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1- Monica senza cuore

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Academic year: 2022

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1- Monica senza cuore

«Non sono mai stata una bambina facile… crescendo poi, beh… è stato anche peggio.»

Siberia, 1954 (XJ – VII)

Le dita fredde di Monica scavavano fra la roccia e la terra nuda. Le unghie si erano ormai tutte rotte o scheggiate; sanguinavano, piene di fango e pus, ma Monica non sentiva più il dolore da qualche anno. Forse i nocicettori le erano saltati per il freddo, forse si erano abituati ad una soglia del dolore più alta, o forse ancora erano stati quegli esperimenti, nella stanza bianca, e le caramelle che la facevano dormire. Ma per Monica non erano mai esisti dei se, dei ma e neppure dei forse; perciò continuava a scavare, nonostante sotto tutto quel fango e quella roccia non trovasse altro che altro fango e altra roccia.

“Eppure, mamma lo ha messo qua… me lo ha detto lei… tante volte… prima di… uff… la terza colonna di destra, terza di destra, a fianco della cella di Osmir il pazzo… anche se Osmir è morto da mesi, la colonna rimane pur sempre questa…”

La grotta era sepolta nel silenzio.

Era uscita per ultima dalla sua cella, mentre tutti i prigionieri si erano precipitati verso l’uscita, baccagliando con mogia allegria nel ritrovare la libertà perduta; e ora, l’unico suono nella caverna, era il crepitio delle sue unghie rotte nella roccia.

*Clank*

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Sotto le dita sanguinanti giunse un rintocco nuovo: non più crepitante roccia, ma setoso metallo.

Era un medaglione, due anzi, ad incastro, perché riesumandolo dalla roccia gli si spezzò fra le mani: dentro c’erano le foto di un uomo e una donna che non aveva mai visto. Lo sistemò e se lo rigirò fra le dita, malmesse ma ancora agili. Era d’oro,

probabilmente, ma Monica non aveva ricevuto un’educazione sull’economia dell’oro; sapeva solo che mamma aveva detto di prenderlo, per scambiarlo con qualcosa di meglio, tipo del cibo.

Se lo infilò nelle mutande e, come tutti i prigionieri prima di lei avevano fatto, iniziò ad incamminarsi verso l’uscita.

Aveva fatto bene ad uscire per ultima: i soldati si erano divertiti ad esaurire i proiettili sui primi a sgusciar fuori dall’ombra, prima di abbandonare il campo a bordo delle loro camionette.

Forse ci avevano piazzato sopra anche qualche scommessa, su chi avesse le forze di uscire per primo; ma questo solo forse.

Orme nella neve di prigionieri già partiti: giusto quei pochi con qualche energia residua, e che arrivando dopo i primi non avevano ricevuto la giusta dose di piombo; non molte impronte sulla neve quindi.

La maggior parte di loro era ancora lì.

Fermi, all’entrata, come lucertole stanche.

Il fuoco era spento all’interno dai loro occhi; corpi morti da tempo, anime sgusciate via dalle sbarre, cuori che continuano a battere, fiochi, per soffiare via la cenere, per sciogliere la neve.

Ma quanto può essere stupido un cuore che continua a battere vedendosi l’anima venir strappata via?

Vive forse nella speranza che un giorno ritorni?

Non sarebbe più facile morire?

Eppure le lucertole erano lì, attendevano che il sole del mattino scaldasse i loro corpi; ma per alcuni era la prima volta: non sapevano che in Siberia il sole non scalda.

In balia del vento, nella speranza che la luce donasse la forza di compiere i primi passi, che la neve si sciogliesse, che il cammino si rivelasse, che l’anima tornasse al suo posto.

(3)

I più cadevano sfiniti, affaticati dall’impresa ancor prima di iniziarla.

Monica guardò il sole, beffardo nel grigio cielo, e lo sbeffeggiò a sua volta.

Lei non era stupida, sapeva che l’unica energia che potesse arrivarle, veniva dal cibo. Si era conquistata “l’amicizia” di Oleg, un soldato dolce, dal viso tondo e vagamente deforme, lasciato a marcire nella Siberia come guardiano del gulag 876; un prigioniero che governa prigionieri.

Ne aveva sentito addosso gli sguardi, quando passava di ronda per il corridoio, mentre distribuiva il rancio; di quel malsano interesse, ne aveva saggiamente approfittato.

Una sega ogni quattro giorni per doppio rancio con doppio grasso, e ogni tanto un pezzo di carne nascosto nella brodaglia: un bene che anche i soldati facevano fatica ad avere.

Un prezzo disdicevolmente onesto per essere ancora viva.

Per avere le forze di continuare.

Mentre i detenuti a fianco deperivano, lei lentamente nel gelo cresceva, come stella alpina fa.

Guardò il panorama lontano, dove al termine di una vastissima pianura iniziava del bosco, e ancor dopo iniziavano le montagne.

Il sole, con noia, a pochi passi dal suo zenit scaldava quanto una stufa senza fiamma, illuminando il mondo di pallida luce. L’ultima volta che lo aveva visto, due anni prima, filtrava dalle tapparelle di una minuscola stanza tutta bianca.

Tutti i giorni il sole filtrava da quei piccoli fori e la svegliava con i suoi fastidiosissimi raggi gialli, che si infilano sotto gli occhi.

Certi giorni era più vispo e acceso, altri più fioco; eppure ce la faceva sempre a svegliarla, coi suoi tentacoli di luce, che si infilano in ogni pertugio.

Sole infame.

Solo al mattino arrivava, giusto per il piacere di svegliarla, perché poi una lampadina sul soffitto lo sostituiva tutto il tempo.

‘Sto infame.

(4)

A ricordarla non era male la sua cameretta; se sei uno a cui piace stare chiuso in una piccola camera per una quarantena infinita.

Fu una fortuna che non dovette neppur abituarcisi: ci nacque direttamente.

Una volta chiese al dottor. Diegnuv perché sentisse l’istinto di uscire, di voler vedere un mondo che sentiva inciso nella sua carne, che sentiva la brezza del vento, il tepore del sole, i pizzichi di zanzara, l’erba soffice sotto i piedi, il profumo del bosco, senza conoscere nulla di tutto ciò che provava.

Il giorno dopo a quando glielo chiese, il dott. Diegnuv dovette operarla per la grave malattia che la confinava nella sua cameretta.

Vennero due dottori imbacuccati come apicoltori per la puntura, e quando si risvegliò, nella sua cameretta, non sentiva più nulla di tutte quelle strane sensazioni.

Pensò di essere guarita, perché non si era mai sentita così bene.

Voleva ringraziare il dottor. Diegnuv, ma il dottore era triste, molto triste, così tanto che non volette più vederla.

Non entrò più nella sua cameretta per disegnare, ne si affacciò più all’oblò per salutarla.

Gli regalò “mamma”; o almeno così diceva di chiamarsi la donna che un giorno entrò nella sua stanza con dei giochi, scortata dagli apicoltori.

A dire il vero non aveva ben chiaro cosa fosse e facesse una mamma, ma finché giocava con lei, andava bene.

Più tardi, circa settanta anni dopo, un poco ci ripensò se doverlo ringraziare o meno.

La sua era una mamma diffidente, schiva, che veniva in cameretta solo poche ore al giorno, trascinata bendata da due dottori.

All’inizio non voleva far nulla: parlare, disegnare, giocare.

Poi un giorno arrivò pesta, alla sua visita di routine.

Quello fu il primo giorno in cui Monica vide sua madre disegnare con lei. Da allora, un pochino si aprì sempre più.

In quegli anni, la “ricerca sull’eradicazione degli istinti e delle sensazioni preservando le altre funzioni cerebrali per la creazione di

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super guerrieri”, del dottor. Igor Ivan Diegnuv, non stava dando i frutti sperati.

In quegli anni, la “ricerca sull’amore in un soggetto reso non predisposto all’amore dall’eradicazione degli istinti e delle

sensazioni” del dottor. Aleksandr Nievsk, stava facendo progressi.

Più tardi, circa due anni dopo dal primo disegno con sua madre, queste ricerche e tante altre persero i fondi governativi, rivolti ad investimenti per le tecnologie spaziali.

Uno di quei giorni, il sole non la svegliò.

L’ora della puntura arrivò prima, prima che i raggi di luce si infilassero negli occhi.

Non sapeva quanto gli sarebbe mancato lo scherzetto mattutino del sole.

Si ritrovò in una grotta, circondata dal buio, dal freddo, dai sussurri di mamma, che la coccolavano da una cella di distanza, e le

dicevano di stare tranquilla, e di ricordarsi della terza colonna di destra, a fianco di Osmir il pazzo.

“Forse non dovevo lasciare la grotta… nella grotta almeno il vento non fischiava… se devo morire almeno fatemi morire dove non c’è vento… e i raggi del sole che ti si infilano sotto li occhi… non voglio morire al mattino presto… tanto meno al mattino presto di una giornata limpida e ventosa.”

Il primo giorno di cammino non fu meraviglioso.

Monica era al secondo giorno di cammino.

Inizialmente si era diretta dove la sua ombra indicava, seguendo le ruote di pneumatici delle camionette, per poi infilarsi nel fitto di una foresta di conifere e di betulle, e proseguire sempre dritto, fermandosi solo per massaggiarsi cosce e polpacci.

Aveva rubato ai morti prima della partenza, sotto agli occhi delle impassibili lucertole, anime che tentennando sul lasciare o meno il proprio bozzolo, probabilmente a quell’ora il destino aveva

interceduto nella loro decisione. Ne guadagnò in realtà solo un mucchio di stracci, dentro cui impuparsi come un bruco, affinché un giorno, dopo un lungo cammino, potesse divenire farfalla.

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Alla fine di quel giorno trovò una camionetta, accartocciata, adagiata sul fianco destro nel fondo di un pendio. Era uscita di strada, le tracce di pneumatico si interrompevano alla fine di uno stretto sentiero nella foresta, oltre il quale vi erano solo neve e scie di sangue.

Monica discese lentamente, tenendosi lontana dalle zone in cui la neve era più bassa e spostata, per non beccarsi una scheggia di metallo sotto i piedi.

Giunta a valle, in quel nido di morte e sangue rappreso, si

arrampicò sul fianco della camionetta, per guardare all’interno del vano anteriore.

I soldati dentro erano tutti morti in un tragico massacro. L’autista aveva il costato sfondato dal volante, quello sul lato passeggero era girato di schiena, con la leva del cambio che gli spuntava dalla pancia. Entrambi erano stati prosciugati dalla loro linfa, di cui i sedili erano invece saturi; tracimavano sangue come fosse la stoffa stessa a sanguinare.

Col gomito foderato di stracci, come tutto il suo corpo d’altronde, pulì dai vetri rimasti il finestrino rotto. Dal corpo del guidatore, allungando il braccio all’interno per frugare nella divisa, ricavò due fiaschette di acqua strana: una piena, l’altra mezza vuota.

Sul rimorchio posteriore, i soldati erano stati pugnalati dalla lamiera che doveva proteggerli, che accartocciandosi su sé stessa li aveva raccolti in un ultimo freddo abbraccio. Avevano addosso armi, munizioni, forse altra acqua strana, tutte cose che avrebbe potuto scambiare per del cibo; ma non valeva la pena avventurarsi in quel labirinto di sangue, cadaveri e punzoni di ferro.

Quella sera dormì al fianco della morte, poiché la camionetta in fondo alla vallata la riparava dai venti di nord-ovest.

E quella linfa,

così rossa e abbondante, come il tepore di un sole vispo, che ti scalda qualche minuto, filtrando dalle tapparelle, prima di sparire,

per sempre.

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Con una pietra aguzza incise ogni betulla che incontrò sul suo cammino,

per raccontare la sua vita, per non tornare mai indietro.

E delle sue storie,

gli alberi piansero dolci lacrime, da cogliere come rugiada fresca.

Riempì le fiaschette d’acqua strana delle lacrime degli alberi, per farla durare di più. Tirar a campar di vodka nella Siberia di fine febbraio, a dieci anni, non è cosa facile. Eppure Monica al terzo giorno camminava ancora; barcollando un poco.

Arrivò al quarto giorno di cammino che le riserve di acqua strana si aggiravano sulle due dita. Arrancava nella taiga nevosa in preda ad un hangover allucinante, serpeggiando fra piccoli arbusti e smosse radici. Non capiva bene perché l’acqua dei soldati facesse

barcollare, ma dava le energie giuste per proseguire il viaggio verso il nulla.

Il sole era pallido oltre quelle grandi nubi bianche che si stavano allontanando, correndo dietro di lei.

«Portatemi con voi, spiriti del cielo.

Fatemi camminare sulle vostre schiene morbide.

Fatemi riposare nei vostri giacigli di lana che non punge.

Fatemi andare via da questo inferno di neve» chiese, a bassa voce.

Ma le nuvole cariche di neve non si accingevano a fermarsi.

Le vedeva, lassù, dentro vi erano le anime e le forme degli animali che aveva visto nei suoi quaderni.

Erano chiare, lassù, dipinte di bianco.

Palesi.

“Mamma” poi le aveva detto che tutti gli esseri, una volta morti, salgono in cielo. Ma infatti erano lì, li vedeva.

Allora li chiamò.

Più forte.

Gridò.

Ruggì.

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