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“Ut sementem feceris, ita metes”

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Academic year: 2021

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“Ut sementem feceris, ita metes”

Cicerone (De Oratore)

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Premessa

L’idea di trattare il tema della qualità dei prodotti agroalimentari e del Farro della Garfagnana, è nata dall’interesse verso le filiere agroalimentari e verso il territorio della Garfagnana, mentre il tema della qualità, molto sentito tra i consumatori in quanto caratteristica importante dei prodotti agroalimentari, è risultato essere argomento comune nelle varie materie universitarie previste dal corso di studio: è stato affrontato infatti nell’ambito delle produzioni zootecniche, nelle produzioni orticole, erbaceee, nell’ambito delle trasformazioni e conservazioni alimentari e anche per questo motivo è stato il punto di partenza dell’indagine condotta. La spinta iniziale della ricerca è stato l’interesse verso la Garfagnana e le sue produzioni agroalimentari di qualità: i prodotti tipici del territorio, che lo hanno reso noto e lo identificano sono la Farina di Neccio della Garfagnana DOP, il Biroldo (presidio Slow Food dal 2000) e il Farro della Garfagnana IGP. Nello specifico, la scelta di trattare proprio la filiera del farro, è dovuta ad un’indicazione da parte del GAL Garfagnana di un progetto di finanziamento nell’ambito della filiera cerealicola che interessava proprio la produzione di farro. Per cui la ricerca è partita proprio da una misura del Piano di Sviluppo Rurale 2007/2013, nell’ambito dell’innovazione in agricoltura.

Una volta stabilita la filiera, era interessante andare

personalmente nelle aziende di produzione, trasformazione e distribuzione

del prodotto per avere un’idea del ruolo che riveste il farro nelle zone rurali

dell’alta valle del Serchio, per comprendere l’attuale entità della

produzione e trasformazione del farro e per capire eventualmente i

possibili miglioramenti della filiera.

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1. Introduzione 1.1 Obiettivi della ricerca

La qualità dei prodotti agroalimentari italiani è sicuramente un punto di forza della produzione nazionale, un elemento su cui è necessario puntare perché di grande interesse anche a livello internazionale. Il settore agroalimentare è uno dei più importanti comparti dell’economia del nostro Paese, un patrimonio che spesso ha radici lontane nel tempo e che si avvale di tecniche di produzione piuttosto antiche. Molti sono gli esempi di produzioni italiane qualitativamente ragguardevoli e, non a caso, anche la dieta mediterranea è stata recentemente introdotta nel patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO (2010). Le produzioni di qualità sono spesso legate a determinati comprensori territoriali e rappresentano un punto di forza delle zone rurali e un mezzo per la loro valorizzazione. Le zone rurali sono intese generalmente come territorio con scarsa e dispersa distribuzione di popolazione, molto limitata presenza di costruzioni e diffusa presenza di attività agricole e zootecniche, anche semiestensive. Per la Toscana la situazione è un po’ diversa da questo scenario, perché sono presenti sia il paesaggio rurale e le lavorazioni contadine, che insediamenti ad alta concentrazione abitativa. In questa realtà rurale si ritrovano tuttora arti e mestieri antichi, produzioni agricole di qualità e lavorazioni tradizionali inalterate da secoli, che possono essere riscoperte, per dare così un forte contributo allo sviluppo rurale, recuperare la tradizione e la cultura locale, innestandola in circuiti moderni di valorizzazione economica ( D’Alonzo R., 2003).

Per cui il prodotto tipico di qualità, tramite la sua valorizzazione, è oggetto di rivisitazioni da parte della comunità locale, di più soggetti, in continuità con il passato e le risorse utilizzate ai fini della sua valorizzazione sono quelle legate alla filiera produttiva, ma anche risorse locali collegate ad esso sotto il profilo ambientale, culturale e sociale (Belletti G. 2006).

Il prodotto tipico assume il ruolo di leva per lo sviluppo del territorio

rurale, è un’opportunità di crescita sociale e favorisce l’integrazione

dell’agricoltura con altre attività (Arfini F., 2005).

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Lo scopo di questo lavoro è stato quello di analizzare l’importanza della produzione tipica di qualità del Farro IGP della Garfagnana e dei prodotti derivati: inizialmente è stata effettuata un’analisi generica sui prodotti agroalimentari italiani tipici e di qualità, poi nello specifico è stata focalizzata l’attenzione sul Farro della Garfagnana, uno dei cereali minori più importanti a livello nazionale, per esaminare l’entità del valore del cereale e dei suoi derivati e trasformati per le zone rurali dell’alta valle del Serchio.

In particolare, grazie all’aiuto dell’Unione dei Comuni della Garfagnana e del Consorzio dei Produttori del Farro, sono state raccolte informazioni relative alla produzione del cereale in Garfagnana, alle tradizioni, ai metodi di coltivazione, inalterati da tempi antichi, che rendono il farro una coltura di tipo biologico.

Successivamente è stata condotta un’indagine sull’utilizzo del Farro della Garfagnana come elemento base per prodotti trasformati, prodotti da forno, come biscotti e pane, ma anche pasta fresca a base di farro, e infine anche la produzione di una bibita innovativa quale la birra di farro. Attraverso dei questionari sono state formulate delle domande ad alcune aziende di produttori, di trasformazione della zona, e distributori, per cercare di definire l’importanza a livello economico del prodotto, chi sono i principali consumatori di farro e dei suoi derivati, qual è il livello di conoscenza del prodotto, quali sono i valori trasmessi al consumatore con il prodotto tipico e quali elementi lo distinguono da altri farri.

Inoltre l’indagine si è prefissata di capire l’evoluzione nel tempo e nello spazio del mercato del Farro della Garfagnana e soprattutto del prodotto trasformato.

Il lavoro di ricerca effettuato aveva anche l’obiettivo di analizzare

tale filiera per la stesura finale di un’analisi dei punti di forza e debolezza

del sistema produttivo e condurre un’analisi critica della situazione attuale

della filiera del prodotto tipico e del processo di valorizzazione.

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1.2

Metodologia d’indagine

Il lavoro ha avuto inizio con la ricerca di materiale bibliografico relativo alla coltivazione e tradizione del farro in Garfagnana, dopodiché è stata condotta attivamente un’indagine sul territorio per riuscire ad ottenere delle informazioni aggiuntive sulla filiera e rispondere agli interrogativi di partenza.

L’indagine è stata realizzata cercando di coprire tutte le fasi della filiera del prodotto, dalla produzione alla trasformazione e commercializzazione e le aziende contattate, all’interno del territorio della Garfagnana, rappresentano realtà più o meno grandi e affermate sul mercato, in particolare sono state contattate: 1 azienda agricola, 1 mulino, 2 attività di ristorazione, 5 trasformatori e 1 distributore di prodotti tipici.

Le aziende sono state individuate tramite ricerche sul territorio, conoscenza personale della zona e indicazioni del Consorzio dei Produttori di Farro della Garfagnana.

E’ stato elaborato un questionario (ALLEGATO 3) da sottoporre alle aziende della zona coinvolte nella filiera del farro, tramite colloquio frontale, volto ad ottenere informazioni e risposte ai quesiti iniziali.

Il questionario, per lo più a domande aperte, è stato strutturato in cinque sezioni: la prima relativa ai dati dell’azienda, alla sua storia e ai prodotti offerti; la seconda sezione, dedicata alle risorse locali impiegate nella produzione aziendale; una terza parte relativa alla qualità del prodotto al farro; la quarta sezione era invece relativa al commercio del prodotto, al rapporto con il consumatore e ai mezzi di divulgazione del prodotto aziendale; infine l’ultima sezione era dedicata all’integrazione con il territorio e all’evoluzione spazio-temporale del mercato del prodotto.

Il questionario è stato articolato in questo modo per riuscire ad analizzare il processo di valorizzazione, seguendo le fasi del modello strategico di valorizzazione dei prodotti tipici definito dall’ARSIA (“Guida per la valorizzazione dei prodotti agroalimentari tipici”).

Infatti, secondo il manuale, sono quattro le fasi da affrontare nel processo di valorizzazione per raggiungere l’obiettivo: la “Mobilizzazione delle risorse locali”, la “Qualificazione dei prodotti”, la

“Commercializzazione dei prodotti” e l’ “Integrazione con il territorio”.

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Lo scopo primario della mobilizzazione è l’incorporazione nel prodotto tipico delle risorse locali, che possono essere sia il capitale naturale, culturale, umano, che quello sociale. Questa prima tappa della valorizzazione quindi vede la necessità di riscoprire le tradizioni culturali, le condizioni naturali di un territorio, le varietà presenti, ma anche gli elementi storici legati al prodotto tipico, come ad es. ricette tradizionali e le tecniche di produzione, di determinare le capacità degli individui di comunicazione e organizzazione e del loro saper fare.

Tutto questo avviene tramite delle tappe, partendo dall’acquisizione delle conoscenze relativamente alle risorse in questione, dopodiché c’è la necessità che si sviluppi prima nella comunità la consapevolezza delle risorse possedute e in seguito renderle note anche all’esterno per creare un mercato intorno al prodotto tipico, fino ad arrivare ad una riflessione critica sull’attività di mobilizzazione, con l’obiettivo di realizzare un resoconto degli effetti di tale azione (Brunori G., 2006).

Seguendo queste linee sono state elaborate alcune domande del questionario: è stato infatti richiesto agli intervistati che tipo di risorse locali fossero utilizzate nella loro attività e se venissero utilizzate anche risorse non disponibili localmente, che tipo di abilità e conoscenze fossero impiegate nella loro attività aziendale, che tipo di materie prime fossero utilizzate e le quantità, se avessero mai usufruito di finanziamenti e se avessero effettuato delle collaborazioni con esperti o università.

La seconda area strategica della valorizzazione è la definizione della qualità del prodotto tipico e quindi la definizione dell’identità del prodotto (detta “fase interna”) e la successiva creazione di relazione tra prodotto e mercato (detta “fase esterna”). Nel processo di valorizzazione è un errore dare per scontate le caratteristiche qualitative che definiscono il prodotto e la conoscenza all’esterno della comunità rurale di tali caratteristiche. Per questo è necessario, in questa tappa della valorizzazione, ricostruire prima di tutto l’identità del prodotto in questione ed esaltarne la qualità specifica che va ricercata nel legame col territorio.

Gli strumenti della qualificazione possono essere diversi: le qualificazioni

di processo produttivo, i marchi collettivi, gestibili direttamente dagli

utilizzatori e i segni geografici (DOP e IGP). I segni geografici portano con

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sé sia vantaggi che svantaggi: il loro utilizzo consente di ripulire il mercato di prodotti scorretti, di rassicurare il consumatore riguardo al prodotto che acquista, consente di dare notorietà al prodotto, ma allo stesso tempo ci sono anche effetti negativi di esclusione di alcune imprese, che non hanno interesse a utilizzare il marchio a causa dei costi che impone (Belletti G., 2006).

Sulla base di queste indicazioni è stata impostata la parte del questionario relativa alla qualità: è stato richiesto agli intervistati quali fossero le caratteristiche di qualità dei loro prodotti e in che modo fossero arrivati a definirle, se il prodotto avesse subito un’evoluzione qualitativa e se utilizzassero dei marchi di processo o altri tipi di certificazioni. E’ stato anche domandato quali fossero i punti di forza e debolezza del prodotto e della produzione e quali aspetti relativi al prodotto fossero più apprezzati dal consumatore.

La commercializzazione comprende sia la scelta dei canali distributivi del prodotto tipico, la scelta dei prezzi, e la gestione della pubblicità e di attività promozionali. E’ importante che questa fase sia preceduta dalla qualificazione del prodotto, per avere ben chiaro le caratteristiche distintive del processo produttivo, del prodotto, della sua presentazione e confezionamento, che verranno comunicate al consumatore. Infatti l’obiettivo della fase di commercializzazione è anche quello di comunicare al consumatore gli elementi di tipicità del prodotto e le sue caratteristiche. Questo avviene attraverso l’attività di marketing, che può mirare ad adattare le caratteristiche del prodotto alle attitudini ed esigenze del consumatore (“marketing convenzionale”) o che può avere come obiettivo il cambiamento delle preferenze del consumatore (“marketing cognitivo”) o ancora proporre valori alternativi a quelli dei modelli dominanti (“marketing radicale”).

Le scelte strategiche di commercializzazione iniziano

dall’individuazione di un target di consumatori a cui il prodotto sarà

destinato (consumatori locali, intenditori, solidali, turisti ecc.) e successiva

determinazione dei canali distributivi per raggiungerli, dei comportamenti

di tali consumatori e il tipo di concorrenza che il prodotto potrà subire.

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Tutto ciò fa leva sul marketing mix che prevede l’attenta riflessione sulle decisioni da prendere riguardo al prodotto, quindi relativamente alle caratteristiche strutturali del prodotto, alla confezione, alle dimensioni e ai servizi incorporati; al prezzo, che deriva da un analisi dei costi legati alla filiera produttiva; alla promozione, che avviene tramite brochure, vendita diretta, pubblicità, eventi e altro e che sono dirette al consumatore finale soprattutto; alla distribuzione, con la scelta dei canali distributivi (distribuzione tradizionale, moderna o innovativa) (Marescotti A., 2006).

Sulla base di quanto sopra riportato è stata impostata la sezione del questionario relativa appunto alla commercializzazione, in cui è stato richiesto agli intervistati il target di consumatori a cui è destinato il prodotto e la strategia di marketing adottata, nozioni relative alle vendite, quindi prezzi e volume delle vendite, quali canali distributivi fossero utilizzati, se utilizzassero canali distributivi innovativi come la vendita on-line e se avessero un sito internet che pubblicizzasse l’azienda.

Inoltre relativamente alla comunicazione col consumatore, è stato chiesto se l’azienda usufruisse di mezzi pubblicitari quali depliant, ad esempio, o se avessero mai effettuato degustazioni o partecipato a fiere, sagre o altri eventi. E’ stato anche richiesto di definire i valori che il prodotto porta con sé e che sono comunicati al consumatore.

Nell’ultima area strategica si va a definire l’integrazione con il territorio e cioè la collaborazione fra i produttori, le istituzioni, associazioni, consorzi, Gruppi di Azione Locale, Comunità Montane ecc., per creare una rete di alleanze sul territorio volte alla valorizzazione del prodotto tipico. Si cerca di dar vita a delle sinergie tra i vari soggetti, implicati in vario modo col prodotto tipico, con l’obiettivo di comunicare al consumatore le qualità del prodotto tipico e allo stesso tempo valorizzare anche le altre risorse del territorio, creando ad esempio degli itinerari enogastronomici.

Per ogni azienda, coinvolta nella filiera di un prodotto tipico, è di

vitale importanza tale rete e ogni attività individuale ha strettamente

bisogno del sistema di cui è parte integrante, per gestire al meglio i

rapporti con il consumatore.

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Rientrano in tale rete anche i distributori dei prodotti, quindi negozi al dettaglio, agriturismi, ristoranti, ma anche operatori turistici oltre che produttori, trasformatori ed enti (Rossi A., 2006).

E’ stato richiesto all’intervistato che tipo di estensione territoriale fosse stata raggiunta dal mercato del prodotto, per cui di esprimere il raggio d’azione raggiunto, se ci fossero state delle evoluzioni nelle vendite del prodotto, a livello spaziale di distribuzione, ma anche evoluzioni quantitative delle vendite nel corso del tempo, in seguito alle varie azioni di valorizzazione.

E’ stato chiesto anche se fossero forniti canali distributivi esteri e quale fosse la concorrenza a livello regionale e nazionale.

Sono state contattate in totale 13 aziende di cui 3 hanno rifiutato l’intervista, mentre le altre si sono dimostrate molto disponibili nel rispondere al meglio alle domande previste dal questionario.

L’elaborazione delle interviste e il confronto tra di esse, ha permesso il raggiungimento degli obiettivi prefissati, le risposte degli interlocutori sono state utilizzate per creare la storia delle varie aziende e descriverne l’attività, per esplicitare al meglio le informazioni acquisite relativamente ai prodotti al farro, alla loro commercializzazione e alla comunicazione ai consumatori delle caratteristiche di tali prodotti.

Nei paragrafi relativi alle storie aziendali, dopo una breve introduzione sull’azienda in questione, sono stati inseriti due sottoparagrafi, uno riguardante i prodotti aziendali offerti e quindi i prodotti al farro e l’altro attinente alla commercializzazione dei prodotti e la comunicazione con il consumatore. Questa suddivisione è stata realizzata per poter interpretare e paragonare al meglio le informazioni acquisite.

1.3 La qualità dei prodotti alimentari e i prodotti tipici

Il concetto di qualità in ambito agroalimentare è piuttosto

complesso da definire: quando si parla di qualità di un prodotto alimentare,

ci si riferisce all’insieme delle caratteristiche intrinseche al prodotto stesso,

dei requisiti e delle funzioni dell’alimento che vanno a soddisfare

determinati bisogni, in particolare del consumatore. Secondo la normativa

UNI EN ISO 9000:2005 la qualità è il “grado in cui un insieme di elementi

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distintivi intrinseci soddisfa le esigenze o le aspettative, che possono essere espresse, generalmente implicite o cogenti”.

Qualsiasi sia la natura del prodotto, infatti, la qualità totale (Total Food Quality) è data dalla somma di diversi attributi relativi ad aspetto, al livello nutrizionale, alla sicurezza, alla qualità organolettica, alla consistenza, tali da renderlo “gradevole al consumo”; comprende quindi sia caratteristiche percepite direttamente dal consumatore legate a sapore e gusto, sia caratteristiche percepite indirettamente, relative alla salubrità e anche ai servizi che il prodotto offre.

Uno studio a livello europeo condotto nel 2002, (Cavicchi A., 2008) ha evidenziato quattro dimensioni della qualità e le loro correlazioni:

quella del gusto e apparenza, che fa riferimento alle esigenze sensoriali del consumatore; quella della salubrità, elemento importante, soprattutto in seguito a diversi scandali alimentari verificatisi negli ultimi vent’anni;

quella di processo, legata cioè all’attenzione al processo produttivo e alla sua corrispondenza a disciplinari e o protocolli; e infine quella della convenience, ossia la facililtà di approvvigionamento e consumo, ma anche la praticità d’uso della confezione.

La qualità si crea inoltre nei vari passaggi della filiera, dalla produzione, passando per le varie fasi di trasformazione, per arrivare alla commercializzazione. La legislazione vigente garantisce la qualità igienico-sanitaria dei prodotti agroalimentari, che deve essere un prerequisito, piuttosto che un attributo della qualità globale e i principi dell’HACCP (Hazard Analysis Critical Control Point) stanno alla base per la garanzia della sicurezza nelle filiere agroalimentari.

Vari organi sono incaricati di verificare il rispetto delle norme nel comparto agroalimentare, anche quelle igienico-sanitarie, ma più del 50%

dei controlli sono effettuati dall’Ispettorato Centrale per la tutela della

Qualità e Repressione Frodi (ICQRF) che fa capo al MiPAAF. A livello

comunitario, è prevista, per gli Stati Membri, la stesura di un Piano

Nazionale Integrato che include controlli volti a tutelare la salute dei

consumatori e per assicurare pratiche commerciali leali per gli alimenti e

per i mangimi per animali (Gatto E., 2010). L’Ispettorato ha tra le priorità

quella di effettuare controlli a tutela delle produzioni di qualità, in modo

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che siano conformi ai rispettivi disciplinari o al metodo produttivo prescritto.

L’Italia vanta numerose produzioni di qualità che rappresentano una grande potenzialità di sviluppo e attraverso la valorizzazione di tali prodotti, è possibile incoraggiare le produzioni agricole e aiutare i consumatori a riconoscere e scegliere la qualità.

Le filiere corte, che stanno sempre più prendendo piede nel territorio europeo, sono senza dubbio un metodo per la valorizzazione dei prodotti agroalimentari di qualità. Sono diventati frequenti la vendita diretta in azienda, l’e-commerce, i mercati contadini e dei produttori ecc.: agli occhi del consumatore questo tipo di filiere rende più breve la distanza tra produzione e consumo, con un minor numero di passaggi intermedi, a garanzia della freschezza e qualità delle produzioni (Carbone A., 2006).

Inoltre tra consumatore e produttore si crea un vero e proprio rapporto di fiducia, un rapporto diretto che aiuta a mantenere nel tempo la stabilità degli sbocchi commerciali (Carbone A., 2006).

Un prodotto agroalimentare “tipico” presenta alcuni attributi di

qualità unici, che sono espressione delle specificità di un particolare

contesto territoriale; un prodotto strettamente legato ad un determinato

comprensorio, dove soprattutto le tradizioni e l’ambiente contribuiscono a

fornirgli quelle caratteristiche che lo contraddistinguono da altre produzioni

similari (Marescotti A., 2006). La memoria storica, le tecniche di

produzione, quindi le tradizioni legate alla produzione e trasformazione di

un determinato prodotto, la qualità della materia prima e la localizzazione

geografica sono i caratteri distintivi di un prodotto tipico. L’ambiente

pedoclimatico è senz’altro l’elemento più importante, infatti i fattori fisici

legati al clima (temperature, esposizione al sole, umidità, altitudine) e

quelli legati al territorio e ai terreni su cui si coltiva, vanno a instaurare

determinate condizioni che risultano essere uniche e che non è possibile

ritrovare altrove. L’opera dell’uomo, in alcuni casi, sembra avere la sola

funzione di “accompagnamento” al processo produttivo naturale, ma

spesso è invece ben evidente quanto sia indispensabile la sua azione e le

tecniche che ha acquisito da tradizioni spesso secolari (Marescotti A.,

2006). Questo accade nei prodotti tipici che richiedono diverse fasi di

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trasformazione, in cui la componente legata alle tradizioni è molto rilevante, legata a saperi tramandati oralmente da una generazione all’altra.

La storia dei prodotti tipici è strettamente legata alla storia delle persone che hanno contribuito a produrli e tramandarli nel tempo e tali prodotti rappresentano elementi identitari della popolazione locale. Allo stesso tempo però il concetto di tipicità può anche essere compatibile con la nozione di innovazione (Marescotti A., 2006): è evidente infatti che determinati processi produttivi di un determinato luogo non sono rimasti nel tempo sempre gli stessi, ma hanno subito degli adattamenti, in base a esigenze di vario tipo (commerciali, produttive, legislative, ambientali ecc.).

I prodotti tipici non sono “fossili viventi”, ma devono potersi evolvere per avere una continuità sul mercato, salvaguardando i principi della tradizione e garantire allo stesso tempo l’innovazione (Brunori G., 2006).

Per questo tutt’oggi è ammissibile introdurre alcune innovazioni per quanto riguarda la produzione dei prodotti tipici, ma in una sorta di reinterpretazione delle tradizioni.

I prodotti tipici sono strettamente legati, non ad una singola impresa, ma ad una comunità e rappresentano una grande potenzialità per la collettività locale.

1.4 I marchi di tutela

Il settore agroalimentare italiano possiede numerosi prodotti di questo tipo, ha ottenuto negli ultimi anni il primato, all’interno dell’Unione Europea, superando la Francia, (Carbone A., 2006) come numero di prodotti a Denominazione di Origine Protetta (DOP), ad Indicazione Geografica Protetta (IGP) e per le Specialità Tradizionali Garantite (STG), detti anche più generalmente marchi di tutela.

La Toscana, tra le regioni italiane, rappresenta quella a maggior

numero di prodotti DOP e IGP e a maggior numero di prodotti

agroalimentari tradizionali.

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La normativa di riferimento per quanto riguarda i primi due è il Regolamento CE 510/2006 che va a sostituire il Regolamento CEE 2081/92, e secondo cui “si intende per:

a) «denominazione d'origine», il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare: originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese, la cui qualità o le cui caratteristiche sono dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico, inclusi i fattori naturali e umani, e la cui produzione, trasformazione e elaborazione avvengono nella zona geografica delimitata;

b) «indicazione geografica», il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare: come originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese e del quale una determinata qualità, la reputazione o altre caratteristiche possono essere attribuite a tale origine geografica e la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avvengono nella zona geografica delimitata.”

Per cui questi prodotti hanno in comune il legame stretto col territorio, ma se nel caso dei prodotti DOP è necessario che tutta la filiera si articoli in un luogo specifico, per i prodotti IGP basta che solo una fase sia effettuata in uno specifico contesto geografico. Questi marchi sono detti anche “segni geografici” proprio perché associano il prodotto con l’area geografica di produzione. Anche il marchio STG va a tutelare i prodotti tipici di una determinata area geografica, ma in questo caso, il ciclo produttivo può avvenire anche in un luogo diverso da quello di origine all’interno dell’Unione Europea.

Figura 1: Rappresentazione dei marchi comunitari. Da sinistra: marchio DOP, STG e IGP.

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Questi marchi rappresentano un mezzo di tutela sia dei produttori, che vedono riconosciuta sul mercato la qualità delle proprie produzioni, sia per i consumatori che vedono nei prodotti tipici un bene di qualità e fiducia: è previsto un Disciplinare di produzione a cui tutti i produttori devono attenersi e un Organismo di controllo, che verifica periodicamente l’effettiva conformità alle norme.

La decisione da parte delle aziende di utilizzare un marchio è legata a una serie di costi e benefici, connessi sia alle caratteristiche dell’impresa sia all’intero sistema produttivo, è legata quindi alle strategie aziendali adottate e dal mercato servito. Generalmente per le aziende che operano su canali lunghi, rispetto a quelle orientate su canali di commercializzazione locali, l’adozione del marchio geografico risulta essere promettente ed efficace (Belletti G, Marescotti A., 2007).

Per quanto riguarda i costi legati al marchio un punto importante è la stesura del Disciplinare: infatti eccessive specificazioni possono comportare un aumento di costi diretti e indiretti, scoraggiando le imprese all’adozione del marchio. I benefici che le aziende traggono dall’utilizzo del marchio invece sono spesso legati alla reputazione del nome geografico utilizzato (Belletti G, Marescotti A., 2007).

Il territorio, inteso non solo come ambiente (climatico e pedologico), ma anche sotto il profilo storico-economico, sociologico e culturale, è un elemento di dipendenza dei prodotti DOP e IGP: è questa relazione che rende il prodotto a marchio diverso da altri della stessa categoria e col riconoscimento del marchio e l’Unione Europea conferisce la vigilanza e protezione sul prodotto da usurpazioni del nome (Lazzarotti C., Giorgi W., 2004).

1.5 La registrazione del nome di un prodotto

I marchi comunitari dei prodotti tipici rappresentano una garanzia

per il consumatore della qualità di ciò che decidono di acquistare: la

procedura per arrivare alla certificazione richiede tempi piuttosto lunghi e

consiste in diversi passaggi che servono anche a verificare l’effettivo

valore e la tipicità del prodotto. Innanzitutto devono essere ben definiti i

parametri chimici, fisici, microbiologici e organolettici del prodotto e i

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metodi standard da utilizzare per valutare tali parametri. Vengono analizzati diversi campioni del prodotto in esame e di altri analoghi da cui si pensa che possa distinguersi: i dati sono raccolti ed elaborati statisticamente in diverse annate, per determinare i parametri analitici che caratterizzano e distinguono il prodotto da altri similari.

La richiesta per la valorizzazione del prodotto viene effettuata da un gruppo di produttori o trasformatori, che riferiscono all’autorità regionale il nome del prodotto, l’area di provenienza, i metodi di ottenimento del prodotto e le strutture di controllo. La Circolare del Ministero per le Politiche Agricole e Forestali (MiPAF) n. 4 del 28 giugno 2000 definisce le caratteristiche che deve avere il soggetto proponente la denominazione e la documentazione necessaria per presentare la domanda di riconoscimento (Lazzarotto C., Giorgi W., 2004).

La regione esamina il caso ed esprime il suo giudizio in merito, poi il Ministero delle Politiche Agricole Ambientali e Forestali indìce una pubblica audizione al riguardo: dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, eventuali opposizioni devono essere presentate entro trenta giorni. In mancanza di tali opposizioni, la decisione del Ministero è trasmessa alla Commissione Europea, che deve esaminare la documentazione ricevuta e prendere la decisione finale sul caso entro sei mesi. Dopodiché viene effettuata la pubblicazione della scheda del prodotto e del disciplinare di produzione sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea. Entro sei mesi dalla pubblicazione qualsiasi stato membro può opporsi, ma trascorso tale periodo, se non ci sono ricorsi, il prodotto viene registrato nel Registro Comunitario delle DOP e IGP (Lazzarotto C., Giorgi W., 2004).

La registrazione del nome di un prodotto dà diritto solo ai

produttori che si conformano al disciplinare di utilizzarne il nome

geografico.

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