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L incomprensibilità in Amor che nella mente mi ragiona

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Academic year: 2022

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in ‘Amor che nella mente mi ragiona’

C

ARLOS

L

ÓPEZ

C

ORTEZO

Devo premettere che nel mio saggio «Il sesso della Filosofia. A propo- sito di Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete» (López Cortezo 2011), ho già scritto, non tanto sulla canzone che ci occupa in questo ludoconvegno, quanto sul commento che Dante ne fa. In quel saggio, considerando anche quella che Natascia Tonelli nella presentazione del volume chiama la «dif- fusa metaforica a sfondo sessuale», trattavo già il tema fondamentale di Amor che ne la mente mi ragiona, cioè quello dell’innaccessibilità di al- cune verità alla comprensione dell’intelletto umano e la compatibilità di questa limitazione intellettuale con la felicità. In questa sede, dunque, mi limiterò, prescindendo questa volta delle metafore sessuali, a precisare meglio questo tema, e a considerare alla luce della Somma Teologica al- cuni dei relativi passi del Convivio; per quanto riguarda altri importanti tanto quanto quelli qui considerati, rinvio a Il sesso della Filosofia.

Fin dalla prima parte della canzone Dante si propone di non trattare di alcune delle cose delle quali Amor gli ragiona nella mente «disïosa- mente», perché il suo intelletto non le può comprendere; vale a dire, che

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fin dall’inizio si manifesta il conflitto tra desiderio di comprendere e in- comprensione:

Amor che nella mente mi ragiona della mia donna disïosamente, move cose di lei meco sovente, che lo ‘ntelletto sovr’esse disvia.

Lo suo parlar sì dolcemente sona, che l’anima ch’ascolta e che lo sente dice: «Oh me lassa! Ch’io non son possente di dir quel ch’odo della donna mia!»

E certo e’ mi convien lasciare in pria, s’io vo’ trattar di quel ch’odo di lei, ciò che lo mio intelletto non comprende;

e di quel che s’intende

gran parte, perché dirlo non savrei.

Dunque, se le mie rime avran difetto ch’entreran nella loda di costei, di ciò si biasmi il debole intelletto e ‘l parlar nostro, che non ha valore di ritrar tutto ciò che dice Amore.

Quali siano le cose che l’intelletto suo, cioè, l’intelletto umano, non può «comprendere» è molto chiaro, tanto nel commento alla lettera quanto in quello all’allegoria: l’essenza di Dio, delle sostanze separate e della prima materia, alle quali aggiunge, nel commento a Le dolci rime, anche «se la prima materia è intesa da Dio» (Convivio IV,I, 8-9).

Credo pertinente insistere sulla terminologia adoperata dal poeta tanto nella canzone quanto nei commenti letterale e allegorico, con un chiaro predominio di «comprendere» e «intendere», quasi sempre con il valore di ‘comprendere’, ‘capire’, dato che il commento versa proprio su ciò che ha scritto nella canzone; vale a dire, e come già detto, dell’incomprensi- bilità di alcune «cose» per l’intelletto umano. Se non parla semplicemente di ‘conoscenza’ è perché ‘conoscere’ non implica ‘comprendere’; e una conoscenza a cui manchi la comprensione era considerata una conoscenza

‘imperfetta’, mentre per conoscenza ‘perfetta’ si intendeva quella a cui

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non manca nulla, e perciò nemmeno la comprensione: «comprendere una cosa vuol dire conoscerla alla perfezione. È conosciuto poi alla perfezione ciò che è conosciuto tanto quanto è conoscibile» (S. Teol. I, q. 12, a. 7).

Sono concetti noti a tutti, ma non sempre tenuti in conto nelle letture di alcuni dei passi del Convivio che qui prenderò in considerazione, tra i quali questo, in cui il poeta spiega che si trova davanti a due ineffabilità:

una, conseguenza dell’incomprensibilità di determinate verità, vale a dire, della debolezza del suo intelletto; ed un’altra, che non implica incom- prensione intellettuale, ma insufficienza del suo linguaggio poetico per esprimere ciò che l’intelletto ha compreso. Dopo di che spiega non solo la sua «insufficienza», ma anche le sue cause:

Quando ragionate sono le due ineffabilitadi di questa materia, con- viensi procedere a ragionare le parole che narrano la mia insuffi- cienza. Dico adunque che la mia insufficienza procede doppiamente, sì come doppiamente trascende l’altezza di costei, per lo modo che detto è. Ché a me conviene lasciare per povertà d’intelletto molto di quello che è vero di lei, e che quasi ne la mia mente raggia, la quale come corpo diafano riceve quello, non ter- minando: e questo dico in quella seguente particula:

E certo e’ mi conven lasciare in pria.

Poi quando dico: «E di quel che s’intende», dico che non pur a quello che lo mio intelletto non sostiene, ma eziandio a quello che io intendo sufficientemente, non [sono sufficiente], però che la lin- gua mia non è di tanta facundia che dire potesse ciò che nel pen- siero mio se ne ragiona: per che è da vedere che, a rispetto de la veritade, poco fia quello che dirà [...]

Poi quando dico:

Dunque, se le mie rime avran difetto,

escusomi da una colpa della quale non deggio essere colpato, veg- gendo altri le mie parole essere minori che la dignitade di questa [donna]; e dico che, se difetto fia nelle mie rime, cioè nelle mie parole che a trattare di costei sono ordinate, di ciò è da biasimare la debilitade dello ‘ntelletto e la cortezza del nostro parlare: lo

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quale [per lo] pensero è vinto, sì che seguire lui non puote a pieno, massimamente là dove lo pensiero nasce d’amore, perché quivi l’anima profondamente più che altrove s’ingegna (Convivio III,

IV, 1-4).

Tornando adunque al proposito, dico che nostro intelletto, per di- fetto della virtù dalla quale trae quello ch’el vede, che è virtù or- ganica, cioè la fantasia, non puote a certe cose salire (però che la fantasia nol puote aiutare, ché non ha lo di che), sì come sono le su- stanze partite da materia; le quali, etsi alcuna considerazione di quelle avere potemo, intendere non le potemo né comprendere per- fettamente. E di ciò non è l’uomo da biasimare, ché non esso, dico, fue di questo difetto fattore, anzi fece ciò la natura universale, cioè Dio, che volse in questa vita privare noi da questa luce [...] Sì che, se la mia considerazione mi transportava in parte dove la fantasia venia meno a lo ‘ntelletto, se io non potea intendere non sono da biasimare.

Ancora: è posto fine al nostro ingegno in ciascuna sua operazione, non da noi ma dall’universale natura; e però è da sapere che più ampî sono li termini de lo ‘ngegno [a pensare] che a parlare, e più ampî a parlare che ad accennare. Dunque, se ‘l pensiero nostro, non solamente quello che a perfetto intelletto non vène ma ezian- dio quello che a perfetto intelletto si termina, è vincente del par- lare, non semo noi da biasimare, però che non semo di ciò fattori (Convivio III,IV, 9-13)

Evidentemente qui Dante sta parlando dei limiti cognitivi dell’uomo in questa vita, facendo riferimento all’incapacità dell’intelletto umano, dipendente dalla fantasia, d’intendere e comprendere perfettamente le so- stanze separate da materia. A questo tema dedica Tommaso d’Aquino un’intera questione della Somma Teologica. Al riguardo citerò soltanto due passi, certamente non ignorati da Dante:

secondo il parere di Aristotele (...) nello stato della vita presente il nostro intelletto ha un rapporto naturale all’essenza delle realtà materiali, così da non conoscere nulla, come si è visto [q. 84, a.71], senza volgersi ai fantasmi. È perciò evidente che, atteso il processo

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conoscitivo da noi sperimentato, noi non possiamo intendere pri- mariamente e immediatamente le sostanze immateriali, che sono estranee al dominio dei sensi e dell’immaginazione (I, q. 88, a. 1) Dalle realtà materiali noi possiamo salire a una certa conoscenza degli esseri immateriali, ma non a una conoscenza perfetta: poiché non esiste un adeguato termine di paragone tra le realtà materiali e quelle immateriali, e le similitudini prese talora dal mondo ma- teriale per capire le realtà immateriali presentano delle fortissime dissomiglianze, come nota Dionigi [De cael. Hier. 2,2] (I, q. 88, a.

2 ad 1)

Degli altri passi danteschi di cui mi occuperò mi è sembrato utile con- siderare non solo il commento letterale, ma anche quello allegorico, in modo da poterli mettere a confronto, tenendo sempre a mente l’osserva- zione di Nardi al riguardo:

lo stesso Dante, provandosi a darci un’esposizione di questa se- conda canzone è costretto ad anticipare quello che ripeterà nel- l’esposizione allegorica, appunto perché la donna di questa canzone non ha altra realtà che quella allegorica, e vano è ogni tentativo di distinguere l’esposizione letterale da quella allegorica (Nardi 1944a: 40).

Vediamo adesso il commento letterale a Elle soverchian lo nostro in- telletto (v. 59):

Poi, quando dico:

‘Elle soverchian lo nostro intelletto’,

escuso me di ciò, che di tanta eccellenza di biltade poco pare che io tratti sovrastando a quella; e dico che poco ne dico per due ra- gioni. L’una si è che queste cose che paiono nel suo aspetto sover- chiano lo ‘ntelletto nostro, cioè umano: e dico come questo soverchiare è fatto, che è fatto per lo modo che soverchia lo sole lo fragile viso, non pur lo sano e forte; l’altra si è che fissamente in esse guardare non può, perché quivi s’inebria l’anima, sì che in- contanente, dopo di sguardare, disvia in ciascuna sua operazione

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[...] Onde è da sapere che di tutte quelle cose che lo ‘ntelletto no- stro vincono, sì che non può vedere quello che sono, convenevolis- simo trattare [è] per li loro effetti: onde di Dio, e delle sustanze separate, e della prima materia, così trattando, potemo avere al- cuna conoscenza (Convivio III,VIII, 14-15).

Dante, in questo suo commento letterale, ha sicuramente in mente ciò che Tommaso afferma nella Somma Teologica:

La ragione non può raggiungere una forma semplice sino a cono- scere che cosa essa sia; può tuttavia conoscerla sapendo almeno che esiste (...) Con la ragione naturale Dio è conosciuto mediante le immagini forniteci dai suoi effetti (I, q. 12, a. 12 ad 1 e 2).

In questi passi, tanto Dante quanto Tommaso, trattano dei limiti cogni- tivi dell’uomo in questa vita, e non nell’altra: di Dio, delle sostanze sepa- rate e della prima materia possiamo sapere qui della loro esistenza e conoscere qualcosa della loro essenza soltanto attraverso i loro effetti.

Evidentemente il riferimento è a una conoscenza imperfetta, vale a dire, senza comprensione. Invece nel commento allegorico Dante allarga e pre- cisa meglio il campo del suo ragionamento, nell’adoperare il termine ‘in- tendere’ (vid. III, xv, 6) e nel considerare non solo i limiti del desiderio umano di conoscenza nella vita terrena, ma anche nell’altra, applicando a entrambi lo stesso principio, vale a dire, che «lo desiderio naturale in ciascuna è misurato secondo la possibilitade de la cosa desiderante».

Ho appena accenato alla presenza di «intendere», una presenza a volte trascurata dalla critica, forse per il fatto che si tratta di un verbo di «lar- ghissimo impiego in tutte le opere dantesche e variato spettro semantico»

(Consoli 1971: 475), ma che in questo contesto, come d’altronde anche in Oltre la spera1, è importante appunto perché può soltanto significare

‘comprendere’, dato che Dante sta precisando ciò che nella canzone non dice, vale a dire, quali siano le cose che «soverchian lo nostro intelletto», o come aveva scritto nel verso 11, «ciò che lo mio intelletto non com- prende»: l’essenza di Dio, della «etternitade» e della prima materia. Que-

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sto fatto è molto importante, perché il problema dell’incomprensibilità di Dio – proclamata nel Concilio Lateranense IV (1215) – riguarda non solo la condizione dell’uomo in questa vita, ma anche nell’altra. Infatti, l’es- senza divina, come si vedrà di seguito, è incomprensibile per qualunque intelletto creato, sia esso umano o angelico. Questa insufficienza intellet- tuale giustifica il dubbio che segue, riguardante anch’esso tanto la vita presente quanto quella futura, come è evidente dal successivo e preciso ri- ferimento non solo «a quella scienza che qui avere si può», ma pure a quella che si può avere nell’aldilà, vale a dire, a quella che hanno gli an- geli e i santi, il che vuol dire che Dante sta parlando di quella scienza che l’uomo può conseguire tanto con le sole sue capacità naturali, quanto con il grazioso e celestiale lumen gloriae:

Veramente può qui alcuno forte dubitare come ciò sia, che la sa- pienza possa fare l’uomo beato, non potendo a lui perfettamente certe cose mostrare; con ciò sia cosa che ‘l naturale desiderio sia [nel]l’uomo di sapere, e sanza compiere lo desiderio beato essere non possa (Convivio III,XV, 7).

Il dubbio viene risolto con l’enunciazione di un principio che vale, anche questo, non solo per i limiti cognitivi dell’uomo in questa vita mor- tale, ma anche in quella eterna; un principio che serve a giustificare che sia l’uomo nella vita terrena, sia i santi e gli angeli, possano essere beati anche se la Sapienza non può mostrare loro «perfettamente certe cose», vale a dire, anche se non possono comprenderle:

A ciò si può chiaramente rispondere che lo desiderio naturale in ciascuna cosa è misurato secondo la possibilitade de la cosa desi- derante: altrimenti anderebbe in contrario di se medesimo, che è anche impossibile.

In contrario anderebbe: ché, desiderando la sua perfezione, desider- rebbe la sua imperfezione; imperò che desiderrebbe sé sempre de- siderare, e non compiere mai suo desiderio (e in questo errore cade l’avaro maledetto, e non s’acorge che desidera sé sempre deside- rare, andando dietro al numero impossibile a giugnere).

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Averebbe[lo] anco la Natura fatto indarno, però che non sarebbe ad alcuno fine ordinato. E però l’umano desiderio è ordinato in que- sta vita a quella scienza che qui avere si può, e quello punto non passa se non per errore, lo quale è di fuori di naturale intenzione.

E così è misurato nella natura angelica e terminato, in quanto, in quella sapienza che la natura di ciascuno può apprendere. E questa è la ragione per che li Santi non hanno tra loro invidia, però che ciascuno aggiugne lo fine del suo desiderio, lo quale desiderio è colla bontà de la natura misurato. Onde, con ciò sia cosa che co- noscere di Dio, e di certe cose, quello esso è, non sia possibile alla nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sa- pere. E per questo è la dubitazione soluta (Convivio III,XV, 8-10).

Credo che Dante, quando accenna all’invidia, o meglio, alla non invidia dei santi, vale a dire, ai loro diversi gradi di conoscenza e di beatitudine, così come ai limiti della conoscenza e quindi anche del desiderio, abbia in mente ciò che dice Tommaso a questo proposito in questi passi della Somma Teologica:

Quanto (...) al conseguimento o fruizione di tale bene [Dio] uno può essere più beato di un altro: poiché quanto più si fruisce di quel bene, tanto più si è felici. E avviene che uno possa fruire di Dio più perfettamente di un altro per il fatto che è meglio disposto e ordinato alla sua fruizione. E in questo modo uno può essere più felice di un altro (I-II, q. 5, a. 2)

In ogni moto l’intenzione del movente mira a un termine determi- nato, verso il quale intende condurre il soggetto che viene mosso:

l’intenzione infatti riguarda sempre un fine, e [tra i fini] non si può andare all’infinito. Ora, si è già visto [a. 1;q. 12, a.4] che la creatura razionale, non potendo con la propria virtù conseguire la sua bea- titudine, che consiste nella visione di Dio, deve essere mossa da Dio al conseguimento di questa beatitudine. Bisogna quindi che sia ben prefissato il termine a cui la creatura razionale deve essere diretta come al suo ultimo fine.

E questa delimitazione, nella visione di Dio, non può riguardare l’oggetto stesso della visione: poiché esso è la somma verità, che

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è vista da ciascun beato in grado diverso.– Invece quanto al modo della visione l’intenzione di colui che conduce al fine prestabilisce termini diversi. Non è possibile infatti che la creatura razionale, come è elevata alla visione della suprema essenza, così pure sia elevata a quella visione perfettissima che è la comprensione [di Dio]: tale modo di conoscere infatti, come è chiaro da quanto si disse [q. 12, a. 7; q. 14, a.3], non può competere che a Dio. Ora, poiché per comprendere Dio ci vuole una capacità infinita, mentre le capacità conoscitive delle creature non possono essere che fi- nite, e poiché tra qualsiasi realtà finita e l’infinito ci sono infiniti termini intermedi, ne segue che per le creature razionali ci sono infiniti modi di conoscere Dio, con maggiore o minore chiarezza.

E come la beatitudine consiste nella visione stessa di Dio, così il grado della beatitudine consiste in una certa misura della visione.

Perciò Dio non solo conduce la creatura razionale al fine della beatitudine, ma le fa anche raggiungere il grado di beatitudine stabilito dalla divina predestinazione. Per cui, una volta raggiunto quel grado, la creatura non può conseguire un grado più elevato (I, q. 62, 9).

La beatitudine, dunque, non consiste in un sapere illimitato, cioè, nel conoscere tutto ciò che è cognoscibile, il che comporterebbe, tra l’altro, anche la comprensione dell’essenza divina, unicamente possibile a Dio, ma nel ‘contentarsi’, vale a dire, nell’appagare il desiderio nella contem- plazione di ciò che ‘possiamo’conoscere, o, in termini danteschi, di quello che la sapienza ci può mostrare, anche se non ci può mostrare «perfetta- mente» certe cose né tutto ciò che è conoscibile:

E dico che nello suo aspetto appariscono cose le quali dimostrano de’ piaceri di Paradiso; ed intra li altri di quelli, lo più nobile, e quello che è frutto e fine di tutti li altri, si è contentarsi, e questo si è essere beato; e questo piacere è veramente, avegna che per altro modo, nell’aspetto di costei. Ché, guardando costei, la gente si contenta, tanto dolcemente ciba la sua bellezza li occhi de’ri- guardatori; ma per altro modo che per lo contentare in Paradiso,

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[ché lo contentare in Paradiso] è perpetuo, che non può ad alcuno essere questo (Convivio III,VIII, 5).

E in questo sguardo solamente l’umana perfezione s’acquista, cioè la perfezione della ragione, dalla quale, sì come da principalissima parte, tutta la nostra essenzia depende; e tutte l’altre nostre opera- zioni – sentire, nutrire, e tutte – sono per questa sola, e questa è per sé, e non per l’altre, sì che, perfetta sia questa, perfetta è quella, tanto cioè che l’uomo, in quanto ello è uomo, [v]ede terminato ogni [suo] desiderio, e così è beato (Convivio III,XV, 4).

La beatitudine, quindi, non è altro che ‘contentarsi’, cioè, appagare il desiderio di conoscenza, senza volerne di più, come nel verso 62 della canzone («e perch’io non le posso mirar fisso, / mi conven contentar di dirne poco») e come d’altronde anche l’etimologia del termine suggerisce (lat. continere, ‘contenere’, ‘trattenere entro certi limiti’: ‘contento’ è chi si contiene entro limiti determinati, senza volere di più). Questo spiega il fatto che i santi non provino invidia tra loro, perché, sebbene vedano la somma verità in grado diverso e, perciò, non tutti godano dello stesso grado di beatitudine, non desiderano conoscere di più né essere più beati di quello che sono: vale a dire, ciascuno ‘si contenta’del grado raggiunto, perché non è possibile a lui progredire di più, il che viene applicato da Dante non solo ai beati, con i quali i mortali hanno in comune il non poter comprendere l’essenza di Dio, ma anche alla condizione dell’uomo in questa vita mortale, il quale, anche se non perpetuamente come in para- diso, può essere beato come i santi se ‘si contenta’come fanno loro, cioè, se si limita «a quella scienza che qui avere si può, e quello punto non passa se non per errore, lo quale è di fuori di naturale intenzione». L’errore in questione è quello dell’«avaro maledetto» che cerca vanamente di rag- giungere il «numero impossibile a giugnere», vale a dire, l’infinito, e «non s’acorge che desidera sé sempre desiderare»; lo stesso errore di chi, avendo una capacità finita, cerca inutilmente di ‘comprendere’ qualcosa di infinito qual è l’essenza divina:

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nessun intelletto creato può arrivare a quel perfetto grado di cono- scenza dell’essenza divina secondo il quale essa è conoscibile. E lo si vede in questo modo. Ogni cosa è conoscibile nella misura in cui è ente in atto. Dio, dunque, il cui essere (...) è infinito, è infini- tamente conoscibile. Ma nessun intelletto creato può conoscere Dio infinitamente. Infatti un intelletto creato conosce più o meno perfettamente la divina essenza a seconda che è perfuso di un mag- giore o minore lume di gloria. Non potendo essere infinito il lume di gloria ricevuto in qualsiasi intelletto creato, è impossibile che un’intelligenza creata conosca Dio infinitamente. Quindi è impos- sibile che comprenda Dio (I, q. 12, a. 7).

Il desiderio naturale di conoscere, dunque, non si estende alla cono- scenza di tutto ciò che è conoscibile, e perciò nemmeno a conoscere tutto ciò che Dio fa o può fare; e questo riguarda tanto la condizione dell’uomo in questa vita quanto quella dei beati. La tesi contraria, cioè quella che di- fende che la creatura razionale potrà conoscere tutto nella visione di Dio, viene riprodotta nella Somma Teologica in questi termini:

La creatura razionale desidera naturalmente di conoscere tutto. Se dunque nella visione di Dio non conosce tutte le cose, il suo desi- derio naturale rimane insoddisfatto: e così anche vedendo Dio non sarà beata. Ma questo ripugna. Quindi nella visione di Dio conosce tutte le cose (I, q. 12, a. 8).

Gli argomenti con i quali Tommaso rifiuta questa tesi, simile a quella di chi dubita che «la sapienza possa fare l’uomo beato, non potendo a lui perfettamente certe cose mostrare», sono i seguenti:

nessuna intelligenza creata (...) può comprendere totalmente Dio.

Quindi nessuna mente creata, vedendo Dio, può conoscere tutto ciò che Dio fa o può fare: poiché ciò equivarrebbe a comprendere tutta la sua potenza. Tuttavia delle cose che Dio fa o può fare l’in- telletto ne vede tante di più quanto più perfettamente vede Dio [...]

Il desiderio naturale di conoscere insito in ogni creatura razionale ha per oggetto tutte quelle cose che sono necessarie alla sua per- fezione intellettuale; e queste sono precisamente le specie e i generi

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delle cose e le loro cause, e tutte queste cose saranno viste da chiunque contempli l’essenza divina. Conoscere invece tutti i sog- getti singolari, con i loro pensieri e con le loro opere, non è richie- sto alla perfezione dell’intelletto creato, né a ciò tende il suo desiderio naturale; come neanche il conoscere tutte quelle cose che ancora non esistono, ma che possono essere fatte da Dio (S.

Teol. I, q. 12, a. 8)

In sintesi: nessuna intelligenza creata, e perciò nemmeno i santi né gli angeli, può comprendere Dio e la sua potenza, e quindi a ciò non tende il loro desiderio naturale di conoscenza. Una conclusione che non mi sem- bra differisca da quella di Dante: «con ciò sia cosa che conoscere di Dio, e di certe cose, quello esso è, non sia possibile alla nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere»; conclusione alla quale arriva dopo essere caduto nell’errore dell’avaro maladetto; cioè, dopo aver tentato di risolvere una questione che eccedeva i limiti della sua na- tura razionale; un vano tentativo che segna la svolta, intellettuale e poe- tica, che ci descrive all’inizio del quarto trattato del Convivio:

con ciò fosse cosa che questa mia donna un poco li suoi dolci sem- bianti transmutasse a me, massimamente in quelle parti dove io mirava, e cercava se la prima materia delli elementi era da Dio in- tesa – per la qual cosa un poco dal frequentare lo suo aspetto mi sostenni –, quasi ne la sua assenzia dimorando, entrai a riguardare col pensiero lo difetto umano intorno al detto errore. E per fuggire oziositade, che massimamente di questa donna è nemica, e per istinguere questo errore, che tanti amici le toglie, propuosi di gri- dare a la gente che per mal cammino andavano, acciò che per di- ritto calle si dirizzasse[ro]; e cominciai una canzone nel cui principio dissi: Le dolci rime d’amor ch’i’solia. Nella quale io in- tendo riducer la gente in diritta via sopra la propria conoscenza della verace nobilitade (Convivio IV,I, 8-9).

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NOTE

1. «Nella quarta dico come elli la vede, cioè in tale qualitate, che io no•llo posso intendere, cioè a dire che lo mio intellecto nol può comprendere, con ciò sia cosa che lo nostro intellecto s’abbia a quelle benedecte anime sì come l’occhio debole al sole» (Vita nova 30, 6-7).

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