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MINAZZI, FABIO

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Academic year: 2021

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Fabio Minazzi

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I contesti axiologici della comunicazione:

alcune riflessioni critico-epistemologiche

1. Infomazione e comunicazione

«Negli esseri umani il linguaggio è la base della cultura, ed è dunque la più importante innovazione, che ha permesso all’uomo moderno di moltiplicare le possibilità di vita e di diventare padrone della Terra in tempi abbastanza brevi. Il linguaggio è un’innovazione a un tempo biologica e culturale, poiché le basi anatomiche e fisiologiche che lo rendono possibile si sono evolute geneticamente, per selezione naturale»

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.

Così scrive Luigi Luca Cavalli-Sforza nel suo pregevole volume Geni, popoli e lingue, mettendo in evidenza non solo come per cultura si debba intendere «l’insieme di quello che si apprende dagli altri, contrapposto a quello che si impara da soli, in isolamento», ma anche come nella trasmissione culturale si innesti un’autentica «mutazione culturale» la quale ultima possiede una sua specifica peculiarità:

«una distinzione fondamentale tra la mutazione biologica e la “mutazione culturale” è che per la gran parte le mutazioni culturali sono innovazioni volute e dirette a qualche fine, mentre la mutazione biologica non è diretta al miglioramento del risultato, ma è determinata dal caso. Al livello della mutazione, l’evoluzione culturale può dunque essere mirata, quella biologica non lo è. Di recente qualche biologo ha cercato di cambiare il dogma classico dell’evoluzione biologica, ma le prove addotte non sono sufficienti».

Proprio questo specifico carattere “teleologico” della comunicazione, il suo essere diretta a qualche fine peculiare, ci consente, allora, di comprendere come la comunicazione umana, dalla quale è scaturito, nel corso del tempo, dal Paleolitico ad oggi, il dominio dell’uomo sulla Terra, non può e non deve mai essere confuso con la mera informazione. Quest’ultima può infatti configurarsi come uno scambio di messaggi tra un trasmettitore e un ricevente che non prevede affatto il coinvolgimento diretto dei due poli della trasmissione, né presenta una finalità specifica. Entro questo semplice “contatto” di trasmissione il trasmettitore e il ricevente continuano infatti a conservarsi nella loro autonoma ed irrelata alterità, che non implica alcun cambiamento di rilievo.

Al contrario, la comunicazione, essendo per sua natura intrinsecamente teleologica, implica, invece, un diretto coinvolgimento, sia della fonte – che si sente appunto impegnata a trasmettere un determinato messaggio al proprio interlocutore e che nel porre in essere tale iter comunicativo si espone ad un processo dialogico in virtù del quale mette in gioco, in ultima analisi e perlomeno sul piano potenziale, la sua stessa natura originaria – sia del ricevente, il quale ultimo, per trasformare effettivamente l’informazione ricevuta in autentica comunicazione, deve necessariamente rielaborarla criticamente dal proprio particolare e specifico punto di vista. Se si vuole si può anche rilevare come nella comunicazione colui che riceve il messaggio debba necessariamente riconquistarlo proprio per farlo suo, per metabolizzarlo e rielaborarlo, trrasformandolo in carne della sua carne e in sangue del suo sangue. Naturalmente all’interno di questo rapporto di comunicazione le direzioni dei flussi di dialogo possono poi variare profondamente, dando luogo a situazioni ed esiti profondamente diversificati e persino antinomici, configurando svariate soluzioni. Per comprendere la diversità esistente tra informazione e comunicazione ci si potrebbe riferire anche al mondo eterogeneo e spesso caotico generato da internet: i vari motori di ricerca ci mettono infatti a disposizione una notevolissima massa di dati eterogenei e molteplici indicazioni profondamente diversificate e persino incongruenti o anche

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Già ordinario di Filosofia teoretica della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Lecce, nonché docente di Didattica della filosofia e di Ermeneutica nel medesimo ateneo salentino e di Teoria e storia del progetto presso l’Accademia di architettura di Mendrisio dell’Università della Svizzera italiana, attualmente insegna presso la Facoltà di Scienze dell’Università degli Studi dell’Insubria a Varese..

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Luigi Luca Cavalli-Sforza, Geni, popoli e lingue, Adelphi Edizioni, Milano 1996 (ma la cit. è tratta dalla

settima edizione), p. 251, mentre le citazioni che seguono nel testo sono tratte, rispettivamente, dalle

seguenti pagine: p. 249; p. 254; p.

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prive di senso plausibile. Tuttavia, l’insieme di questi elementi risultano essere sistematicamente appiattiti su una medesima dimensione indifferenziata ed omologante, un’autentica notte in cui tutte le vacche sono nere, senza possibilità (da parte di internet) di distinguere l’indicazione rilevante da quella assolutamente priva di senso e di qualsiasi validità. Solo la capacità critica del singolo ricercatore nel muoversi in questo autentico mare magnum indistinto e caotico consente di scegliere tra i vari dati, trasformandoli in elementi interessanti e rilevanti per un determinato programma di ricerca. Proprio tale rielaborazione critica, questa capacità del singolo di rileggere autonomamente i vari input presenti in rete li trasforma in autentica conoscenza (o in validi elementi di conoscenza), facendo sì che la mera informazione si trasformi in un reale processo conoscitivo e di effettiva comunicazione.

Del resto, seguendo una persuasiva tassonomia concettuale delineata da Cavalli-Sforza si può anche rilevare come possano esistere differenti tipi di comunicazione a partire da una comunicazione sostanzialmente verticale, dall’alto verso il basso (come quella che si attua, per esempio, tra genitore e figlio o tra un maestro e un allievo), oppure vi può essere uno scambio comunicativo orizzontale, tra individui che non sono legati da nessun particolare legame gerarchico, ma si pongono tutti, perlomeno tendenzialmente, sul medesimo e comune piano dialogico. Oppure vi può essere o una comunicazione magistrale che vede un parlante comunicare contemporaneamente con più individui, configurabili come i recettori sottoposti (da insegnanti ad allievi, da capi a dipendenti, dai presidenti ai loro adepti, etc.), oppure, ancora, un singolo individuo può essere sottoposto ad una forte pressione comunicativa concentrica e concertata, posta in essere, contemporaneamente, da differenti persone che vogliono appunto esercitare su di lui una determinata influenza.

In tutte queste differenziate prassi comunicative, la comunicazione presuppone sempre una specifica teleologia strategica, mediante la quale una determinata informazione viene trasmessa al proprio interlocutore il quale ultimo risulta essere in dialogo effettivo col primo solo nella misura in cui non si limita affatto ad essere un mero recettore passivo di un particolare flusso informativo, ma trasforma e rielabora autonomamente, in forma più o meno critica, quello specifico messaggio. Da questo particolare punto di vista si può quindi sostenere come un’autentica e vera comunicazione si realizzi solo ed esclusivamente quando tra due interlocutori si pone in essere un reale dialogo, mediante il quale ogni partecipante alla discussione è sempre in grado di rielaborare, dal proprio particolare, specifico ed autonomo punto di vista, quanto gli viene trasmesso. Di contro, la mera trasmissione, priva di autentica comunicazione, può invece essere assimilata ad un flusso acefalo di informazioni che non viene sostanzialmente modificato dal recettore e che, pertanto, viene trasmesso in modo prevalentemente passivo, decisamente acritico. Naturalmente da questo specifico punto di vista la contrapposizione, formale e di principio, tra mera “informazione” (neutra ed acritica) ed autentica “comunicazione” (umana e dialogica, sempre soggettiva, critica e personale) è, in verità, abbastanza astratta e fuorviante, giacché, nel concreto mondo della prassi, esistono poi sempre molteplici sfumature, in virtù delle quali il dialogo che si attua tra le differenti individualità umane non si riduce affatto ed univocamente, né a mera “informazione acritica”, né ad autentica “comunicazione critica”, oscillando, piuttosto, continuamente, tra questi due opposti ed astratti poli ideali. Non per nulla ogni dialogo favorisce comunicazioni profondamente diversificate.

Non solo: è ben noto che una medesima lezione può naturalmente produrre, nei differenti ascoltatori, esiti profondamente differenziati e persino divergenti.

In ogni caso questa precisazione e la possibilità stessa di individuare una gamma assai vasta e

differenziata di ipotetiche possibilità comunicative entro la duplice polarità della comunicazione-

informazione testé richiamata, ci consente di sottolineare come il vero confronto comunicativo

implichi sempre la presenza di una determinata teleologia comunicativa la quale ultima rinvia, a

sua volta, alle differenti axiologie che possono e devono svolgere un loro ruolo specifico all’interno

della prassi della comunicazione umana. Si badi: il ruolo euristico affatto specifico di queste

axiologie si ricollega direttamente proprio al ruolo irrinunciabile della “mutazione culturale” e ne

configura il suo spazio epistemico peculiare. Non esiste infatti comunicazione umana che sia

esente da questa irrinunciabile componente teleologica la quale, a sua volta, si configura e si

dipana sempre nel quadro dell’argomentazione dialogica, prendendo le mosse da una particolare

axiologia che è costantemente presente (e coinvolta) nel discorso umano. Anche in quello che

vorrebbe invece esserne radicalmente immune: per esempio la comunicazione scientifica che, per

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sua natura, in qualche caso, ha anche cercato di configurarsi come assolutamente e irrimediabilmente wertfrei.

2. I differenti criteri epistemici

In realtà ogni comunicazione umana non può mai liberarsi veramente da questa dimensione axiologica, giacché quest’ultima svolge sempre una sua specifica ed autonoma funzione euristico- costitutiva all’interno del discorso umano e della stessa scelta dei differenti criteri epistemici con i quali, di volta in volta, e, disciplina per disciplina, stabiliamo, variamente, il “rigore” autonomo di ciascun discorso (anche di quelli conoscitivi e scientifici). È ben vero come proprio la riflessione epistemica sulla conoscenza umana abbia spesso inseguito una strada ben diversa e persino opposta. Tuttavia, proprio lo sviluppo complessivo di questi pur fecondi tentativi epistemici ci aiuta oggi a meglio intendere la complessa natura, ad un tempo conoscitiva ed axiologica, della conoscenza umana. Né potrebbe essere differentemente, soprattutto se teniamo presente la storia specifica dei vari criteri epistemici che, soprattutto nel corso del Novecento, sono stati proposti onde poter individuare, infine, un criterio metodologico in grado di dirimere, autonomamente, la questione stessa della conoscenza umana e della sua validità critica.

2.1. Il criterio verificazionista neopositivista

Si pensi, per esempio, a tutte le vicende connesse con le varie e assai differenziate formulazioni del principio neopositivistico di verificazione. Come è ben noto nella prima e più rigida formulazione del principio verificazionista, avanzata dal neopositivismo nella fase della fondazione del Wiener Kreis, l’empirismo logico inseguiva il sogno di poter mettere capo, una volta per tutte, ad un criterio in virtù del quale il significato di un enunciato avrebbe dovuto senz’altro coincidere con il metodo della sua verificazione. Tuttavia, come ebbe modo di rilevare, a metà degli anni Trenta, nel 1934-35, anche un nemico dichiarato del neopositivismo come Karl Raimund Popper (nella sua Logik der Forschung, ospitata proprio in quel torno di tempo nella prestigiosa collana editoriale del Wiener Kreis), questo criterio empiristico risulta essere troppo forte ed eccessivamente tirannico. Se infatti il significato di un enunciato si deve ridurre, invariabilmente, al metodo della sua verifica, verrebbe allora meno non solo l’odiata metafisica (sempre combattuta aspramente da tutti gli esponenti del neopositivismo quale pseudo-consocenza), ma finirebbe per sgretolarsi anche l’amatissima scienza (cui i differenti esponenti dell’empirismo logico non hanno mai smesso di tributare il loro interesse più profondo e privilegiato). In ultima analisi il primo criterio verificazionista neopositivista viennese risulta essere troppo potente perché pretende di poter sistematicamente ridurre il significato di un determinato enunciato al metodo della sua verificazione sperimentale. Ma tale sogno empiristico si rivelò essere, in realtà, alquanto utopico e fuorviante, come del resto ha ben mostrato di comprendere lo stesso empirismo logico che, non ha caso, ha ben presto iniziato ad arrovellarsi proprio intorno a questo problema, nello sforzo più che apprezzabile di poter infine riformulare il principio di verificazione secondo una innovativa configurazione epistemica, capace di salvare capra e cavoli, vale a dire in grado di salvare la dimensione prettamente formale, astratta ed universale del procedere scientifico, senza tuttavia rinunciare all’esigenza, parallela, di poter verificare puntualmente i nostri discorsi concernenti il mondo.

Ma a ben considerare tutte le varie e successive riformulazioni epistemiche del principio di

verificazione neopositivista (da quella configurata verso la metà degli anni Trenta fino a quella

delineata una volta che l’empirismo logico è entrato in contatto diretto con il pragmatismo

americano), occorre tuttavia riconoscere come il suo sforzo abbia finito per attestarsi, perlomeno

negli interpreti più avveduti criticamente, entro una posizione che ha dovuto riconoscere la

compresenza, entro lo stesso discorso conoscitivo posto in essere dalla scienza, di una duplice

livello epistemico: quello eminentemente empirico-fattuale, radicato soprattutto nella dimensione

sperimentale e quello, opposto, astratto-formale, a sua volta radicato nella dimensione universale

ed ideale-congetturale delle differenti teorie scientifiche. Certamente in questo progressivo sforzo

di approfondimento critico del suo principio di verificazione il neopositivismo non ha affatto

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ammainato la storica bandiera dell’empirismo, vale a dire la necessità di riferire, in ultima analisi, i nostri discorsi concernenti il mondo al piano empirico-sperimentale entro il quale si effettuano, appunto, le differenti “verifiche” sperimentali. Tuttavia, questa determinata volontà di non ammainare la pur gloriosa bandiera dell’empirismo si è progressivamente saldata con la sempre più lucida consapevolezza critica che i discorsi scientifici concernenti il mondo fanno al contempo ricorso anche ad una dimensione formale costitutiva che, di per sé, è impossibile ridurre, senza residui, al piano empirico. Semmai, per dirla galileianamente, il continuo approfondimento del principio neopositivistico della verificazione ha indotto i suoi migliori esponenti dell’empirismo logico – come, per esempio, Gustav Hempel, per fare un solo nome, peraltro davvero emblematico – a rendersi conto che il gioco conoscitivo posto in essere dall’impresa scientifica risulta essere molto più plastico, articolato, libero e complesso di quanto potessero mai sospettare originariamente gli esponenti viennesi. La scienza e il discorso scientifico vivono, infatti, di un continuo e assai fecondo interscambio critico tra la dimensione fattuale-sperimentale e quella propriamente formale ed astratta, con la conseguenza che le differenti teorie scientifiche si situano epistemicamente in una dimensione intermedia e, per usare la felice immagine hempeliana, possono allora essere considerate come delle autentiche “reti”, mediante le quali possiamo pescare differenti “pesci” (idest, differenti “oggetti”, studiando diversi ambiti empirico-sperimentali e fattuali). Certamente questo gioco risulta essere sempre vario, mobile e continuamente arricchito e modificato da molteplici interazioni critiche frutto di continue e assai differenziate contaminazioni critiche che si instaurano variamente tra la dimensione formale e di quella sperimentale. Tuttavia, non si può neppure negare come proprio questo gioco epistemico posto in essere dalla scienza nel suo continuo e molteplice sforzo finalizzato ad elaborare delle feconde teorie scientifiche, dotate di autentica portata conoscitiva, costituisce l’asse epistemico privilegiato lungo il quale, galileianamente, le certe dimostrazioni si intrecciano costantemente con le sensate esperienze, configurando un patrimonio tecnico-conoscitivo in virtù del quale non solo il nostro sapere, ma anche la nostra stessa vita quotidiana, è sempre più modificata e resa più “libera”, più

“responsabile” e assai più complessa.

2.2 Il criterio falsificazionista popperiano

Ma proprio la riscoperta di questa specifica “complessità” della conoscenza posta in essere dall’impresa scientifica non può che aiutarci a meglio intendere il ruolo diversificato e costitutivo che la stessa axiologia svolge entro la scienza, la tecnica e la stessa vita umana, condizionando nuovamente anche la comunicazione scientifica. Né costituisce una smentita critica di questo risultato l’approccio falsificazionista alla scienza sviluppato da Popper e dai vari, diversi e vivaci esponenti dell’epistemologia popperiana e post-neopositivista

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. Il falsificazionismo ha infatti avuto il merito indubbio di sottolineare come la scientificità di una teoria scientifica si radichi proprio nella sua capacità di vietare alcuni precisi ambiti sperimentali. Tuttavia, anche il pur interessante criterio epistemico escogitato da Popper (peraltro in feconda connessione critica con una ben precisa tradizione di pensiero, quella del convenzionalismo congetturalista, non priva di precise venature scettiche) ha tuttavia finito per costituire, paradossalmente, una sorta di versione speculare del principio verificazionista neopositivista. Infatti, come alcuni dei più acuti interpreti del falsificazionismo popperiano non hanno tardato a mettere in evidenza, anche il gioco della scienza configurato dal criterio falsificazionista finisce per peccare di eccessiva astrattezza: da un lato risulta essere troppo stretto per spiegare tutte le differenti e complesse fasi di sviluppo della storia del pensiero scientifico, mentre, dall’altro lato, risulta anche essere troppo lasco, perché fornisce una ricostruzione incapace di spiegare l’effettiva specificità della crescita della conoscenza scientifica. In ultima analisi si può così rilevare come anche il criterio falsificazionista popperiano finisca per perdere di vista la specificità intrinseca della criticità insita nella crescita della conoscenza scientifica non solo perché non percepisce affatto il ruolo e la portata della dimensione tecnica dell’impresa scientifica, ma anche perché non è in grado di spiegare la specifica e complessa plasticità dello stesso sapere scientifico. E non è in grado di spiegare euristicamente la plasticità della scienza proprio perché ha perso di vista il complesso intreccio mediante il quale anche le comunità scientifiche sono continuamente contaminate e turbate nella

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A questo proposito sia lecito rinviare al mio studio Il flauto di Popper, Franco Angeli, Milano 1994.

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pretesa purezza epistemica dei loro criteri scientifici. Del resto Popper stesso si era reso conto come l’impresa scientifica si appoggiasse non sulla salda roccia dei fatti, bensì sulle “palafitte”

delle differenti convenzioni congetturaliste. Tuttavia l’epistemologo tedesco ha poi finito per trascurare proprio il ruolo euristico che alcune dimensioni “sociali” (se non direttamente sociologiche) svolgono anche all’interno della prassi scientifica, soprattutto nelle fasi

“rivoluzionarie”, mediante le quali l’impresa scientifica introduce un autentico ribaltamento epistemico paradigmatico del proprio tradizionale punto di vista scientifico. Né si può poi trascurare come la prospettiva falsificazionista abbia finito per non riuscire a fare più i conti con l’intrinseca storicità della scienza, con la flessibilità delle sue categorie concettuali, finendo, appunto, per appiattire l’impresa scientifica in un gioco falsificazionista che paradossalmente rischia di farci perdere di vista, sistematicamente, il ruolo, complesso e aggrovigliato, mediante il quale il sapere scientifico si delinea sempre entro un orizzonte axiologico storicamente determinato. Non per nulla per il falsificazionismo popperiano la storia della scienza o si riduce, paradossalmente, ad una concezione cimiteriale (ad un cumulo di teorie morte e confutate), oppure non possiede alcun effettivo e significativo ruolo epistemico (semmai serve solo ad offrire alcuni esempi per suffragare ed illustrare le diverse immagini epistemologiche della scienza, ma non svolge entro la riflessione epistemologica alcun significativo ed autonomo ruolo euristico).

3. Il problema del metodo scientifico nella riflessione galileiana

In realtà la ricerca stessa di un unico criterio epistemico in grado di spiegare, una volta per tutte, la natura, vera e profonda, del procedere scientifico nasce, in ultima analisi, da un sogno utopico:

quello di poter ridurre unilateralmente la scienza al suo metodo. Effettivamente se si guarda al dibattito epistemologico e filosofico sviluppatosi da Descartes fino a Feyerabend incluso, è difficile sottrarsi all’impressione complessiva che i vari protagonisti di questa ricerca siano rimasti tutti vittima della sindrome cartesiana (l’espressione è stata coniata, qualche anno fa, dall’attuale Presidente del Senato, Marcello Pera, quando ancora si occupava più direttamente del dibattito filosofico in un suo pregevole volume laterziano significativamente intitolato Scienza e retorica), Questa sindrome consiste proprio nel ritenere che la scienza si possa risolvere, unilateralmente e senza residui, al suo metodo. Naturalmente i vari partecipanti a questa storica discussione ideale, sviluppatasi nel corso di tre secoli, hanno poi variamente argomentato il loro reciproco dissenso teorico nell’individuare il presunto metodo della scienza in questo o quel particolare (ed assai circoscritto) crivello metodologico, in questo o quel determinato approccio euristico-ermeneutico specifico, tipico di questa o quella disciplina. In ogni caso, pur avendo variamente alimentato tale dissenso teorico, tutti questi filosofi hanno infine condiviso una comune idea di fondo: quella in virtù della quale ritenevano, appunto, che la scienza si potesse sistematicamente ridurre al suo metodo, con la connessa convinzione che solo l’applicazione sistematica di questo metodo fosse poi in grado di produrre vera ed autentica conoscenza, effettivamente degna di questo nome.

In realtà, se si guarda invece al concreto e complesso sviluppo storico effettivo della scienza,

nella sua reale congiurazione storica e teorica, è invero molto difficile sottrarsi ad un’impressione

molto diversa, quella in base alla quale occorre invece riconoscere che la scienza non possiede

affatto un suo unico e specifico metodo di intervento per studiare e indagare il mondo reale. Non

per nulla il padre riconosciuto della scienza moderna, Galileo Galilei, ha sempre rifiutato di

codificare, in modo rigido e schematico, la vera natura del metodo scientifico. Al contrario, Galileo

si è invece limitato ad avanzare un’indicazione di massima, in virtù della quale, perlomeno a suo

avviso, l’approfondimento della conoscenza scientifica può essere realizzato solo muovendosi

liberamente entro una duplice polarità di riferimento: le certe dimostrazioni e le sensate

esperienze. Tuttavia, proprio grazie a questa indicazione di massima, Galileo ha voluto indicare

unicamente l’universo complessivo di riferimento epistemico entro il quale l’impresa scientifica può

delineare un suo autonomo modo per procedere e approfondire le conoscenze umane. Del resto

proprio la diretta esperienza scientifica, sviluppata da Galileo in differenti settori di indagine e di

ricerca, deve averlo indotto a ritenere che un unico metodo scientifico, codificato e riproducibile

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automanticamente per tutti i differenti settori della ricerca, non solo non esisteva, ma non era neppure auspicabile

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Perché non esisteva e non era auspicabile? Perché l’indagine scientifica si può rivolgere a campi molto differenziati che richiedono tutti l’istituzione di un proprio e specifico apparato metodologico, per mezzo del quale sia effettivamente possibile approfondire le conoscenze che si possono eventualmente conseguire in quel particolare settore disciplinare. Non per nulla Galileo, in prima persona, è passato dallo studio astronomico del cielo, alla considerazione sulla resistenza dei materiali, dall’indagine delle leggi della dinamica, alla considerazione del comportamento fisico dei corpi che galleggiano in un liquido, dallo studio dell’isocronia delle oscillazioni di un pendolo, all’approfondimento della nozione matematica dell’infinitamente piccolo, dalla costruzione e dall’uso del “cannone della lunga vista” alla valutazione di decine di minuti problemi tecnologici (balistici, tecnologici, etc., etc.). Proprio la varietà e la grande vastità di tutti questi suoi diversificati interessi scientifici deve aver indotto Galileo a ritenere che il “metodo” scientifico, dovendo affrontare ambiti così differenziati ed assai eterogenei, non poteva affatto essere condificato, una volta per tutte, entro un solo modello epistemico, univoco ed astratto. Per questa ragione di fondo l’indicazione galileiana, programmatica e di massima, di un sapere scientifico che si costruisce e si delinea via via mettendo continuamente in relazione, peraltro secondo differenti e sempre libere curvature scientifiche ed epistemiche, il momento sperimentale delle sensate esperienze con quello teorico delle certe dimostrazioni voleva probabilmente costituire una feconda indicazione metodologica di fondo, in grado di salvaguardare adeguatamente l’originalità, la libertà e l’intriseca flessibilità dell’approccio scientifico, evitando ogni pregiudiziale chiusura dogmatica.

Galileianamente parlando la scienza non possiede dunque un suo metodo, perché, semmai, può solo delineare un suo autonomo e specifico universo complessivo di riferimento, entro il quale ogni singola indagine deve poi costruire i propri criteri di protocollarità, il proprio metodo di indagine, il proprio universo epistemico, i propri “oggetti” e persino le proprie inferenze.

Non per nulla Galileo, nel Saggiatore, aveva introdotto la sua celebre distinzione tra le qualità primarie e le qualità secondarie su di un piano meramente operativo. Semmai, la indebita ontologizzazione sostantivizzante di queste due differenti qualità fu invece operata proprio dal pensiero filosofico post-galileiano che trasformò indebitamente l’indicazione operativa dello scienziato pisano in un’indicazione decisamente metafisica, in virtù della quale esisterebbero, appunto, delle sostanze primarie matematizzabili, accanto a delle differenti sostanze secondarie non matematizzabili. Il che costituisce, evidentemente, un’indebita ontologizzazione dell’indicazione galileiana, proprio nella misura in cui induce a rimuovere il problema di fondo cui si era invece trovato di fronte Galileo. Quest’ultimo si era infatti reso ben conto che non tutti gli aspetti morfologici del mondo potevano essere affrontati con lo strumento matematico di cui l’uomo disponeva nel Seicento. Per questo motivo aveva introdotto, sempre e solo sul piano meramente operativo (e non certamente sostanziale e metafisico), una distinzione pratica ed operativa che doveva aiutare la scienza a non impantanarsi in un problema morfologico (quello attinente, appunto, le forme del mondo e la loro intrinseca e complessa mutevolezza) per affrontare il quale, nel Seicento, non esistevano ancora adeguati strumenti euristico-matematici sufficientemente potenti. Tuttavia, proprio questa distinzione operativa - che nasceva, dunque, in Gaileo da una profonda consapevolezza critica concernente i limiti oggettivi della matematica del suo tempo – finì, invece, per essere letta ed interpretata come un limite ontologico invalicabile e costitutivo dello stesso sapere scientifico moderno.

Questa indebita ontologizzazione della distinzione galileiana fu del resto compiuta anche in stretta connessione con la progressiva affermazione di un’autentica egemonia culturale esercitata dalla fisica-matematica nei confronti di tutte le altre discipline scientifiche. Con la conseguenza che assumendo infine il modello della fisica-matematica come punto di riferimento privilegiato per tutte le indagini scientifiche, ben presto si finì per contrapporre alla scientificità delle teorie fisiche la minore affidabilità scientifica delle altre teorie – come quelle biologiche, per esempio, direttamente attinenti alle scienze della vita – nate su altri terreni di indagine. Da questo punto di vista la stessa idea kantiana in virtù della quale la “scientificità” di una specifica teoria scientifica potrebbe essere misurata dalla quantità di matematica presente all’interno di una determinata teoria, costituisce l’espressione emblematica dell’incredibile egemonia culturale (ed epistemica) che la fisica-

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Anche in questo caso, per un approfondimento delle tesi accennate nel testo, sia lecito rinviare alla monografia dello

scrivente Galileo «filosofo geometra», Rusconi, Milano 1994.

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matematica ha effettivamente esercitato nel corso dei secoli. Egemonia culturale che certamente può essere ben compresa e giustificata, soprattutto alla luce degli strepitosi ed innegabili successi conoscitivi conseguiti dalla fisica newtoniana nell’indagare la natura del mondo fisico. Tuttavia, proprio questa indebita egemonia culturale ha poi finito per condizionare pesantemente anche lo sviluppo complessivo di tutte le altre scienze, non solo sul piano epistemologico, ma anche su quello strettamente scientifico. In primo luogo, relegando su un piano di interesse scientifico e culturale secondario le cosiddette “scienze molli” (attinenti più direttamente lo studio del problema della vita) rispetto alle cosiddette “scienze dure” (appunto, la fisica e la matematica). Inoltre, in secondo luogo, questa egemonia culturale indusse molti scienziati a ritenere, erratamente, che una disciplina poteva diventare scientificamente matura solo nella misura in cui era in grado di duplicare, all’interno del proprio specifico settore disciplinare, il modello euristico posto in essere dalla fisica-matematica. In tal modo la matematizzazione forzata di molte discipline finiva per costituire, inevitabilmente, il segno stesso della loro palese inferiorità disciplinare ed epistemica, il loro vero e proprio “marchio di infamia” scientifico. Inoltre, in terzo luogo, l’egemonia incontrastata del modello fisico-matematico finì anche per marginalizzare molti altri settori di indagine, nel mentre contribuì anche a dogmatizzare, indebitamente, lo stesso modello fisico-matematico che, spesso e volentieri, si è irrigidito in taluni tenaci modelli epistemici che hanno rappresentato un ostacolo all’evoluzione della stessa fisica-matematica.

5. La natura epistemica della conoscenza scientifica

D’altra parte non può neppure essere taciuto come nell’opera stessa di Gaileo si possano anche reperire taluni assunti che hanno variamente contribuito a diffondere un’immagine che ha direttamente contribuito ad assolutizzare la conoscenza scientifica. Si prenda in considerazione, per esempio, la celebre distinzione galilaiana, avanzata nel Dialogo sopra i due massimi sistemi, in cui lo scienziato pisano distingue nettamente tra il sapere intensive e il sapere extensive. Come è ben noto per Galileo il sapere extensive indica la quantità delle conoscenze che possono essere conseguite. Da questo punto di vista, perlomeno a suo avviso, la distanza e la differenza tra l’uomo e dio sarebbe veramente abissale: dio, infatti, per definizione, risulta essere onnipotente e onnisciente e può quindi conoscere infinite verità. Di contro l’uomo, essendo un essere finito, dotato di un intelletto finito, ed essendo nato per morire, potrebbe conoscere solo un numero finito (comunque infinitamente inferiore) alle verità conosciute da dio. Galileo ribadisce, dunque, l’infinita ed abissale distanza che separa l’uomo da dio. Tuttavia, sempre secondo Galileo, questa distanza infinita tra dio ed uomo risulta poi essere alquanto attenuata e persino annullata se si prende invece in considerazione la specifica modalità conoscitiva in virtù della quale l’uomo, proprio grazie alla scienza, può conoscere il mondo. Infatti, perlomeno dal punto di vista del sapere intensive, non esisterebbe alcuna differenza qualitativa tra la conoscenza umana e quella divina: quando infatti l’uomo conosce qualche verità in modo scientifico, la conoscerebbe esattamente nella stessa modalità assoluta che contraddistingue, per definizione, il sapere divino. Non per nulla Galileo condivideva anche una immagine sostanzialmente cumulativistica della conoscenza scientifica ed era sinceramente convinto come ogni conoscenza scientifica rappresentasse, sempre e comunque, una sorta di “vero” immodificabile che poteva essere sempre affiancato e, appunto, sovrapposto, ad altre verità già conseguite una volta per sempre.

In altre parole per Galileo il sapere scientifico non poteva non essere un sapere assoluto e immodificabile. Per questa ragione di fondo a suo avviso quando l’uomo conosce il mondo sarebbe allora in grado di conoscerlo da dio, vale a dire in modo assoluto e immodificabile. Ma, a ben considerare questo problema, proprio questa specifica modalità epistemica con la quale Galileo pensava di poter attribuire alla conoscenza umana il carattere (divino) dell’assolutezza e dell’immodificabilità, non faceva altro che trasferire – in modo decisamente “blasfemo” (“blasfemo”

perlomeno dal tradizionale punto di vista del religioso ortodosso e del credente tradizionale) – alla

conoscenza umana un classico attributo metafisico che aveva da sempre contraddistinto non solo

la nozione della verità occidentale, ma anche la tradizionale immagine di dio (che, per definizione,

è sempre stato concepito, perlomeno nella tradizione cristiana, come “assoluto” - sciolto, appunto,

da ogni eventuale condizionamento empirico – e sempre come eterno, immodificabile e

imperituro). Nel compiere questa sua operazione Galileo non solo rischiava di assolutizzare

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indebitamente i risultati conoscitivi della scienza, ma finiva anche per compiere un’operazione teologica assai discutibile (perlomeno dal punto di vista dell’ortodossia del credente), poiché, innegabilmente, lo scienziato pisano, proprio con la sua distinzione tra sapere extensivo e sapere intensivo, finiva proprio per porre sullo stesso piano dio e l’uomo, accomunandoli, appunto, nella modalità del loro effettivo conoscere.

Se questro aspetto “balsfemo” ha certamente svolto anche un suo preciso ruolo nel corso della realizzazione del celebre processo intentato allo scienziato pisano dall’Inquisizione cattolica, tuttavia non è stato neppure privo di conseguenze anche sul piano concernente, più direttamente, la tradizionale immagine epistemica della conoscenza scientifica. Infatti anche molti secoli dopo Galileo non pochi scienziati e filosofi, per non parlare, poi, del senso comune, hanno sostanzialmente condiviso e fatta propria, (spesso in modo del tutto acritico), l’idea che le conoscenze scientifiche consentissero effettivamente all’uomo di conoscere, in modo assoluto e immodificabile, il mondo. Proprio per questa ragione la conoscenza scientifica è stata spesso concepita come una conoscenza autenticamente assoluta, in grado di farci conoscere, una volta per tutte, la vera e profonda natura effettiva del mondo. Secondo questa prospettiva epistemica le teorie scientifiche sono state allora interpretate come “l’occhio di dio sul mondo”, come se le differenti verità scientifiche potessero infine consentirci di guardare il mondo da una distanza siderale ed infinita, da una sorta di non-luogo epistemico, per mezzo del quale l’uomo poteva, appunto, conseguire un sapere veramente “assoluto” e wertfrei, finalmente in grado di liberarlo da ogni contingenza e da ogni, inevitabile, parzialità empirica e storica.

Sempre per questo motivo si è anche iniziato a ritenere che una verità scientifica non potesse mai modificarsi nel corso del tempo, poiché una verità scientifica relativa e storica sembrava costituire una vera e propria contraddizione in adjecto, un inconcepibile assurdo epistemico.

Tuttavia, proprio lo studio della storia della scienza ci pone invece di fronte all’imbarazzante constatazione che la verità scientifica non solo non è affatto assoluta, ma si modifica incessantemente, giacché qualsiasi risultato conoscitivo può sempre essere approfondito criticamente da differenti punti di vista scientifici. Non solo: qualsiasi risultato scientifico può anche essere ribaltato in modo decisamente rivoluzionario, dando spesso origine ad una diversa e assai più profonda e paradossale visione conoscitiva della realtà. Di fronte alla constatazione storico- empirica di questo aspetto, incessantemente evolutivo, storico e rivoluzionario del sapere scientifico, si è allora diffuso o un atteggiamento di sostanziale scetticismo nei confronti della conoscenza umana, oppure un’opposta valutazione, decisamente antistorica, della crescita del sapere scientifico, tendende ad assolutizzare, positivisticamente, l’ultimo e più recente risultato conoscitivo. La soluzione scettica era evidentemente alimentata dalla consapevolezza che la scienza non sarebbe mai stata in grado di conseguire un risultato conoscitivo stabile e definitivo, proprio perché ogni risultato può sempre essere rimesso costantemente in discussione. Di conseguenza lo scetticismo trovava proprio in questa relatività storica del sapere scientifico la documentazione più inoppugnabile della propria tesi dogmatica, quella in virtù della quale si negava alla scienza ogni effettiva portata conoscitiva e all’uomo stesso la possibilità di conoscere alcunché. Di contro, l’assolutizzazione positivistica dell’ultimo e più recente risultato scientifico nasceva, invece, dal desiderio, del tutto antistorico, di contrapporre l’ultima verità (ultima in ordine cronologico) a tutte le precedenti “verità” scientifiche, ormai considerate come del tutto obsolete e ampiamente superate.

In entrambi i casi veniva sostanzialmente liquidata proprio la reale complessità storico- epistemica del sapere scientifico che non coincide né con il tradizionale relativismo scettico, né, tanto meno, con un’indebita assolutizzazione dei singoli risultati della conoscenza scientifica.

Semmai, perlomeno da un differente e più fecondo punto di vista epistemico, proprio questi diversi

problemi e la loro dogmatica ed assai unilaterale soluzione, avrebbero invece dovuto indurre ad

elaborare un’innovativa e più rigorosa immagine della conoscenza scientifica la quale ultima, pur

vivendo della possibilità di un suo continuo approfondimento critico, tuttavia è anche in grado di

mettere capo a delle conoscenze autenticamente oggettive. Per coniugare coraggiosamente e in

modo fecondo il carattere oggettivo e storico-relativo della conoscenza occorre rielaborare un

nuovo punto di vista culturale, filosofico ed epistemico complessivo, capace di tener conto, al

contempo, l’indubbia complessità del sapere scientifico, nonché la sua intrinseca flessibilità critico-

epistemica.

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4. Scienza e valori: per un nuovo paradigma epistemico

Ma per sviluppare questo nuovo approccio epistemico occorre anche saper riprendere in considerazione critica la stessa drastica e dogmatica contrapposizione tra la dimensione conoscitiva della scienza e la dimensione axiologico-valoriale. Se infatti la conoscenza scientifica risulta essere, al contempo, storica ed oggettiva, relativa e capace, tuttavia, di farci conoscere il mondo, si deve allora tener presente come questa stessa verità relativa non possa non connettersi anche al complessivo quadro storico-valoriale ed axiologico entro il quale l’uomo svolge la sua vita, partecipando ad una determinata epoca storica, schierandosi per alcuni valori contro altri, parteggiando, appunto, per una società civile che si contrappone ad altri possibili modelli. Tuttavia, per meglio procedere in queste considerazioni, occorre, in primo luogo, chiarire debitamente questo apparente paradosso di una verità relativa.

Quando si parla di “verità relativa” non si intende affatto sostenere che le verità scientifiche siano assimilabili ad una dimensione in cui tutto scorre in modo eracliteo, senza avere mai alcuna possibilità di individuare delle conoscenze effettive e reali. Semmai, con questa espressione si vuole solo mettere in evidenza come la conoscenza umana, proprio perché non è mai configurabile come una conoscenza assoluta ed irrelata, si configura come una conoscenza che risulta essere “oggettiva” proprio perché la sua “assolutezza” non è irrelata, ma nasce, invece, sempre all’interno di un determinato e specifico ambito di indagine, di un determinato universo di discorso. D’altra parte, proprio per questo suo essere una verità “assoluta” realtivamente ad un determinato ambito di indagine, la verità relativa, lungi dall’essere assimilabile ad una soluzione scettica, presenta un carattere affatto singolare: quello appunto di costituire una conoscenza umana, pienamente umana, che si realizza sempre in un contesto relativo, ben circoscritto, parziale e finito. Se infatti modifichiamo il suo ambito di riferimento l’oggettività stessa di questa conoscenza non può che essere profondamente trasformata. In tal modo le verità oggettive, che valgono unicamente all’interno di un ben determinato universo di discorso – per esempio entro l’ambito, definito e ben circoscritto della geometria euclidea – assumono un ben differente significato se vengono invece riferite ad un altro ambito teorico – per esempio, a quello delle geometrie non euclidee. In tal modo si può così comprendere come nell’ambito delle geometrie euclidee la somma interna degli angoli di un triangolo qualunque sia sempre pari ad un angolo piatto, mentre questo stesso assunto non risulta essere più vero in relazione ad un qualunque triangolo delle geometrie non-euclidee.

In tal modo il riferimento alle verità relative, cui mettono capo le differenti teorie scientifiche, sottolinea il carattere peculiare della conoscenza scientifica umana: il suo essere, al contempo,

“assoluta” relativamente al proprio universo di discorso, ma, al contempo, il suo essere “relativa” e

“storica”, proprio perché il suo universo di riferimento non è mai determinato una volta per tutte, non è mai un universo assoluto ed irrelato. Gli universi di discorso possono infatti cambiare a seconda dei differenti ambiti di indagine e anche in relazione alle esigenze di un coerente approfondimento critico della stessa conoscenza umana. Ma tali approfondimenti critici e tali cambiamenti di “universo di discorso” non configurano mai una relatività assoluta del sapere scientifico, un suo indebito slittare in un orizzonte scettico, giacchè il sapere umano vive sempre all’interno di un ben determinato contesto. La sua “assolutezza”, idest la sua “oggettività” si costituisce proprio entro un determinato ambito di indagine, mentre, d’altra parte, la sua intrinseca apertura concettuale nasce sempre dalla possibilità di mettere in discussione critica (anche radicale) proprio quel particolare ambito prospettico, quel particolare universo di discorso, onde analizzare il problema affrontato da un differente punto di vista. Il che ci permette poi di meglio intendere la specifica dialettica di crescita critica del sapere umano il quale ultimo, perlomeno nel corso stesso della storia della scienza, è sempre finalizzato ad approfondire criticamente i risultati che ha via via raggiunti, onde meglio intenderli secondo altre prospettive prospettiche e secondo nuove ed alternative prospettive ermeneutiche

4

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4

Queste tesi sono state affrontate, discusse e infine delineate approfonditamente, in particolare, da Ludovico Geymonat

in uno dei suoi studi più emblematici della sua fase materialistico-dialettica: Scienza e realismo, Feltrinelli, Milano

1977. Tuttavia, alcuni elementi di questa innovativa impostazione epistemica possono essere agevolmente rintracciati

anche in altri diversi, e persino conflittuali, programmi di ricerca filosofici, come quello sviluppato da un epistemologo

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Questa considerazione deve pertanto indurci a considerare, in modo del tutto pacifico, come le conoscenze cui l’uomo può mettere capo, proprio perché costituiscono sempre delle verità relative, non possono mai pretendere di possedere una loro validità assoluta, indipentendemente dall’uomo, dal contesto in cui l’uomo vive e dalla stessa società entro le quali sono state variamente elaborate. Le verità conosciute dall’uomo sono sempre verità umane e dobbiamo pertanto accettare pacificamente la constatazione che queste conoscenze vivono e avranno senso unicamente finchè vivrà l’uomo. Ma poiché l’uomo è, per sua natura, un essere assolutamente contingente, nato per morire, di conseguenza anche le nostre stesse conoscenze vivranno unicamente finchè vivrà l’uomo.

Lungi dall’essere conoscenze assolute, eterne ed irrelate, situate in un mitico iperuraneo platonico, queste conoscenze avranno invece un senso, profondamente umano (quindi storico e relativo), solo finchè continuerà ad esistere la cultura e la società umana. Per questa ragione di fondo queste conoscenze scientifiche, intese come autentiche “verità relative”, non possono neppure essere più considerate come assolutamente indipendenti dalla dimensione axiologica e valoriale propria e specifica dell’uomo. Anche all’interno delle conoscenze scientifiche sono infatti presenti dei valori umani che svolgono una loro precisa funzione euristica ed epistemica. Non per nulla molte teorie scientifiche vengono preferite ad altre per la loro eleganza, per la loro semplicità, oppure ancora per la loro capacità di meglio integrarsi con altri saperi consolidati, per la loro sintonia con una determinata credenza etico-religiosa, con una determinata società politica, etc.

Proprio tutti questi (ed altri) differenti criteri rinviano, in ultima analisi, ad un ben preciso universo axiologico in nome del quale anche le teorie scientifiche sono infine valutate e giudicate complessivamente dalle differenti comunità scientifiche e dalle stesse società umane che finanziano e sostengono le stesse comunità scientifiche.

Del resto per riscoprire la presenza della dimensione axiologica all’interno della scienza basterebbe anche porsi la seguente domanda: le differenti comunità scientifiche come possono scegliere e infine deliberare in relazione alle differenti teorie scientifiche? In altre parole: come si determina il “superamento” di una determinata teoria scientifica? In virtù di quale criterio epistemico una teoria finisce per prevalere sulle teorie concorrenti? Se si interroga la storia della scienza ponendosi domande come queste – o altre analoghe – è allora agevole scoprire come molti fattori extra-scientifici – non tutti intrinsecamente epistemici – svolgano anch’essi, costantemente, un loro ben preciso ruolo nel determinare il successo o l’insuccesso di determinate teorie o di particolari programmi di ricerca scientifici. Il che non vuol affatto dire che l’affermazione di una verità scientifica si realizzi per alzata di mano, come invece avviene nell’ambito delle deliberazioni politiche. Tuttavia, anche all’interno dello sviluppo della conoscenza scientifica, non è affatto difficile scorgere la compresenza di molteplici fattori che condizionano variamente, ma in modo sempre assai rilevante, la storia della scienza e il suo stesso sviluppo concettuale. Non per nulla molti scienziati condividono anche lo sconsolante rilievo di Plank secondo il quale, spesso e volentieri, una determinata teoria scientifica declina e viene infine abbandonata e sostituita da un'altra teoria scientifica unicamente perché una determinata generazione di scienziati viene sostituita, per meri motivi entropici naturali, connessi all’invecchiamento e alla morte, da una nuova generazione di studiosi. Senza ora voler necessariamente aderire a tale assai pessimistica visione della storia del sapere, tuttavia non si può comunque negare come la storia del sapere umano ci ponga spesso di fronte ad alcune svolte rivoluzionarie per l’affermazione delle quali hanno svolto un loro preciso ruolo euristico anche molteplici fattori decisamente extra-scientifici, tra i quali quelli axiologici non sono affatto secondari.

5. Teleologia della conoscenza ed escatologia della speranza

realista oggettualista cattolico come Evandro Agazzi, oppure da un empirista critico neotrascendentalista come Giulio

Preti. Per un confronto diretto e critico tra queste varie tematiche cfr. E. Agazzi, F. Minazzi e L. Geymonat, Filosofia,

scienza e verità, Rusconi, Milano 1989, nonché, in connessione specifica con gli sviluppi del razionalismo critico

europeo del Novecento, il volume dello scrivente L’epistemologia come ermeneutica della ragione, Erga Edizioni,

Genova 1998.

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Per questa ragione di fondo occorre allora reinserire lo stesso problema della comunicazione (anche di quella scientifica) in una diversa prospettiva epistemica, in un diverso, più articolato e assai più flessibile, orizzonte filosofico, in una nuova e progettuale “architettonica” culturale e civile, adeguata alla complessità del problema che stiamo trattando. La valutazione epistemica della plasticità della conoscenza scientifica, della sua natura intrinsecamente storico-relativa ed oggettiva, ci deve infatti indurre a riconsiderare gli stessi nessi tra la conoscenza scientifica e la dimensione storico-civile della modernità. Per avviare una tale riflessione penso che un autore, in particolare, ci aiuti a meglio definire i termini complessivi del problema: Immanuel Kant. Perché Kant? Perché Kant, meglio di molti altri autori, ha colto non solo il preciso valore epistemido della conoscenza scientifica, ma è risuscito anche ad individuare il profondo e fecondo nesso che costituisce l’autentico motore segreto dello sviluppo della modernità, vale a dire il nesso irrinunciabile tra conoscenza e libertà

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.

Conoscenza e libertà rappresentano le due diverse facce della medesima medaglia della modernità: la modernità è infatti cresciuta grazie al profondo intreccio che si è storicamente determinato tra la conoscenza e il suo continuo aprrofondimento critico e il parallelo sviluppo storico-civile delle libertà. Meglio ancora, da un punto di vista criticista si potrebbe anche sostenere come per Kant libertà e conoscenza si rinviano continuamente giacchè la libertà non può che ampliarsi grazie all’approfondirsi della conoscenza umana, mentre, di contro, quest’ultima, per svilupparsi in tutte le direzioni connesse al suo approfondimento, intrinsecamente mercuiriale, non può che richiedere e giovarsi continuamente di una sempre maggiore libertà. In questa prospettiva conoscenza e libertà costituiscono veramente il motore segreto della modernità, l’autentico binomio in virtù del quale il mondo moderno è riuscito progressivamente – e in qualche caso, rivoluzionariamente – a scardinare il precedente mondo feudale e medievale, configurando, infine, un nuovo mondo e una nuova possibilità per la vita umana e le stesse società civili.

Kant stesso indicava questo nuovo orizzonte storico-civile e culturale ponendosi tre domande invero decisive. Apparentemente sono tre domande molto semplici, dietro le quali è tuttavia celato il riferimento ad un binomio rivoluzionario come quello delineato dal fecondo intreccio tra libertà e conoscenza. In ogni caso le domande che Kant poneva (che si poneva e che ci pone) erano le tre seguenti:

- che cosa possiamo conoscere?

- che cosa dobbiamo fare?

- che cosa ci è lecito sperare?

Queste tre domande delineano una precisa ed innovativa architettonica concettuale, filosofica, culturale e civile, mediante la quale si può meglio intendere la natura dell’uomo stesso (non per nulla Kant nelle sue lezioni di logica sosteneva anche come le tre domande testè riferite potessero infine ridursi ad una sola domanda decisiva: che cos’è l’uomo?). Mediante questa triplice interrogazione è possibile indagare non solo la natura, il valore e i limiti della conoscenza umana, ma si può (e si deve) anche collegare la dimensione conoscitiva con quella etico-civile, ponendo in piena evidenza il problema, irrinunciabile, della responsabilità umana e, quindi, quello della libertà umana. Ma non basta, perchè l’uomo non è solo conoscenza e libertà, ma è anche escatologia, è utopia, è desiderio di poter effettivamente incidere sulla storia secondo alcune insorgenze liberanti e autenticamente rivoluzionarie.

In questa prospettiva, che configura una vera e propria “architettonica” della modernità, il sapere umano (in primis quello scientifico) non viene più separato dalla dimensione morale (dall’ambito della libertà), ma viene invece concepito come un momento decisamente irrinunciabile, in virtù del quale l’uomo stesso, rafforzando la sua libertà e la sua conoscenza del mondo, è meglio in grado di porre in essere le proprie utopie. Il che configura un’azione – ad un tempo intellettuale e civile – mediante la quale si deve essere in grado di rompere criticamente il chiasmo reificante della cultura contemporanea, in virtù del quale, invece, la dimensione della conoscenza è sistematicamente scissa e sempre più contrapposta a quella della libertà. Con il risultato, alienante, che l’approfondimento conoscitivo non è più messo illuminsiticamente al servizio di una progressiva dilatazione della libertà civile umana, ma viene invece trasformato in uno strumento coercitivo e reificante, grazie al quale la conoscenza diventa schiava di altre logiche economiche,

5

Ho sviluppato un approfondimento specifico delle tematiche accennate nel seguito del presente paragrafo nei miei

recenti volumi Teleologia della conoscenza ed escatologia della speranza, La Città del Sole, Napoli 2004 e Le saette

dei tartari, Franco Angeli, Milano 2004.

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nel mentre l’uomo stesso è sempre più “cosalizzato” e la sua esistenza si riduce ad un vivere alienato e frammentario, orbato di ogni possibile escatologia. In tal modo l’alienazione sociale, culturale e civile cui l’individuo umano è sempre più ridotto e costretto dalla sistematica contrapposizione, reificante ed astratta, tra conoscenza e libertà, si trasforma in un’autentica gabbia entro la quale non si innesta più nessun processo di autentica liberazione umana. Al contrario, la conoscenza, da strumento di dominio e possesso concettuale del mondo, in grado di farci conoscere nuovi mondi e nuovi orizzonti, si trasforma, sistematicamente, in uno strumento, reificato e deificante, di dominio, mentre l’uomo stesso, privato di ogni responsabilità etico-civile, viene sempre più asservito ad un sistema che tende, inevitabilmente, a trasformarlo in una mera

“rotella” acefala di un ingranaggio più grande di lui (per esempio la globalizzazione contemporanea di fronte alla quale l’individuo si sente del tutto impotente e come radicalmente schiacciato, in una tragica solitudine esistenziale).

Contro questo processo, che finisce inevitabilmente per impoverire sia l’uomo, sia la

conoscenza, sia la libertà dell’individuo, sia la stessa società civile, sia le sue più profonde

potenzialità critiche, l’architettonica delineata da Kant – filosofo che rappresentò l’autentica punta

di diamante dell’illuminismo rivoluzionario e critico - ci offre, invece, la possibilità di rimettere al

centro della nostra azione umana il fecondo nesso tra l’approfondimento della conoscenza e lo

sviluppo di una più ampia e responsabile libertà civile. Naturalmente rispetto all’originaria

architettonica filosofica kantiana occorre oggi sottolineare il carattere intrinsecamente storico della

conoscenza umana. Il che non deve affatto indurci a rinunciare anche all’utilizzazione euristica ed

epistemica del criticismo kantiano. Alla filosofia kantiana va infatti riconosciuto il merito storico-

culturale di aver individuato il piano specifico della trascendentalità, mediante il quale la stessa

conoscenza scientifica umana può essere considerata ed indagata secondo una prospettiva

epistemica molto più seria e rigorosa. Quella che ci induce costantemente a valutare l’oggettività

della nostra conoscenza sul piano decisamente fenomenico, in virtù del quale l’oggettività della

conoscenza non rinvia più ad alcuna ontologia metafisica soggiacente. Meglio ancora: proprio la

scoperta kantiana della trascendentalità e la sua conseguente affermazione dell’intrinseca ed

irrinunciabile trascendentalità di ogni conoscenza umana ci consente di meglio intendere la natura

profondamente epistemica della conoscenza umana. Una conoscenza che non può più pretendere

di svelarci le strutture nascoste e silenti dell’essere, onde por capo ad un disvelamento ontologico-

metafisico, del reale. Al contrario, la scoperta kantiana della trascendentalità ci ricorda,

costantemente, come ogni nostra consocenza, istituendo un proprio specifico e peculiare universo

di discorso trascendentale, un proprio orizzonte epistemico, non può più indurci a scaricare il

contenuto conoscitivo di questo nostro universo sul mondo reale, inteso nella sua immediatezza

più acritica perché, semmai, abbiamo invece a che fare, dal nostro punto di vista umano (assai

flebile e assai claudicante), con un mondo reale che costruiamo continuamente proprio grazie a

quella insopprimibile tensione tra l’ambito della conoscenza e l’ambito della libertà. Il che, anche

contro lo stesso trascendentalismo kantiano configurato nelle tre celebri Critiche del filosofo di

Königsberg, ci consente anche di ribadire il carattere eminentemente storico della stessa

trascendentalità, proprio perché la nostra conoscenza del mondo non è mai una conoscenza

assoluta ed esaustiva, bensì costituisce una conoscenza oggettiva e integralmente umana di un

mondo entro il quale, con la forza della nostra volontà e con l’ausilio del nostro intelletto,

cerchiamo sistematicamente di introdurre qualche flebile fuoco critico, onde meglio illuminare lo

spazio del nostro precario itinerario esistenziale. Ma in questo preciso quadro l’intelligenza e il

cuore, la ragione e la libertà morale, la comprensione umana del reale e l’azione che esplichiamo

nel mondo della prassi, costituiscono, appunto, gli unici supporti, reali, storici ed effettivi, che ci

aiutano a meglio orientarci in un mondo vasto, oscuro e terribile, come quello in cui siamo stati,

inaspettatamente, catapultati.

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