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4. Pazienti e metodi

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Academic year: 2021

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1. Riassunto

Introduzione: con il termine di carcinoma tiroideo differenziato si intendono le neoplasie maligne originate dall’epitelio follicolare della tiroide che mantengono le caratteristiche tipiche del tessuto tiroideo normale. Si distinguono due principali varianti istologiche: il carcinoma papillare (PTC) e quello follicolare (FTC) che rappresentano circa l’80% e il 20% rispettivamente delle forme ben differenziate. Nei tumori tiroidei è stata identificata l’attivazione di vari oncogeni tra cui RAS, RET, MET, TRK. La maggior parte delle alterazioni geniche rilevate nei carcinomi tiroidei differenziati e in particolare nella forma papillare esercita un’azione oncogena attraverso l’attivazione della via MAP chinasica (mitogen- activated protein kinase) che include RET→ Ras→ Raf→

MAP chinasi. Recentemente è stata individuata una mutazione somatica puntiforme del gene BRAF che rappresenta ad oggi la più comune alterazione genetica nel carcinoma papillare della tiroide. Questa mutazione detta V600E determina l’attivazione costitutiva della BRAF

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chinasi e si ritrova esclusivamente nei carcinomi papillari e nei cancri anaplastici da essi derivati. La sua prevalenza varia dal 23 al 62%.

Scopo della tesi: scopo del presente lavoro è stato di valutare il significato prognostico della mutazione di BRAF

V600E in un gruppo di pazienti con PTC con follow-up di 15- 20 anni e verificare quindi la correlazione di BRAF V600E con la guarigione, persistenza di malattia e/o decesso del paziente, valutando il suo rapporto anche con tutte le altre caratteristiche cliniche, epidemiologiche ed anatomo- patologiche.

Pazienti e metodi: abbiamo esaminato retrospettivamente i dati epidemiologici, clinici ed anatomo-patologici di 100 pazienti affetti da PTC afferiti al Dipartimento di Endocrinologia di Pisa tra il 1985 e il 1991 in modo da avere un follow-up di circa 15-20 anni. Dei soggetti in esame era disponibile il tessuto tiroideo tumorale incluso in paraffina per effettuare l’analisi della mutazione di BRAF

V600E. Questa è stata ottenuta mediante le seguenti tappe:

estrazione del DNA dal tessuto paraffinato, PCR dell’esone

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15 di BRAF, screening mediante PCR-SSCP e infine sequenziamento genomico diretto.

Risultati: sui 100 campioni tissutali disponibili, solo in 67 la qualità del DNA estratto si è rivelata adeguata per continuare l’analisi di BRAF. La mutazione BRAFV600E è stata individuata in 23 casi su 67 (34%). Prendendo in considerazione i 44 pazienti che non presentavano la mutazione BRAFV600E, 41 di essi (93,2%) erano liberi da malattia, 2 (4,5%) presentavano persistenza di malattia e solo 1 (2,3%) era deceduto per tumore tiroideo.

Fra i 23 pazienti che presentavano la mutazione BRAFV600E, 13 (56,5%) erano liberi da malattia, 7 (30,5%) presentavano persistenza e 3 (13%) erano deceduti per carcinoma tiroideo.

L’analisi statistica tra i due gruppi BRAFV600E positivi e negativi ha mostrato una correlazione statisticamente significativa tra la presenza della mutazione di BRAFV600E e la persistenza di malattia e/o il decesso del paziente per carcinoma tiroideo (p=0,0003). Per quanto riguarda invece gli altri parametri epidemiologici, clinici ed anatomo- patologici (sesso, età alla diagnosi, TNM e classe secondo

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De Groot ), sebbene si sia riscontrata una prevalenza di BRAFV600E nei maschi di età media più avanzata e con stadio di malattia alla diagnosi più avanzato, non si è rilevata alcuna significatività statistica.

Conclusioni: in base al nostro studio possiamo concludere che la mutazione di BRAF V600E in pazienti con carcinoma papillare della tiroide rappresenta un fattore prognostico sfavorevole a prescindere da tutte le altre caratteristiche del tumore.

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2. Introduzione

2.1 Il carcinoma tiroideo differenziato

2.1.1 Epidemiologia

Il carcinoma della tiroide rappresenta circa l’1% di tutte le neoplasie maligne dell’adulto e prevale nella seconda, terza e quarta decade di vita. La sua incidenza è andata aumentando dal 2,4 per 100.000 abitanti riportata negli anni 40-50 fino al 10 per 100.000 delle più recenti casistiche (1-3). Tuttavia la mortalità annua per cancro della tiroide è relativamente bassa ed è compresa tra 0,2 e 1,2 per 100.000 persone negli uomini e tra 0,4 e 2,8 per 100.000 persone nelle donne. Nella maggior parte dei Paesi la mortalità è due volte più elevata nelle femmine che nei maschi (4). Il carcinoma tiroideo si riscontra in circa il 3-4% dei noduli tiroidei la cui incidenza clinica nella popolazione generale è del 5-10% (5-7). Nelle casistiche chirurgiche, non selezionate sulla base della citologia pre- operatoria, la percentuale di malignità varia tra l’8 e il 20%

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mentre, nelle casistiche autoptiche, varia tra il 5 e il 45%(8,9). L’esposizione a radiazioni ionizzanti, particolarmente durante l’infanzia e l’adolescenza, rappresenta ad oggi il maggior fattore di rischio (8). A conferma di quanto detto, un drammatico e progressivo aumento dell’incidenza dei carcinomi tiroidei di tipo papillare è stato riscontrato nei bambini e adolescenti delle regioni della Bielorussia e dell’Ucraina colpite dal fall-out radioattivo successivo al disastro nucleare di Chernobyl del 1986 (10,11).

Tra i tumori maligni della tiroide circa l’80-85% sono carcinomi ben differenziati mentre gli altri tipi di cancro sono meno frequenti e sono rappresentati dai carcinomi anaplastici (5%), dai carcinomi midollari (10%) e dai linfomi primitivi della tiroide (1-2%). Tra i carcinomi tiroidei ben differenziati (CTD) si distinguono l’istotipo papillare e quello follicolare. Entrambi mantengono le caratteristiche di differenziazione tipiche del tessuto tiroideo normale (TSH dipendenza, sintesi di tireoglobulina, capacità iodocaptante). I carcinomi papillare e follicolare rappresentano circa l’80% e il 20% rispettivamente delle forme ben differenziate, colpiscono tutte le fasce di età,

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con un picco di incidenza tra la terza e la sesta decade di vita ed hanno una netta prevalenza per il sesso femminile nell’adulto (F:M=4:1), mentre nei bambini il rapporto femmine/maschi è quasi uguale all’unità. Nell’ambito dei carcinomi papillari si distingue una variante istologica classica che rappresenta circa il 70% dei casi diagnosticati (12); essa è caratterizzata da papille formate da un asse connettivo-vascolare rivestito di cellule con un nucleo di aspetto tipico (Figura 1).

Figura 1: carcinoma papillare variante classica

Il 15-20% dei carcinomi papillari presentano un aspetto istologico meno tipico in cui solo le caratteristiche peculiari dei nuclei permettono la diagnosi. I nuclei sono più voluminosi della norma, hanno un aspetto “a vetro

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smerigliato” e una forma “a chicco di caffè”; inoltre presentano spesso una invaginazione intranucleare del citoplasma (13). La variante follicolare interessa soprattutto soggetti giovani e rappresenta il 20% circa dei carcinomi papillari diagnosticati nell’infanzia in Bielorussia dopo l’incidente di Chernobyl (14) (Figura 2).

Figura 2: carcinoma papillare variante follicolare

Si riconoscono poi le forme diffuse sclerosanti che colpiscono soprattutto bambini e giovani adulti (15) e le varianti a cellule alte o cilindriche, tipiche dei soggetti anziani (16) (Figura 3).

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Figura 3: carcinoma papillare variante a cellule alte

Anche nel carcinoma follicolare si distingue una variante istologica classica, quella a cellule chiare, quella a cellule ossifile (o a cellule di Hurthle) e infine i carcinomi insulari.

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2.1.2 Comportamento biologico

Il carcinoma papillare ha la tendenza a rimanere localizzato nella ghiandola tiroidea e, quando metastatizza, si diffonde localmente alle stazioni linfoghiandolari cervicali e del mediastino superiore. Talora i linfonodi sede di metastasi sono di dimensioni molto superiori rispetto al tumore primitivo, che può non essere rilevato alla palpazione. Da un punto di vista prognostico, ancora più grave della diffusione linfatica, è il superamento della capsula tiroidea, e, seppur raramente, il tumore può giungere sino alla invasione di importanti strutture adiacenti quali esofago, trachea e nervo laringeo ricorrente. Per via ematogena il tumore può diffondere più frequentemente ai polmoni e alle ossa. Nel 40-50% dei casi circa il carcinoma papillare presenta focolai multipli in uno o entrambi i lobi tiroidei (17-20). Il carcinoma papillare è un tumore che cresce assai lentamente ed è certamente uno dei carcinomi a prognosi più favorevole (sopravvivenza a 5, 10, 20 anni del 95, 90, 83%

rispettivamente) (21); ciò nonostante la potenzialità di

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questo tumore di trasformarsi nel tempo in una neoplasia a malignità di grado più elevato non può essere trascurata (22-24).

L’istotipo follicolare rappresenta circa il 10% dei carcinomi tiroidei e predilige la fascia di età tra i 30 e i 50 anni.

Anch’esso è un tumore a lenta crescita e con prognosi relativamente favorevole; è comunque più aggressivo e pericoloso del carcinoma papillare ed è, al pari di quest’ultimo, più frequente nelle donne. La diffusione del tumore avviene prevalentemente per via ematogena localizzandosi preferibilmente a livello di polmoni e ossa dove provoca lesioni osteolitiche soprattutto a carico del cingolo scapolo-omerale, dello sterno e del cranio.

Sebbene più raramente anche il parenchima cerebrale e il fegato possono essere sede di lesioni secondarie.

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2.1.3 Terapia

Benché il CTD abbia una lenta evoluzione con una prognosi generalmente buona, non va dimenticato che resta una neoplasia potenzialmente letale, soprattutto in quel 20% dei casi che si dedifferenziano nel tempo, perdendo sia la capacità di produrre tireoglobulina ma soprattutto quella di captare il radioiodio. Pertanto il trattamento iniziale deve essere il più radicale possibile e deve tendere ad ottenere una guarigione definitiva, una bassa incidenza di recidive locali e di metastasi a distanza, ed un’ottima qualità della vita, evitando complicanze iatrogene (25-27).

Benché vi siano ancora delle controversie, la terapia iniziale del CTD consiste in una tiroidectomia totale o

“quasi totale”; quest’ultimo termine sta ad indicare una lobectomia e istmectomia totale della parte del tumore e una lobectomia parziale del lobo controlaterale. La tiroidectomia è associata alla dissezione linfonodale solo nei casi di evidente coinvolgimento linfonodale. Una chirurgia radicale riduce notevolmente il rischio di recidive

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specialmente se accompagnata dalla terapia radiometabolica con 131I che ha lo scopo di ablare il tessuto tiroideo residuo. L’ablazione post-chirurgica del residuo tiroideo con iodio radioattivo si basa sulla conservata capacità delle cellule tiroidee neoplastiche di captare e organificare lo iodio per la sintesi ormonale. In una ampia casistica di carcinomi tiroidei raccolta presso la Ohio University è stato chiaramente dimostrato che i pazienti affetti da CTD e trattati con tiroidectomia totale, terapia radioablativa con 131I e terapia soppressiva con l-tiroxina erano quelli con minor rischio di recidiva e/o persistenza di malattia (28). Il razionale dell’ablazione del residuo tiroideo può essere riassunto in 3 punti: diminuisce la frequenza di recidive e, secondo alcuni, anche la mortalità, eradicando foci microscopici del tumore all’interno del tessuto tiroideo residuo (29); facilita la scoperta precoce di recidive mediante il dosaggio della tireoglobulina circolante (Tg) e della scintigrafia totale corporea con 131I, grazie all’eliminazione dell’interferenza del residuo tiroideo normale (30); la scintigrafia corporea totale eseguita sfruttando la radioattività della dose ablativa permette di svelare metastasi locali e/o a distanza non rilevabili al

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momento dell’intervento chirurgico (31). La terapia radiometabolica con 131I è la terapia di scelta anche per le lesioni metastatiche, almeno fin quando sono in grado di captare lo iodio. Trattamenti ripetuti con 131I possono essere eseguiti ogni 6-12 mesi fino alla guarigione. Quando le metastasi perdono la capacità di captare lo iodio occorrerà intervenire con altri approcci terapeutici di tipo chirurgico e/o chemioterapico e/o radioterapico a seconda del caso (31).

2.1.4 Fattori prognostici

I pazienti con carcinoma tiroideo differenziato hanno un’alta probabilità di guarigione completa e una bassa probabilità di recidiva. Sono già stati identificati alcuni fattori prognostici che permettono di identificare la piccola percentuale di pazienti ad alto rischio di recidiva e di morte.

Tra questi, l’età del paziente all’insorgenza del tumore è il più importante fattore prognostico indipendente per i carcinomi tiroidei ben differenziati (32). Un importante significato prognostico per la sopravvivenza è dato inoltre

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dalle dimensioni del tumore primitivo, dalla presenza di invasione extratiroidea e dalle metastasi a distanza; le metastasi linfonodali presenti all’esame iniziale invece non aumentano il rischio di mortalità per CTD ma aumentano il rischio di recidiva locale e regionale (26,27,33-36).

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2.2 Oncogeni e tumori della tiroide

La proliferazione delle cellule follicolari tiroidee è controllata da fattori di crescita extra-cellulari che modulano le vie intra-cellulari della trasmissione del segnale. Il TSH è il principale fattore di regolazione della proliferazione nelle cellule follicolari. Uno squilibrio nei meccanismi di regolazione con un aumento dell’attività stimolatoria o una riduzione del controllo inibitorio è alla base della proliferazione incontrollata delle cellule e quindi della crescita tumorale (37). Una migliore comprensione dei meccanismi della tumorigenesi tiroidea è stata resa possibile dagli enormi progressi realizzati nel campo della biologia molecolare. Il carattere monoclonale della maggior parte dei tumori benigni e maligni della tiroide suggerisce che la loro genesi è dovuta ad anomalie genetiche (38). La maggior parte delle alterazioni geniche esercita un’azione oncogena attraverso l’attivazione della via MAP chinasica (mitogen-activated protein kinase) che include RET→

Ras→Raf→MAP chinasi. L’attivazione di questa via è infatti un importante meccanismo nella genesi e nella

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progressione tumorale poiché stimola la divisione e la proliferazione cellulare (39).

L’attivazione dell’oncogene RAS per mutazioni puntiformi è presente in circa il 40% dei tumori tiroidei benigni e maligni e può essere considerata l’alterazione genica più frequente (40). Nei tumori della tiroide sono state ritrovate mutazioni dei tre geni RAS (Ki-, H- e N-RAS) con frequenza simile. Il gene RAS mutato stimola la proliferazione cellulare e inibisce la differenziazione delle cellule follicolari determinando la perdita o l’attenuata espressione dei marcatori della differenziazione, quali la tireoglobulina, la tireoperossidasi e la captazione dello iodio.

L’attivazione del proto-oncogene RET ad oncogene è stata trovata esclusivamente nel PTC da qui ne deriva l’acronimo di RET/PTC (Papillary Thyroid Carcinoma) (41). Il proto- oncogene RET è localizzato nel cromosoma 10 e codifica per un recettore di membrana con attività tirosino- chinasica. Il gene è espresso in varie linee cellulari neuronali, nelle cellule C della tiroide e nella midollare del surrene ma non nelle cellule follicolari della tiroide. Fino ad oggi sono state identificate almeno 10 forme attivate del

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proto-oncogene RET derivate da riarrangiamenti genici che portano alla fusione del dominio tirosino-chinasico del gene RET con il dominio 5’ di geni diversi. Poiché questi ultimi sono costitutivamente attivati e il loro dominio 5’ agisce come promotore, si ha l’espressione permanente del gene RET. La proteina chimerica derivante dalla fusione è localizzata nel citoplasma e non nella membrana plasmatica (42, 43). Tre sono i riarrangiamenti più frequenti presenti soprattutto nei PTC e in alcuni adenomi benigni.

La loro frequenza, escludendo i tumori con storia di esposizione a radiazioni, varia tra il 2,5 e il 59%, a seconda delle casistiche (44) (Figura 4).

Figura 4 :Rappresentazione schematica dei principali riarrangiamenti RET/PTC (RET/PTC1, 2, 3)

TK EC TM

Proto-RET SP

H4 R1a ELE 1

RET/PTC 1 RET/PTC 2 RET/PTC 3

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RET/PTC 1 è il risultato di un riarrangiamento intracromosomico nel cromosoma 10 con fusione del dominio tirosino-chinasico di RET con un gene ubiquitario chiamato H4 la cui funzione non è ancora nota (45).

RET/PTC 2 deriva invece da un riarrangiamento intercromosomico con fusione del dominio tirosino- chinasico di RET nel cromosoma 10 con un gene localizzato nel cromosoma 17 che codifica per la subunità regolatoria R1a della protein chinasi A (46).

RET/PTC 3 è infine il risultato di un riarrangiamento intracromosomico nel cromosoma 10 con fusione del dominio tirosino-chinasico di RET con un gene chiamato ELE 1 la cui funzione non è ancora nota (47).

L’attivazione del proto-oncogene TRK, localizzato nel cromosoma 1 e codificante un recettore di membrana con dominio tirosino-chinasico, avviene attraverso un riarrangiamento genico. Sono stati identificati 4 tipi di riarrangiamenti in cui si ha la fusione del dominio C- terminale di TRK con la regione 5’ di un gene ad espressione ubiquitaria con l’attivazione costitutiva

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dell’oncogene. Questi sono presenti nei carcinomi tiroidei papillari con una frequenza compresa tra lo 0 e il 10% (48).

L’iperespressione di MET, proto-oncogene codificante un recettore di membrana con un dominio tirosino-chinasico, è stata riscontrata nel 50% circa dei carcinomi tiroidei, soprattutto in quelli papillari (49).

Ad oggi, l’oncogene associato alla forma anaplastica è p53.

Mutazioni puntiformi di questo “oncosoppressore” sono state infatti riscontrate prevalentemente nelle forme sdifferenziate e anaplastiche suggerendo un ruolo di queste mutazioni nella progressione finale verso forme completamente indifferenziate (50,51) (Figura 5).

Figura 5: Oncogeni e tumori della tiroide CELLULA

FOLLICOLARE

ADENOMA FOLLICOLARE

CARCINOMA FOLLICOLARE

CARCINOMA PAPILLARE

CARCINOMA ANAPLASTICO

?

Ras

p53

p53 RET

TRK MET BRAF

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2.3 Mutazione di B-RAF nel carcinoma tiroideo

Raf è una protein chinasi che fa parte della cascata di attivazione della via RAS→RAF→MEK→ERK/MAP chinasi e ha un ruolo centrale nella regolazione della crescita, divisione e proliferazione cellulare. Fra le tre isoforme di Raf, il tipo B o BRAF è il più potente attivatore della via MAP chinasica (52) (Figura 6).

Figura 6: BRAF e la cascata delle MAP chinasi

B-RAF

RAS

MEK ERK

P P

P P

RET/PTC

c-Jun, Fos, c-Myc, Elk-1 PLCγ

Enigma

SHC

FRS2 GRB2

SOS

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Mutazioni di BRAF sono state descritte con alta frequenza nel melanoma (70%) e, con una prevalenza più bassa (10- 20%), anche nel cancro del colon, dell’ovaio, del polmone e dello stomaco e nei sarcomi (53). Recentemente una mutazione somatica puntiforme del gene BRAF è stata identificata come la più comune alterazione genetica nel carcinoma papillare della tiroide (54). La mutazione è stata chiamata T1799A ed interessa l’esone 15 del gene BRAF localizzato nel cromosoma 7. La sostituzione in eterozigosi della timina con una adenina in corrispondenza del nucleotide numero 1799 determina la presenza dell’acido glutammico al posto della valina nel codone 600. Questa sostituzione amminoacidica detta V600E determina l’attivazione costitutiva della BRAF chinasi (55). Questa mutazione del gene BRAFV600E si ritrova esclusivamente nei PTC e nei cancri tiroidei anaplastici derivati da PTC. Ad oggi non è stata identificata nè nel normale tessuto tiroideo, nè nelle neoplasie tiroidee benigne e neppure nei carcinomi follicolari e midollari. Questa mutazione è la sola, fra le alterazioni del gene BRAF, che sia stata trovata con elevata frequenza nei PTC; infatti, per esempio, la mutazione chiamata K601E è stata descritta solo in un

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adenoma follicolare (56) e in quattro varianti follicolari del carcinoma papillare (57). La prevalenza della mutazione T1799A nei PTC varia dal 23 al 62% a seconda delle casistiche (58,59). L’alta frequenza e la specificità della mutazione BRAFV600E dimostra che essa svolge un ruolo fondamentale nel processo di tumorigenesi del cancro papillare. Questa affermazione è supportata anche dalla presenza della suddetta mutazione nel microPTC (57). La presenza di BRAFV600E nelle componenti indifferenziate dei carcinomi anaplastici derivati dai PTC suggerisce un ruolo della mutazione anche nella progressione tumorale da forme ben differenziate a forme anaplastiche, indifferenziate (60). A conferma di ciò ci sono esperimenti condotti su topi transgenici nei quali l’espressione di BRAF

V600E diretta nel tessuto tiroideo induce lo sviluppo di carcinomi papillari che tendono con il tempo a sdifferenziarsi in forme più aggressive (61). La prevalenza di BRAFV600E varia a seconda del tipo istologico di carcinoma papillare; essa infatti raggiunge il 77% nei PTC a cellule alte, il 60% nella forma classica e il 12% nella variante follicolare. Da questi dati sembra quindi che BRAF abbia un ruolo maggiore nella tumorigenesi del PTC

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convenzionale e della variante a cellule alte; ciò potrebbe spiegare la maggiore aggressività di questi due sottotipi istologici rispetto alla variante follicolare del PTC (62).

E’ stata individuata una esclusione reciproca tra la mutazione BRAFV600E e altre alterazioni geniche presenti nel cancro tiroideo tra cui la mutazione di Ras e i riarrangiamenti di RET/PTC (56,63). In particolare la mutazione Ras è più frequente nella variante follicolare del carcinoma papillare, mentre i riarrangiamenti di RET/PTC sono più prevalenti nella forma classica del PTC e nella variante a cellule alte così come BRAF.

Un fattore importante nel determinare la dominanza di una delle due alterazioni genetiche nel carcinoma papillare è l’età: mentre RET/PTC ha un’alta prevalenza nella popolazione pediatrica ed in particolare in quella esposta a radiazioni ionizzanti, BRAFV600E è tipico degli adulti. In particolare nei carcinomi papillari diagnosticati nell’infanzia c’è una bassissima prevalenza di BRAFV600E (64): l’età più avanzata al momento della diagnosi correla con la mutazione di BRAF indipendentemente dall’esposizione all’irradiazione (65,66).

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Fino ad ora non sono state individuate correlazioni inequivocabili tra la mutazione di BRAFV600E e le caratteristiche clinico patologiche dei pazienti con PTC (66). In alcuni studi (67) è stata trovata un’associazione significativa tra la mutazione di BRAF e l’invasione extratiroidea, le metastasi linfonodali e a distanza, uno stadio più avanzato del tumore e la recidiva tumorale.

Tuttavia in due studi questa associazione non è stata confermata (59,71). In particolare solo pochissimi studi e con follow-up relativamente brevi, hanno correlato la mutazione di BRAFV600E con l’andamento clinico della malattia (68,71). Il valore prognostico quindi di BRAFV600E nel tumore primitivo è ancora da definire.

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3. Scopo dello studio

Poiché la mutazione BRAF V600E ha un ruolo importante nel processo di tumorigenesi nei carcinomi papillari e negli anaplastici da questi derivati per sdifferenziazione, si può supporre che essa possa avere un ruolo anche nel determinare i comportamenti clinici e patologici dei PTC. La relazione tra questi ultimi e la mutazione di BRAF è stata oggetto di molti studi. In alcuni di essi è stata riscontrata un’associazione significativa tra la mutazione di BRAF e caratteristiche clinico-patologiche correlate ad una prognosi peggiore (67,69). In due studi italiani (59,71) e in uno studio americano (72) non sono state individuate associazioni significative tra la mutazione di BRAF e le comuni caratteristiche clinico-patologiche ad alto rischio. Tuttavia gli studi finora pubblicati riguardano pazienti con brevi follow-up (massimo 72 mesi) e quindi il significato prognostico di BRAF V600E deriva principalmente dalla associazione con caratteristiche che sono state

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precedentemente dimostrate legate ad una prognosi più sfavorevole.

Scopo del presente lavoro è stato di valutare il significato prognostico della mutazione di BRAF V600E in un gruppo di pazienti con PTC con follow-up di 15-20 anni e verificare quindi la correlazione di BRAF V600E con la guarigione, persistenza di malattia e/o decesso dei pazienti con PTC.

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4. Pazienti e metodi

4.1 Pazienti

Abbiamo esaminato retrospettivamente i dati clinici (TNM, età, sesso, stato finale di malattia, trattamenti radiometabolici eseguiti e presenza di metastasi) di 100 pazienti affetti da carcinoma papillare della tiroide afferiti al Dipartimento di Endocrinologia di Pisa tra il 1985 e il 1991.

La maggior parte dei pazienti aveva effettuato il trattamento terapeutico tradizionale che secondo il nostro protocollo prevede, come già menzionato in precedenza, l’intervento di tiroidectomia totale, seguito dall’ ablazione del residuo tiroideo con 30 mCi di 131I. Una scintigrafia corporea totale diagnostica dopo somministrazione di una dose tracciante di 131I di 5 mCi veniva effettuata entro un anno dall’ablazione del residuo tiroideo. Il follow-up successivo comprendeva una valutazione clinica ed un dosaggio delle frazioni libere degli ormoni tiroidei (FT3, FT4), del TSH, della Tg e degli anticorpi antitireoglobulina (AbTg) ogni 6- 12 mesi e l’esecuzione di periodiche scintigrafie corporee totali. Dal 1999 il follow-up post-chirurgico si è basato

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sull’uso del test di stimolo della tireoglobulina con TSH umano ricombinante altrettanto sensibile nel rilevare la persistenza di malattia o, al contrario, la remissione della stessa.

Quando indicato, sono stati eseguiti trattamenti terapeutici aggiuntivi che consistevano nella somministrazione di alte dosi terapeutiche di 131I (100-200 mCi) e/o in reinterventi chirurgici.

Un piccolo gruppo di pazienti che dopo l’intervento chirurgico non ha eseguito la terapia radioablativa con 131I del residuo tiroideo ha eseguito annualmente un controllo clinico con dosaggio delle frazioni libere degli ormoni tiroidei (FT3, FT4), del TSH, della Tg e degli AbTg.

Tutti i pazienti hanno eseguito la terapia con levo-tiroxina (L-T4) a dosi soppressive del TSH fino all’evidenza di remissione clinica, poi hanno eseguito dosi sostitutive.

Abbiamo considerato come “guariti” o più propriamente detti “in remissione clinica/strumentale” i pazienti che presentavano SCT negativa e valori indosabili di Tg e AbTg in ipotiroidismo o dopo trattamento con rh-TSH. Abbiamo definito invece “non guariti” coloro che continuavano a

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mostrare i segni clinici e/o biochimici e/o strumentali di malattia.

4.2 Metodi

4.2.1 Materiale

Dei 100 soggetti in esame era disponibile il tessuto tiroideo tumorale paraffinato per effettuare l’analisi di BRAF. La diagnosi istologica all’epoca era stata fatta con ematossilina ed eosina. Il tessuto tumorale prelevato mediante biopsia sul materiale operatorio era stato fissato in formalina e incluso in paraffina. I tacchetti così costituiti sono stati conservati e tramite un microtomo sono state ottenute dal campione due fette di 5 micron di cui una utilizzata per l’estrazione del Dna e l’altra per una revisione della diagnosi istologica. I campioni di 5 micron sono stati deparaffinati con la seguente procedura : 30 minuti in xilolo;

15 minuti in alcool 99%; 15 minuti in alcool 95%; 15 minuti in alcool 70%; 15 minuti in alcool 50%; alcuni tuffi in acqua distillata. Dopo essere stati deparaffinati, i campioni sono

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stati sottoposti ad una microdissezione manuale in modo da procedere all’estrazione del DNA.

4.2.2 Estrazione del DNA

L’estrazione del DNA è stata ottenuta utilizzando il QIAamp DNA Mini Kit (QIAGEN). I campioni biologici di tessuto sono stati prima frammentati meccanicamente e quindi lisati utilizzando l’enzima proteinasi K (10 ng/ml) per un periodo di tempo che variava da 1 a 3 ore ad una temperatura costante di 56°C.

Completata la digestione enzimatica, il nostro protocollo prevedeva tre passaggi successivi:

- caricamento del lisato nelle mini-colonne e assorbimento del DNA sulla membrana silica-gel;

- rimozione di eventuali contaminanti residui mediante opportuni lavaggi e centrifugate;

- eluizione del DNA nello specifico tampone fornito dal kit;

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Il DNA così ottenuto, già pronto per successive applicazioni, è stato conservato a –20°C.

4.2.3 PCR ( Polimerase chain reaction)

La PCR è una tecnica enzimatica che permette di amplificare, in vitro, una regione specifica di DNA.

L’amplificazione avviene mediante ripetuti cicli di replicazione (Figura 7). Il materiale di partenza è, generalmente, DNA a doppia elica contenente la sequenza

“bersaglio”. La reazione di estensione viene eseguita da una speciale polimerasi, la Taq polimerasi, che ha la caratteristica di essere resistente al calore (fino a 94°) e di copiare il Dna fedelmente.

Per la realizzazione della reazione di amplificazione sono necessari i seguenti componenti:

- una miscela dei quattro deossinucleotidi (dNTP);

- frammenti di oligonucleotidi sintetici (primers) in grado di ibridarsi ai filamenti complementari;

- DNA-polimerasi;

- un tampone di reazione contenente sali, per mantenere costanti le condizioni di pH;

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- ioni magnesio sotto forma di MgCl2;

Tutti i componenti della reazione si miscelano in una micro-provetta. Il saggio è poi sottoposto a 20-40 cicli di amplificazione, ciascuno dei quali è composto da tre fasi:

denaturazione a 94-95°C per 1-2 minuti, che consente di separare la doppia elica del DNA contenente il segmento da amplificare;

ibridazione (annealing) ad una temperatura compresa tra 37°C e 65°C per 1-2 minuti, allo scopo di favorire selettivamente la formazione dei legami tra i “primers” e le rispettive sequenze complementari;

estensione (a 72°C per la Taq-polimerasi) per 1-3 minuti, che consiste nell’allungamento in direzione 5’3’ dei

“primers” ibridati mediante la polimerizzazione dei dNTPS

ad opera della DNA-polimerasi, utilizzando come stampo la catena singola del bersaglio.

In teoria, ogni ciclo di PCR dovrebbe raddoppiare il numero di molecole di partenza del frammento bersaglio di DNA. In pratica, l’efficienza dell’amplificazione esponenziale è minore del 100%, anche in condizioni di enzima e substrato non limitanti, a causa dell’attività subottimale della DNA-

(34)

polimerasi, della comparsa di sotto-prodotti, di un’incompleta denaturazione dei campioni. La scelta dei

“primers” è una tappa fondamentale nella messa a punto della PCR; le loro sequenze devono essere, infatti, esattamente complementari alla sequenza da amplificare e non devono avere omologia con nessun’altra sequenza presente nel DNA campione. I parametri che possono essere facilmente modificati per un’ottimizzazione delle condizioni di reazione sono:

temperatura di appaiamento (annealing) dei “primers

concentrazione della DNA-polimerasi

concentrazione di ioni magnesio

Figura 7: Andamento dell’amplificazione del DNA mediante PCR

(35)

4.2.4 PCR per l’esone 15 di BRAF

Per ogni campione è stata preparata una miscela di reazione a 50 µl finali contenente 5µl di 10x Reaction Buffer, 2,4µl di 1,5 mM MgCl2 (pH 8,3), 2µl di 0,2 mM dNTPs, 0,5µl di una soluzione 20 µM sia per il primer senso che per il primer antisenso dell’esone 15 di BRAF e 0,2µl di Amplitaq Gold (Applied Bioscience).

La sequenza dei primers utilizzati è: esone 15: 5’ 5’-TCA TAA TGC TTG CTC TGA TAG GA-3’; 3’ 5’-GGC CAA AAA TTT AAT CAG TGG A-3’ (70). Le condizioni utilizzate per l’amplificazione prevedevano, dopo una denaturazione iniziale a 95°C per 5 minuti, 40 cicli con denaturazione a 94°C per 1 minuto, appaiamento a 55°C per 1 minuto e sintesi a 72°C per 1 minuto, seguiti da un’estensione finale a 72°C di 10 minuti per ottenere un amplificato di 270pb.

Come controllo negativo è stato omesso il DNA stampo nella reazione. I prodotti di reazione sono stati visualizzati su gel di agarosio.

(36)

4.2.5 SCREENING MEDIANTE PCR-SSCP (Polymerase Chain Reaction- Single Strand Conformation Polymorphysm)

La tecnica di SSCP rappresenta uno dei metodi più usati per la ricerca di mutazioni di singole paia di basi nel DNA genomico; è basata sul principio che due molecole di DNA a singola elica, di lunghezza uguale ma di sequenza diversa (anche a livello di un solo nucleotide), migrano in modo differente in un gel di acrilamide non-denaturante per reazioni di ripiegamento intramolecolare sequenza- dipendenti (Figura 8).

normale mutato

denaturazione

Separazione su gel di acrilammide

normale mutato

denaturazione

Separazione su gel di acrilammide

Figura 8: Schema riassuntivo del principio su cui si basa la tecnica SSCP

(37)

Una minima variazione di sequenza, quindi, come una mutazione puntiforme, si può manifestare con una differenza di conformazione, responsabile di una modificazione del “pattern” elettroforetico di corsa. L’SSCP è una procedura rapida e semplice, che riesce ad identificare in generale oltre il 70% delle mutazioni possibili.

Nella pratica, la tecnica di SSCP è stata eseguita in combinazione con la tecnica di PCR; l’utilizzo di primers specifici, infatti, ha consentito l’amplificazione della regione genica di interesse, partendo dal DNA estratto da campioni di qualsiasi tipo, nel nostro caso tissutali. I prodotti di PCR sono stati diluiti 1:1 con una soluzione denaturante (1%

xilene-cianolo, 1% blu di bromofenolo, 0,1 mM EDTA, 99%

formaldeide), bolliti per 5 minuti e trasferiti immediatamente in ghiaccio, per evitare il riappaiamento dei singoli filamenti.

Lo screening SSCP delle mutazioni di BRAF è stato condotto con l’apparecchio GenePhor Electrophoresis Unit, usando GeneGel Excel 12,5/24 (12,5% T, 2% C) (AMERSHAM PHARMACIA BIOTECH). La corsa elettroforetica è stata effettuata alla temperatura di 18°C ed alle condizioni costanti di 600 V, 25 mA e 15 W per 80 minuti circa. Per la colorazione del gel è stato utilizzato il

(38)

PlusOne Silver Staining Kit (PHARMACIA BIOTECH), in accordo alle istruzioni fornite dal kit.

I campioni tumorali che hanno mostrato bande aberranti nella migrazione in due o più esperimenti indipendenti di PCR-SSCP sono stati considerati alterati, quindi potenzialmente mutati.

4.2.6 Sequenzamento genomico diretto

La reazione di sequenza è stata effettuata seguendo le indicazioni specifiche del Kit utilizzato: Thermo sequenase Cy-5 dye terminator Kit. Il Kit si basa sull’utilizzo di una miscela di nucleotidi formata da normali dNTPs e da ddNTPs marcati con un fluorocromo, i quali presentano un H al posto del gruppo ossidrilico sul C 3, determinante per la formazione del legame fosfodiesterico. Il sequenziamento del DNA si basa sull’incorporazione casuale nella sequenza dei ddNTPs che non permettono il proseguimento della reazione. In questo modo si ottengono filamenti di DNA di lunghezza variabile, da un singolo nucleotide fino ad una lunghezza pari a quella della

(39)

sequenza amplificata. È possibile separare questa miscela di filamenti di DNA in base al loro peso molecolare su un gel di acrilammide in condizioni denaturanti. Il sequenziatore automatico utilizzato è un ALFexpress 2 (AMERSHAM PHARMACIA BIOTECH) che prevede l’impiego di un unico fluorocromo comune a tutti e 4 i ddNTPs (Figura 9). Per questo motivo è stato necessario effettuare 4 reazioni di PCR separate.

Figura 9 :Schema riassuntivo dei ddNTPSs durante la reazione di sequenza ed un esempio di Elettroferogramma derivante dall’elaborazione del software

(40)

La PCR è stata effettuata utilizzando 4 µl di DNA purificato da gel. Il DNA è stato aggiunto ad una Master Mix contenete MgCl2, buffer, primer, acqua ed enzima. Nel nostro lavoro per il gene BRAF è stato utilizzato il primer reverse che ci ha fornito una maggiore efficienza. Quattro mix diversi sono stati preparati per i 4 ddNTPs; le mix contenevano 1 dei 4 ddNTPs, dNTPs e acqua. 6 µl di Master mix e 2 µl di mix sono stati uniti in una eppendorf (4 eppendorf separate) che è stata inserita nel termociclizzatore. Questo è stato programmato sulla base delle particolari esigenze dei primers utilizzati ed in accordo con il programma indicato dal kit. Il prodotto di reazione è stato purificato per eliminare qualunque traccia di ddNTPs che non siano stati incorporati nella sequenza.

Per la purificazione della PCR è stata effettuata una precipitazione etanolica seguendo le specifiche indicate nel Kit del sequenziatore. Prima del caricamento su gel il DNA, che contenuto in un buffer di caricamento contenente formammide, è stato denaturato a 70°C per 2’.

Il prodotto di sequenza dopo la purificazione è stato fatto correre su un gel di acrilammide specifico per il tipo di

(41)

sequenza da analizzare: Reprogel Long Read o High resolution (AMERSHAM PHARMACIA BIOTECH). Nel nostro caso la corsa relativa all’esone di BRAF è stata eseguita utilizzando il Long Read gel. Il gel contiene 40 pozzetti nei quali possono essere caricati 10 campioni diversi; infatti, poichè la reazione di sequenza è stata effettuata utilizzando un unico fluorocromo è stato necessario effettuare reazioni diverse per i 4 nucleotidi. Allo stesso modo è stato necessario caricare le PCR in pozzetti separati. La corsa è stata effettuata in tampone TBE 0,5X per circa 5 ore a 55°C ed ad una corrente di 25 W per il Long Read gel.

La sequenza analizzata ha iniziato ad essere rivelata dopo circa 100 minuti di corsa. L’analisi software dell’elettroferogramma ottenuto è stata effettuata con il programma ALFWIN sequence analyser Ver. 2.11.

La sequenza fornita dalla lettura del softwere è stata confrontata con quelle a disposizione sul sito NCBI mediante il programma BLAST TM, per confermare adeguatamente i risultati ottenuti.

(42)

2.7 Analisi statistica dei dati

L’analisi statistica dei dati è stata effettuata con il test del χ2 mediante l’uso di un programma computerizzato StatView 4.5 software (Abacus Concepts Inc., Berkeley, CA). I risultati sono stati considerati statisticamente significativi se p<0,05.

(43)

5. Risultati

5.1 Selezione dei casi analizzati

Il DNA genomico è stato estratto da 100 campioni tissutali ottenuti dai tacchetti fissati in formalina e inclusi in paraffina. La qualità del DNA si è mostrata adeguata per le successive analisi molecolari in 67 casi che sono stati quindi oggetto di analisi della presente tesi. In particolare il problema della degradazione del DNA si è presentato nei campioni più vecchi cioè in quelli del 1985 e 1986.

5.2 Dati epidemiologici dei pazienti studiati

Dei 67 pazienti di cui è stata effettuata l’analisi di BRAF, 55 erano femmine (82%) e 12 maschi (18%) con un rapporto F:M=4,5:1 (Figura 10).

(44)

0 20 40 60 80 100

Femmine Maschi

12 55

F:M=4,5:1

%

Figura 10: Distribuzione per sesso dei pazienti studiati

L’età media dei pazienti al loro ingresso nello studio era di 44,5±15,88 anni con un range di 12-67 anni e una mediana di 43 anni. Il periodo medio di follow-up è stato di 13,46±5,78 anni con un range che variava da un minimo di 1 ad un massimo di 19 anni (mediana 16 anni).

Le dimensioni medie del tumore erano 2,01±1,52 cm (range tra 0,1 e 8,5 e mediana 1,5 cm).

I pazienti sono stati classificati in 4 classi secondo la suddivisione in classi tumorali di De Groot: 37 (55,3%) in classe 1 (malattia intratiroidea; T1-3N0M0),18 (26,8%) in classe 2 (malattia intratiroidea con metastasi linfonodali; T1- 3N1M0), 9 (13,4%) in classe 3 (tumore extratiroideo con o

(45)

senza metastasi linfonodali; T4N0-1M0) e 3 (4,5%) in classe 4 (metastasi a distanza; T1-4N0-1M1) (Figura 11).

Figura 11: Distribuzione dei pazienti in base alle classi tumorali di De Groot

In particolare la presenza di metastasi loco-regionali o a distanza è stata individuata in 29 dei 67 pazienti in esame (42,2%).

Dopo il trattamento chirurgico iniziale, dei 67 pazienti presi in esame, 5 non sono stati sottoposti a terapia con 131I (7,5%), 30 sono stati sottoposti ad una dose di 131I per ablare il tessuto tiroideo residuo (44,8%). I restanti 32 hanno ricevuto più di una dose di 131I (47,7%).

55,2%

26,8%

9 18

4,6% 13,4%

26,8%

37

9 18 3

(46)

5.3 Analisi della mutazione BRAFV600E

La PCR-SSCP e il sequenziamento genomico diretto hanno permesso di identificare i campioni di carcinoma papillare che presentavano la mutazione di BRAFV600E

come mostrato in Figura 12.

A B

Quindi in totale la mutazione BRAFV600E è stata individuata in 23 casi su 67 (34,3%) come illustrato in Figura 13 :

Figura 12 A Esempio di SSCP colorato con impregnazione argentica;

C+ controllo positivo, C- controllo negativo; 1-7 campioni di carcinoma papillare, i casi 4 e 6 mostrano una banda aberrante indice di una mutazione di BRAF

Figura 12 B Esempio di elettroferogramma che mostra la mutazione in corrispondenza del codone 600.

C + C - HO2 Campioni di PTC

+ +

1 2 3 4 5 6 7

V600E

R

F V600E

(47)

Figura 13: Distribuzione percentuale della mutazione nei pazienti in esame

5.4 Distribuzione della mutazione di

BRAFV600E in base ai dati

epidemiologici, clinici ed anatomo- patologici

I 23 pazienti che presentavano la mutazione BRAFV600E erano 18 femmine (78%) e 5 maschi (22%); l’età media era 48,9±16,2 anni con un minimo di 23 ed un massimo di 78 anni (mediana 50 anni).

I 44 pazienti che non presentavano la mutazione BRAFV600E erano 37 femmine (84%) e 7 maschi (16%); l’età media era 42,2±15,36 con un minimo di 12 ed un massimo di 78 anni (mediana di 39,5 anni) (Figura 14).

0 20 40 60 80 100

Mutato (34%) Non Mutato (66%)

n=44

n=23

%

(48)

Figura 14: Distribuzione della mutazione di BRAFV600E in base al sesso e all’età

Fra i 23 pazienti che presentavano la mutazione di BRAFV600E 10 erano in classe 1 (43,6%), 6 in classe 2 (26%), 4 in classe 3 (17,4%) e 3 in classe 4 (13%).

(Figura 15 B )

Fra i 44 pazienti che non presentavano la mutazione di BRAFV600E 27 erano in classe 1 (61,4%), 12 in classe 2 (27,3%) e 5 in classe 3 (11,3%) (Figura 15 A )

0 20 40 60 80 100

Mutati Non Mutati

Femmine Maschi

%

Età media: 48,9+16,2 Mediana 50 anni

Età media: 42,2+ 15,36 Mediana: 39,5 anni

(49)

Figura 15 A: Distribuzione in classi di De Groot dei pazienti senza la mutazione di BRAFV600E

Figura 15 B: Distribuzione in classi di De Groot dei pazienti con la mutazione di BRAFV600E

Fra i 23 pazienti che presentavano la mutazione di BRAFV600E, nessuno ha fatto la sola tiroidectomia senza ablazione, 12 sono stati sottoposti solo all'ablazione (52,2%) mentre 11 hanno ricevuto più di una dose di 131I (47,8%).

Fra i 44 pazienti che non presentavano la mutazione di BRAFV600E, 5 non hanno ricevuto la dose ablativa di 131I (11,3%), 18 sono stati sottoposti solo all'ablazione (41%) e 21 hanno ricevuto più di una dose di 131I (47,7%).

Dei 23 pazienti con la mutazione 12 presentavano metastasi (52,2%), mentre dei 44 senza la mutazione solo

27,3%

61,4%

11,3%

A

43,6%

26%

17,4%

13%

B

(50)

17 presentavano metastasi (38,6%). I dati epidemiologici e clinici del nostro gruppo di studio in relazione alla mutazione di BRAF sono riassunti nella Tabella 1:

Pazienti con mutazione BRAFV600E n = 23

Pazienti senza mutazione BRAFV600E n = 44

Totale Pazienti in esame n = 67

Età media diagnosi Range

Mediana

48,9±16,2 23-78

50

42,2±15,36 12-78

39,5

44,5±15,8 12-78

43

Sesso:

Femmine--- ---

Maschi--- ---

18 5

37 7

55 12

Follow-up medio Range

Mediana

11,78±6,44 2,19 15,0

14,34±5,27 1,19 17,0

13,46±5,78 1-19

16

Classe 1 10 27 37

Classe 2 5 12 18

Classe 3 4 5 9

Classe 4

3 0 3

Terapia con 131I

Non

Ablazione--- Solo

Ablazione--- Non solo

Ablazione---

0 12 11

5 18 21

5 30 32

Metastasi

Si--- ---

No--- ---

12

11 17

27 29

38

Tabella 1: Dati epidemiologici, clinici ed anatomo-patologici dei pazienti in esame in relazione alla mutazione di BRAF

(51)

5.5 Distribuzione della mutazione di BRAFV600E in base allo stato finale dei pazienti

Al momento dello studio 54 pazienti (80,5%) erano liberi da malattia (3 di essi erano tuttavia deceduti per altra causa), 9 (13,5%) presentavano persistenza di malattia (di questi 2 erano deceduti per un’altra patologia) e 4 (6%) erano deceduti per carcinoma tiroideo come rappresentato in Figura 16:

0 20 40 60 80 100

Stato finale

Guariti Non Guariti Deceduti per Ca Tirodeo

%

9

54

4

n = 67

Figura16: Distribuzione dei pazienti in esame in base allo stato finale di malattia

Prendendo in considerazione i 44 pazienti che non presentavano la mutazione BRAFV600E, 41 di essi (93,2%) erano liberi da malattia, 2 (4,5%) presentavano persistenza

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