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Remo Bassini Vegan. Le città di dio. Copyright Edizioni Tlon. Estratto

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Academic year: 2022

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Remo Bassini

Vegan

Le città di dio

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Remo Bassini

Tlon

Vegan, Le città di dio

© 2016 Remo Bassini

© 2016 Edizioni Tlön S.r.l.

Tutti i diritti riservati Progetto grafico

Andrea Colamedici, Giulia Gabriele, Andrea Pizzari Redazione

Matteo Trevisani I edizione: aprile 2016 ISBN: 9788899684075

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5 A Simona, Marialaura, Gio’ che mi hanno illuminato la strada.

Abbraccio la loro forza, il loro coraggio, la loro voglia di vivere.

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I

Un giorno mio padre mi disse che la voce di dio si sente solo quando la notte è fonda: è l’acqua del fiume che scorre.

La pioggia e il vento che fanno sbattere le finestre l’hanno svegliata. Sono le tre passate da quattro minuti. Luca si sarà addormentato davanti al computer. Deve svegliarlo, avrà la schiena a pezzi. Lo chiama. Niente.

Il computer è acceso, ma Luca non c’è. E non è in bagno, non è in cucina, né sul balcone a fumare una sigaretta di nascosto (ogni tanto lo fa, come se lei fosse fessa). Purtroppo non può essere nemmeno fuori con Fosca, pensa Andreina, ma è un pensiero da gettare via altrimenti piange, perché Fosca è stata soppressa; inutile quindi andare in balcone a controllare se c’è il guinzaglio. C’è. Quando va a stendere la biancheria non ha il coraggio di guardarlo. Rimarrà lì, crocefisso sul muro. “Il guinzaglio dell’unico cane della mia vita”.

E comunque. Non è da Luca uscire a quest’ora, senza un biglietto. Per essere uscito è uscito: mancano i jeans e le scarpe nere di cuoio, che alterna con quelle da ginnastica.

Ha preso l’ombrello verde; diluvia, adesso. Prima pioggia di settembre.

Non sa che fare Andreina. Da tre, quattro mesi, Luca non è più Luca. Si è messo a rincorrere il fantasma del padre, che fino a qualche mese prima era un ricordo da due soldi.

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7 Una scrollata di spalle, una smorfia come a dire: che cazzo di padre mi è capitato; e poi parlava d’altro. Ora invece è un padre-chiodo-fisso.

Ora Luca passa la notte appiccicato al computer, quando non lavora va in biblioteca, oppure bombarda di domande Attilio Gestacci, maresciallo dei carabinieri in pensione, molto legato alla signora Noemi, mamma di Luca, e amico da una vita dei genitori di Andreina. Lo chiama zio da sempre, lei; da quando Gestacci e signora trascorrevano le domeniche a parlare con rimpianto di arance, ulivi e mare della loro Calabria a casa dei genitori di Andreina. Il maresciallo, poi, è un amico prezioso, sa fare mille lavoretti:

aggiusta biciclette, serrature, tapparelle. Quando Andreina e Luca hanno trovato casa, a dare il bianco erano in tre: loro due e lui.

Ha pochi ricordi, lei, del suo defunto suocero. Era una ragazzina quando lo trovarono morto per un infarto, incagliato come una vecchia nave tra le pietre del fiume.

Faceva caldo, forse voleva rinfrescarsi. O lavarsi, chissà.

L’è mort ‘l fol...

È morto il pazzo del fiume...

È morto il guaritore...

Sono passati dodici anni, e dodici anni non è un’eternità:

eppure la città non parla o parla poco di lui. È un ricordo tossico nocivo. Da incenerire.

Adriano Bronzelli era andato a vivere al fiume. Affari suoi e tanta comprensione per la signora Noemi, persona squisita, e per il piccolo Luca, scolaretto alle elementari: «Perché tuo papà non viene mai a prenderti?».

L’è gnì fol, dissero di lui e della sua fuga. Ben presto si sparse la voce che dava indicazioni su come curarsi da tutte le malattie. Tutte o quasi. La città avvolse quel piccolo peccato tra le sue nebbie generose; in fondo, di gente a cui si fulmina il cervello ce n’è sempre di più, uno più uno meno.

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Quanti clienti, quanti malati andarono dal fol? Saperlo.

E comunque. Al fol fu permesso di partecipare a dibattiti, tavole rotonde, convegni medici nell’Aula Magna dell’ospedale.

Sembrava quasi che, da un regista occulto, arrivassero precise direttive sul comportamento da tenere con lui. Non cacciarlo, anzi, dar da mangiare ai barboni e ai fol come lui durante i coffee break, concedergli perfino, “sia gentile... non più di cinque minuti”, la facoltà di parola. Ma controllarlo, anche. Con attenzione.

In città c’erano e ci sono tre giornali locali. “L’argine”, che è per pochi intimi, comunisti irriducibili e nostalgici di festival dell’Unità e di scioperi con picchettaggio da raccontare, esce una volta al mese, e a volte, per mancanza di fondi, se ne dimentica.

“Altra città”, quotidiano laico con redazione di otto persone, che sopravvive bene nonostante la crisi, perché inchinandosi ai potenti di turno ottiene in cambio tanta pubblicità. Anche “Nel segno”, illeggibile settimanale della Curia, si difende: vende grazie ai preti che lo propinano ai propri parrocchiani peccatori. Due Ave Maria e una copia del giornale per penitenza.

Durante un convegno sul cancro alla mammella, proprio un giovane collaboratore di “Nel segno”, uno di quelli pagati pochi euro al pezzo, nel resoconto scrisse alcune righe che sfuggirono alla censura del direttore.

Poche le domande del poco pubblico presente. Solo un signore di mezza età, trasandato, ha chiesto: «Ma perché nessuno parla dei grandi risultati che furono ottenuti negli anni Cinquanta dal dottor Ettore Guidetti, dell’università di Torino, che con altri medici, in tutto il mondo, sostennero e sostengono che alcune sostanze contenute nei semi di albicocca sono un chemioterapico naturale? Perché nessuno parla della Fondazione Pantellini e dell’ascorbato di potassio che è stato somministrato ai bambini dopo la catastrofe di Chernobyl? Perché nessuno dice che una corretta alimentazione, senza carni rosse, cibi lavorati e latticini, rappresenta la vera strada per prevenire e, spesso, per curare il cancro?»

Domande, queste, a cui nessun relatore ha dato risposta.

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9 Pur relegato all’interno del giornale, in taglio basso, l’articolo non sfuggì all’ira di medici e farmacisti.

«Quando si dà spazio a qualcuno, si deve verificare che sia una voce autorevole. Tu invece hai fatto parlare un emerito coglione», sentenziò il direttore, dando il benservito al suo inesperto cronista. Cacciandolo, e facendo sapere che lo aveva cacciato, ipotecava futuri introiti pubblicitari per convegni organizzati dall’ordine dei medici.

La voce di Adriano Bronzelli, insomma, andava tappata.

Sette mesi prima di morire – mica stupido ‘l fol – aprì un blog: La voce di dio.

Sembrò strano, perché fino ad allora aveva rifiutato il computer. «Né computer, né telefonino, né macchina: si vive meglio senza», aveva sempre detto. Chiaro: qualcuno gli aveva spiegato l’importanza della rete. Firmandosi “vegAn”, nel primo post scrisse:

Internet non deve sottrarre il tempo che possiamo vivere all’aria aperta.

Ma la rete è libertà, è anarchia, è un campo di battaglia di una guerra senza fine. Le banche e le multinazionali, insomma i padroni del mondo controllano la rete con lo scopo di confondere, annebbiare le menti. La loro voce è potentissima.

La nostra piccola voce è la voce della verità, della libertà.

Dobbiamo combattere, senza paura, su internet e sulle strade.

Qualcuno ci ascolterà.

Ad ascoltarlo, tra boschi e sabbie umide, melmose, vicino alla capanna, andava sempre qualcuno, adepto, malato o curioso che fosse. Proprio lì, una domenica, davanti a una trentina di persone, compresi due infiltrati, un brigadiere e un ispettore di polizia, Bronzelli disse queste precise parole: «Non andate a curarvi negli ospedali, state alla larga dalle medicine, perché sono veleni, e dai bisturi, che diffondono le cellule malate.

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E imparate a curarvi da soli con la respirazione, il silenzio, e poi con il cibo sano, le erbe, lunghe camminate dove l’aria è meno corrotta. Mangiate solo frutta, verdura, legumi, e dite addio al latte industriale, alla carne e allo zucchero raffinato, e se potete fuggite dalle vostre case, e portate i vostri figli dove non ci sono fumi, pesticidi, cibi in scatola, conservanti, veleni...»

Nella relazione dell’ispettore di polizia, risultava che Bronzelli avesse detto: «Il progresso ci sta uccidendo, fermiamolo a tutti i costi».

Il brigadiere dei carabinieri quella frase, però, non l’aveva trascritta.

«L’ha detta o non l’ha detta?» gli domandò il colonnello Antonio Maschi.

«L’ha detta».

«E tu perché non l’hai scritta?»

Silenzio.

«Mi hai fatto fare una figura di merda col prefetto, voglio sapere perché non l’hai scritta» urlò Maschi.

«Signor colonnello, il signor Adriano Bronzelli sta aiutando mia moglie a guarire. Mia moglie, signor colonnello, ha un tumore allo stomaco, ma da quando prende l’ascorbato di potassio sta meglio».

«Ma vaffanculo» tagliò corto Maschi, congedandolo.

In ogni caso quella domenica segnò l’inizio della capitolazione di Adriano Bronzelli. Le nebbie generose della vecchia città possono sopportare un guaritore; un predicatore del caos, no. Partì l’offensiva. La prima mossa consisteva nell’isolarlo. Così successe che chi lo difendeva, dicendo che era generoso e che apriva la porta a tutti, fu zittito.

«Con chi discute tutte le sere ‘l fol? Con due spostati che gli danno sempre ragione. Un marocchino rincoglionito e uno scemo che ha perso la parola. Fanno un bel trio...»

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11 Khalid e Zania erano di casa da Bronzelli. Abed Khalid era un senza tetto perché il fratello e la cognata, che avevano vent’anni meno di lui e che lo ospitavano, sentendosi spiati nei momenti di intimità lo avevano cacciato. Domenico Zania, invece, era una sorta di zombie: dopo la morte della figlioletta, aveva lasciato moglie e lavoro per vivere sotto i ponti. E aveva anche smesso di parlare.

Insomma, questi erano i compari di Adriano Bronzelli,

‘l fol.

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