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Prestazioni - Indennità - In genere - Ritardata attuazione della Direttiva

comunitaria sulla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza dei datori di lavoro (art. 2 comma quarto e settimo del D.Lgs. 27 gennaio 1992 n.

80) - Acconti erogati per rivalutazione monetaria ed interessi - Deduzione dal credito residuo del lavoratore - Esclusione.

Corte di Cassazione - 16.6/21.10.2000, n. 13939/00 - Pres. Amirante - Rel.

Celentano - P.M. Mele (Conf.) - INPS (Avv.ti Todaro, Cantarini, Tadris) - Bonato Augusto (Avv. Sensi).

Poiché il risarcimento del danno spettante per la tardiva attuazione della Direttiva comunitaria del 20 ottobre 1980 n. 987 (sulla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza dei datori di lavoro) deve essere commisurato ai crediti di lavoro non pagati dal datore di lavoro e poiché gli interessi e la rivalutazione monetaria non costituiscono l'iniziale obbligazione di quest'ultimo, bensì il danno derivante dal relativo ritardate pagamento, non possono essere detratte, dal dovuto, le somme che la curatela fallimentare abbia già erogata a titolo di rivalutazione monetaria ed interessi sul credito iniziale.

FATTO. - Con ricorso depositato il 13 luglio 1494 Augusto Bonato, già dipendente della Erpo S.r.l., dichiarata fallita, chiedeva al Pretore di Venezia la condanna dell'INPS, quale gestore del Fondo di garanzia istituito con legge n. 297 del 1982, al pagamento della somma di lire 5.601.565, credito già ammesso al passivo del fallimento.

L'INPS, costituitosi, si opponeva alla domanda, deducendo, fra l'altro, che non era dovuta la somma richiesta a titolo di indennità di mancato preavviso.

Il Pretore accoglieva parzialmente il ricorso, non ritenendo dovuta la somma richiesta a titolo di indennità di mancato preavviso.

La decisione di primo grado veniva impugnata dall'INPS, che lamentava che il primo giudice lo aveva condannato al pagamento dell'intero importo rivendicato per ratei di tredicesima e ferie non godute, spettando invece, ai sensi dell'art. 2 del D.Lgs. n. 80 del 1992, solo i ratei maturati negli ultimi tre mesi; e che, comunque, detratto dal massimale di cui al comma 2 dell'art. 2 del citato D.Lgs. quanto già percepito dal

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ricorrente, l'importo ancora spettante ammantava a complessive lire 624.567. Chiedeva, pertanto, il rigetto della domanda del lavoratore o, in subordine, il contenimento della propria condanna alla ricordata cifra dì lire 624.567.

Augusto Borato si costituiva, resistendo, e proponeva appello, incidentale avverso la parte della sentenza che gli aveva negato l'indennità di mancato preavviso.

Con sentenza del 26 settembre/5 novembre 1996 il Tribunale di Venezia rigettava l'appello principale e, in accoglimento dell'appello incidentale, riconosceva il diritto del Bonato ad ottenere anche le somme maturate a titolo di indennità di mancato preavviso, nella misura non specificamente contesta dall'INPS.

I giudici di secondo grado osservavano che il diritto all'indennità di mancato preavviso non matura dopo la cessazione del rapporto ma allo spirare dello stesso, e quindi è un credito di lavoro inerente gli ultimi tre mesi del rapporto; e che le somme già corrisposte, relative agli ultimi tre mesi, vanno detratte non dal massimale ma dalla retribuzione effettivamente spettante.

Per la cassazione di tale decisione ricorre, formulando un unico articolato motivo di censura, l'Istituto nazionale della Previdenza sociale (INPS).

Augusto Bonato resiste con controricorso.

DIRITTO. - Con l'unico motivo l'INPS denuncia violazione degli artt. 1 e 2 del D.Lgs.

27 gennaio 1992 n. 80, in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.

Sostiene che, ai sensi del quarto comma dell'art. 2 dei D.Lgs. citato, il pagamento da effettuare dal Fondo di garanzia non è cumulabile, fino a concorrenza degli importi, con le retribuzioni corrisposte al lavoratore nell'arco degli ultimi tre mesi.

Deduce, quindi, che quanto percepito dal lavoratore in conto retribuzioni degli ultimi tre mesi va dedotto dal massimale (di cui al comma 2) e non, come ritenuto dal Tribunale, dal credito di lavoro relativo ai ricordati ultimi tre mesi.

Lamenta, ancora, che il Tribunale, riconoscendo anche l'indennità di mancato preavviso, ha errato sia nell'interpretare in maniera estensiva l'espressione "crediti di lavoro" contenuta nel comma 1 dell'art. 2, sia nel non applicare comunque il massimale di cui al comma 2 del citato articolo.

Osserva la Corte che tutte e tre le questioni sollevate dal ricorrente Istituto (a - detraibilità degli acconti dalle retribuzioni spettanti o da quanto dovuto nei limiti del massimale; b - inclusione o meno dell'indennità di mancato preavviso tra i crediti di lavoro inerenti gli ultimi tre mesi; c - superamento, nel caso di specie, del massimale previsto dalla legge) riguardano gli artt. 1 e 2 del D.Lgs. 27 gennaio 1992 n. 80.

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L'art. 1 ed i primi quattro commi dell'art. 2 del citato D.Lgs., emanato in attuazione della Direttiva CEE n. 80/987 del 20 ottobre 1980 (in materia di tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro), cosi dispongono:

Art. 1 (Garanzia dei credili di lavoro).

1. Nel caso in cui il datore di lavoro sia assoggettato alle procedure di fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa ovvero alla procedura dell'amministrazione straordinaria prevista dal D.L. 30 gennaio 1979, n. 26, convertito, con modificazioni, dalla L. 3 aprile 1979, n. 95, il lavoratone da esso dipendente o i suoi aventi diritto possono ottenere a domanda il pagamento, a carico del Fondo di garanzia istituito e funzionante ai sensi della L. 24 maggio 1982, n. 297, dei crediti di lavoro di cui all'art. 2.

2. Nel caso di datore di lavoro non assoggettabile ad una delle procedure indicate nel comma 1, il lavoratore da esso dipendente o i suoi aventi diritto possano chiedere al Fondo di garanzia il pagamento dei crediti di lavoro di cui all'art. 2, semprechè, a seguìto dell'esperimento dell'esecuzione forzata per la realizzazione di tali crediti, le garanzie patrimoniali siano risultate in tutto o in parte insufficienti.

Art. 2 (Intervento del Fondo di garanzia di cui alla L. 29 maggio 1982, n. 297).

1. Il pagamento effettuato dal Fondo di garanzia ai sensi dell'art. 1 è relativo ai crediti di lavoro, diversi da quelli spettanti a titolo di trattamento di fine rapporto, inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro rientranti nei dodici mesi che precedono: a) la data del provvedimento che determina l'apertura di una delle procedute indicate nell'art.

1, comma 1; b) la data di inizio dell'esecuzione forzata; c) la data del provvedimento di messa in liquidazione o di cessazione dell'esercizio provvisorio ovvero dell'autorizzazione alla continuazione dell'esercizio di impresa per i lavoratori che abbiano continuato a prestare attività lavorativa, ovvero la data di cessazione del rapporto di lavoro, se questa è intervenuta durante la continuazione dell'attività dell'impresa.

2. Il pagamento effettuato dal Fondo ai sensi del comma 1 non può essere superiore ad una somma pari a tre volte la misura massima del trattamento straordinario di integrazione salariale mensile al netto delle trattenute previdenziali e assistenziali.

3. Omissis.

4. Il pagamento di cui al comma 1 non è cumulabile fino a concorrenza degli importi:

a) con il trattamento straordinario di integrazione salariale fruito nell'arco dei dodici mesi di cui al comma 1; b) con le retribuzioni corrisposte al lavoratore nell'arco dei tre

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mesi di cui al comma 1; c) con l'indennità di mobilità riconosciuta ai sensi della L. 23 luglio 1991, n. 223, nell'arco dei tre mesi successivi alla risoluzione di rapporto di lavoro".

La disposizione di cui alla lettera c) è stata ritenuta dalla Corte di Giustizia CE in contrasto con gli artt. 4, n. 3, e 10 della direttiva n. 80/987, i quali sono stati interpretati nel senso che uno Stato membro non può vietare il cumulo degli importi garantiti dalla direttiva con una indennità - quale l'indennità di mobilità, prevista dagli artt. 4 e 16 della legge n. 223/1991 - che è diretta a sovvenire ai bisogni di un lavoratore licenziato durante i tre mesi successivi alla cessazione del rapporto (Sent. del 10 luglio 1997, resa nella causa C. - 373/95(1)).

La questione della detrazione degli acconti retributivi inerenti gli ultimi tre mesi dai crediti retributivi relativi o dal trattamento dovuto dal Fondo nei limiti del massimale é stata già sottoposta all'esame della Corte.

Con la sentenza n. 3382 del 7 aprile 1999 è stato ritenuto che gli acconti percepiti a titolo di retribuzione relativa agli ultimi tre mesi vadano detratti "non già dal massimale di legge (triplo della misura massima del trattamento straordinario di integrazione salariale mensile), ma dal credito di lavoro relativo alle ultime tre mensilità di retribuzione, procedendo poi alla riduzione della somma così ottenuta, se superiore, nei limiti del massimale di legge".

In tal modo anche il lavoratore che abbia già percepito cospicui acconti ha diritto al massimale in misura integrale quando il suo effettivo credito residuo sia superiore al massimale stesso.

La stessa soluzione è stata accolta con la sentenza n. 5979 del 16 giugno 1999.

Con la sentenza n. 8607 dell'11 agosto 1999 è stato invece ritenuto che, essendo la garanzia del credito dei lavoratori descritta nel primo e nel secondo comma dell'art. 2 (il primo comma che ne indica la generale struttura, il secondo comma che ne delinea l'astratta precostituita entità), il divieto di cumulo di cui al quarto comma impone che i pagamenti non cumulabili vadano sottratti dall'entità della garanzia quale risulta dai primi due commi, e quindi dal massimale; con tale decisione si é valorizzata, accanto alla struttura formale della norma, la finalità legislativa (assicurare ai lavoratori una sicurezza minima di eguale misura).

La sentenza n. 1937 del 19 febbraio 2000(2) ha poi seguito questa seconda interpretazione, ritenuta in linea con la funzione sociale della Direttiva comunitaria n.

80/987/CEE del 20 ottobre 1980.

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Ritiene il Collegio di dover condividere il secondo degli orientamenti interpretativi sopra esposti.

La incumulabilità è infatti sancita tra gli elementi indicati nel comma 4 e "il pagamento di cui al comma 1", vale a dire "il pagamento effettuato dal Fondo"; se così è non appare corretto affermare la detraibilità degli acconti non da quanto dovuto dal Fondo ma dalla retribuzione effettivamente spettante, come ha fatto il Tribunale nella sentenza qui impugnata.

Il "pagamento effettuato" dal Fondo, o meglio il pagamento dovuto" dal Fondo, é quello descritto dal comma 1, nei limiti del massimale previsto dal comma 2: tre volte la misura massima del trattamento straordinario di integrazione salariale mensile al netto delle trattenute previdenziali e assistenziali.

Non appare corretto ritenere che, a causa dell'omesso richiamo, da parte del comma 4, anche del comma 2, la incumulabilità riguardi un pagamento di cui al comma 1"non sottoposto ad alcun massimale.

Il combinato disposto dei primi due commi dell'art. 2 non consente di ritenere che esistano due trattamenti dovuti dal Fondo, uno senza limiti (comma 1) ed uno sottoposto ad un massimale (comma 2).

Il trattamento dovuto dal Fondo è uno solo, ed è quello che, relativamente ai crediti di lavoro specificati nel primo comma, è sottoposto al limite (o massimale) di cui al comma due.

Ne consegue che la incumulabilità di cui al comma quattro riguarda da una parte i due primi elementi sopra ricordati (in quanto il terzo è stato ritenuto illegittimo con la citata sentenza della Corte di Giustizia del 10 luglio 1997) e, dall'altra, il trattamento dovuto dal Fondo, entro il massimale sopra descritto.

Va inoltre rilevato che in tanto si può parlare, in senso tecnico, di incumulabilità tra due prestazioni, in quanto l'una, in assenza dell'altra, sia interamente dovuta.

Ora il trattamento di cui al comma 1 dell'art. 2 (pagamento dovuto dal Fondo in relazione ai crediti di lavoro degli ultimi tre mesi), pur in assenza di trattamenti straordinari di integrazione salariale o di acconti retributivi, non è comunque dovuto oltre il massimale di cui al comma 2.

La ragione dei divieti di cumulo - come ha osservato autorevole dottrina - consiste nel fatto che la corresponsione delle somme di cui al comma quattro (ad eccezione dell'indennità di mobilità, che si riferisce ad un periodo successivo e, per tale ragione, è stata espunta dalla norma con la più volta ricordata sentenza della Corte di Giustizia)

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annulla o per lo meno attenua quella situazione di bisogno che é alla base dell'intervento del Fondo.

E' facile rilevare che, dati due lavoratori dipendenti dallo stesso datore di lavoro sottoposto a procedura concorsuale, con identica retribuzione (ad esempio di lire 2.000.000 mensili) e rapporto conclusosi in ipotesi nel 1994, se il lavoratore A riceve acconti retributivi inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto per 4 milioni, mentre il lavoratore B non riceve alcunché, la situazione di bisogno dei due non può certo ritenersi identica.

Ecco che allora il Fondo interviene erogando a B, in assenza di integrazioni salariali straordinarie, l'intero massimale, pari a tre volte la misura massima del trattamento straordinario di integrazione salariale mensile, al netto delle trattenute previdenziali e assistenziali, vigente in quel periodo (nell'anno 1994 tale massimale ammontava a lire 3.523.411).

Nulla invece corrisponderà ad A, il quale ha comunque ricevuto acconti retributivi superiori a quanto percepito dal suo collega B.

In questo modo il Fondo di garanzia gestito dall'INPS assolve quello che è "il fine sociale" perseguito dalla Direttiva (cfr., art. 4, n. 3) e che si identifica con quella che è la funzione propria dei trattamenti previdenziali: tutelare gli stati di bisogno della classe lavoratrice entro determinati limiti compatibili con le risorse finanziarie del periodo.

Come evidenziato con le sentenze n. 8607 del 1999 e n. 1937 del 2000, lo scopo del Fondo di garanzia, in linea con la Direttiva comunitaria 80/987 del 20 ottobre 1980, é quello di assicurare che tutti quei lavoratori, che a causa dell'insolvenza del datore di lavoro non abbiano ricevuto le retribuzioni relative agli ultimi tre mesi, ricevano comunque un "minimo "; non quello di garantire, come se si trattasse di un'assicurazione privata, comunque il risarcimento di un danno entro un massimale determinato.

Fondata è anche la doglianza relativa alla inclusione dell'indennità di mancato preavviso tra i crediti di lavoro di cui al primo comma dell'art. 2.

Ai fini che qui interessano, il preavviso è un istituto di natura civilistica che, nell'ambito dei contratta di durata senza prefissione di termine (esclusa la validità di un vincolo contrattuale perpetuo), e per i quali la estinzione é rimessa alla facoltà di recesso consentita alle parti, ha la funzione economica, giuridicamente disciplinata, di attenuare le conseguenze della improvvisa interruzione del rapporto per chi subisce il

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recesso (cfr. artt. 1569, 1616, 1750, 1833, 1845, 1855, 1899, 2118 e 2160 c.c.).

L'art. 2118 del codice civile dispone che ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti dagli usi o secondo equità.

Il secondo comma prevede che, in mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l'altra parte a un'indennità equivalente all'importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso.

Nell'ambito del contratto di lavoro, quindi, il preavviso ha la funzione di permettere, rispettivamente, al datore di lavoro di trovare un altro dipendente e, al prestatore, di procurarsi un'altra occupazione (cfr. Cass. 3 aprile 1980 n. 2188).

La parte che non osserva la normativa contrattuale sul preavviso, sia essa il lavoratore o il datore di lavoro, é tenuta ad indennizzare l'altra parte del disagio e del danno (che, peraltro, può anche mancare, come nel caso che il datore di lavoro trovi immediatamente un sostituto del lavoratore recedente, o che questi trovi subito una nuova occupazione).

La dottrina ha correttamente evidenziato che l'indennità di mancato preavviso, anche quando venga corrisposta dal datore al lavoratore, non rappresenta una controprestazione relativa ad una prestazione di lavoro, ma un risarcimento corrispondente al "lucro cessante" preveduto o prevedibile per l'ulteriore periodo in cui il rapporto avrebbe seguitato a svolgersi qualora il preavviso avesse avuto il suo corso regolare; e che comunque il lavoratore non può ottenere un danno maggiore (così come il datore non può dimostrare un danno minore), atteso che, secondo l'art. 1382 c.c., "la clausola con cui si conviene che, in caso di inadempimento ... uno dei contraenti è tenuto ad una determinata prestazione, ha l'effetto di limitare il risarcimento alla prestazione promessa ... ".

Nello stesso senso si é pronunciata ripetutamente questa Corte (Cass., 30 ottobre 1961 n. 2488, 18 febbraio 1960 n. 279; 21 luglio 1956 n. 2841).

La natura risarcitoria - o "indennitaria", come hanno ritenuto le Sezioni Unite con la sentenza n. 7914 del 29 settembre 1994(3) - dell'indennità di preavviso, finalizzata ad indennizzare il lavoratore del mancato guadagno per un periodo ulteriore rispetto alla data nella quale il rapporto si è interrotto, esclude che la stessa possa rientrare tra i crediti retributivi inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro, per i quali opera, ai sensi del D.Lgs. n. 80 del 1992, il Fondo di garanzia.

Né a diversa soluzione si perviene aderendo alla teoria della c.d. efficacia reale del

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preavviso, nel senso che il rapporto di lavoro, nonostante il recesso intimato da una delle due parti e il pagamento dell'indennità, rimane in ogni caso giuridicamente in vita fino alla scadenza del relativo periodo, salvo il consenso delle parti all'immediata o anticipata risoluzione dello stesso (cfr., in tal senso. Cass., 6 agosto 1987 n. 6769).

Il ritenuto prolungamento del rapporto di lavoro fino alla scadenza del periodo di preavviso, nonostante il pagamento dell'indennità sostitutiva evidenzia ancor di più, se possibile, la relazione tra quella indennità e un arco temporale che é successivo alla manifestazione di recesso.

E a nulla rileva che il relativo diritto maturi, come sottolineato dal resistente, con la risoluzione del rapporto e non successivamente.

L'accoglimento delle prime due misure rende irrilevante la doglianza relativa al lamentato superamento del massimale per effetto della concessione della indennità di preavviso in aggiunta a quanto già concesso dal Pretore.

Per tutto quanto esposto la sentenza impugnata va cassata e la causa va rinviata ad altro giudice di pari grado, che si indica nella Corte di Appello di Venezia, che si atterrà ai seguenti principi di diritto:

"Gli acconti retributivi percepiti dal lavoratore e relativi agli ultimi tre mesi di retribuzione, di cui al comma 1 dell'art. 2 D.Lgs. n. 80 del 1992, vanno detratti dal pagamento dovuto dal Fondo, quale risulta dai primi due commi del citato art. 2, e quindi dal massimale pari a tre volte la misura massima del trattamento straordinario di integrazione salariale mensile al netto delle trattenute previdenziali e assistenziali".

'"L'indennità di mancato preavviso, in quanto finalizzata, quando corrisposta dal datore di lavoro, ad indennizzare il lavoratore del mancato guadagno per un periodo ulteriore rispetto alla data nella quale il rapporto si è interrotto, non rientra tra i crediti retributivi inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto, per i quali interviene, ai sensi del D.Lgs. n. 80 del 1992, il Fondo di garanzia gestito dall'INPS".

Al giudice di rinvio si rimette anche la pronuncia sulle spese (art. 385, terzo comma, c.p.c.).

(Omissis)

(1) V. in q. Riv., 1997, p. 596 (2) Idem, 2000, p. 814

(3) Idem, 1994, p. 953

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