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PROCURA GENERALE DELLA CORTE DI CASSAZIONE R.G /2018

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PROCURA GENERALE DELLA CORTE DI CASSAZIONE

R.G. 37421/2018

Il PG.

Letto il ricorso proposto nell’interesse di LOCCI SANDRO, avverso l’ordinanza del Tribunale di Lanusei in data 24 luglio 2018, osserva quanto segue.

Con l’ordinanza impugnata il Tribunale di Lanusei, quale competente giudice dell’esecuzione, ha rideterminato la pena inflitta con la sentenza n. 207 del 17 giugno 2010 del medesimo Tribunale, passata in giudicato il 25 ottobre 2012, in relazione alla sentenza della Corte costituzionale n. 56 del 2016, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 181, comma 1-bis, lettera a), del d.lgs. n. 42 del 2004, revocando altresì la sospensione condizionale della pena per mancata demolizione dei fabbricati abusivi.

Ha ritenuto il Tribunale che tale pronuncia, pur non eliminando la norma incriminatrice, avrebbe comportato la riqualificazione del reato da delitto a contravvenzione, con conseguente illegittimità della pena della reclusione inflitta e l’obbligo di rideterminarla, superando il giudicato, in quella dell’arresto e dell’ammenda.

Con il ricorso proposto la difesa lamenta la violazione del divieto di reformatio in pejus di cui all’art. 597, comma 3, c.p.p. e della norma di cui all’art. 133 c.p. per la commisurazione della pena. Il giudice dell’esecuzione, infatti, avrebbe dichiarato di procedere tenendo conto dei criteri commisurativi della pena al fatto adottati dal giudice della cognizione nella sentenza passata in giudicato: in quella sede si era fissata la pena partendo dal minimo edittale previsto per il delitto (un anno di reclusione), mentre in sede esecutiva la pena prevista per la contravvenzione era stata rideterminata partendo da una commisurazione ben superiore al minimo edittale (previsto in 5 giorni di arresto ed euro 30.986,00 di ammenda): nel provvedimento in questa sede impugnato, infatti, si era individuata la pena base in mesi 4 di arresto ed euro 40.000 di ammenda, diminuita per le generiche a mesi 3 di arresto ed euro 26.667,00 di ammenda, aumentata per la continuazione a mesi 4 di arresto ed euro 40.000 di ammenda. Inoltre, così facendo, secondo il ricorrente, il giudice non solo avrebbe violato il divieto di reformatio in pejus, ma avrebbe anche determinato la pena in modo sproporzionato e avrebbe motivato in modo confuso, contraddittorio

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La prima censura (violazione del divieto di reformatio in pejus) è infondata, mentre la seconda è inammissibile per genericità e aspecificità del motivo.

Sul primo punto occorre, peraltro, sviluppare una riflessione sulla modalità stessa in cui può configurarsi, per il giudice dell’esecuzione, il divieto di reformatio in pejus nell’ipotesi in esame.

Invero, la sentenza n. 56 del 2016 della Corte costituzionale, dichiarando l’illegittimità dell’art. 181, comma 1-bis, lettera a) e di parte della lettera b), del Codice dei beni culturali e del paesaggio, ha parificato la risposta sanzionatoria per le condotte lesive di beni paesaggistici vincolati ex lege, qualora non superino i limiti quantitativi previsti dal successivo comma 1-bis, a quella per le condotte lesive di beni vincolati con provvedimento amministrativo, che integravano un delitto e non godevano di ipotesi di «sanatoria» o estinzione. L’effetto di tale sentenza, come già puntualizzato dalla Corte di Cassazione (Cass., Sez. 3, n. 38691 del 11/07/2017 - dep.

03/08/2017, Giordano, Rv. 271301; Cass., Sez. 4, n. 12640 del 06/02/2018 - dep. 19/03/2018, Gravagno, Rv. 272244), è stato quello di trasformare in contravvenzione il precedente delitto, che permane ormai soltanto con riguardo alla seconda parte dell’art.181, comma 1-bis, lettera b), concernente gli interventi che abbiano superato la prevista soglia di aumento della volumetria dei manufatti: le residue ipotesi, tra le quali quelle di specie, vengono attratte nel comma 1 del medesimo art. 181 e, pertanto, sono punite con le pene previste dall'articolo 44, comma 1, lettera c), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (arresto ed ammenda), proprie delle fattispecie contravvenzionali (Cass., Sez. 3, n. 38691 del 11/07/2017 - dep. 03/08/2017, Giordano, Rv. 271301; Cass., Sez. 4, n.

12640 del 06/02/2018 - dep. 19/03/2018, Gravagno, Rv. 272244).

L’inflitta pena della reclusione costituisce, dunque, pena costituzionalmente illegittima per effetto della citata sentenza della Corte costituzionale.

Nelle ipotesi in cui la dichiarazione di illegittimità costituzionale di norme sanzionatorie muti in senso più favorevole il trattamento sanzionatorio, si è ritenuto che sussista per il giudice dell’esecuzione l’obbligo di rideterminare la pena in executivis ai sensi dell’art. 30, comma 4, della legge n. 87 del 1953, nonostante il passaggio in giudicato della sentenza, purché l’esecuzione della pena non si sia ancora esaurita (così a partire, in particolare, da Sez. Un., n.

18821 del 24/10/2013 - dep. 07/05/2014, Ercolano, Rv. 258651; Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014 - dep. 14/10/2014, P.M. in proc. Gatto; Sez. Un., n. 37107 del 26/02/2015 - dep. 15/09/2015, Marcon, Rv. 264859; proprio per l’attenzione che deve porsi all’esaurimento del rapporto, del resto, Cass., Sez. 3, n. 52438 del 11/07/2017 - dep. 16/11/2017, Rv. 271879 ha precisato che si deve dichiarare l'estinzione per prescrizione del reato riqualificato come contravvenzione, a

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seguito di sentenza della Corte costituzionale, qualora la prescrizione sia maturata in pendenza del procedimento di cognizione e fatti sempre salvi i rapporti ormai esauriti).

Analoghe conclusioni sul superamento del giudicato per rideterminare la pena costituzionalmente illegittima devono valere, a maggior ragione, quando il mutamento più favorevole, conseguente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale, non concerna il solo intervallo edittale della pena, ma addirittura la specie della stessa, come avviene nel caso in cui si passi dal trattamento sanzionatorio previsto per un delitto a quello previsto per una contravvenzione (così, implicitamente, da ultimo Cass., Sez. 4, n. 12640 del 06/02/2018, dep.

19/03/2018, Gravagno, Rv. 272244 e sentenze ivi richiamate).

Il problema che si pone specificamente nel caso in esame è, peraltro, quello di stabilire in primo luogo se, ai fini che ci occupano, il trattamento conseguente alla trasformazione da delitto in contravvenzione sia sempre più favorevole, oppure se vi siano spazi di valutazione in concreto del maggior o minor favore, derivanti da una pluralità di elementi da considerare – quali la previsione di pena detentiva per la sola contravvenzione, la durata della detenzione prevista rispettivamente nel delitto e nella contravvenzione, la misura pecuniaria dell’ammenda (in assenza di multa o rispetto all’entità di questa) – rispetto ai quali possa ipotizzarsi una reformatio in pejus;

in secondo luogo – e in stretta relazione al primo – si tratta di stabilire se il giudice dell’esecuzione abbia l’obbligo di rimodulare la pena (più favorevole) nell’ambito della nuova cornice edittale, secondo gli ordinari criteri previsti dall'art. 133 cod. pen., ovvero sia tenuto a seguire un criterio proporzionale, se non di tipo aritmetico, almeno correlato alla pena calcolata prima della declaratoria di incostituzionalità e ai criteri commisurativi utilizzati dal giudice della cognizione; in secondo luogo.

Quanto ai rapporti tra delitti e contravvenzioni, pronunciandosi con riferimento al diverso problema della continuazione, la Corte di cassazione (Cass., Sez. 2, n. 49007 del 16/09/2014, dep.

25/11/2014, Rv. 261425) ha affermato – in continuità con Cass. Sez. Un., n. 15 del 26/11/1997, dep. 03/02/1998, P.m. in proc. Varnelli, Rv. 209485 – che nel caso di concorso fra delitto e contravvenzione la “violazione più grave” si individua nel delitto, in relazione al quale il giudizio di maggior gravità discende direttamente dalle scelte del legislatore, orientamento che non risulta smentito, ma anzi approfondito con riferimento ai criteri di calcolo della pena in aumento per la continuazione.

Tuttavia, nell’applicazione della disciplina della continuazione, il giudizio di gravità ha per oggetto la “violazione della norma”, ossia il tipo di condotta trasgressiva (delitto o contravvenzione) e non già la pena da applicare: il prevalente orientamento di legittimità

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considera, infatti, eccezionale e limitata alla sola fase esecutiva la disposizione dell’art. 187 disp.

att. cod. proc. pen. (Cass., Sez. 2, n. 49007 del 16/09/2014, dep. 25/11/2014, Rv. 261425).

Per questo l’orientamento maggioritario della Corte di cassazione (Sez. un., n. 25939 del 28/02/2013 - dep.13/06/2013, P.G. in proc. Ciabotti, Rv. 255347; Cass., Sez. 4, n. 30557 del 07/06/2016 - dep. 19/07/2016, Rv. 267689; Cass., Sez. 2, n. 36107 del 16/05/2017 – dep.

21/07/2017, Rv. 271031; contra Cass. Sez. 5, n. 38581 del 04/06/2014 - dep. 19/09/2014, Rv.

262223) lega il giudizio di gravità a quello della violazione della norma in astratto e, quindi, alla tipologia del reato, che risulta dalla astratta previsione normativa e non già da quella ritenuta in concreto dal giudice e manifestatasi nella pena inflitta o infliggenda.

Nel caso di specie, invece, a differenza della continuazione, è il trattamento sanzionatorio a dover essere più favorevole per giustificare il superamento del giudicato e la rideterminazione della pena costituzionalmente illegittima, secondo una valutazione che deve essere effettuata in concreto, ciò anche in base a una interpretazione costituzionalmente orientata delle norme:

sarebbe infatti irragionevole ipotizzare che, mentre in caso di mera successione di leggi nel tempo ex art. 2 cod. pen. (in cui non sussiste una valutazione di illegittimità costituzionale della norma sanzionatoria) la valutazione di maggior favore debba essere effettuata in concreto, con maggiori garanzie per il condannato, mentre nel caso (che qui ci occupa) in cui tale valutazione di illegittimità costituzionale vi sia stata, la medesima valutazione debba essere effettuata in astratto, con minori garanzie per lo stesso condannato.

Né può ritenersi che la diversità di specie delle pene previste per i delitti e le contravvenzioni costituisca un ostacolo per la suddetta comparazione in concreto, almeno dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 68 del 2017, con la quale è stata ritenuta ammissibile e addirittura doverosa tale comparazione con riguardo alle pene previste per reati e per illeciti amministrativi (seppur da qualificare sostanzialmente penali ai sensi della CEDU).

Ciò nondimeno, anche in questo caso, la specie della pena può costituire un indice di minore gravità a parità di durata o quantità del genere (detentiva o pecuniaria) della stessa, non potendo per i principi di legalità della pena e del favor rei, applicare una pena detentiva al posto di una pecuniaria (più complesso è invece stabilire se, nell’ambito del medesimo genere, sia possibile infliggere una pena quantitativamente maggiore a titolo di ammenda o di arresto, rispetto a quella prevista a titolo di reclusione o multa: secondo canoni sostanziali, utilizzati alla giurisprudenza CEDU cui deve orientarsi il giudice comune, la risposta dovrebbe essere negativa).

Del resto, proprio la citata Sez. Un., n. 40983 del 21/06/2018, Giglia, Rv. 273751 (e già prima, recentemente, Sez. un. n. 6296 del 24/11/2016 - dep.10/02/2017, Nocerino, Rv. 268735)

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principi del favor rei e di legalità della pena operino in sede esecutiva e che tali principi non ostino a una integrazione della pena detentiva con quella pecuniaria.

Quanto sopra affermato, non vuol dire che in fase di rideterminazione in executivis della pena costituzionalmente illegittima il giudice dell’esecuzione debba necessariamente attenersi ad un rigido criterio aritmetico di trasposizione dei criteri di calcolo utilizzati dal giudice della cognizione per il calcolo della nuova pena in sostituzione di quella costituzionalmente illegittima.

La novazione oggettiva del reato, determinata dal suo passaggio da delitto a contravvenzione e la sua collocazione in un ambito di disciplina differente (più favorevole) caratterizzata da un diverso intervallo edittale e da differenti previsioni sanzionatorie, comporta infatti per il giudice dell’esecuzione l’obbligo di rideterminare la pena in tale nuovo e diverso ambito, in base ai criteri di cui agli artt. 132 e 133 e ss. cod. pen., nel rispetto di un principio di proporzione rispetto alle valutazioni del fatto operate in precedenza dal giudice della cognizione, ciò che non comporta l’attestazione automatica anche della pena contravvenzionale sui minimi edittali applicati dal giudice della cognizione per il delitto.

Seppure, senza l’odierna complicazione del passaggio da pene previste per il delitto a quelle previste per la contravvenzione, il principio è stato già affermato dalle Sezioni unite con riferimento proprio alla rideterminazione di pene costituzionalmente illegittime nella sentenza Sez. Un., n. 37107 del 26/02/2015 - dep.15/09/2015, Marcon, Rv. 264858, nella quale si è escluso che la rideterminazione della pena da parte del giudice dell'esecuzione possa avvenire in base al criterio matematico-proporzionale, realizzando una sorta di automatismo nell'individuazione della sanzione, e si è affermato invece che il giudice dovrà procedere alla rideterminazione della pena utilizzando i criteri di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen., secondo i canoni dell'adeguatezza e della proporzionalità che tengano conto della nuova perimetrazione edittale. Poiché si tratta di affermazioni effettuate in riferimento a casi di patteggiamento della pena, in cui sussiste l’ulteriore esigenza rappresentata dalla necessità di rispettare la volontà negoziale delle parti, esse debbano valere a maggior dove tale esigenza non sussiste, come nel caso di specie.

Il fatto, quindi, che nel presente caso il giudice dell’esecuzione non abbia riprodotto il medesimo criterio matematico-proporzionale individuando automaticamente la sanzione nel minimo edittale previsto nel reato contravvenzionale, nel quale doveva ritenersi trasformato il delitto a seguito della sentenza della Corte costituzionale, non costituisce violazione del divieto di reformatio in pejus, che deve ritenersi impropriamente evocato nel giudizio di esecuzione.

Infatti, il divieto di reformatio in pejus opera propriamente nella fase di cognizione – dove, del resto, è legislativamente previsto – in quanto presuppone poteri di vera e propria “riforma”,

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seguito di annullamento della Corte di cassazione. In sede esecutiva di rideterminazione della pena costituzionalmente illegittima riconosciuta da una sentenza della Corte costituzionale, invece, il giudice dell’esecuzione dovrà procedere alla predetta rideterminazione della pena (ancorché inflitta con sentenza passata in giudicato) utilizzando i criteri di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen., secondo i canoni dell'adeguatezza e della proporzionalità che tengano conto della nuova perimetrazione edittale e dell’accertamento del fatto contenuto nella sentenza passata in giudicato, ciò che impedisce la sottoposizione dell’imputato a un trattamento deteriore, ancorché questi, come si è visto, non sia vincolato alla riproduzione di criteri matematico-proporzionali.

Da qui l’infondatezza del motivo di ricorso sulla violazione del divieto di reformatio in pejus.

Quanto alle considerazioni sviluppate in ricorso in ordine al lamentato vizio di motivazione, le medesime, nella parte in cui non sono riducibili alla già esaminata violazione di legge, devono considerarsi aspecifiche e generiche e, come tali, inammissibili.

P.Q.M.

CHIEDE

che la Corte di Cassazione voglia rigettare il ricorso, adottando i conseguenti provvedimenti ex art. 616 cod. proc. pen.

Roma, 4 dicembre 2018.

Il Sost. Procuratore Generale Dott. Tomaso Epidendio

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