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Regionalismo differenziato: profili procedurali e sostanziali dei lavori in corso e prospettive per il settore sanitario

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Regionalismo differenziato: profili procedurali e sostanziali

dei lavori in corso e prospettive per il settore sanitario

di Davide Servetti

Segretario scientifico della Società italiana di Diritto sanitario

Relazione al Seminario FNOPI “Autonomia differenziata: le proposte delle Regioni” Roma, 6 aprile 2019

Ringrazio per la parola e prima ancora per l’invito che mi è stato rivolto dalla FNOPI ad intervenire in questa importante occasione. L’invito mi onora e io vorrei provare a onorarlo, addentrandomi subito nel merito del tema di questa mattina.

Tonino Aceti ci ha parlato delle diseguaglianze in sanità. L’asse concettuale “eguaglianza/diseguaglianza” è centrale per la questione che trattiamo oggi. Esso che incrocia, ma non va sovrapposto a quello “unità/autonomia”, il quale a sua volta non coincide con la coppia “uniformità/differenziazione”.

La storia del regionalismo in sanità è forse il terreno sul quale questi rapporti si chiariscono meglio. A volte – non dico in un contesto esperto come questo, ma nel dibattito pubblico più largo – hanno spazio semplificazioni eccessive, come quella che instaura una relazione di causalità necessaria tra autonomia, regionalismo, differenziazione, da un lato, e l’aumento delle diseguaglianze dei cittadini, dall’altro. La storia del Servizio sanitario nazionale, che fin da principio e poi più marcatamente nella sua seconda stagione e in quella che viviamo oggi, è un sistema regionalizzato, è la storia di un sistema pubblico che è tra i motori più efficaci e anche più preziosi dell’eguaglianza sostanziale. È così anche perché il SSN si regge su di un delicato equilibrio, come vedremo meglio oltre con riferimento all’argomento che oggi ci occupa, fatto di regole comuni che bilanciano unità e autonomia, uniformità e differenziazione, indirizzando le differenziazioni virtuose a diminuire le disparità di fatto tra persone e tra territori.

Può apparire una premessa scontata, ma va fatta: in sanità più che altrove il regionalismo ha dato prova di essere al servizio della collettività nazionale e di poter funzionare come un sistema nazionale.

Abbiamo evocato il termine chiave di oggi: differenziazione.

“Regionalismo differenziato” o, se vogliamo, “autonomia differenziata” sono espressioni che fanno riferimento ad una disposizione della Costituzione, l’art. 116, terzo comma.

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2 Anzitutto, vorrei ricordare il contesto nel quale siamo.

La discussione di oggi nasce dall’iniziativa di tre Regioni: l’Emilia-Romagna, la Lombardia, il Veneto. Iniziative in parte simili e in parte diverse.

Come sappiamo in Veneto e in Lombardia, nell’ottobre 2017 si è tenuto un referendum consultivo/di indirizzo indetto dalle rispettive amministrazioni regionali, che ha interrogato i cittadini residenti sulla volontà che fossero attribuite alla Regione ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia. Questa formula è quella che ritroviamo nell’art. 116, terzo comma, come vedremo tra poco. Alcuni giorni prima della celebrazione dei referendum veneto e lombardo, l’Emilia-Romagna ha preso anch’essa l’iniziativa, deliberando di voler attivare la clausola del 116 ed esplicitando di non ritenere necessaria alcuna consultazione popolare al riguardo.

Si ricorda meno che questa strada era iniziata tre anni prima con l’approvazione da parte del Veneto di due leggi regionali (nn. 15 e 16 del 2014) che prefiguravano diversi quesiti referendari. L’unico ad essere stato dichiarato non illegittimo dalla Corte costituzionale (sentenza n. 118 del 2015) è stato quello poi votato nel 2017, ovvero quello che chiedeva se la Regione dovesse o meno prendere l’iniziativa per l’attuazione dell’art. 116, terzo comma, che assegna questa iniziativa proprio alla Regione.

Quel che vorrei ricordare è che la Corte, in quell’occasione dichiarò incostituzionali le norme recanti tutti gli altri quesiti. In primis, quello che intendeva chiedere al corpo elettorale se il Veneto dovesse essere dichiarato una repubblica indipendente e sovrana, per palese violazione del principio di unità e indivisibilità della Repubblica di cui all’art. 5 della Costituzione. Ma furono dichiarati incostituzionali anche gli altri quesiti che, semplificando, ambivano al risultato di trasformare il Veneto in una regione ad autonomia speciale (uno dei quesiti lo chiedeva espressamente, gli altri aprivano prospettive di autonomia finanziaria che richiamavano privilegi fiscali e finanziari che guardavano ad alcune autonomie speciali e in realtà sarebbero andati anche oltre).

Ecco, sta qui un primo dato importante. Una delle ambizioni espresse in quella vicenda era quella ad acquisire una forma di autonomia speciale. La sentenza della Corte (la quale dichiara illegittimi i quesiti richiamati per ragioni molteplici e tra loro concorrenti) ci dice che una simile decisione non può spettare al solo corpo elettorale regionale (neppure in via consultiva e preliminare a ogni iniziativa formale): si tratta di una decisione che andrebbe presa attraverso una revisione costituzionale e interpellerebbe l’intera collettività nazionale.

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3 parametri costituzionali, alle sue sedi di concertazione, ecc. L’autonomia differenziata rompe certamente il modello del regionalismo dell’uniformità cui è stato sempre improntato il regionalismo ordinario, ma non può creare un terzo “tipo” di autonomia.

Torniamo ai fatti.

Dopo l’iniziativa romagnola e quella lombarda e veneta che segue ai referendum, parte immediatamente una trattativa con il Governo Gentiloni che sfocia nel febbraio 2018 nell’approvazione, agli sgoccioli della XVII legislatura, di tre “pre-accordi” i quali contengono indicazioni di metodo per proseguire l’attuazione dell’art. 116, terzo comma, e individuano gli ambiti materiali interessati. Tra questi vi è la tutela della salute (allegato III di ciascun pre-accordo). Si tratta di atti che esauriscono il loro valore sul piano politico, che non sono in grado di vincolare sul piano giuridico.

Si apre la nuova legislatura e il contratto di governo tra le due forze di maggioranza stabilisce, tra le priorità del programma, l’attuazione del regionalismo differenziato, esprimendo l’intenzione di portare a rapida conclusione le trattative iniziate con le tre regioni che avevano stipulato i preaccordi. Il contratto si dice favorevole poi anche ad avviare eventuali nuove trattative con altre regioni che motivatamente lo avessero richiesto. Su questo avverbio (“motivatamente”) avremo modo di tornare, perché esso sottende una questione fondamentale, quella delle motivazioni che sorreggono la richiesta di differenziare, accrescendola, l’autonomia regionale di una regione piuttosto che di un’altra e su di una materia piuttosto che su un’altra.

Il Governo Conte, dunque, prosegue le trattative, che rimangono riservate tra gli esecutivi nazionale e regionali. Anche questo aspetto, quello della negoziazione riservata, va sottolineato e tornerà nel nostro discorso.

Nel frattempo si sono attivate anche altre Regioni, le quali, alcune con proposte strutturate altre con la deliberazione di meri atti di indirizzo, chiedono di accedere all’autonomia differenziata. Soltanto l’Abruzzo e il Molise, al momento, risulta non abbiano adottato iniziative. Peraltro, merita ricordare che la situazione è in evoluzione. Se in un primo tempo tutte le proposte formali contenevano tra le materie oggetto di differenziazione quella sanitaria, è di qualche settimana fa la notizia che questa non sarebbe più l’intenzione del Lazio. Nel giugno 2018, il Consiglio regionale aveva approvato un ordine del giorno che conteneva tra le materie anche la salute; lo scorso febbraio, invece, la Giunta ha annunciato l’intenzione di sottoporre al Consiglio delle autonomie locali una proposta che non vede la tutela della salute tra le materie. Una scelta significativa per una Regione con una esperienza ultradecennale in piano di rientro.

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4 concerne la materia sanitaria, va notato che in questi documenti si ritrovano oggetti e indicazioni già presenti nell’allegato III dei pre-accordi (quello dedicato alla tutela della salute), sicché possiamo ragionevolmente identificare quali siano, ad oggi, i profili della materia oggetto delle trattative e quale direzione potrebbe prendere il processo di differenziazione.

Tornerò più avanti sui profili specificamente attinenti la materia sanitaria. Prima, però, è necessario soffermarsi proprio sull’art. 116, terzo comma, che abbiamo finora richiamato senza precisare i suoi contenuti procedurali e sostanziali.

I primi due commi dell’articolo 116 riguardano le regioni speciali, così come accadeva – pur essendo intervenuta qualche riformulazione che qui non ci interessa – nel testo precedente alla riforma del 2001.

Il terzo comma è invece di nuovo conio ed è stato introdotto con quella revisione.

Esso dispone che alle “altre Regioni”, ovvero alle Regioni a statuto ordinario, possono essere attribuite “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. La Costituzione delimita l’ambito di materie al cui interno può avvenire questa attribuzione. Si tratta comunque di un ambito ampio, il quale arriva a comprendere tutte le venti materie di potestà concorrente (quelle che già oggi spettano alla potestà legislativa delle Regioni, ma con il limite del rispetto dei principi fondamentali della materia stabiliti dalla legge statale: come sappiamo la tutela della salute è una di queste materie). Inoltre, tra le materie che possono essere oggetto di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia vi sono tre oggetti che appartengono alla potestà esclusiva statale. Sono molto diversi tra loro. Uno è molto limitato, l’organizzazione degli uffici del giudice di pace, che fa parte della più estesa materia della giurisdizione. Il secondo oggetto sono le “norme generali sull’istruzione”: un oggetto un po’ problematico perché la materia dell’istruzione è già sottoposta a un riparto complicato, ma in questa sede ci interessa relativamente. Il terzo oggetto è invece assai più ampio e coincide con l’intera materia della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Si tratta peraltro di una materia che ha diverse interconnessioni con quella sanitaria.

L’articolo 116, terzo comma, dopo averci detto in quali materie è possibile differenziare le competenze, ci dice anche come, ovvero dà indicazioni essenziali circa la procedura di differenziazione: l’iniziativa è della regione interessata; devono essere sentiti gli enti locali; le ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia sono attribuite con una legge dello Stato che il Parlamento approva a maggioranza assoluta, sulla base di una intesa tra lo Stato e la Regione interessata. E qui emergono i due atti principali di questa procedura: l’intesa, che spetta concludere al Governo della Repubblica e alla Giunta regionale, e la legge (che possiamo chiamare legge di differenziazione), che spetta al Parlamento approvare.

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5 Il principio di corrispondenza tra funzioni e risorse: ovvero non si possono avere più risorse se non sono necessarie a finanziare le funzioni, né si possono avere delle funzioni non coperte finanziariamente da risorse adeguate.

Poi il principio per cui le Regioni devono rispettare l’equilibrio di bilancio e concorrere ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’Unione europea.

Non da ultimo, il principio di perequazione finanziaria: spetta allo Stato l’istituzione di un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, a beneficio dei territori con minore capacità fiscale per abitante. Una fondamentale regola di solidarietà nazionale e di giustizia sociale, volta a perseguire l’eguaglianza sostanziale tra le persone a prescindere dal territorio dove nascano, abitino, lavorino.

Il problema del rispetto dell’art. 119 ci consente, per così dire, di prendere subito il toro per le corna.

È possibile attraverso il regionalismo differenziato dare luogo a quella che sui giornali viene chiamata la “secessione dei ricchi”? Ovvero è possibile realizzare l’aspirazione di alcuni di trattenere sul territorio regionale una parte più ampia della ricchezza qui prodotta?

Si tratta di uno scenario sul quale si confrontano orientamenti politici diversi, che restano fuori dall’ambito di questo mio intervento. Sotto il profilo tecnico, si potrebbe dire molto, ma non è la mia competenza, sui profili economico-finanziari della questione. Ne emergerebbe ad esempio che la nozione di residuo fiscale in scienza delle finanze nasce al fine di costruire strumenti di perequazione e non viceversa; e sarebbe interessante soffermarsi sui calcoli che portano a determinare il residuo fiscale, ovvero il saldo tra quanto prodotto in termini di entrate fiscali in un certo territorio e quanto in questo torna in termini di spesa pubblica.

Oggettivamente, l’argomento della possibilità di trattenere più risorse sul territorio attraverso l’attivazione della clausola del 116 è stato molto presente nella campagna referendaria. Così come la prima proposta di legge approvata dal consiglio regionale veneto percorreva questa direzione, prospettando addirittura il mantenimento sul territorio dei nove decimi delle principali imposte esatte nella Regione.

Credo che, in mezzo a diverse opinioni politiche o economiche che possono aversi, il punto di vista giuridico possa esprimere una valutazione certa: una simile prospettiva è preclusa dalla Costituzione. Non solo la Corte costituzionale ha espressamente affermato che quello di residuo fiscale è un concetto che non rappresenta un criterio specificativo dei principi del 119 (v. sentt. nn. 69 e 83 del 2016), ma è evidente che trattenere risorse a prescindere dalle funzioni cui sono destinate, sottraendole alla redistribuzione territoriale, si scontri con più di uno dei principi che citavo poc’anzi.

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6 contemplare la capacità fiscale dei territori tra i criteri di quantificazione delle risorse da trasferire per le nuove funzioni. Una simile ipotesi è stata recentemente esclusa, però, dallo stesso Ministro per gli affari regionali, la quale, rispondendo in Parlamento a una interrogazione sul punto, ha affermato che «Non è previsto in alcun modo il riferimento ad indicatori collegati all'introito fiscale». Segnalo, come oggetto degno di ulteriori approfondimenti su questo fronte, una previsione non del tutto perspicua delle bozze di intesa, parte generale, attualmente note: l’articolo 5, comma 4 (“L’eventuale variazione di gettito maturato nel territorio della Regione dei tributi compartecipati o oggetto di aliquota riservata rispetto alla spesa sostenuta dallo Stato nella Regione o, successivamente, rispetto a quanto venga riconosciuto in applicazione dei fabbisogni standard, anche nella fase transitoria, è di competenza della Regione”). Ora non possiamo soffermarci su questi particolari, ma era giusto per segnalare che è opportuno vigilare perché i principi del 119 siano pienamente rispettati, altrimenti si rischia di costruire un edificio con fondamenta finanziarie a rischio di illegittimità costituzionale.

Stanti così le cose, allora, si potrebbe ritenere che, poiché le risorse non potrebbero che essere sempre e solo correlate alle funzioni e le maggiori risorse deriverebbero dalla capacità di utilizzarle bene – il che non può essere che giusto e da favorire –, insomma, poiché non c’è la possibilità di recuperare il c.d. residuo fiscale, allora nessuna “secessione dei ricchi” è possibile.

Attenzione però ai giudizi troppo affrettati. La capacità di un sistema di assicurare l’eguaglianza sostanziale, ovvero di esprimere una effettiva e costante tensione verso l’eguaglianza sostanziale, dipende non solo da come sono ripartite le risorse ma anche dagli assetti di governo, dall’organizzazione dei servizi, dalla regolazione dei rapporti tra pubblico e privato, ecc. Se, per ipotesi, la differenziazione in sanità significasse mettere in discussione profili puntuali ma portanti del SSN, perché ad esempio ne assicurano l’universalità oppure garantiscono che il finanziamento avvenga a prevalente carico della fiscalità generale e quindi presidiano l’equità nell’accesso ai medesimi servizi, allora il discorso cambia. In altre parole, il rischio di aumentare le disparità tra persone (ancor prima che tra territori, perché le persone meno abbienti abitano anche nelle regioni del Nord) allora esiste. Anche se eliminiamo dalla scena il problema del residuo fiscale. Dirò più avanti come l’opportunità di precisare già in sede di intesa e di legge di differenziazione quali principi fondamentali statali verrebbero meno relativamente ad alcuni profili della materia sanitaria (come tariffari, accreditamento, fondi integrativi e simili), ovvero l’opportunità che le intese e le leggi di differenziazione non restino ambigue su questi temi si lega proprio alla necessità di non aprire a possibili percorsi di decostruzione del SSN.

Torniamo all’articolo 116, perché si è molto discusso sulle scelte di attuazione in corso.

Nel 2007 si fece il tentativo di scrivere in una legge ordinaria regole generali per l’attuazione dell’articolo 116, così da evitare che per ogni Regione ci si potesse inventare una procedura diversa e si potessero interpretare diversamente i limiti sostanziali. Restò un mero progetto del Governo, ma l’intenzione probabilmente era buona.

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7 Gli aspetti procedurali che andrebbero chiariti sono diversi:

1) che cosa vuol dire iniziativa regionale (una istanza, una vera propria proposta di legge)

2) quando e come si deve avere il parere degli enti locali (è un profilo sul quale c’è poca attenzione e invece è molto importante)

3) che rapporto c’è tra l’intesa Stato-Regione e la legge di differenziazione ovvero quanto e come la seconda è vincolata alla prima

4) la procedura è reversibile? Si può tornare indietro? Come si fa a modificare le decisioni prese in base al monitoraggio sull’attuazione? Dopo tutto, in teoria, uno dei vantaggi di “decostituzionalizzare” per le Regioni che attivano la clausola del 116, terzo comma, alcuni profili del riparto di competenze è quello di rimetterli ad una fonte più flessibile di quella costituzionale e questo potrebbe agevolare le sperimentazioni.

Sono tutti profili interessanti. Per ragioni di tempo, permettetemi di dire qualcosa sulla questione più dibattuta: il rapporto tra intesa e legge, perché non è solo, ovviamente, una questione di successione procedurale. È il cuore del procedimento.

Nei pre-accordi del febbraio 2018 si prevedeva di adottare la prassi utilizzata nell’attuazione dell’articolo 8, terzo comma, ovvero la disposizione della Costituzione che stabilisce che i rapporti tra lo Stato e le confessioni non cattoliche sono regolati dalla legge sulla base di intese concluse con le organizzazioni esponenziali di tali confessioni. In via di prassi, si è affermata in questa ipotesi una soluzione per cui il negoziato si esaurisce nei rapporti tra Governo e confessione religiosa. I risultati del negoziato sono fissati nell’intesa e poi il Parlamento è chiamato ad approvarla o meno. Si tratta di una procedura in cui il Parlamento è chiamato a un “prendere o lasciare”. E infatti esistono intese concluse e mai recepite con legge.

Si sono espressi molti dubbi su questa scelta.

Il primo ordine di dubbi riguarda la non assimilabilità tra i rapporti tra lo Stato e una confessione religiosa e tra lo Stato e la Regione. Quasi non servirebbe precisarlo, tanto è evidente, ma stiamo parlando di situazioni non paragonabili. I primi sono rapporti tra due ordinamenti “originari”, tra autorità civile e autorità religiosa. Sono in ballo diritti e libertà fondamentali come quella di culto, a livello individuale e collettivo. Il rapporto tra Stato e Regione è quello tra due enti costitutivi della Repubblica e il regionalismo differenziato mette in gioco la distribuzione di potestà pubbliche, anzitutto della potestà legislativa.

Ecco che il secondo ordine di dubbi e di critiche ha riguardato la conseguenza di quella scelta, ovvero la prefigurazione di un ruolo notarile del Parlamento, chiamato appunto a prendere o lasciare, senza poter incidere sui contenuti della differenziazione.

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8 Non è solo un problema di bilanciare il ruolo di Governo e Parlamento, per cui riconoscere al Parlamento spazi decisionali compensa il ruolo preminente del Governo nella negoziazione con la Regione.

È in ballo, infatti, il riparto della potestà legislativa, si tratta di trasferire dall’ambito della legislazione statale all’ambito della legislazione regionale oggetti, funzioni, materie. Ovvero la differenziazione incide direttamente sui poteri del Parlamento.

Ma probabilmente l’argomento più forte che sostiene la necessità di disegnare una partecipazione effettiva delle Camere è il fatto che la differenziazione comporta scelte che ricollocano i punti di equilibrio, ridefiniscono i bilanciamenti tra unità e autonomia e incidono sull’eguaglianza dei cittadini. Da questo tipo di ponderazioni il Parlamento non può essere escluso attraverso una interpretazione soltanto formale del ruolo che gli assegna l’art. 116, terzo comma. Del resto, se la Costituzione richiede l’approvazione a maggioranza assoluta e quindi mette in campo una legge rinforzata è perché su questa deliberazione richiede la formazione di un consenso ulteriore rispetto a quello che basta per approvare una qualsiasi legge. E ciò dovrebbe orientare a una interpretazione che valorizza il ruolo delle Camere, non viceversa.

Sul fatto che al Parlamento non spetterà un mero ruolo notarile pare oggi essersi formato un vasto consenso, anche per le diverse prese di posizione al riguardo. Ricordo che sul punto c’è stato anche un appello di un folto gruppo di costituzionalisti al Presidente della Repubblica e ai presidenti e componenti delle camere. Prima citavo un intervento del Ministro Stefani in Senato e anche in questa sede è stato ribadito che le prerogative del Parlamento saranno rispettate.

Concretamente, vi sono diverse possibilità. Una è quella di separare le due fasi, sottoporre al parlamento l’intesa e poi consentire di emendarla, con il problema poi di capire quali emendamenti richiederebbero nuovamente la formazione del consenso tra le parti. Un’altra è quella di coinvolgere il Parlamento prima della conclusione formale delle intese, sottoponendo gli schemi di intesa alle Camere, nelle commissioni competenti per materia e nella commissione bicamerale per le questioni regionali (che ha deliberato un’indagine conoscitiva per seguire il procedimento in corso). Forse sarà questa la via che si percorrerà.

Altra questione interessante è quella della reversibilità: si può tornare indietro? Astrattamente vi sarebbero diverse soluzioni. Diversamente dai pre-accordi, le bozze di intesa licenziate, per la parte generale, lo scorso febbraio non contemplano la possibilità di revisione a scadenza fissa. Per ragioni di tempo, non posso soffermarmi, semmai se interessa ci si può tornare nel dibattito. Veniamo alle questioni sostanziali.

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9 C’è un però: sull’alternativa tra differenziazioni puntuali (su alcune materie e non su tutte) e differenziazioni totali (che vogliono rendere diversa l’autonomia della Regione in ordine a tutte le materia o ad una grande quantità delle stesse) si gioca la concezione del tipo di autonomia praticabile attraverso la clausola del 116, terzo comma. È chiaro che se io concepisco il 116 come uno strumento per valorizzare singole peculiarità e, in particolare, singoli casi di successo, virtù, meriti che la Regione ha dimostrato di avere nella gestione di una certa materia oppure se esiste una situazione di fatto chiaramente peculiare del territorio, del patrimonio artistico, della popolazione di una regione che impatta su di una certa materia e sollecita una maggior libertà di adattare le norme a questa realtà, allora in questi casi noi ci muoviamo nell’ambito di una differenziazione che sta dentro l’autonomia ordinaria. Anzi, potrebbe far scuola ad altre Regioni e promuovere positive contaminazioni.

Se, invece, una Regione esprime la volontà di differenziarsi su tutto o quasi tutto, allora quella che fatta valere è una specialità in termini generalizzati. Si rivendica, sul piano politico, una specialità complessiva della complessiva realtà regionale, non la specialità di alcune sue parti, di certe materie. Questa prospettiva, che, ripetiamo, è consentita dalla lettera della disposizione costituzionale, deve ricevere un’attenta considerazione, perché pare avvicinarsi a uso del 116, terzo comma, funzionale alla creazione di un “terzo” tipo di autonomia tra ordinaria e speciale. Questo discorso di lega strettamente alla seconda questione sostanziale che accenno: la motivazione delle istanze di accesso all’autonomia differenziata. Perché è ragionevole pensare che in sede di iniziativa e ancor più di negoziato si ragioni in modo sostanziale sulle ragioni per cui sia opportuno che una certa funzione passi dallo Stato alla Regione, che in una certa materia la Regione incontri meno limiti imposti dalla legislazione centrale? È ragionevole per evitare storture, per razionalizzare le scelte. Pensiamo al problema dei deficit sanitari. Lo ha scritto più di un commentatore: alle Regioni che sono in piano di rientro e hanno magari storici problemi di equilibrio dei bilanci sanitari e di controllo della spesa sanitaria, che poi si portano dietro sempre problemi di erogazione non adeguata dei livelli essenziali di assistenza, è razionale concedere, senza motivazione, più autonomia in materia sanitaria?

Quel “motivatamente” che sta nel contratto di governo meriterebbe di essere preso sul serio. Questa esigenza, seppur in termini diversi, vale anche per le Regioni virtuose perché la motivazione delle loro richieste rischia di indebolirsi se la differenziazione viene a riguardare la generalità delle materie o la loro larga maggioranza.

Veniamo dunque al settore che più ci interessa.

La sanità è indubbiamente un banco di prova del regionalismo differenziato.

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10 Si dice spesso che l’importante è tenere fermo il limite dei LEA: se io Regione mi impegno a erogare i LEA poi posso fare tutte quel che voglio rispetto all’assetto e all’organizzazione dei servizi. Si tratta di una semplificazione fin troppo evidente. Infatti sappiamo benissimo che i LEA possono essere declinati anche in termini di standard organizzativi perché tra tutela del diritto alla salute e organizzazione dei servizi c’è a volte una implicazione reciproca che non può essere superata. Non è un caso che la Corte costituzionale lo abbia riconosciuto più volte con riferimento ai LEA e ancor più con riferimento ai principi fondamentali della materia concorrente tutela della salute. Prendiamo oggetti come l’intramoenia: alcune norme organizzative che potevano apparire di dettaglio sono state ritenute dalla Corte costituzionale (es. sent. n. 371 del 2008) esprimere principi fondamentali perché presidiano equilibri importanti per la tenuta del SSN. Ad esempio con riferimento al rapporto pubblico-privato.

Il SSN ha sue coerenze interne e non tutte possono tollerare una fuoriuscita dal modello.

Abbiamo detto che le bozze di intesa pubblicate non riportano la parte del documento relativa alle materie. Sappiamo che il Veneto chiede la differenziazione nella misura massima possibile (23 materie su 23). La Lombardia quasi: 20 su 23. L’Emilia-Romagna 15 su 23.

Per quanto riguarda la tutela della salute non ci sono testi ufficiali con il dettaglio delle previsioni attualmente in discussione. Però conosciamo quello che prevedevano i pre-accordi e possiamo constatare che nelle bozze officiose in circolazione la gran parte di queste previsioni sono confermate.

Vediamo su che cosa queste tre regioni chiedono più autonomia in sanità. Cito gli ambiti principali: 1) gestione del personale (in ordine alla rimozione di vincoli specifici di spesa e di attività libero-professionale);

2) formazione del personale medico specializzato (in particolare, attraverso appositi accordi con le Università) e previsione di un nuovo inquadramento professionale, quello dei medici assunti con contratto a tempo determinato di “specializzazione-lavoro”;

3) determinazione del sistema tariffario, di rimborso, di remunerazione e di compartecipazione; sistema di governance delle aziende e degli enti del Servizio sanitario regionale;

4) istituzione e gestione di fondi sanitari integrativi.

I pre-accordi contemplavano altresì la possibilità per le Regioni di interloquire con l’Aifa in tema di equivalenza terapeutica dei medicinali, nonché l’assicurazione, da parte dello Stato alle Regioni medesime, di un quadro pluriennale, certo e adeguato di risorse in tema di patrimonio edilizio e tecnologico.

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11 SSR e ad incentivi di sostegno per il personale operante in sedi montane disagiate (per il Veneto), i tre pre-accordi presentavano clausole analoghe.

Nelle bozze officiose attualmente in circolazione i nuovi spazi di autonomi in ordine a questi oggetti vengono disciplinati nel dettaglio? Non quanto sarebbe necessario.

Qui sta un punto che riguarda tutti questi oggetti (poi scenderò nel particolare di alcuni). Come si fa a stabilire quanto di nuovo spetta alla Regione, ovvero quali sono le ulteriori forme e le condizioni particolari di autonomia (non genericamente più autonomia), se non si individuano i limiti statali che non valgono più per queste regioni? Si potrebbe replicare – sembra questa l’impostazione emergente dalla parte generale delle bozze di intesa (art. 7) – che questi dettagli verranno dopo, con l’attuazione della legge di differenziazione. Il problema è che senza individuare i limiti che non valgono più e gli spazi nuovi per la Regione, è difficile capire dove va la differenziazione.

Facciamo alcuni esempi, in positivo e in negativo.

La farmacovigilanza, sulla quale peculiarmente si soffermano l’accordo preliminare e la bozza di intesa relative all’Emilia-Romagna, costituisce un caso esemplare: la maggiore capacità di controllo e gestione del farmaco da parte di una Regione va a vantaggio diretto della sua popolazione e indiretto della collettività nazionale, si muove nell’ambito dei principi statali sul sistema del farmaco, individua un modello virtuoso anche per altre realtà regionali, può preludere a maggiori spazi di autonomia nella organizzazione e gestione della distribuzione, anche al di là del modello che la legislazione statale indica alla generalità delle Regioni. In una situazione di questo tipo, la differenziazione ex art. 116, comma 3, può consentire ad una Regione di far evolvere gli schemi imposti dalla legislazione statale e superarli a beneficio di un proprio modello organizzativo, ma sempre restando nell’ambito dei principi che fondano il SSN e contribuendo, anzi, al loro dinamico rafforzamento.

Altro esempio positivo di differenziazione, perché puntuale: la rimozione di specifici e rigidi vincoli di spesa sul personale, i quali sono stati introdotti in via generalizzata in una fase di necessaria contrazione della spesa pubblica e oggi risultano oggettivamente d’ostacolo a Regioni che possono assicurare l’equilibrio finanziario anche superando tali limiti.

In materia di personale, però, incontriamo anche alcune criticità.

Mi riferisco alla previsione di un nuovo tipo di contratto, quello di “specializzazione-lavoro”.

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12 specializzandi, affiancando al contratto di formazione specialistica la figura del “contratto di specializzazione-lavoro”. In proposito, oltre che stabilire procedure di selezione concorsuale e prevedere il finanziamento con risorse proprie della Regione, dovranno essere definiti i compiti assegnabili a tali neo-laureati, nonché i caratteri del rapporto di lavoro propri al nuovo status professionale. Una tale disciplina interseca, a titolo prevalente, la materia dell’“ordinamento civile” (materia in cui questi profili rientrano) che è di esclusiva competenza statale e dunque pone dei problemi, perché i rapporti contrattuali devono essere regolati allo stesso modo su tutto il territorio nazionale; non a caso l’ordinamento civile non figura tra gli oggetti di potestà esclusiva devolvibili ai sensi dell’art. 116, terzo comma.

Vi sono poi previsioni che impongono una generale riflessione, perché possono incidere sul complessivo assetto del SSN.

Nelle bozze di intesa si prefigura maggior autonomia relativamente alle misure di compartecipazione alla spesa. La richiesta di un più ampio spazio di modulazione delle stesse non può non essere correlata con le decisioni concernenti i cosiddetti fondi sanitari integrativi: per ragioni che gli esperti di sanità pubblica da molto tempo ben conoscono, i sistemi cosiddetti multi-pilastro presentano inefficienze, sprechi e complessiva minore qualità rispetto a un sistema quale quello italiano. Ne consegue che è assai problematico devolvere a singole Regioni la facoltà di derogare al sistema costruito dalla legge n. 833 del 1978 e dalle riforme della medesima approvate nel 1992, 1993, 1999 e 2012, senza una preventiva ampia discussione nazionale: trattandosi di una materia nella quale le interrelazioni regionali sono strettamente dipendenti dall’assetto di fondo del sistema, una devolution riferita a questo o quel territorio regionale rischierebbe di comportare la destrutturazione del Servizio sanitario nazionale e l’aumento delle diseguaglianze e delle iniquità, senza che siano chiaramente percepibili i vantaggi in termini di tutela della salute e garanzia dei Lea (e anzi, stante il prevedibile carattere largamente sostitutivo e non meramente integrativo delle prestazioni coperte da tali fondi, generando duplicazioni e aggravando le disparità tra territorio e territorio, tra cittadino e cittadino). Inoltre, non sarebbe difficile scorgere nella combinazione di fondi sostitutivi, manovre sui ticket, regole “ammorbidite” quanto all’attività libero-professionale intramuraria e facoltà di assumere medici non in possesso di specializzazione né che abbiano stipulato un contratto di formazione specialistica, la possibile costruzione di un sistema “a doppio pilastro” assai squilibrato, nel quale la qualità dei servizi e delle prestazioni rese dalla componente pubblica sarebbe inevitabilmente recessiva rispetto a quella realizzabile all’interno del settore privato: ma una siffatta situazione non sembrerebbe per nulla coerente con le premesse dell’inclusione della tutela della salute nel novero delle materie al cui proposito attribuire forme e condizioni particolari di autonomia.

Vengo allora alle conclusioni.

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13 attraverso la clausola dell’art. 116, terzo comma, Cost. in quanto si valuta non esistano strumenti alternativi e meno impegnativi, il regionalismo differenziato in sanità risponderebbe alla logica del sistema.

Questa opportunità non è però priva di rischi. Quello più rilevante è che una differenziazione che non sappia distinguere tra principi comuni derogabili e non derogabili si presti, magari non oggi, ma in futuro – queste previsioni, in assenza di un meccanismo di revisione o reversibilità precostituito, sono destinate a durare nel tempo –, a politiche sanitarie regionali che disarticolano il Servizio sanitario nazionale. Come sottolineava nel suo messaggio il prof. Balduzzi, il SSN ha sue coerenze interne e queste hanno bisogno di congegni di tenuta unitaria. Se questi elementi vengono meno o ne escono indeboliti il problema non riguarda solo le singole Regioni interessate, ma la collettività nazionale, a partire dalle comunità professionali che operano in sanità.

In questa fase della discussione, alla sottolineatura di questi rischi qualcuno potrebbe certamente rispondere che l’elaborazione delle intese saprà disinnescarli. È auspicabile sia così. Tuttavia è facile replicare che, se i testi attualmente oggetto di una negoziazione riservata tra esecutivi non verranno pubblicati per tempo e sottoposti a una discussione pubblica, è doveroso che il dibattito evidenzi tutte le opportunità e i rischi possibili.

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