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Capitolo 1

Introduzione

Nel primo capitolo dello studio, sono riportati i riferimenti normativi che riguardano la procedura di Valutazione di Impatto Ambientale e il Riutilizzo delle acque reflue.

Per quanto riguarda la Valutazione di Impatti, sono analizzate le norme internazionali, con particolare riferimento alla normativa della Comunità Europea e degli Stati Uniti; la normativa nazionale e infine la normativa regionale, nel caso specifico della Regione Toscana. Si analizzano poi, particolari tipi di opere soggette alla procedura di VIA : i porti.

Per le acque, si fa riferimento sia alla passata che alla più recente normativa nazionale sulla Tutela delle acque (D.Lgs.152/99) e sul Riutilizzo delle acque reflue (D.Lgs.185/03).

Lo studio considera poi, due metodologie di trattamento di finitura per reflui urbani : la depurazione naturale mediante l’ipotesi della fitodepurazione, e l’alternativa possibile, mediante un sistema di trattamento tecnologico classico comprendente una fase a chiariflocculazione, una filtrazione e una disinfezione U.V.

Infine, si riportano alcuni lineamenti di Teoria Economica Ambientale

sull’Analisi Costi/Benefici che potranno essere applicati alle due tipologie di

impianto proposte nello studio.

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1.1 La Valutazione di Impatto Ambientale : riferimenti normativi

internazionali, nazionali e regionali.

1.1.1 Riferimenti normativi internazionali

Il 27 giugno 1985 il Consiglio della Comunità Europea approvava la normativa 85/337/CEE concernente la Valutazione di Impatto Ambientale di progetti pubblici e privati. In data 3 luglio 1985 la direttiva veniva notifica agli Stati Membri. La procedura di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) rappresenta una delle modalità per far fronte all’esigenza, posta dall’accresciuta sensibilità sociale, di garantire la compatibilità tra sviluppo tecnologico e ambiente.

La VIA si definisce come il procedimento amministrativo teso a valutare gli effetti delle azioni tecnologiche nel rispetto dell’ambiente.

Tra le motivazioni che hanno portato alla sua introduzione, seppure con modalità e procedure parzialmente diverse nei vari Paesi, ve ne sono alcune particolarmente rilevanti, che possono esser così sintetizzate :

• Il progressivo degrado ambientale, per il quale occorre invertire la linea di tendenza attraverso opportuni correttivi;

• La scarsa considerazione degli aspetti ambientali nella programmazione degli interventi in materia di sviluppo industriale;

• I limiti intrinseci di metodologie scientifiche (come l’analisi rischi- benefici) per valutare l’accettabilità di interventi a potenziale elevato impatto ambientale;

• La necessità di tener conto del parere dell’opinione pubblica nei processi decisionali;

• La considerazione di molti processi decisionali, in assenza di uno

strumento quale la procedura di VIA, si trovano in una situazione di

sostanziale immobilismo.

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Così, fin dai primi tentativi di normativa a livello internazionale, la Valutazione di Impatto Ambientale, venne definita come “analisi e valutazione preventiva degli effetti indotti da un determinato progetto sull’ambiente, cioè sul complesso di fattori naturali, sociali, culturali ed economici che caratterizzano l’area circostante il sito coinvolto nel progetto stesso”.

La procedura di valutazione persegue la ricerca delle vocazioni territoriali che sole possono legittimare le scelte tecnologiche e produttive, armonizzando l’ambiente con le esigenze del processo di sviluppo economico.

La VIA negli Stati Uniti

I principali scopi della VIA furono già stabiliti dal National Enviromental Policy Act (NEPA), emanato dagli U.S.A. nel 1970, e sono tuttora sostanzialmente validi : assicurare che ogni generazione sia garante dell’ambiente nei riguardi delle generazioni future; assicurare a tutti i cittadini un ambiente sicuro, sano, produttivo, esteticamente e culturalmente confortevole; ottenere dall’ambiente il massimo beneficio, senza provocarne il degrado sia temporaneo sia permanente; preservare gli aspetti storici, culturali e naturali del patrimonio nazionale e salvaguardare, per quanto possibile, la diversità delle scelte individuali; realizzare un equilibrio fra popolazione e uso delle risorse che permetta elevate condizioni di vita e ampia ridistribuzione delle condizioni di benessere; favorire un crescente ricorso alle risorse rinnovabili per il riciclo delle risorse esauribili.

Il NEPA sottopone a valutazione di impatto ambientale le attività degli Stati e delle Agenzie federali suscettibili di avere un impatto di notevole rilievo sull’ambiente, assoggettando a valutazione tutti gli interventi che possono comprometterlo seriamente e quindi, oltre a specifiche opere, anche i piani, i programmi, le politiche, le formulazioni di legge e i regolamenti.

Sono le Agenzie Federali a decidere se predisporre o meno uno studio di

impatto ambientale (Enviromental Impact Statement, E.I.S.). A tale decisione

è propedeutico un esame preliminare della rilevanza dell’impatto dell’opera

progettata sull’ambiente (Enviromental Assessment) che deve valutarne le

prevedibili conseguenze ambientali, le possibili alternative e le motivazioni

per giungere ad individuare una soluzione che contemperi da un lato le

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dell’ambiente. Nel caso in cui l’Agenzia non ritenga necessario redigere uno studio di impatto, predispone un documento, che viene reso pubblico, in cui si dà conto dell’esecuzione del progetto dalla procedura per l’inesistenza di impatti rilevanti.

Negli Stati Uniti, l’applicazione della procedura di VIA è prevista per “oggetti”

molto diversi tra loro, quali :

1. Atti normativi (proposte di legge, direttive, regolamenti);

2. Atti pianificatori (piani regolatori, energetici, del traffico);

3. Grandi opere pubbliche e private;

4. Nuovi prodotti e tecnologie.

La VIA in Europa

Nell’Unione Europea ed in Italia l’applicazione della VIA è per ora sostanzialmente riferita soltanto alle grandi opere pubbliche e private. I criteri per la selezione delle opere da assoggettare a VIA si basano su considerazioni che riguardano la specificità, la dimensione dell’opera e la sensibilità del sito. E’ prevedibile che in futuro la procedura di VIA venga estesa a numerose tipologie di opere, piani, programmi o tecnologie; ad esempio la Legge n. 84 del 1994, già prevede che i Piani Regolatori Portuali dei principali porti italiani siano assoggettati a tale procedura.

La normativa in materia di VIA nel nostro paese, pur essendo relativamente recente, è in fase di continua evoluzione, poiché è necessario tener conto, aggiornandoli, dei requisiti tecnici, economici, sociali e di accettabilità pubblica che devono essere soddisfatti. Occorre inoltre sottolineare che la normativa italiana in materia ambientale trae sovente lo spunto dalla necessità di recepire Direttive emanate dalla Unione Europea, che a sua volta hanno riproposto in larga misura quanto precedentemente sperimentato in paesi come gli Stati Uniti.

La direttiva 85/337/CEE viene introdotta successivamente al Trattato di Roma del 1957, in un momento precedente rispetto all’adozione dell’Atto Unico Europeo del 1 luglio 1987.

A questo proposito è necessario sottolineare che nella direttiva 85/337, al

pari di tutti gli atti comunitari relativi alla materia ambientale adottati

precedentemente all’Atto Unico Europeo, e sebbene in assenza di norme

riferite esplicitamente all’ambiente, si faceva ricorso agli art. 100 e 235 del

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Trattato : l’art. 100 dispone che : “…il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposte della Commissione, stabilisce direttive volte al riavvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati che abbiano un’incidenza diretta sull’instaurazione o sul funzionamento del mercato comune..”

L’art. 235 invece, attribuisce al Consiglio della CEE, “poteri impliciti” , e cioè tutti quei poteri necessari per il raggiungimento degli scopi della Comunità Europea laddove il trattato non prevede poteri di azione specifici, ma soltanto generici riferimenti al miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei cittadini e all’armonico sviluppo delle attività economiche degli Stati membri.

In seguito, con l’adozione dell’Atto Unico Europeo, vengono introdotte disposizioni relative all’ambiente considerato come “una componente essenziale delle politiche economiche, industriali, agricole e sociali delle Comunità e dei suoi Stati membri”, pur se gli art. 100 e 235 del Trattato continuano a svolgere una funzione di riferimento per l’applicazione di principi comunitari in materia ambientale.

E proprio al principio comunitario della prevenzione si ispira la procedura di valutazione di impatto ambientale, introdotta a livello comunitario dalla direttiva 85/337/CEE. Si legge infatti nelle premesse che si è proceduto

“considerando che i programmi di azione delle Comunità Europee in materia ambientale del 1973, del 1977, e del 1983, i cui orientamenti generali sono stati approvati dal Consiglio delle Comunità Europee e dai rappresentanti dei Governi degli Stati membri, sottolineando che la migliore politica ecologica consiste nell’evitare fin dall’inizio inquinamenti ed altre perturbazioni anziché combattere successivamente gli effetti, e affermando che in tutti i processi tecnici di programmazione e di decisione si deve tener subito conto delle eventuali ripercussioni sull’ambiente; che a tal fine prevedono l’adozione di procedure per valutare queste ripercussioni”.

Inoltre, in base all’art. 2, comma 1 : “gli Stati membri adottano le

disposizioni necessarie affinché, prima del rilascio dell’autorizzazione, per i

progetti per i quali si prevede un impatto ambientale importante,

segnatamente per la loro natura, le loro dimensioni o la loro ubicazione,

formino oggetto di una valutazione del loro impatto”.

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La proposta di direttiva, è stata presentata al Consiglio nel giugno del 1980, ma ci sono voluti cinque anni per arrivare all’approvazione del testo definitivo. Infatti il 7 marzo 1985 veniva raggiunto l’accordo sulla direttiva dal Consiglio dei Ministri, durante la presidenza italiana, mentre l’approvazione avveniva il 27 giugno 1985.

L’art. 3 della direttiva, che individua gli elementi fatti oggetto della valutazione, fornisce implicitamente un’importante definizione di ambiente.

Esso, infatti, prevede che la “la VIA individua, descrive e valuta, in modo appropriato, per ciascun caso particolare… gli effetti diretti e indiretti di un progetto su i seguenti fattori :

• L’uomo, la fauna, la flora;

• Il suolo, l’aria, il clima, il paesaggio;

• L’interazione tra i fattori di cui al primo e al secondo punto;

• I beni materiali e il patrimonio culturale;

L’art. 3 pone, quindi, in evidenza il carattere della procedura di VIA, che, partendo da una valutazione globale, comprensiva anche dell’interazione tra i vari fattori previsti dall’articolo, e degli effetti sull’uomo, arriva a valutare gli stessi effetti sull’ambiente. La formulazione dell’art. 3 evidenzia la portata globale e intersettoriale della valutazione, precisando che gli effetti di un progetto sull’ambiente devono essere valutati “per conservare la capacità di riproduzione dell’ecosistema in quanto risorsa essenziale di vita”.

La direttiva 85/337/CEE prevede che siano sottoposti a procedura di VIA “..i progetti pubblici e privati che possono avere un impatto ambientale importante..” (art. 1).

Concetto quest’ultimo che si ricava in via di massima dall’art. 2 che prescrive agli Stati membri di adottare disposizioni necessarie affinché, prima del rilascio dell’autorizzazione siano assoggettati a Valutazione di Impatto Ambientale i progetti per i quali si prevede un impatto ambientale importante “..segnatamente per la loro natura, le loro dimensioni o la loro ubicazione..” (art. 2).

La direttiva fornisce all’art. 1 alcune definizioni di espressioni contenute nel

testo, per garantire un recepimento uniforme dell’ambito degli ordinamenti

degli Stati Membri. Ai sensi della direttiva deve intendersi per “progetto” : la

realizzazione di lavori di costruzione o di altri impianti od opere, altri

interventi su ambiente naturale e paesaggio, compresi quelli destinati allo

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sfruttamento delle risorse del suolo; “committente” : il soggetto che richiede l’autorizzazione relativa ad un progetto o la Pubblica Autorità competente che prende l’iniziativa relativa ad un progetto; “autorizzazione” : decisione del progetto; “Autorità competente” : l’autorità designata dagli Stati membri per assolvere i compiti derivanti dalla direttiva.

La distinzione tra i progetti di cui all’Allegato I da quelli elencati nell’Allegato II risiede, nel fatto che mentre in relazione ai primi gli Stati Membri devono attivare obbligatoriamente la procedura di Valutazione di Impatto Ambientale, in quanto si è ritenuto che tali progetti abbiano un impatto rilevante sull’ambiente, in base all’art. 2, comma 1, della direttiva 85/337/CEE, relativamente ai progetti di cui all’Allegato II, il legislatore comunitario ha precisato che la “natura di tali progetti permette di ritenere che essi possano, in taluni casi, avere un impatto ambientale importante”

(art. 4, comma 2). Gli Stati membri possono anche provvedere ad estendere la categoria dei progetti sottoposti obbligatoriamente a VIA.

La procedura ha inizio con una Prima Fase (Iniziativa) in cui il proponente presenta uno Studio di Impatto Ambientale (SIA), in osservanza del principio comunitario di causalità in base al quale fanno capo al soggetto inquinatore le spese per la prevenzione delle attività nocive per l’ambiente. Lo studio deve contenere almeno una descrizione del progetto con informazioni relative alla sua ubicazione, progettazione e dimensioni; una descrizione delle misure che si prevedono per evitare, ridurre e compensare rilevanti effetti negativi; i dati che risultino necessari per l’individuazione e valutazione dei principali effetti che il progetto può avere sull’ambiente, insieme a una sintesi non tecnica delle informazioni fornite.

Per porre il committente in condizioni di fornire dati esatti la direttiva prevede che “gli Stati Membri, qualora lo reputino necessario, provvedono affinché le Autorità mettano a disposizione del committente le informazioni appropriate di cui dispongono” (art. 5, comma 3), e ciò in quanto molte delle informazioni ambientali di cui necessita il committente dovrebbero essere in possesso di determinate Amministrazioni Pubbliche competenti in materia.

Altra fase è quella dell’informazione al pubblico che deve avere la possibilità

di esprimersi prima dell’avvio del progetto (art. 6, comma 2). Le modalità di

consultazione sono lasciate alla determinazione degli Stati membri, che

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di impatto ambientale e la consultazione di essi da parte del pubblico in una fase precedente alla decisione di progetto. La fase di informazione e partecipazione del pubblico rappresenta un elemento fondamentale della procedura di VIA in osservanza del principio comunitario della partecipazione popolare affermato nei cinque programmi d’azione per l’ambiente.

L’ultima fase prevista è quella della decisione. In tale fase le informazioni raccolte nel procedimento devono essere prese in considerazione dall’Autorità competente. Secondo la direttiva la decisione viene predisposta in base a criteri di valutazione che sono propri anche degli studi di impatto ambientale (art. 5), e deve considerare i possibili impatti che può avere un progetto sull’ambiente, compresi gli impatti positivi. A norma dell’art. 3 la valutazione di impatto ambientale deve prendere in considerazione gli effetti diretti e indiretti di un progetto sull’uomo, la fauna, la flora, insieme all’interazione tra i fattori elencati nello stesso articolo, nell’ottica di valutare l’impatto dell’opera sui singoli elementi ambientali e sull’ambiente costituito dall’interrelazione di tali fattori.

La procedura di VIA si conclude con l’emissione di un parere, che ha la funzione di fornire all’Autorità decidente gli elementi tecnici riguardanti gli effetti derivanti dalla realizzazione di un progetto sull’ambiente, per consentire all’Amministrazione attiva di operare la scelta migliore fra quelle possibili.

La direttiva 85/337/CEE è stata modificata dalla direttiva 97/11/CE, con delibera del Consiglio del 3 marzo 1997. La direttiva ribadisce il principio comunitario della prevenzione, in base al quale la procedura di VIA deve essere preventiva al rilascio dell’autorizzazione (art. 2).

La direttiva 97/11/CE, nel chiarire che gli Stati membri devono assoggettare alla procedura di valutazione di impatto ambientale i progetti che possono avere effetti sull’ambiente, definisce le modalità in base alle quali gli stessi devono stabilire se un progetto ricompreso nell’Allegato II debba essere sottoposto a VIA.

La direttiva 97/11/CE prescrive che gli Stati membri adottino i provvedimenti

necessari perché l’Autorità competenti diano il proprio parere su richiesta del

committente prima di presentare la domanda di pronuncia di compatibilità

ambientale oppure qualora le Autorità competenti lo ritengano necessario. Il

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committente può, inoltre, chiedere un parere alle Autorità competenti anche successivamente (art. 5, comma 2).

Altra novità è rappresentata da un maggiore interesse per l’informazione con l’introduzione dell’obbligo per il committente di fornire una “descrizione sommaria delle principali alternative prese in esame dal committente, con l’indicazione delle principali ragioni di scelta, sotto il profilo dell’impatto ambientale” (art. 5, comma 3).

Altre importanti novità riguardano l’ampliamento delle categorie di opere sottoposte a VIA ricomprese nell’Allegato I e la precisazione e migliore definizione di alcune categorie di opere incluse negli Allegati I e II.

1.1.2 Riferimenti normativi nazionali

In Italia il diritto ambientale costituisce una disciplina di recente formazione che si è sviluppata soprattutto grazie alla spinta evolutiva del legislatore comunitario e all’opera interpretativa della giurisprudenza.

Nella Costituzione Italiana del 1948 non troviamo l’esigenza di tutela dell’ambiente ma del paesaggio (art. 9) e di tutela della salute (art. 32) come interesse collettivo e diritto del singolo. Si fa riferimento alle regioni in materia urbanistica ed all’esigenza razionale di sfruttamento del suolo e al diritto di proprietà collegato alla funzione sociale della cosa.

Nella modifica alla Costituzione del 2001, si ha riferimento preciso alla tutela dell’ambiente con individuazione dei settori di intervento dello Stato.

Attraverso una interpretazione estensiva del diritto alla tutela del paesaggio siamo arrivati a riconoscere il diritto dei cittadini a un ambiente integro, considerando il paesaggio come tutto ciò che circonda l’uomo.

Successivamente si è considerato l’ambiente come Bene Giuridico : ovvero come bene unitario, immateriale giuridicamente riconosciuto e tutelato nella sua unitarietà, e costituito da altri beni comunque collegati al bene immateriale unitario. Nasce così la concezione di bene economico valutabile per le lesioni ad esso apportate ed è comunque bene unitario anche se composto da più fattori che possono essere oggetto di tutela separata;

superando così l’impostazione precedente di ambiente visto come paesaggio e

la sua tutela relativa alle bellezze naturalistiche, o rivolta alla salute, o per

interventi di tipo urbanistico sul territorio.

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Essendo un bene giuridico unitario, comporta l’esistenza dei diritti da parte dei singoli per la salvaguardia e la tutela nonché un obbligo da parte dei soggetti pubblici di promuovere azioni per la sua salvaguardia.

In una più recente definizione della Corte Costituzionale, l’ambiente è considerato come un bene giuridico, unitario, fonte di ricchezze di cui ognuno può usufruire integralmente senza con ciò privarne della sua funzione ad altri. E’ un bene fonte di ricchezza a vantaggio suscettibile di approvazione esclusiva nei confronti dei singoli elementi che lo compongono di cui tutti possono usufruire, ma è anche un insieme di fattori che possono essere oggetto di una appropriazione esclusiva da parte dei singoli. Diventa per cui sia un bene collettivo (se riferito a bene giuridico unitario e immateriale) sia un bene individuale (se riferito ai singoli fattori).

In attuazione dei precetti costituzionali, come qualificati dall’interpretazione della giurisprudenza, viene emanata la legge n. 349/86, istitutiva del Ministero dell’Ambiente che, tra l’altro, recepisce la direttiva n. 85/337/CE sulla valutazione di impatto ambientale.

L’art. 1, comma 2, riporta : “E' compito del Ministero assicurare, in un quadro organico, la promozione, la conservazione ed il recupero delle condizioni ambientali conformi agli interessi fondamentali della collettività ed alla qualità della vita, nonchè la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale nazionale e la difesa delle risorse naturali dall'inquinamento.”

Uno degli strumenti fondamentali per conseguire questi obbiettivi, è rappresentato dalla procedura di impatto ambientale, considerata dalla dottrina come strumento cardine per assicurare la tutela globale dell’ambiente.

In Italia la disciplina relativa alla valutazione di impatto viene introdotta per la prima volta con la legge n. 349/86. Tale legge dispone all’articolo 6 che entro sei mesi dalla entrata in vigore della legge il Governo presenti al Parlamento il disegno di legge di attuazione delle direttive CEE in materia di impatto ambientale.

Successivamente, viene emesso il DPCM 10 agosto 1988, n. 377, che

individua “le norme tecniche e le categorie di opere in grado di produrre

rilevanti modificazioni dell’ambiente” , in attesa dell’attuazione legislativa

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della normativa comunitaria (secondo quanto dispone l’art. 6 della legge 349/86).

Il Decreto n. 377, ha introdotto una normativa transitoria, in attesa dell’approvazione di un disegno di legge più organico. Ad esso è seguito il DPCM 27 dicembre 1988 recante norme tecniche per la redazione degli studi di impatto ambientale da parte del committente del progetto e la formulazione del giudizio di compatibilità ambientale da parte del Ministero dell’Ambiente.

Sono sottoposte alla procedura di valutazione le tipologie di opere ricomprese nell’elenco di cui all’art. 1 del DPCM 10 agosto 1988 n. 377. Le opere che devono essere necessariamente assoggettate in via preventiva alla procedura di Valutazione di Impatto Ambientale sono quelle di cui all’Allegato 1 della direttiva CEE, con l’aggiunta delle opere idrauliche previste dalla lettera I.

Successivamente la procedura di VIA è stata estesa anche ad opere previste nell’Allegato II della Direttiva. I progetti di opere da assoggettare a VIA sono i progetti di massima delle opere stesse, “prima che i medesimi vengano inoltrati per i pareri, le autorizzazioni, i nulla-osta e gli altri atti previsti dalla normativa vigente, e, comunque, prima dell’aggiudicazione dei relativi valori” (art. 2, comma 1, del DPCM n. 377).

Tali progetti per definizione vanno individuati in quei piani che prevedono

“di massima” e in grande scala le modalità di realizzazione di un’opera principale, senza che vengano descritti in modo dettagliato tutti gli interventi minori che si intendono porre in essere.

Con la legge 59/97, comunemente definita Riforma Bassanini, si dà risalto al principio di sussidarietà, principio in base al quale gli interventi della Pubblica Amministrazione avvengono a livello di governo più vicino ai cittadini, con l’eccezione che se l’intervento non assicura in modo efficace ed efficiente il raggiungimento dell’obbiettivo da raggiungere, si sale al livello di governo più idoneo o superiore. Il principio di sussidiarietà opera con un criterio di distribuzione delle competenze a livello di governo più vicino ai cittadini per poi eventualmente individuare interventi di livello più adeguati, in particolar modo Regioni, Province e Comuni.

Con il decreto n. 112/98 che ha attuato la Legge Bassanini, alle Regioni sono

delegate tutte quelle competenze nelle materie che non erano espressamente

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adeguando la normativa a situazioni locali specifiche, e in particolar modo in campo ambientale spettano loro competenze in materia di territorio e urbanistica, in piani di indirizzo territoriale e di coordinamento, informazione ed educazione ambientale.

1.1.3 Riferimenti normativi regionali

La normativa della Regione Toscana

La Legge Regionale del 3 novembre 1998 n. 79, “Norme per l’applicazione della valutazione di impatto ambientale” riporta nelle finalità, art. 2 comma 1,

“La Regione , nell’ambito della programmazione territoriale, socio- economica, ed ambientale rivolta al perseguimento di uno sviluppo sostenibile, garantisce che le decisioni amministrative relative ai progetti ed agli interventi di cui all’art. 1, siano prese nell’esigenze di salvaguardia e tutela :

a) della salute umana, della conservazione delle risorse, nonché del miglioramento della qualità della vita;

b) della protezione e conservazione delle risorse naturali;

c) della sicurezza del territorio.”

E nell’art. 2 “…la procedura di V.I.A., nel rispetto dei principi posti dall’art.

4, individua, descrive e valuta preventivamente l’impatto ambientale dei progetti ed interventi pubblici e privati alla stessa sottoposti, con riguardo agli effetti sull’ambiente, inteso come sistema interrelato di risorse naturali e umane, ed in particolare, sugli esseri umani, la vegetazione, la fauna, il suolo, il sottosuolo, l’aria, l’acqua, il clima, le risorse naturali, l’equilibrio ecologico, l’ambiente edificato, il patrimonio storico, archeologico, architettonico e artistico, il paesaggio e l’ambiente socio-economico”.

Nell’art. 7 della stessa Legge, sono definite le competenze delle varie amministrazioni locali: Regione, Province, Comuni ed Enti Parco.

Al comma 1 e seguenti, competenze della Regione, tutte le procedure di VIA relative ai progetti ricompresi nelle tipologie di cui agli Allegati A1 e B1, nonché quelli di cui al comma 5 dell’articolo 5.

Competenze delle Province tutte le procedure relative ai progetti ricompresi

nelle tipologie degli Allegati A2 e B2, e quelli ricompresi nelle tipologie di cui

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agli Allegati A3 e B3, la cui localizzazione interessi il territorio di due o più Comuni.

Competenze dei Comuni, le procedure relative ai progetti ricompresi, nelle tipologie degli Allegati A3 e B3, che ricadano interamente nell’ambito del territorio del Comune.

Per gli Enti Parco regionali, invece, le procedure di VIA relative a tutte le

tipologie progettuali elencate dai commi precedenti, qualora ricadano, anche

parzialmente, all’interno dei parchi medesimi.

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1.2 Opere soggette a V.I.A. : i porti

In tutta la normativa che regolamenta la valutazione di impatto ambientale, troviamo riferimenti alla regolamentazione dei progetti per i porti. Tali progetti rientrano negli allegati I e II delle direttive comunitarie, nonché nella legislazione nazionale e locale, e sono percui sottoposti a valutazione di impatto ambientale sia obbligatoria sia facoltativa a descrizione degli Stati membri.

In particolar modo, nella direttiva comunitaria 85/337/CEE, nell’Allegato I

“Progetti di cui all’articolo 4, paragrafo 1” si trova al comma 8, “Porti commerciali marittimi, nonché vie navigabili e porti per la navigazione interna accessibili a battelli con stazza superiore a 1350 t.”.

Mentre nell’Allegato II “Progetti di cui all’articolo 4, paragrafo 2”, al paragrafo 10 riguardante i progetti d’infrastruttura, il comma j) porta il riferimento ai porti turistici.

Nella direttiva 97/11/CE, invece l’Allegato I, paragrafo 8 comma 1 e 2, “Vie navigabili e porti per la navigazione interna accessibili a battelli con stazza superiore a 1350 t.” , e “Porti marittimi commerciali, moli di carico e scarico collegati con la terraferma e l’esterno dei porti (esclusi gli attracchi per navi traghetto) che possono accogliere navi di stazza superiore a 1350 tonnellate

“.

Nell’Allegato II, tra i progetti di infrastrutture, il comma e), “Costruzione di strade, porti e impianti portuali, compresi i porti di pesca (progetti non compresi nell’allegato I ) “.

Nella legislazione italiana, il D.P.C.M. 10 agosto 1998, n. 377

“Regolamentazione delle pronunce di compatibilità ambientale di cui all’art. 6 della legge 8 luglio 1986, n. 349, recante istituzione del Ministero dell’ambiente e norme in materia di danno ambientale”, riporta tra le categorie di opere menzionate all’art. 1, sottoposte a procedura di valutazione di impatto ambientale, il comma h) “ Porti commerciali marittimi, nonché vie navigabili e porti per la navigazione interna accessibili a battelli con stazza superiore a 1350 t.”

Il D.P.R. 12 aprile 1996 “Atto di indirizzo e coordinamento per l’attuazione

dell’art. 40, comma 1, della Legge 22 febbraio 1994, n. 146, concernente

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disposizioni in materia di valutazione di impatto ambientale” riporta nell’Allegato A i progetti assoggettati alla procedura di valutazione di impatto ambientale, e al comma h di tale allegato : “ Porti turistici e da diporto quando lo specchio d’acqua è superiore a 10 ha o le aree esterne interessate superano i 5 ha, oppure i moli sono di lunghezza superiore ai 500 metri”.

Nell’Allegato B, invece sono riportati quei progetti assoggettati alla procedura di valutazione di impatto ambientale che ricadono, anche parzialmente, all’interno di aree naturali protette come definite dalla legge 6 dicembre 1991, n. 394 (art. 1, comma 4) e in particolare per i progetti di opere o di impianti ricadenti all’interno di aree naturali protette, le soglie dimensionali sono ridotte del 50% (art. 1, comma 5); “porti turistici e da diporto con parametri inferiori a quelli indicati nella lettera h) dell’allegato A, nonché progetti di intervento su porti già esistenti”.

Il Ministero dell’Ambiente, si pronuncia con una Circolare del 30 marzo 1990, pubblicata sulla G.U. n. 87 del 13 aprile 1990, in merito all’ “assoggettabilità alla procedura di impatto ambientale dei progetti riguardanti i porti di seconda categoria classi II, III e IV, ed, in particolare i “porti turistici”. Art. 6, comma 2, della legge 8 luglio 1986, n. 349 e D.P.C.M. 10 agosto 1988, n. 377”.

Nella circolare, veniva richiesto un chiarimento sul tema in oggetto in quanto l'art. 1, lettera h), del D.P.C.M. 10 agosto 1988, n. 377, ha incluso tra i progetti delle opere sottoposti alla procedura di valutazione d'impatto ambientale quelli dei "porti commerciali marittimi", riproducendo la definizione usata nella direttiva CEE 27 giugno 1985, n. 337, che però non trova un puntuale riscontro nelle classificazioni utilizzate dalla normativa interna.

Il Consiglio di Stato, Seconda Sezione, con il parere n. 851/89, ha rilevato, concordando con la formulazione del quesito posto, che la denominazione di

"porto commerciale" non è derivata da norme di diritto positivo previgenti alla direttiva del 1985, ma viene tradizionalmente usata per connotare i porti destinati al ricovero ed approdo delle navi mercantili, che effettuano il traffico marittimo di merci e/o di persone.

Di contro, l'attuale ordinamento amministrativo dei porti nazionali, che risale al Testo Unico 2 aprile 1885, n.3095, suddivide i porti in due categorie (art.

2).

La prima, comprende i porti che interessano la navigazione generale o la

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Sotto questo profilo, questi porti sono anch'essi commerciali, come si desume dal successivo art. 6, secondo comma, il quale dispone che occorrendo per essi

"lavori interessanti il commercio, la competenza nelle spese si regolerà come nei porti, cui potrà quello scalo essere assimilato"; la seconda categoria ricomprende i porti che servono precipuamente al commercio, suddivisi in quattro classi :

1) i porti il cui movimento commerciale abbia una intensità tale da interessare il traffico marittimo internazionale ed una estesa parte dello Stato;

2) i porti il cui movimento commerciale interessi una o più province;

3) i porti che sono di interesse di una parte notevole di una sola provincia;

4) i porti (ed inoltre i seni, i golfi e le spiagge) che non risultano

assegnabili (quanto ad estensione territoriale della loro utilità ed a quantità di merce movimentata) alle tre classi precedenti.

Pertanto, conclude sul punto il parere del Consiglio di Stato, sia i porti della prima categoria (se e per la parte in cui non siano destinati alla difesa militare ed alla sicurezza dello Stato), sia quelli delle quattro classi della seconda categoria sono da considerare porti commerciali marittimi, rientranti dunque nella procedura di valutazione d'impatto ambientale. Nel medesimo ambito entrano anche le più recenti innovazioni tecnico-operative in materia di portualità, che vengono realizzate in conseguenza della continua evoluzione della tecnica e dei traffici marittimi (i cosiddetti "terminali" di materie energetiche - carboni, petroli, gas -, o di merci varie trasportate in

"containers", ed i cosiddetti porti industriali, sorti al servizio e per le necessità di importazione ed esportazione di stabilimenti dell'industria pesante - soprattutto siderurgia - o di altre industrie massive ed estrattive - potassa, soda, pomice, cemento ecc. o di industrie chimiche).

Ne consegue, pertanto, che i progetti delle opere portuali in questione devono essere sottoposti alla procedura di valutazione dell'impatto ambientale, a norma dell'art. 1, comma 1 lettera h), del D.P.C.M. 10 agosto 1988, n. 377, e dell'art. 6 della legge n. 349/1986, ferma naturalmente l'applicazione della disciplina transitoria di cui all'art. 1, comma 2, citato.

Diverse considerazioni vanno, invece, svolte per i cosiddetti "porti turistici".

Questi, infatti, secondo l'interpretazione seguita dall'organo consultivo, si

differenziano da quelli commerciali, destinati al ricovero ed approdo delle

(17)

navi mercantili, in quanto essi sono destinati - almeno precipuamente, perché un 25% dello spazio destinato all'ormeggio va di regola destinato a rifugio anche di naviglio diverso - alla sosta ed al ricovero (spesso per tempi superiori a quelli della navigazione) di unità da diporto, nonché ad attività accessorie alla navigazione di tali unità.

Opportunamente quindi, secondo il Consiglio di Stato, la direttiva CEE 27 giugno 1985, n.337, ha disciplinato in modo diverso i "porti commerciali marittimi" ed i "porti turistici", introducendo i primi nell'allegato 1 (cioè tra i progetti che debbono formare oggetto di valutazione), ed i secondi nell'allegato 2 (cioè tra i progetti che formano oggetto di valutazione "quando gli Stati membri ritengano che le loro caratteristiche lo richiedono"). Pertanto, poiché il D.P.C.M. 10 agosto 1988, n. 377, ha assoggettato alla valutazione dell'impatto ambientale tutti i progetti elencati nel ricordato allegato 1, mentre, per quanto riguarda l'allegato 2, ha menzionato soltanto le dighe (e, di queste, solo in quanto d'altezza superiore a 10 m e/o di capacità superiore a 100.000 mc), i porti turistici non possono considerarsi inclusi, allo stato, tra le opere i cui progetti vanno sottoposti alla procedura di valutazione di cui all'art. 6 della legge n. 349/86. Per quanto concerne l'identificazione dell'impianto portuale definibile come porto turistico, potrà farsi riferimento ad una serie di indicatori, alla stregua di quanto disposto all'art. 2, lettera h, del D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 8, quali l'appartenenza dell'impianto stesso ad appositi piani predisposti ed attivati dalle regioni, le conseguenti definizioni contenute nelle leggi regionali ove esistenti, la destinazione di una quota pari al 75% ad unità da diporto, i contenuti specifici dei progetti stessi ed altri eventualmente ritenuti rilevanti.

Va evidenziato che tutti gli interventi a destinazione diportistica da realizzarsi nell'ambito di porti commerciali preesistenti, anche attraverso l'ampliamento dello specchio acqueo o la realizzazione di nuove strutture integrative, in quanto comportino modifiche sostanziali agli impianti esistenti ai sensi dell'art.1, comma 2, del D.P.C.M. n.377/88, saranno da assoggettarsi alla procedura di valutazione d'impatto ambientale.

La legge regionale 3 novembre 1998, n. 79 “Norme per l’applicazione della

valutazione di impatto ambientale” nell’Allegato A1, tra i progetti da

sottoporre alla fase di valutazione di competenza della regione (art. 7, comma

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specchio d’acqua è superiore a 10 ha o le aree esterne interessate superano i 5 ha, oppure i moli sono di lunghezza complessiva superiore a 500m”, mentre nell’Allegato B2 tra i progetti sottoposti alla fase di verifica di competenza della provincia (art. 11, comma 1), al paragrafo progetti e infrastrutture, punto e) “porti turistici e da diporto con parametri inferiori a quelli indicati nella lettera b) dell’allegato A1, nonché progetti di intervento su porti già esistenti”.

1.2.1 Piano regolatore dei Porti della Regione Toscana

La Regione Toscana, inoltre, allo scopo di promuovere ed integrare lo sviluppo socio economico del territorio, in conformità agli indirizzi della programmazione stabiliti dal Piano Regionale di Sviluppo e del Quadro Territoriale di Riferimento ed in relazione alle particolari esigenze della nautica da diporto e delle attività produttive e del turismo, predispone un Piano di coordinamento per la realizzazione, la ristrutturazione e la riqualificazione dei porti e degli approdi turistici, marittimi fluviali e lacuali di interesse regionale e locale. (art. 1, legge regionale toscana 9 agosto 1979, n.36

“Ordinamento dei porti e degli approdi turistici della Toscana, P.R.E.P.A.T.”).

In particolare, all’art. 3 della stessa legge : “Sono da classificare come porti turistici ai fini della presente legge, quelli dotati di attrezzature e di impianti destinati in via permanente alla manutenzione, alaggio e rimessaggio di imbarcazioni da diporto, nonché delle infrastrutture necessarie e complementari al soddisfacimento delle esigenze degli utenti.

Sono da classificare come approdi turistici quelli costituiti da opere ed impianti idonei alla ricettività dei natanti da diporto e sprovvisti parzialmente o totalmente delle infrastrutture di cui al comma precedente.

Tali criteri di classificazione si applicheranno anche alle sezioni di porti

commerciali marittimi, specializzati per il turismo.”

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1.2.2 Il porto di Marina e l’area a vincolo ambientale del Parco

Foto 1.2.2.1 – Veduta aerea e sviluppo in plastico del porto e dell’area immobiliare prevista– fonte Borrello–IPI S.p.a.

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Infine visto che il progetto ricade nell’area protetta del Parco Migliarino San Rossore, Massaciuccoli, la delibera n. 18 del 10 maggio 2002, “Approvazione del Secondo Piano di gestione delle Tenute di Tombolo e di Coltano” riporta :

“Visto l’art.23 comma 3 del Piano del Parco che recita: “La Conferenza di programmazione per il coordinamento degli interventi di pianificazione territoriale dell'area Pisa-Livorno determina il quadro dei riferimenti per il raccordo tra il Piano Territoriale del Parco, l'adeguamento della strumentazione urbanistica ordinaria comunale e l'attuazione della L.R. n.

36/79 «Ordinamento dei porti e degli approdi turistici in Toscana”; in tale sede la definizione del Piano Regolatore del porto turistico, la definizione del porto turistico della foce dell’Arno, può comportare, in variante del Piano Territoriale del Parco, differenti delimitazioni del suo perimetro e differente caratterizzazione dei riferimenti strutturali, infrastrutturali e ambientali; la valutazione dell’impatto ambientale riferita alle opere relative al porto turistico ed agli approdi, ai sensi delle vigenti disposizioni in materia, deve fare specifico riferimento alle possibili connessioni con l'assetto del Parco nelle aree contermini, sul mare, nelle acque interne superficiali e profonde”;

approva e riconosce : “che per l’area di Bocca d’Arno deve essere attuata la

procedura prevista dall’art.23 comma 3 delle Norme Tecniche di Attuazione

del Piano del Parco, con le forme e le modalità che saranno determinate

dalla Regione Toscana”.

(21)

1.2.3 Inserimento ambientale Porto Turistico di Marina di Pisa

Il territorio sul quale sorge Marina di Pisa è il risultato di una forte antropizzazione, concentratasi soprattutto negli ultimi duecento anni, che ha trasformato le originarie condizioni naturali dei luoghi.

L’assetto attuale del litorale è dovuto al taglio del vecchio corso dell’Arno ordinato dal Granduca Ferdinando II nel 1606 per evitare il continuo insabbiamento della foce alla bassa velocità delle acque fluviali. La foce del fiume assunse così la configurazione attuale, con la separazione della zona dove è sorta Marina di Pisa (Arnovecchio) dalla macchia di San Rossore sottoposta poi a successiva bonifica e colonizzazione.

L’area di Boccadarno nel corso dei secoli non è mai stata interessata dalla presenza di porti o porticcioli, ma da semplici scali utilizzati per le paranze dei pescatori, e in periodo anteguerra, dal vaporetto che collegava Marina alla città. Conferma di questa funzione delle rive di Boccadarno ci è data dall’episodio storico dello sbarco di Giuseppe Garibaldi, in memoria del quale fu poi eretto (nel 1904) l’obelisco ancora oggi esistente al termine del viale D’Annunzio.

Una importante svolta nell’evoluzione dell’insediamento si verificò nel 1917, con la costruzione degli stabilimenti “Gallinari”, nell’area compresa tra il viale e la vecchia strada di Marina. Da questo primo insediamento industriale prese avvio il processo di trasformazione ambientale di tutta la fascia sulla riva sinistra dell’Arno, successivamente sede della C.M.A.S.A. e poi degli stabilimenti F.I.A.T. / Motorfides.

La realizzazione della “fabbrica” ha rappresentato una tappa importantissima

dal punto di vista dello sviluppo economico e sociale di Marina e di tutto il

contesto limitrofo. Dal punto di vista territoriale, la destinazione ad attività

produttive non era coerente con la specificità di un’area delicata sia

ambientalmente che paegisticamente, posta all’arrivo del Viale proveniente da

Pisa, in diretto rapporto con il Parco di San Rossore ed in relazione visiva con

le Apuane, nel punto di sbocco in mare dell’Arno. L’insediamento industriale

vede in circa ottanta anni, il susseguirsi di numerose attività produttive, in

particolare dal 1917 al 1921 con la Ditta Gallinari, società livornese produttrice

di barche e dei primi idrovolanti in legno; dal 1921 al 1930 la ditta è rilevata

(22)

dall’Ing. Dornier e trasformata in C.M.A.S.A. (Costruzioni Aeronautiche Sco.

An.) per la produzione di apparecchi aerei; nel 1930 c’è il subentro della Fiat per la progettazione e la costruzione di prototipi di concerto con la Fiat-Avio di Torino; dal ’43 al ’45 la produzione è sospesa per cause belliche per poi riprendere alla fine del 1945 riducendo la produzione aeronautica verso il trasporto pesante (autobus e carrozze ferroviarie); nel 1953 la C.M.A.S.A.

diventa “Sezione Officine di Pisa” per la produzione di accessori per auto; nel 1974, dopo che la parte immobiliare è ceduta alla Fiat, si ha il passaggio alla Whitehead-Motofides, venendo a concentrare nello stabilimento di Marina, le produzioni destinate al ciclo dell’automobile; nel 1978 si ha l’incorporazione dello stabilimento nel Gruppo Gilardini S.p.a., e questo segnerà una lenta e graduale diminuzione delle attività produttive; nel 1987 il passaggio della linea produttiva serrature alla Motrol S.p.a. e progressiva cessazione dell’attività residuale; il 1988 vede la chiusura definitiva dello stabilimento, il passaggio dell’immobile alla Borrello S.p.a. del Gruppo Gilardini nel 1991, e infine nel 1999 l’acquisizione della Borrello da parte di IPI S.p.a.

Foto 1.2.3.1 – Manifesto pubblicitario C.M.A.S.A. – fonte web

(23)

Analisi Territoriale-Urbanistica

L’area interessata dal progetto del porto è per la sua maggior proporzione occupata da un immobile industriale che ha cessato la produzione nel 1988. E’

situata a Marina di Pisa, posta a nord a ridosso della foce dell’Arno, a ovest del Mar Tirreno; si trova all’interno del Parco Regionale di San Rossore Migliarino Massaciuccoli, ad ovest della Pineta di Tombolo e a sud della tenuta di San Rossore.

L’intervento di trasformazione, che data la sensibilità delle aree adiacenti merita particolare attenzione, riguarda sia il complesso industriale della ex Motofides sia alcune aree limitrofe, delimitate dalla Foce dell’Arno, dal mar Tirreno e dall’abitato di Marina di Pisa.

Dal punto di vista amministrativo l’area è ricompressa per il 70% circa nel Parco, e per il restante 30% circa nel territorio del Comune di Pisa.

L’area oggetto di intervento misura complessivamente 197.038 mq, sui quali sorgono fabbricati già adibiti ad usi industriali e civili per circa 326.000 mc di volume e 45.000 mq circa di superfici sviluppate.

Il Piano Territoriale del Parco Naturale Migliarino San Rossore, Massaciuccoli, approvato con D.G.R. n° 515 del 12/12/1989, costituisce il primo strumento urbanistico, tuttora vigente, che a seguito della chiusura degli impianti produttivi, individua l’area oggetto di studio come una “zona di recupero edilizio ed urbanistico funzionale” finalizzata alla realizzazione di una “stazione marittima” in foce d’Arno. Tra gli interventi previsti dal Piano, quella del porto è la previsione di maggior rilievo, una scelta molto forte e necessariamente destinata ad evidenziare “un’ idea di Parco non chiuso in se stesso”, ma di un ambiente dove lo spazio naturalistico e di forte valenza ambientale possa risultare integrato con attività di vario tipo esistenti o previste. La stazione marittima, viene dunque intesa come elemento significativo per la riqualificazione di Marina, in quanto capace di “innescare il recupero dei valori di immagine, oggi appannati e misconosciuti”.

Il Piano di Indirizzo Territoriale, approvato con Deliberazione G.R. n. 10 del

12 gennaio 1998, definisce gli orientamenti per l’identificazione dei sistemi

territoriali e stabilisce gli obiettivi della politica territoriale. In particolare agli

art. 47 (“Obiettivi relativi al sistema territoriale di programma della Toscana

dell’Arno”, sez. II), e art. 68 (“Disciplina dell’uso della fascia costiera” sez. III)

(24)

P.I.T., inoltre, prevede la “promozione e qualificazione della costa toscana attraverso l’organizzazione e l’integrazione delle strutture e dei servizi portuali” (art. 35, 8) e “il riequilibrio della pressione turistica costiera favorendo insediamenti turistici…” (art. 52, 2), “l’individuazione e realizzazione di “porti verdi” cioè i punti di ormeggio attrezzati all’interno della rete idraulica minore” (art. 53, 1g), e suggerisce che “gli strumenti urbanistici dei Comuni ed i piani territoriali di coordinamento delle Province dovranno incentivare il recupero e la riqualificazione delle aree produttive dismesse o localizzare in ambiti territoriali impropri ai fini del riordino complessivo degli insediamenti, prevedendo per tali aree anche funzioni turistiche e turistico-ricettive…” (art. 54, 5).

Il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale, approvato nel 1994, nella veste di progetto preliminare di P.T.C. (del C.P. n° 165 del 29/06/94) individua tra le criticità del territorio pisano “ la mancanza di un disegno chiaro nell’utilizzo degli edifici industriali esistenti, di magazzini e di altre strutture, obsolete per caratteri propri e per localizzazione, (…) in alcuni casi inutilizzate o localizzate ai margini del territorio comunale senza una settorialità e un sufficiente livello di servizi, determina vistosi sprechi nell’utilizzazione del territorio e contemporaneamente ridondanza nei costi di impianto” e dunque conferma, nelle sue linee generali i principi avanzati nel piano di recupero dell’area industriale ex Whitehead – Motorfides. Il Piano non fa menzione specifica dell’area di Marina di Pisa, ricadente in area Parco, poiché esso “trova applicazione sull’intero territorio della Provincia di Pisa, eccezion fatta per il Parco regionale di Migliarino San Rossore e Massaciuccoli” (art. 1.3 delle Norme e Definizioni).

Nel 1992 il Piano Regionale dei Porti e degli Approdi Turistici (PREPAT), approvato con D.C.R. n° 258 del 27/05/1992 (in applicazione alla legge regionale n° 36 del 9/8/1979, “Ordinamento dei porti e degli approdi turistici della Toscana”), definisce per la stazione marittima quegli elementi urbanistici e dimensionali che il Piano Territoriale del Parco non aveva inteso precisare; l’infrastruttura viene classificata come “porto turistico” con una capacità ricettiva di 500 posti barca.

Con la Delibera n° 89 del 31/12/1994 il Commissario straordinario approva il

(primo) Piano di Gestione della Tenuta di Tombolo del Parco Naturale,

strumento di approfondimento e attuazione delle indicazioni del Piano

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Territoriale, in applicazione dell’art. 3 delle N.T.A. dello stesso Piano Territoriale.

Nell’ambito di questo Piano, dove ogni intervento previsto è accompagnato da una scheda operativa, la scheda n° 39, attualmente superata, Piano di recupero in foce d’Arno, specifica e quantifica, per la prima volta, l’intendimento di un recupero immobiliare dell’area, classificata dal Piano Territoriale del parco, come “zona di recupero edilizio ed urbanistico funzionale” e conferma, quindi, la realizzazione del porto, per 500 posti barca.

Anche per quanto riguarda la capacità ricettiva del porto turistico viene effettuata una nuova rimodulazione dimensionale, ritenendo questa volta più opportuno il non superamento dei 400 posti barca, con la connessa possibilità di reperire i restanti posti su un secondo specchio d’acqua.

Con la Delibera C.C. n 103 del 2/10/1998 viene approvato il Piano Strutturale del Comune di Pisa dove per l’area di Marina di Pisa è prevista la scheda UTOE 38.

Il 10 maggio 2002 è approvato il Secondo Piano di Gestione del Parco, con la nuova scheda 39 annessa, che conferma la localizzazione per l’area di un bacino portuale di 500 posti barca. Il secondo Piano di Gestione e il Regolamento Urbanistico, rappresentano gli ultimi strumenti urbanistici approvati, con una propria rilevanza, sull’area della Borrello S.p.a.

Il conseguimento della trasformazione urbanistica avverrà secondo le Linee Guida fornite dalla Regione Toscana. Il 1 agosto 2002 è stato adottato il Progetto di Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico (PAI), che individua l’area di Progetto Preliminare come “area a pericolosità idraulica media” e “ area a pericolosità moderata da processi geomorfologico di versante e di frana”.

In data 14 ottobre 2002 la Regione Toscana, ha emesso una delibera avente

come oggetto “Accordo di programma tra Regione Toscana, Comune di Pisa,

Provincia di Pisa per la realizzazione di un porto turistico alla foce dell’Arno,

in località Marina di Pisa, nel Comune di Pisa.”

(26)

Caratteristiche tecniche del progetto

Il porto turistico insiste nei pressi della foce del fiume Arno in riva sinistra a circa 300 metri dallo sbocco nel mar Tirreno. La morfologia dell’area è prevalentemente pianeggiante: le quote metriche del terreno variano da +0.9m a +1.5m s.l.m.m mentre le protezioni lato Arno hanno quote oscillanti tra +1.6m e +2.3m s.l.m.m.

La profondità dei fondali attuali del tratto terminale dell’Arno dall’imboccatura in progetto al mare varia tra i -2.0m e i -6.0m s.l.m.m.

L’imboccatura portuale progettata è aperta verso l’Arno e quindi ridossata dalle ondazioni provenienti dal largo. I fondali previsti nell’area di sedime del porto verranno adeguati all’ormeggio delle imbarcazioni da diporto a mezzo di opportuni dragaggi sino ad una quota minima pari a -3.50m s.l.m.m. La configurazione planimetrica progettata offre ormeggio a 500 posti barca in corretto rapporto con le aree reperite per i parcheggi. La superficie totale interessata al progetto è pari a 156.000 mq.

L’impianto distributivo si articola in : opere di protezione del bacino; il bacino portuale, i banchinamenti e pontili per l’ormeggio di 500 posti barca; scali di alaggio; servizi portuali comprensivi di cantiere nautico, uffici per la direzione portuale, rifornimento carburanti e aree per rimessaggio; di un percorso pedonale lungo mare; di parcheggi in numero adeguato ai posti barca realizzati.

Foto 1.2.3.2 – Area Stabilimenti Ex Motofides – fonte Comune di Pisa

(27)

1.3 Il Riutilizzo delle acque reflue

La crescente domanda di acqua per usi civili, industriali ed agricoli deve tenere conto sempre più della diminuzione della disponibilità della risorsa, che talvolta assume aspetti particolarmente critici. Da dati FAO si può prevedere che a partire dall’anno 2025, oltre 50 nazioni del mondo, per una popolazione complessiva di 3 miliardi di persone, si troveranno a fronteggiare croniche carenze idriche. Per questo motivo, ormai da alcuni anni, il mondo scientifico e tecnico impegnato nella gestione del patrimonio idrico rivolge sempre maggior attenzione al reperimento di risorse alternative, anche se di qualità scadente, da riservare a settori produttivi tradizionalmente più esigenti che potrebbero così liberare risorse più pregiate da destinare ad usi civili (Indelicato, 1992; Megale 1995).

In Italia la gestione della risorsa idrica è diventata materia su cui sempre più spesso si confrontano il mondo della ricerca, quello della Pubblica Amministrazione, delle Aziende gestrici e quello degli utenti, civili, agricoli ed industriali.

I consumi idrici italiani sono stimabili in 45,5 miliardi di metri cubi annui di cui 7,9 per usi civili e domestici, 28,1 per l’agricoltura e 9,5 per l’industria. Da questi dati risulta quindi che l’agricoltura è responsabile di circa il 60% dei consumi idrici totali del paese.

Poiché l’uso urbano delle acque non è distruttivo ma soltanto modificativo delle caratteristiche fisiche e chimiche, è possibile dopo un adeguato trattamento, il riuso per altre finalità.

1.3.1 Riferimenti normativi

Dal punto di vista legislativo, la priorità dell’uso idropotabile rispetto agli altri usi era stato introdotto in Italia dalla Legge n. 36 del 5/1/1994, “Disposizioni in materia di risorse idriche”, meglio conosciuta come Legge Galli.

Il comma 2 dell’art. 1 recita : “Qualsiasi uso delle acque è effettuato

salvaguardando le aspettative ed i diritti delle generazioni future a fruire di

un integro patrimonio ambientale”; mentre il terzo comma dello stesso

articolo descrive il contesto generale nel quale deve essere gestito l’utilizzo di

(28)

delle risorse per non pregiudicare il patrimonio idrico, la vivibilità dell’ambiente, l’agricoltura, la fauna e la flora acquatiche, i processi geomorfologici e gli equilibri idrogeologici”.

L’art. 2 “Usi delle acque”, recita : “1. L’uso dell’acqua per il consumo umano è prioritario agli altri usi del medesimo corpo idrico superficiale o sotterraneo. Gli altri usi sono ammessi quando la risorsa è sufficiente e a condizione che non ledano la qualità dell’acqua per il consumo umano.”

D’altra parte, è ormai entrata nella coscienza comune la consapevolezza che l’acqua è un bene economico limitato e che il reperimento di nuove risorse idriche pregiate da destinare all’uso idropotabile è perseguibile esclusivamente attraverso il riutilizzo di acque reflue più o meno trattate da destinare ai settori meno esigenti. Questo concetto era già emerso nella mente del Legislatore italiano nella stesura dell’art. 3 “Equilibrio del bilancio idrico”, quando si parla di equilibrio fra risorse reperibili o attivabili e fabbisogni :

“1. L’Autorità di bacino competente definisce ed aggiorna periodicamente il bilancio idrico diretto ad assicurare l’equilibrio fra le disponibilità di risorse reperibili o attivabili nell’area di riferimento ed i fabbisogni per i diversi usi, nel rispetto dei criteri e degli obiettivi di cui agli articoli 1 e 2.

2. Per assicurare l’equilibrio tra risorse e fabbisogni, l’Autorità di bacino competente adotta, per quanto di competenza, le misure per la pianificazione dell’economia idrica in funzione degli usi cui sono destinate le risorse, […]”

All’art. 6 “Modalità per il riutilizzo delle acque reflue”, si introduce il concetto di riutilizzo delle acque reflue : “1. Entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, in attuazione dell’art. 2, primo comma, lettera e), della legge 10 maggio 1976, n.319, con decreto del Ministero dell’Ambiente, sentiti i Ministri dei lavori pubblici, della sanità e dell’industria, del commercio e dell’artigianato, sono adottate norme tecniche riguardanti:

a) le tipologie di uso dell’acqua per le quali è ammesso il reimpiego di

acque reflue; le tipologie delle acque reflue suscettibili di riutilizzo; gli

standard di qualità e di consumo; i requisiti tecnologici relativi ai

trattamenti di depurazione da adottare;

(29)

b) le modalità di impiego di acque reflue depurate, tenuto conto degli aspetti igienico-sanitari;

c) le modalità per la realizzazione, la conduzione e l’adeguamento di impianti di depurazione e di reti di distribuzione di acque reflue per i diversi usi.

2. La regione adotta programmi per attuare il risparmio idrico, prevedendo incentivi ed agevolazioni alle imprese che si dotino di impianti di riuso e di riciclo ovvero utilizzino acque reflue trattate, nonché per realizzare acquedotti ad uso industriale, promiscuo e rurale.”

Nel campo della gestione delle risorse idriche, la normativa italiana si è poi decisamente evoluta recependo una Direttiva comunitaria da cui è scaturito il nuovo “Testo Unico sulle acque”, il Decreto Legislativo n. 152 del 11/5/1999

“Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole”, successivamente modificato e integrato con Decreto Legislativo n. 258 del 18/8/2000 “Disposizioni correttive e integrative del decreto legislativo 11/5/1999, n. 152, in materia delle acque dall’inquinamento, a norma dell’articolo 1, comma 4, della legge 24 aprile 1998, n. 128”.

Sulla normativa del riutilizzo, però anche questa fonte è deficitaria, viene infatti solamente aggiornato l’art. 6 della Legge 36/94, rimandando al Decreto Ministeriale, da emanarsi entro sei mesi dall’entrata in vigore della Norma.

L’art. 26 “Riutilizzo dell’acqua” :

“ 1. All’art. 14 della legge 5/1/1994, n. 36, dopo il comma 4, è, in fine aggiunto il seguente :

4-bis.) Allo scopo di incentivare il riutilizzo di acqua reflua o già usata nel ciclo produttivo, la tariffa per le utenze industriali è ridotta in funzione dell’utilizzo nel processo produttivo di acqua reflua o già usata. La riduzione si determina applicando alla tariffa un correttivo che tiene conto della quantità di acqua riutilizzata e dalla quantità delle acque primarie impiegate”

“2. L’articolo 6 della legge 5/1/1994, n. 36, è sostituito dal seguente :

“Articolo 6. (Modalità per il riutilizzo delle acque reflue)

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1. Con Decreto del Ministero dell’Ambiente, di concerto con il Ministro per le politiche agricole, della sanità, dell’industria, del commercio e dell’artigianato, dei lavori pubblici e d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano sono definite norme tecniche per il riutilizzo delle acque reflue.

2. Le regioni adottano norme e misure volte a favorire il riciclo dell’acqua e il riutilizzo delle acque reflue depurate mediante le quali sono in particolare :

a. Indicate le migliori tecniche disponibili per la progettazione e l’esecuzione delle infrastrutture nel rispetto delle norme tecniche emanate ai sensi del comma 1;

b. Indicate le modalità del coordinamento interregionale anche al fine di servire vasti bacini di utenza ove vi siano grandi impianti di depurazione di acque reflue;

c. Previsti incentivi e agevolazioni alle imprese che adottano impianti di riciclo o riutilizzo.

3. Il decreto di cui all’art. 6, comma 1, della legge 5/1/1994, n. 36, come sostituito dal comma 2, è emanato entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto.

4. […]”

Solo nello scorso anno, con il decreto 185/2003, si viene a disciplinare un particolare aspetto, finora solo enunciato nelle finalità, del settore della protezione ambientale individuabile generalmente nella gestione delle acque reflue : il loro recupero e utilizzo. Considerate le implicazioni tecniche gestionali che tale pratica può comportare questo recente dispositivo normativo potrà potenzialmente avere un rilevante impatto su diverse attività della società italiana: dall’agricoltura, ai sistemi industriali fino alla progettazione dei sistemi fisici e gestionali del sistema idrico integrato.

Le finalità di risparmio della risorsa acqua possono essere

perseguite con l’uso razionale della stessa. Tale razionalità,

presuppone di conseguenza la riduzione dei consumi soprattutto

se ingiustificati, ma anche l’uso di acque (diverse per qualità)

secondo le destinazioni d’uso. Il riutilizzo delle acque reflue si

pone come strumento, almeno teoricamente adeguato, a

perseguire tali scopi.

(31)

I termini di recupero e riutilizzo delle acque reflue esprimono significati diversi e non del tutto coincidenti :

1. riutilizzo (dopo un suo primo utilizzo) dell’acqua come sistema di allontanamento delle sostanze di rifiuto;

2. il riutilizzo dell’acqua con destinazione d’uso differenti :

2.1 riutilizzo diretto dell’acqua (la qualità non è ancora sufficiente da non comprometterne tale uso, è il caso ad es.

dell’irrigazione);

2.2 riutilizzo con pretrattamento anche delle sostanze in essa contenute (compresa l’energia termica);

In ognuno di questi casi si ottiene ovviamente il risparmio idrico in quanto gli utilizzatori successivi non accedono direttamente alla risorsa, mentre solamente nell’ultimo dei casi proposti, si ottiene anche un risparmio delle

“materie prime” (sostanze contenute) ed una riduzione dell’impatto sul potenziale ricettore finale, dove avverrebbe in alternativa lo scarico, sia esso suolo o corpo idrico superficiale.

Affinché tutto questo possa trovare applicazione deve essere garantita la possibilità di un uso a “cascata” della risorsa secondo una logica che tenga conto della qualità delle acque in uscita dai primi utilizzatori e delle necessità degli utilizzatori che si trovano “a valle”.

In quest’ottica una analisi delle possibilità e della convenienza del riutilizzo dovrà inevitabilmente tener conto di alcuni parametri quali :

1. le caratteristiche che l’acqua deve possedere : a. per esser scaricata nell’ambiente

b. per la destinazione d’uso del riutilizzo (a seconda del tipo di riutilizzo).

2. i costi delle alternative :

a. riutilizzo (costo delle tecnologie integrative da inserire)

b. non riutilizzo (costo delle risorse, costo dell’impatto sul ricettore alternativo).

Le procedure devono in ogni caso valutare sia il confronto dei limiti imposti

dal legislatore nelle diverse alternative sia le tecnologie o strategie gestionali

da porre in atto nei diversi casi, con le diverse ipotesi di destino degli effluenti

(32)

(scarico o riutilizzo) : scarico in acque superficiali, suolo; riutilizzo agricolo, industriale, o di altro tipo.

Al limite del concetto di riutilizzo si potrebbe ritenere lo stesso scarico nell’ambiente una forma di riutilizzo individuando l’ambiente naturale, con le sue componenti biotiche e abiotiche, il soggetto utilizzatore ultimo della risorsa acqua e delle sostanze in essa contenute. Un’altra strategia potrebbe esser quella di utilizzare l’ambiente come soggetto attivo per il recupero delle acque, sfruttando la capacità depurative dei sistemi naturali, ma ciò sembra ancora non esser considerato dalle numerose disposizioni di legge che riguardano, sotto diversi aspetti, la risorsa idrica : in genere l’ecosistema è visto come soggetto passivo dell’attività antropica, più o meno tutelato, ma comunque non interagente in modo organico con le attività umane su di esso inserite.

1.3.2 Requisiti di qualità previsti dal D. M. 185/03

I requisiti di qualità previsti dal Decreto, sono disposti dall’art. 3 il quale prevede tre possibilità di recupero :

• irriguo :

per l’irrigazione di colture destinate sia alla produzione di alimenti per il consumo umano ed animale sia ai fini non alimentari

per l’irrigazione di aree destinate al verde o ad attività ricreative o sportive

• civile :

per il lavaggio delle strade nei centri urbani

per l’alimentazione dei sistemi di riscaldamento o raffreddamento

per l’alimentazione di reti di adduzione, separate da quelle delle acque potabili con esclusione dell’utilizzazione diretta di tale acqua negli edifici a uso civile

(ad eccezione degli impianti di scarico nei servizi igienici)

• industriale :

come acqua antincendio come acqua di processo come acqua di lavaggio

per i cicli termici dei processi industriali

(33)

(con l’esclusione degli usi che comportano un contatto tra le acque reflue recuperate e gli alimenti o i prodotti farmaceutici o cosmetici)

L’art. 14 poi fissa le deroghe temporanee (fissate in 3 anni) per il parametro Escherichia coli, mentre nell’allegato si fa riferimento ad ulteriori “deroghe”:

• sulla base dei limiti imposti a livello Regionale per le acque potabili;

• i limiti di pH, azoto ammoniacale, conducibilità elettrica specifica, alluminio, ferro, manganese, cloruri e solfati rappresentano valori guida e possono esser derogati dalla Regione (con parere del Ministero dell’Ambiente) fino al corrispondente valore della Tab. 3 dell’allegato 5 del D.Lgs 152/99 esclusa la conducibilità che non può superare i 4000 µS/cm.

• I limiti per Ntot e P possono essere elevati, per l’utilizzo irriguo, fino a 35 mg/L e 10 mg/L rispettivamente;

• Per tutti i parametri chimico fisici, i valori della tabella allegata al decreto, sono da riferirsi a valori medi su base annua (o della campagna irrigua), mentre il riutilizzo deve essere sospeso quando viene superato del 100% il valore limite.

In fine dalla nota 3 della tabella dell’allegato si evince che i limiti per Escherichia coli sono elevati, da 10 a 50 UFC (per l’80% dei campioni) e da 100 a 200 UFC come valore puntuale massimo, nel caso che le acque reflue recuperate provengano da lagunaggio o fitodepurazione, “sancendo così per legge” una minor pericolosità di tali microrganismi secondo la tale provenienza d’origine.

Cause ostative al riutilizzo

Una panoramica sugli aspetti quali-quantitativi delle opportunità di riutilizzo deve considerare inizialmente tutte quelle situazioni nelle quali tale prospettiva deve essere abbandonata per l’impossibilità tecnica di attuazione.

E’ evidente che dipende dal fatto che debba esserci una reale richiesta della

risorsa, pertanto, non può per esempio, esser previsto il riutilizzo delle acque

reflue in agricoltura, a prescindere dalla loro qualità in tutti quei periodi nei

quali non è richiesta la pratica irrigua, ciò implica la necessità di prevedere

sistemi adeguati di trattamento e adduzione sufficientemente elastici da

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