, comprovata la veridicità della mia affermazione, avrebbero fruito il corto come un documento video di un evento reale. E questo li avrebbe probabilmente scossi maggiormente perché il vedere un video che documenta un fatto reale li avrebbe costantemente tenuti legati alla realtà cui sia gli eventi mostrati che loro stessi apparterrebbero. Come quando, incerti se siano veri o finti, guardiamo video di fantasmi su Youtube, inevitabilmente il nostro atteggiamento sarà diverso rispetto al guardare un prodotto di natura dichiaratamente finzionale.

Nel mondo del cinema esistono esempi di contenuti finzionali ricchi di suspense, presentati come veritieri, per ottenere questo stesso effetto.152 Ma si tratta di casi particolari e recenti nella storia di un rapporto - quello tra cinema e suspense - che, come nel caso della teoria, esiste sin dagli albori di questo medium.

Nel prossimo capitolo vedremo come tale rapporto si sia evoluto al di là delle teorie che abbiamo osservato. Vedremo, attraverso vari esempi cinematografici,

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come la suspense e i suoi meccanismi si siano evoluti nel corso della storia per mano di coloro che hanno studiato il cinema attraverso la pratica: gli autori.

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