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La Val d’Orcia e la candidatura UNESCO

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Academic year: 2021

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Indice... 1

Introduzione ... 4

Parte Prima: studio su Montalcino ... 7

Premessa ... 7

La Toscana ... 23

Il catasto napoleonico-lorenese... 24

La Val d’Orcia e la candidatura UNESCO ... 47

Montalcino ... 52

Analisi demografica ... 56

Analisi economica... 60

Tecnologia GIS applicata a Montalcino ... 68

Parte Seconda: studio su Ay ... 76

Premessa ... 76

La Champagne e la candidatura UNESCO... 92

Ay, la culla dello champagne... 96

Analisi economica... 104

Analisi demografica ... 116

Tecnologia Gis applicata ad Ay... 121

Parte terza: un possibile confronto ... 125

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Riferimenti bliografici ... 130

Fonti d’Archivio ... 134

Siti internet consultabili ... 135

Indice delle figure... 136

Indice delle tabelle ... 138

Ringraziamenti... 140

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A mio padre, mia madre e mia sorella.

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Introduzione

Questo elaborato è il frutto di un mio piccolo bagaglio di conoscenze, creato dalla precedente esperienza di ricerca e grazie a dei consigli di persone che da sempre mi hanno sostenuta, in primo luogo la professoressa Giuliana Biagioli e, nel corso della mia esperienza di ricerca all’estero, la professoressa Dejanira Couto.

Il mio interesse verso la storia economica e la storia del territorio nasce durante la stesura della tesi di primo livello: un’analisi sulla toponomastica relativa ad un comune pisano, a partire dall’Ottocento ad oggi. Nel periodo in cui ho portato avanti le indagini, ho avuto la possibilità di utilizzare anche strumenti di lavoro meno tipici per uno “storico”, all’interno di un contesto pluridisciplinare: mappe catastali ottocentesche, carte attuali, documenti d’archivio, il GIS (Geographical Information System) e l’esperienza diretta sul territorio. Questo è stato per me continua fonte di stimolo.

Toccando con mano documenti risalenti a secoli passati, non possiamo negare l’energia che essi sprigionano: atmosfere, lotte, necessità, incomprensioni, elementi che possono apparire oggi banali, ma un tempo essenziali. Si dice spesso che la storia serve a comprendere meglio lo stato attuale attraverso lo studio del passato; dal mio punto di vista, poggiando solo per un attimo lo sguardo sugli eventi passati, non si può che innamorarsi del gesto e continuare a farlo, non solo per “comprendere l’oggi”, e non solo per “non incorrere nei soliti errori”, ma per puro amore della ricerca. Non deve esserci esclusivamente voglia di spiegare, ma fame di conoscenza, curiosità. Dal piccolo paesino, al grande personaggio, poiché, nella storia, hanno pari importanza. Sono storia.

In questo scritto verranno prese in esame due piccole città: Montalcino e Ay, la prima italiana e la seconda francese. La scelta è caduta su questi paesi poiché hanno in comune diversi elementi: un’economia basata principalmente sull’attività vitivinicola, si trovano nel cuore di due aree dedite alla produzione di un vino d’eccellenza – il Brunello di Montalcino e lo Champagne – ed entrambi si pongono nell’ottica de patrimonio mondiale dell’umanità promosso dall’UNESCO.

Montalcino può già godere della sua presenza nella lista dei Patrimoni mondiali,

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trovandosi nel territorio della Val d’Orcia, mentre la regione della Champagne sta elaborando in questi anni un proprio dossier per entrare a farne parte.

Sia Montalcino che Ay verranno analizzati, a partire dal contesto storico in cui si trovano, in un periodo che va dalla fine del 1700 fino ad arrivare ai giorni nostri. Non si tratterà solo di una ricostruzione storica, ma saranno approfonditi gli aspetti economici e demografici. Partiremo dalle loro realtà, perché per comprenderne l’evoluzione non possiamo escludere l’ambiente in cui si sono sviluppate le due tipologie di organizzazione.

I risultati ottenuti da queste indagini saranno poi confrontati con i dati relativi all’organizzazione degli spazi dediti alla viticoltura. Non verranno prese in esame le strutture delle attività produttive ma la qualità e quantità della parcella sul cui suolo viene coltivata la vite, tutto questo attraverso una nuova forma di rappresentazione spaziale: la tecnologia GIS.

L’elaborato è suddiviso in tre parti: le prime due, relative rispettivamente a Montalcino e Ay, rappresentano lo studio effettuato su tali paesi. La loro struttura è molto simile, per entrambi si cercherà di introdurre la realtà studiata partendo dal contesto, fino a restringere il raggio d’indagine: dall’Italia a Montalcino e dalla regione della Champagne ad Ay. Successivamente saranno analizzati gli aspetti economici e demografici, per concludere con la trattazione dati tramite GIS.

Nella terza parte, prima di trarre le conclusioni, si tenterà di effettuare un confronto tra i due modelli di sviluppo, differenti, ma attinenti alla medesima attività economica.

La documentazione utilizzata per le ricerche è molto varia: i documenti ricercati, sia nell’Archivio dipartimentale della Marne sia nell’Archivio di Stato di Siena, riguardano in primo luogo la cartografia ottocentesca, in particolare il catasto leopoldino per la Toscana e quello napoleonico per la Champagne. Nella stessa sede sono state da me analizzate inchieste agrarie, per ottenere una visione più precisa dell’andamento produttivo vitivinicolo, oltre a vari censimenti ed indagini migratorie. Sono stati eseguiti anche colloqui con le istituzioni radicate sul territorio – per esempio Parco della Val d’Orcia per Montalcino e Villa Bissinger per Ay – per permettermi una migliore comprensione dei due ambienti e per approfondire alcuni aspetti.

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Le analisi dei due paesi, nonostante l’obiettivo posto fosse lo stesso, sono state portate a termine con processi differenti. Avviando le indagini con Ay, il timore è stato quello di non avere abbastanza nozioni a riguardo, sia da un punto di vista di riferimenti bibliografici, sia di nozioni base per l’area in esame. Ciò mi ha portato ad una fruttuosa raccolta di materiale d’archivio per sopperire alle carenze iniziali. Non solo inchieste agrarie, ma anche inchieste sulla struttura della popolazione, rileggendo ogni censimento ed annotandomi le connotazioni strutturali della popolazione. L’attenzione particolare che questa regione dedica al suo vino ha reso molto più facili le indagini sulle quantità produttive e sulla loro qualità.

Circa l’attenzione che i due paesi hanno a riguardo della produzione del vino, e per vedere come essa si ripercuote sulle fonti che ho potuto rintracciare, si può porre un esempio: a fronte dell’invasione di malattie crittogamiche, fenomeno che ha coinvolto l’intera campagna europea, essi hanno assunto due atteggiamenti differenti;

per Montalcino non si è eseguita nessuna stima dei danni – o per lo meno non sono riuscita a trovarla – mentre per Ay sì. È vero anche che in questa fase, Montalcino non conosceva ancora l’importanza economica dell’attività vitivinicola, già solida nel paese francese.

Questa esperienza di ricerca mi ha posta davanti a un duplice metodo di organizzazione archivistica e dunque di analisi; a riguardo vorrei ringraziare ogni archivista che mi ha seguito nelle ricerche, in particolare all’interno dell’Archivio di Stato di Siena e in quello Dipartimentale della Marne, e che mi ha aiutato a superare le iniziali difficoltà, sia linguistiche che logistiche.

Oltre che al personale degli archivi, un caloroso ringraziamento va anche all’amministrazione del comune francese e a Villa Bessinger, che mi hanno accolta offrendomi tutto il materiale di cui avevo bisogno. I molti professori francesi che, interessandosi al mio lavoro, si sono dimostrati disponibili a discuterne con me ed eventualmente ad orientarmi, quando necessario.

Altro ringraziamento va all’équipe di architetti, Roberto Vezzosi e Sara Bindi Fortoni, che mi hanno offerto molto materiale informativo per le indagini contemporanee su Montalcino.

Infine vorrei ringraziare, ancora una volta, il Dott. Massimiliano Grava, perché grazie ai suoi insegnamenti ho potuto utilizzare l’applicazione GIS.

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Parte Prima: studio su Montalcino

Premessa

Nel corso del VIII secolo l’attività viticola italiana non si sviluppò secondo un trend altrettanto rapido come quello che sarà conosciuto nel secolo seguente.

Questo perché accusò negativamente l’ampia diffusione della coltura cerealicola, in particolare del grano e del mais: il primo destinato al mercato europeo, il secondo diffusosi largamente nell’alimentazione rurale; entrambi sottraevano spazio ai vigneti soprattutto nei terreni in collina, tradizionalmente dediti alla viticoltura. Le vigne non vennero comunque dimenticate, nella zona settentrionale e centrale furono impiantati filari di vite ai bordi dei campi coltivati a cereali, due vecchi sistemi di coltivazione consistevano nelle piantate e nelle alberate: le prime diffuse nella Pianura Padana prevedevano viti legate ad alberi disposti in filari su cui sviluppavano i loro rami, le seconde nei rilievi appenninici centro-settentrionali, in questo caso la vite è legata ad un solo albero1. Si trattava di due tecniche eleganti ed utilissime all’economia di autosussistenza del mondo rurale: si ricavava il fogliame da impiegare per il sostentamento del bestiame quando il foraggio scarseggiava, legname da costruzione e da ardere, e nel caso che il tutore fosse un albero da frutta, c’era un ulteriore contributo alimentare per le famiglie o per le regalie ai proprietari terrieri quando i coltivatori erano dei mezzadri2. L’elemento che pone un freno alla crescita sta nella modalità stessa di organizzazione della vigna, nelle filare coesistono varietà di vite diverse, ciò impedisce una produzione enologica di qualità. L’Accademia dei Georgofili – fondata a Firenze nel 1753 per iniziativa di Ubaldo Montelatici, Canonico Lateranense – all’inizio del XIX secolo, in una dimensione già extra- toscana, si preoccupava di stabilire delle regole per la vinificazione che consentissero una produzione con determinate caratteristiche, di qualità e di costanza nel tempo.

1 GIORGIO PEDROCCO, Viticoltura ed enologia in Italia nel XIX secolo; in MARIO DE

PASSANO, ANTONELLO MATTONE, FRANCA MELE, PINUCCIA F. SIMBULA (a cura di), La vite e il vino, storia e diritto (secoli XI-XIX), vol 1, Roma, Carrocci 2000.

2 Ibid.

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Nell’Italia meridionale la situazione della produzione vinicola risultava ancora più in difficoltà da un punto di vista economico, nel Regno di Napoli i vini di lusso in bottiglia importati dalla Francia superavano il valore del vino nelle botti esportato negli altri Stati italiani; persino il mercato interno non veniva adeguatamente coperto. La tendenza alla pluriattività del mondo contadino, praticata da ogni singolo individuo per massimizzare gli introiti ed integrazione dei redditi, fece si che il lato industriale, anche commerciale, ed agricolo dell’attività vitivinicola fossero ancora strettamente collegate. Ponendo l’industria in una posizione privilegiata rispetto alla conduzione della terra, si causarono ritardi negli aumenti di produzione, e ritardi nel miglioramento della qualità. L’unica eccezione, nel panorama negativo meridionale, era costituita dalla produzione siciliana del marsala che, a partire già dal 1773 e grazie ad un commerciante inglese, John Woodhouse, iniziò ad essere esportato in Gran Bretagna; successivi miglioramenti, provenienti anche da imprenditori italiani come Vincenzo Florio, fecero sì che la produzione di marsala continuasse ad essere un investimento vantaggioso. In quest’area si stava realizzando una separazione tra la viticoltura, affidata agli agricoltori, e la vinificazione, che diventa di competenza dell’impresa industriale e impianto commerciale. Separazione che, come detto precedentemente, è necessaria al decollo della produzione di vino.

Anche in Italia, e come vedremo successivamente per la Francia, nella seconda metà dell’Ottocento cominciarono ad apparire dei parassiti che non risparmieranno molte aree coltivate. Per prima una malattia crittogamica, l’oidio, conosciuto più comunemente come mal bianco, nebbia o manna; si manifestò per la prima volta nel 1851. Questo fungo parassita, che si sviluppa soprattutto in presenza di condizioni climatiche umide, mediamente calde e in caso di scarsa aerazione, attaccava all’inizio dell’estate i grappoli d’uva provocando la formazione di una muffa sgradevole che rendeva le uve inutilizzabili per la vinificazione. Qualche anno dopo grazie a diverse sperimentazioni era stato trovato un efficace rimedio per limitarne i danni: un trattamento con lo zolfo puro. Le due ampelopatie successive, la peronospora e la fillossera, ebbero soprattutto in Francia conseguenze rovinose.

Superata la fase più acuta delle malattie parassitarie, dopo l’Unità d’Italia, si ebbe un bilancio della produzione vinicola italiana con l’Esposizione nazionale di

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Firenze del 1861, nella cui sezione Alimentazione ed Igiene venne dato molto spazio alla produzione vinicola nazionale, soprattutto nella relazione di Antonio Targioni- Tozzetti il quale stimava a 30 milioni di ettolitri la produzione di vino, una sovrastima rispetto ai dati più attendibili elaborati a posteriori dall’ISTAT, che nel decennio 1861-1870 calcolano una produzione media di 23533 ettolitri di vino3. Informazioni ancora più precise appaiono nella relazione sull’industria enologica di Emilio Bertone di Sambuy in occasione dell’esposizione di Londra del 1862.

L’Italia, nel suo complesso, importava più vino di quanto ne esportasse e l’esportazione del prodotto nazionale riguardava solo l’1,1% di tutta la produzione4. Non solo la Francia, ma anche Germania Spagna e Portogallo erano in grado di esportarne maggiori quantità. Nella stessa esposizione venivano sottolineati anche i fattori d’arretratezza italiana nel settore, la scarsità di capitali, il disordine della viticoltura e la vinificazione mal condotta. L’inchiesta conoscitiva dieci anni successiva all’Unità d’Italia – avviata tra il 1870 e 1874 per consentire al Parlamento di legiferare con maggior cognizione di causa – non presentò un mutamento nello stato dei fatti. L’unico avanzamento era di tipo quantitativo, circa 27000 ettolitri di vino vennero prodotti in media tra il 1871 e 1880, ma di bassa qualità, tanto che nel commercio estero continuavano a prevalere i vini francesi.

“I vini francesi, uniformati a pochi grandi tipi scientificamente elaborati, dotati di qualità invariabili, in definitivamente conservabili, classici, messi sul mercato in quantità enormi – svolgevano una spietata concorrenza nei confronti dei vini italiani – sminuzzati in varietà innumerevoli anche nell’ambito di zone ben individuate, deperibili per insufficienza di metodi produttivi, variabili nelle diverse annate per gusto e composizione”5.

Da questa analisi emerge come la principale preoccupazione fosse quella di creare vini con caratteristiche uniche, costanti nel tempo ed assimilate a determinate aree di coltivazione. Del resto le pratiche della viticoltura e dell’enologia italiane

3 Fonte: dati ISTAT, Serie storiche, Tavola 13.14 Produzione delle principali coltivazioni legnose:

vite, olivo e agrumi - Anni 1861-2009.

4 PIER PAOLO D’ATTORRE, ALBERTO DE BERNARDI, Studi sull'agricoltura italiana: società rurale e modernizzazione, Feltrinelli Editore, 1994.

5 Ibid, p. 322.

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erano bloccate da sistemi che rendevano vani i tentativi per raggiungere questi obiettivi. Solo in alcune zone dell’Italia si misero in moto nuovi meccanismi:

nell’Alessandrino, nell’Astigiano, nel Novarese ed in alcune parti della Toscana, con il chianti come prima zona di produzione di un vino di qualità da pasto.

Nell’Astigiano, per esempio, vini particolari come il vermouth, o vini locali come il barbera, nebbiolo, dolcetto e grignolino, erano prodotti all’interno di una gestione di tipo più imprenditoriale; società che puntavano al controllo del mercato interno e a cominciare un’espansione del commercio verso l’estero. Si manifestò così una tendenza, prima per la produzione di vini pregiati, alla separazione tra la fase viticola e quella di vinificazione e commercio, appoggiandosi su una rete di mediatori e commercianti all’ingrosso.

Avevamo già sottolineato che le malattie crittogame successive all’oidio, crearono più disordini nel territorio francese, per questo, negli ultimi decenni dell’Ottocento, la produzione Italiana subisce una spinta positiva per colmare i vuoti della produzione enologica d’oltralpe. Nel decennio 1881-1890 la produzione media di vino sale fino a 31273 ettolitri, e questa tendenza pare non arrestarsi nei decenni successivi; con la produzione sale anche la quantità di vino esportato. Di fatti da una quantità media esportata pari a 288 migliaia di ettolitri, nel decennio 1861-1870, si passa ad una media di 1974 migliaia di ettolitri per il decennio 1881-1890 per poi arrivare a 2046. Iniziano ad essere esportati – oltre al vino sfuso da utilizzare come

‘ritocco’ per i vini, soprattutto, francesi – anche i vini in bottiglia, fatto che indica un miglioramento di qualità. Le regioni che aumentano la propria produzione sono soprattutto quelle meridionali.

In seguito alla crisi agraria ed economica che si avvia alla fine dell’Ottocento, a cui l’Italia rispose con una politica di stampo protezionistico, si apre una fase difficile per i commerci con l’estero: il volume delle esportazioni diminuisce, ma, dovendo mantenere una certa solidità sul mercato, la produzione di vini pregiati non viene abbandonata, anzi lo sforzo maggiore si concentra soprattutto su di essa, che inizia ad aprirsi maggiormente verso altri Paesi. Se precedentemente l’esportazione del prodotto nazionale riguardava solo l’1,1% di tutta la produzione, adesso sale al 6%6. La crescita della produzione nel Sud d’Italia, però, si interrompe, poiché la

6 G. PEDROCCO, Viticoltura ed enologia in Italia nel XIX secolo.

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maggior parte di essa rappresentava proprio quel vino grezzo venduto alla Francia, distribuzione adesso terminata.

All’inizio del XX secolo, la diffusione della fillossera in Francia raggiunge i massimi livelli, ed arriva anche in Italia provocando effetti favorevoli allo sforzo che prevedeva una semplificazione della coltura viticola italiana. Di fatto, molte aree viticole dovettero essere spiantate, e in altre dovettero essere innestati vitigni americani perché resistenti alla fillossera, in tal modo la varietà dei vitigni italiani diminuì, come già auspicava l’Accademia dei Georgofili. Il lento miglioramento delle condizioni di vita aveva portato anche ad un aumento della produzione viticola per il mercato interno, anche se i vini comuni apparivano a molti come una perdita di tempo e di spazio per quelli pregiati.

Nel corso del 1800 possiamo notare alcune differenze nell’economia relativa alla viticoltura, che possono essere considerate valide per uno sviluppo dell’attività in generale, non solo, quindi, relative al caso italiano. Si è avviato un investimento di capitali nel settore, molto più ingente, ad opera di nuovi attori come i mercanti, che investivano sull’attività produttiva per poi pensare alla circolazione del vino. Questo fatto, collegato anche alle calamità naturali, ha avuto un effetto negativo sui piccoli proprietari che, incapaci di investire capitali considerevoli, si trovarono costretti alla vendita dei terreni o alla loro conversione. Processo che volgeva a favore dei grandi proprietari terrieri. Alla fine del secolo non esisteva ancora una vera industria, ad eccezione delle aree precedente citate, e non erano ancora apparsi i grandi produttori e venditori di vino. La coltivazione della vite e la produzione vinicola erano essenzialmente divise dalla vendita e commercio del vino, e non si poteva innescare una combinazione ottimale tra le due fasi che consentisse un aumento della produzione di vino. Avevamo notato come i primi impianti industriali si fossero diffusi nelle aree con vini particolari (marsala o vermouth). Al contrario, per i vini pregiati e comuni si utilizzavano le cantine contadine o padronali per la vinificazione, mentre per il commercio apparivano i già citati commercianti. Per avviare una prima industrializzazione all’interno del settore viticolo sarebbe stata necessaria, in primo luogo, una riorganizzazione degli spazi: la produzione industriale di massa necessitava di luoghi più vasti, non sarebbero state sufficienti le vecchie cantine. Queste vanno, così, progressivamente perdendo il loro ruolo centrale

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all’interno della produzione. Mentre in Francia, al contrario, il loro ruolo resterà centrale sia per l’attività sia come valore storico, in Italia vedranno prendere il proprio posto da moderne aziende enologiche, la cui meccanizzazione e progressi nella ricerca chimico-scientifica hanno permesso di ricreare ambienti favorevoli alla raccolta e vinificazione delle uve. Tutti i processi verranno raccolti all’interno di questo moderno complesso, ad eccezione della fabbricazione delle bottiglie; l’attività vetraria resterà completamente esterna, ed accrescerà la sua importanza. Con la meccanizzazione si riuscì ad ottimizzare il tempo aumentando la quantità del prodotto finale, gli studi chimici e le conoscenze sempre più specializzate sulle tipologie di uve permisero un miglioramento qualitativo. I miglioramenti nei mezzi di trasporto coronarono questa evoluzione, permettendo viaggi sicuri.

La prima parte del Novecento, che precede l’inizio della Prima Guerra Mondiale, vede un andamento poco lineare della produzione viticola, annate di sovrapproduzioni, con il conseguente crollo dei prezzi del vino, che grazie all’aumento costante della domanda tornava presto a risalire, si alternavano a quelle relative a cadute produttive. Nel complesso si avvia una crescita produttiva che si arresta con l’inizio della Grande Guerra. Nel momento in cui la Francia è nuovamente in grado di proporre una produzione concorrenziale, superata la crisi parassitaria dei raccolti, l’Italia non riduce la sua produzione viticola: le esportazioni subiscono uno stallo, poiché si avvia la tendenza, già vista, di una maggiore attenzione verso la produzione di qualità. Per cui si raggiunge un’elevata produttività e una posizione sempre più rilevante all’interno del mercato europeo e mondiale.

Altra grande innovazione, già avviatasi dalla fine dell’Ottocento, che va migliorando durante tutto il XX secolo, riguarda la ricerca scientifica inerente ai composti chimici da utilizzare sul terreno, sia per migliorare la capacità produttiva, sia per evitare le malattie che hanno causato gravi perdite all’interno dei vitigni. Inoltre, sentita ancora fortemente la necessità di tutelare i vini di qualità e di aumentarne la produttività, si tiene a Siena nel 1933 la prima Mostra del Mercato del Vino Tipico Italiano che darà vita, negli anni Sessanta, alla Enoteca Italiana Permanente, un centro che raccoglie tutti i vini pregiati nazionali. Il passo successivo per la tutela dei vini tipici è stata la Denominazione di Origine Controllata (DOC).

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Il periodo preso in esame ha come protagonista, oltre al vino pregiato, anche il vino contraffatto. La domanda di vino, in particolar modo a basso costo, andava aumentando ed erano varie le tipologie di contraffazione: una modalità prevedeva l’utilizzo dall’uva passa7, un’altra consisteva nel particolare utilizzo dello zucchero (dopo aver versato acqua calda sulle vinacce pressate, si aggiungeva tanto zucchero a seconda della gradazione alcolica che si voleva ottenere). Il 14 luglio 1904 il governo varò una legge in tutela del vino, vietandone la produzione tramite l’utilizzo di miscele idroalcoliche o tramite frutta diversa dall’uva. I primi cinquant’anni del Novecento non furono sereni per il vino, malattie, cattivo tempo, guerre, crisi economiche e lo stesso atteggiamento dei produttori ‘troppo furbi’, non giovarono alla sua salute. Del resto è a partire da questi stessi eventi che in Italia verranno presi provvedimenti per la protezione di questo prodotto. Il XX è anche il secolo della massima concentrazione terriera nelle mani dei grandi proprietari terrieri, capaci di riorganizzare l’industria enologica e di lanciarla sui mercati mondiali. In Italia questo processo fu agevolato dal fatto che, queste personalità possedevano gran parte delle proprietà già da molto tempo. I mercati principali erano rappresentati dall’America Latina e gli Stati Uniti, mentre in Europa da Francia, Svizzera, Olanda e Germania.

Anche il mercato interno andava crescendo, dato che il consumo di vino si era trasformato in un fenomeno sociale.

Agli inizi degli anni Trenta, sulla scia della crisi della borsa di New York, i prezzi del vino subirono un ribasso del 50%8, gli altri prodotti agricoli non ebbero maggiore fortuna. La politiche protezionistiche generali dei paesi più ricchi e le dure politiche doganali, penalizzarono le esportazioni; la consecutiva caduta della domanda interna e l’impossibilità di commerciare all’estero causarono ulteriori ribassi dei prezzi. Nel 1937 per far fronte a questi disagi, il governo fascista, che fino a questo punto non era stato in grado di gestire la crisi vinicola, stabilì norme più rigide volte al miglioramento della produzione e formulò una normativa sui consorzi di tutela dei vini tipici con cui la costituzione dei consorzi stessi veniva resa obbligatoria. “Nella legge si prescriveva la definizione delle zone di produzione, la

7 Nel 1888 fu pubblicato un libro a Marsiglia, in sei anni ne furono pubblicate dodici edizioni, che si intitolava proprio Come fare il vino con l’uva passa.

8 ALFREDO ANTONAROS, La grande storia del vino. Tra mito e realtà, l'evoluzione della bevanda più antica del mondo, Edizioni Pendragon, 2006.

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predisposizione di un albo di vigneti, dei marchi distintivi e dei controlli. La struttura della legge avrebbe probabilmente potuto permettere un miglioramento della situazione di mercato, ma la sua attuazione pratica venne impedita dalla guerra.”9 Durante la Seconda Guerra Mondiale il governo fascista continuava a dare maggiore attenzione all’attività cerealicola, ma le istituzioni agrarie supportavano in qualche modo quella vitivinicola; a causa del conflitto stesso, dell’abbandono delle terre e della partenza degli uomini, iniziò un ribasso nel commercio ed andò sviluppandosi un mercato nero del vino. Si cercò di porre sotto controllo questa tendenza ponendo dei forti vincoli sulla produzione del vino, a scapito degli stessi contadini.

Superate entrambe le Guerre, la situazione nelle campagne italiane fu drammatica, la popolazione rurale cominciò ad abbandonare in massa la campagna, andando a cercare maggiore fortuna nell’area urbana. Il prezzo dell’uva divenne eccessivamente basso, i contadini non avevano i mezzi per aumentare la produzione e competere con la più sofisticata vinificazione estera, in primo luogo, ancora, quella francese. L’esportazione media dal 1946 al 1950 equivaleva a 640000 ettolitri di vino, contro i circa 1200000 del periodo antecedente ai conflitti ed ai futuri 1544 migliaia di ettolitri. Lo stesso costo di mantenimento dei terreni e mezzi di produzione va aumentando, ed i coltivatori sono costretti a rallentare la produttività, che resterà su livelli medio bassi fino agli anni Cinquanta.

Dopo circa venti anni si mette in moto un lento processo di riscoperta e valorizzazione della campagna, la Toscana si distinguerà come caso eccezionale. In pochi anni muterà l’aspetto delle campagne e dei modi di produzione che per secoli avevano dominato nell’ambiente rurale; la produzione si farà più intensa ed estesa.

Nuove tecniche, nuovi spazi si fecero strada velocemente, al passo coi ritmi evolutivi dell’epoca contemporanea. E con esse muta anche l’aspetto culturale della campagna: oltre ad attività viticole industrializzate, l’area rurale inizia ad essere soggetto di un fenomeno, quello del “turismo verde”, organizzato sia nelle consuete strutture alberghiere, ma anche extralberghiere, nei ristrutturati casolari, una volta abbandonati dai proprietari in cerca di fortuna altrove, adesso ripresi ed organizzati come agriturismi. Si apre così una fase di rivalutazione della vita rurale, che inizialmente vedrà come fruitori i turisti stranieri, e che successivamente si

9 A. ANTONAROS, La grande storia del vino. Tra mito e realtà, l'evoluzione della bevanda più antica del mondo, p 242.

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diffonderà anche tra gli italiani. Gli anni Settanta sono stati gli anni di una vera riscoperta del vino italiano, anche se a vari livelli, e a seconda dell’attenzione, della zona, delle possibilità e metodi di produzione. Qualità e nuove tecniche furono all’ordine del giorno ed il vino divenne un bene quotidiano per tutta la popolazione, a seconda delle necessità.

Dal punto di vista europeo, è stata posta da subito l’attenzione sulla nostra tematica: quando fu ratificato il Trattato di Roma nel 1957, vi appariva anche una parte dedicata all'agricoltura con la quale vennero definiti gli obiettivi comuni ai sei Stati10 che si associarono costituendo il Mercato Europeo Comune (MEC); erano obiettivi a cui giungere nel settore produttivo, e si specificavano i mezzi per raggiungerli. Nasceva così la Politica Agricola Comune (PAC), le cui linee di sviluppo furono individuate l'anno dopo durante la conferenza di Stresa, nella quale fu deciso che il 75% delle risorse utilizzate per interventi in agricoltura doveva essere destinato ad interventi a sostegno dei prezzi e dei mercati, mentre il restante 25%

utilizzato per misure di politica strutturale. Nel 1962 fu istituito il Fondo Europeo Agricolo di Orientamento e Garanzia (FEOGA) – che dal 2000 non esiste più – strumento finanziario della PAC, articolato in due sezioni: la prima, orientamento, destinata a finanziare le politiche strutturali e la seconda quella di garanzia, che invece sosteneva la politica dei prezzi.

Si tentò quindi di stabilire una prima strategia agricola comune, apparve importante riuscire a far conciliare le idee dei due Paesi più importanti al mondo nel campo della produzione vitivinicola: l’Italia e la Francia, importanti allo stesso modo, ma organizzati con modalità differenti. In Francia la legislazione circa la provenienza e la coltivazione delle viti era molto avanzata, mentre in Italia, negli anni Cinquanta, la situazione era fuori controllo. In Francia si vietava la piantagione di nuovi vigneti, in Italia si favoriva questo processo. Per cui il paese d’oltralpe temeva un’invasione nel proprio mercato, di vini economici italiani, provocando una ripercussione negativa sui prezzi del vino e di conseguenza delle vigne. Questi problemi non sono stati ancora risolti e sono andati accentuandosi con l’entrata della Spagna, altra grande produttrice di vino, all’interno della Cee (1986). Però dal 1962,

10 I firmatari del trattato furono: Belgio, Francia, Germania Federale, Lussemburgo, Italia ed Olanda. I paesi che, in precedenza, avevano già dato vita all' OECE (Organizzazione Europea di Cooperazione Economica) e alla CECA (Comunità Europea Carbone e Acciaio).

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con il primo Regolamento Comunitario relativo al vino (n. 24/62 del 4 aprile 1962) composto da 9 articoli, iniziarono ad essere fissate le prime regole di quella che sarebbe diventata la politica vitivinicola europea11. I successivi interventi verso la creazione di Organizzazione Comune di Mercato (OCM), nel nostro caso relativa al vino, furono: i Regolamenti CEE 816/70 e 817/70, rispettivamente relativi a

"Disposizioni complementari in materia di organizzazione comune del mercato vitivinicolo" e "Disposizioni particolari relative ai Vini di Qualità Prodotti in Regioni Determinate (VQPRD)"12.

Purtroppo nella seconda metà degli anni Settanta, l’Europa non era stata in grado di scongiurare il problema della sovrapproduzione: si aprì per questo un periodo di crisi, le cui cause furono alcune annate con raccolti particolarmente abbondanti, nelle quali il mercato si trovò in una condizione di costante eccesso di offerta che, non riuscendo a riequilibrarsi, generò una diminuzione del livello dei prezzi del vino, a tale fattore si aggiunse una generale diminuzione di consumazione di alcol. Nel 1979 si raggiunse un livello record di produzione vinicola europea:

182,4 milioni di ettolitri. La Norma 457/80 e la 777/85 prevedevano un premio per chi abbandonasse definitivamente i vigneti e nel 1982 venne dichiarata, per la prima volta, come mezzo fondamentale per controllare il mercato del vino ed eliminare le eccedenze, la distillazione; prima vi si ricorreva solo come una misura eccezionale.

Nel 1987 vennero introdotte nuove leggi per imporre la distillazione obbligatoria, come vero freno alla sovrapproduzione; furono messi a disposizione ulteriori sussidi per invogliare alla conversione dei terreni dediti alla viticoltura ad altro genere di coltivazione, e stabilite nuove leggi per produrre vini di qualità.

Nel 1999 si arrivò finalmente alla stesura di un nuovo Regolamento (Regolamento (CE) 1493/1999 del Consiglio del 17 maggio 1999) in cui si ribadiscono gli obiettivi definiti nel momento della stesura del Trattato di Roma, tramite strumenti già presenti e assieme a nuove strategie, come la valorizzazione della qualità dei prodotti. In breve, si cercherà di modificare le politiche di mercato

11 Tale testo stabilì l'istituzione di un Catasto Viticolo, la denuncia obbligatoria dell'entità del raccolto e delle giacenze, la stesura di un bilancio comunitario annuo delle disponibilità e delle previsioni sul consumo.

12 In pratica le nuove norme del 1970 stabilivano che piantare e ripiantare vigneti doveva essere sottoposto solo a limitazioni relative alla qualità e non a restrizioni quantitative, e che le pratiche di marketing già esistenti nei Paesi membri potevano non essere modificate.

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per riuscire a contenere il problema dell’eccedenza, tenendo conto delle differenze tra le varie regioni produttrici, stabilizzare il mercato rendendolo più competitivo nel lungo periodo, investendo, come si detto, sulla qualità. Con questo Regolamento si abrogano i 23 precedenti, atto che esprime una necessaria semplificazione.

Successivamente vennero presi altri provvedimenti, ricordiamone alcuni: il numero 1234/2007 del Consiglio del 22 ottobre 2007; il regolamento n° 491/2009 del Consiglio del 25 maggio 2009; il n° 555/2008: circa i programmi di sostegno, scambi con i paesi terzi, potenziale produttivo e controlli; il regolamento n° 436/2009:

riguardante lo schedario viticolo, le dichiarazioni obbligatorie, i documenti che scortano il trasporto dei prodotti e la tenuta dei registri; il n° 606/2009: sulle categorie di prodotti vitivinicoli, le pratiche enologiche e le relative restrizioni; infine il regolamento n° 607/2009, sulle denominazioni di origine protette, le indicazioni geografiche protette, le menzioni tradizionali, e l’etichettatura e presentazione prodotti vitivinicoli. Come si può leggere all’interno della Comunicazione della commissione al Consiglio e al Parlamento europeo:

“L'Unione europea è non solo il maggior produttore mondiale di vino, ma anche il maggior consumatore, importatore e esportatore. Sul piano della qualità, i suoi vini godono di una rinomanza mondiale, conquistata in secoli di tradizione nella vinificazione di prodotti di eccellente qualità offerti ai consumatori di tutto il mondo. A ciò si aggiunga la bellezza paesaggistica delle regioni viticole e l'utilizzo proficuo di terreni che potrebbero altrimenti essere abbandonati, due punti forti dal punto di vista ecologico, a patto che la produzione sia realizzata secondo criteri rispettosi dell'ambiente. Il settore vitivinicolo dell'Unione rappresenta un'attività economica di vitale importanza, in particolare sotto il profilo dell'occupazione e delle entrate che procurano le esportazioni. Con oltre un milione e mezzo di aziende vitivinicole che occupano una superficie vitata di 3,4 milioni di ettari, ossia il 2%

dell'intera superficie agricola europea, nel 2004 la produzione di vino ha rappresentato il 5,4% della produzione agricola dell’UE. Tale quota ha superato il

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10% in Francia, Italia, Austria, Portogallo, Lussemburgo e Slovenia, mentre in Spagna è stata leggermente inferiore a tale cifra.”13

Sono da sottolineare i punti forti di questa dichiarazione, ovvero la consapevolezza dell’Europa di rappresentare oltre al maggior produttore di vino, anche il suo maggiore consumatore; non poteva essere altrimenti visto che si tratta dell’area in cui la qualità e soprattutto la tradizione sono strettamente collegati con questa attività. Si riconosce l’importanza della bellezza paesaggistica di molte aree dedite alla viticoltura – come approfondiremo in seguito per la Val d’Orcia e successivamente per la regione della Champagne – fatto che, conciliato ad adeguato utilizzo dei terreni, permette di evitare l’abbandono di questa attività e, seguendo criteri rispettosi per l’ambiente la produzione può aumentare senza nuocere all’ambiente. Importanza economica ed ambientale paiono andare di pari passo.

Senza entrare in aspetti troppo burocratici, si può sostenere che oggi il riferimento normativo si rifà al Regolamento del 2008 che, come si legge nella sintesi disponibile online:

“Il regolamento sull'OCM del vino mira in particolare a stabilire delle regole chiare ed efficaci che permettano di equilibrare la domanda e l'offerta, nonché ad orientare il settore verso uno sviluppo sostenibile e competitivo. Si prefigge inoltre di salvaguardare le migliori tradizioni della produzione vitivinicola europea, di rafforzare il tessuto sociale di molte zone rurali e di garantire una produzione nel rispetto dell'ambiente.”14

Gli Stati membri potranno beneficiare di misure di sostegno negli ambiti del regime di pagamento unico basato sulle superfici, per la promozione dei vini europei sui mercati dei paesi terzi, per la ristrutturazione e la riconversione dei vigneti, per la vendemmia verde per limitare l'offerta sul mercato, per contrastare le fluttuazioni del mercato, per garantire un reddito ai produttori colpiti da calamità naturali, condizioni

13 Fonte: http://ec.europa.eu/agriculture/capreform/wine/com2006_319_it.pdf Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo. Verso un settore vitivinicolo europeo sostenibile.

Bruxelles, 22.06.2006 COM(2006) 319 definitivo.

14Fonte:

http://europa.eu/legislation_summaries/agriculture/agricultural_products_markets/ag0001_it.htm

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climatiche avverse, fitopatie o infestazioni parassitarie, per gli investimenti materiali o immateriali in vista di un miglioramento di competitività, per la distillazione dei sottoprodotti della vinificazione, o per usi commestibili, o la distillazione di crisi per eliminare le eccedenze di vino, ed infine, per l’uso di mosto di uve concentrato per aumentare il titolo alcolometrico naturale dei prodotti. Anche gli stessi Paesi membri possono erogare finanziamenti, sempre nel rispetto delle norme vigenti.

Il fatto stesso che l’Europa abbia utilizzato tale strumento, un Regolamento, al posto della direttiva, ci indica l’importanza e le difficoltà incontrate per affrontare questa tematica. Il regolamento è uno strumento usato per poter entrare da subito nell’ordinamento di ogni Paese membro, che lo deve recepire senza passare prima da una legge nazionale di recepimento, come invece avviene per le direttive. Doverlo inserire nel proprio ordinamento, così come è, non permette eventuali modifiche.

Avevamo già detto che questo mercato era stato oggetto di forte tensioni da parte dei due principali produttori, con modalità diverse, Italia e Francia.

Non poteva essere ignorata la legislazione vinicola europea per comprendere l’evolversi tutto italiano nell’ambito della demarcazione e privilegio dei vini, oltre quello regolamentare. Di fatto, in scia con i primi eventi europei degli anni Sessanta, in Italia nel 1963 sono state formulate leggi in merito alla formazione della categoria di Denominazione di origine controllata (Doc) per i vini di alta qualità, categoria basata sulla regione di origine. Inoltre, questa legge, specificava le uve permesse per ogni tipo di vino, il massimo di produzione consentita per ettaro, il tasso di conversione dell’uva in vino, i metodi di vinificazione e la gradazione alcolica, oltre ai requisiti di invecchiamento. La garanzia di autenticità, però, non comportava anche quella di qualità, poiché non prevedeva un comitato di esperti assaggiatori, ed ancora non vi erano restrizioni circa l’ambiente e clima in cui si trovavano i vitigni.

Inoltre, i raccolti massimi permessi erano molto superiori, per esempio, a quelli francesi, e a molte denominazioni, a livelli del Chianti, venne permesso l’aggiunta di uve di altre regioni (fino al 15%). Alla fine degli anni Settanta fu introdotto un ulteriore sistema di classificazione dei vini di qualità superiore, la Denominazione di Origine controllata e garantita (Docg). Per rientrarvi, i vini devono essere sottoposti a specifiche analisi ed assaggiati da esperti: il Barolo, Barbaresco e Brunello di Montalcino vi rientrarono da subito e senza dubbio a riguardo, ma quando furono

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inseriti anche il Vino Nobile di Montepulciano e, successivamente, il Chianti e l’Albana di Romagna, in molti si preoccuparono per l’indebolimento del criterio di scelta. Restava ancora, inoltre, il problema dell’ambiente, i vini prodotti potevano provenire da qualunque zona della Docg, senza tener conto del microclima o posizione del vigneto. A differenza della Francia, di cui vedremo le ben più rigide disposizioni, non si è generata una gerarchia di qualità fra i vigneti di una determinata zona o una distinzione tra vini diversi. Come risultato è avvenuta la produzione di vini pregiati con la denominazione inferiore, quindi un riconoscimento basato più sulla reputazione che sulla demarcazione.

Nel 1992 vennero apportate delle modifiche all’interno della scala di importanza dei vini; attualmente possiamo riconoscere le seguenti: vini da tavola;

vini da tavola con Indicazione geografica tipica (Igt); vini da tavola con Denominazione d'origine protetta (Dop); vini di qualità prodotti in regione determinata (VQPRD); vini a Denominazione d’origine semplice (Dos); vini a Denominazione di origine controllata (Doc); vini a Denominazione di origine controllata e garantita (Docg); vini di qualità prodotti in regione determinata (Vqprd, Doc, Docg) con indicazione della sottozona (comune, frazione, fattoria, podere o vigna).

Di seguito i grafici raffiguranti l’andamento della produzione italiana di vino, le sue esportazioni e il suo consumo medio in Italia:

Andamento produzione di vino nel periodo 1961-2009 (in migliaia di ettolitri)

0 20.000 40.000 60.000 80.000

1861-1870 1871-1880

1881-1890 1891-1900

1901-1910 1911-1914

IGM 1920-1930

1931-1938 IIGM 1946-1950

1951-1960 1961-1970

1971-1980 1981-1990

1991-2000 2001-2009 Anni

Vino prodotto

Andamento produzione di vino

Linea di tendenza

Figura 1. Grafico raffigurante l’andamento della produzione di vino negli anni 1861-2010, fonte: ISTAT, Serie Storiche.

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Nel grafico precedente è evidente quello che abbiamo sinora evidenziato: una tendente crescita della produzione viticola – individuabile grazie alla linea di tendenza in rosso – nel lungo periodo, mentre i cali di produttività avvengono in contesti bellici e successivamente alle malattie delle piantagioni. Al contrario, la molto contestata sovrapproduzione, la si può notare, in particolare, a partire dalla seconda metà del Novecento; andrà riducendosi grazie agli interventi comunitari e nazionali.

Nel grafico sottostante, invece, possiamo notare come le esportazioni del vino si mantengono molto basse fino alla seconda metà del XX secolo, oscillando con poca consistenza in precedenza – ancora le fasi belliche e le fasi di ostilità diplomatica con la Francia, ne costituiscono i fattori dominanti – per poi spiccare verso l’alto grazie alla riscoperta, valorizzazione e meccanizzazione della produzione e quindi la maggior possibilità di esportare vino, soprattutto di qualità elevata.

Andamento esportazioni del vino nel periodo 1861-2010 (migliaia di ettolitri)

0 5.000 10.000 15.000 20.000 25.000

1861-1870 1871-1880

1881-1890 1891-1900

1901-1910 1911-1914

IGM 1920-1930

1931-1938 IIGM 1946-1950

1951-1960 1961-1970

1971-1980 1981-1990

1991-2000 2001-2010 Anni

vino esportato

Andamento esportazione vino

Linea di tendenza c

Figura 2. Grafico raffigurante l’andamento delle esportazioni di vino nel periodo 1861-2010.

Fonte: ISTAT, Serie Storiche.

Nel grafico seguente possiamo notare l’andamento dei prezzi medi al consumo del vino; sarà sempre poco rilevante fino, ancora una volta, alla seconda metà del XX secolo, durante la quale il consumo aumenta, sia quello relativo a prodotti pregiati sia quello del vino da tavola; fatto dovuto ad un aumento della capacità d’acquisto delle famiglie ed alla riscoperta del piacere del bere e del mangiare bene, fattori tipici, ed enfatizzati al massimo in questo periodo, della cucina

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italiana e mediterranea in generale. La seconda metà del Novecento rappresenta dunque un momento positivo per il settore vitivinicolo italiano.

Andamento prezzi medi al consumo del vino (per litro) nel periodo 1861-2010

-0,50000 - 0,50000 1,00000 1,50000 2,00000

1861-1870 1871-1880

1881-1890 1891-1900

1901-1910 1911-1914

IGM 1920-1930

1931-1938 IIG

M 1946-1950

1951-1960 1961-1970

1971-1980 1981-1990

1991-2000 2001-2010 Anni

Valore prezzi medi

Andamento prezzi medi al consumo

Linea di tendenza

Figura 3. Grafico rappresentante l’andamento dei prezzi medi al consumo del vino, nel periodo 1861-2009. Fonte: ISTAT, Serie Storiche.

Nel prossimo capitolo potremo analizzare un caso particolare, quello di Montalcino, e vedere come l’economia di questa piccola cittadina sia stata avvantaggiata dalla riscoperta della campagna in relazione, soprattutto, al suo vino d’eccellenza, ovvero il Brunello di Montalcino.

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La Toscana

Figura 4. Affresco dipinto da Ambrogio Lorenzetti nel palazzo comunale di Siena, parte raffigurante gli “Effetti del Buon Governo in campagna”, dipinto negli anni Trenta del 1300.

Ho deciso di inserire questa immagine in apertura del paragrafo relativo alla descrizione del contesto organizzativo in cui è andata sviluppandosi l’attività produttiva principale di Montalcino, perché rappresentativa della rilevanza della campagna e di come fosse già presa in colsiderazione la gestione del territorio nel medioevo. La foto rappresenta l’affresco dipinto da Ambrogio Lorenzetti – pittore italiano attivo tra il 1319 e il1348 – effettuato verso gli anni Trenta del 1300, e visibile all’interno della sala della Pace, nel palazzo comunale di Siena (capoluogo della provincia in cui è inserito Montalcino). È visibile la divisione, tramite le mura delle città, e l’unità, grazie ai movimenti dei personaggi, tra le due sfere: quella urbana e quella rurale. La campagna è perfettamente delineata ed i viandanti che passano dalle mura ai campi, e viceversa, dimostrano una perfetta interconnessione tra i due centri diversi per attività produttive.

Tutto ciò per sottolineare come il mondo rurale abbia, fin dal periodo medievale, penetrato e condizionato quello della città. E questo fenomeno perdurerà attraversando tutta l’epoca moderna, affievolendosi nel momento di massima urbanizzazione, ma sarà riscoperto a partire dal XIX secolo.

Tralasciando il periodo medievale e giungendo alla fine del VIII secolo, possiamo iniziare ad analizzare prima il territorio della Toscana, per poi restringere il campo di indagine alla Val d’Orcia e successivamente a Montalcino.

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Il Granducato di Toscana fino al 1737 venne governato dalla famiglia dei Medici, l’ultimo granduca della famiglia fu Gian Gastone de’ Medici che non ebbe eredi.

Alla morte di Gian Gastone, il Granducato passò alla famiglia dei Lorena, in particolare a Francesco Stefano di Lorena, già marito di Maria Teresa d’Asburgo, imperatrice d’Austria. Costui non abitò mai in Toscana e lasciò l'amministrazione al figlio Pietro Leopoldo. La più importante innovazione voluta dai Lorena, proprio grazie a Pietro Leopoldo, fu l'abolizione – per 4 anni, fino al 1790 quando fu ripristinata – della pena di morte, una grande innovazione per l’epoca. L'unica interruzione alla sovranità lorenense fu la parentesi napoleonica che durò fino al 1814, quando sul trono granducale fu restaurato Ferdinando III figlio di Pietro Leopoldo. Nel periodo tra la reggenza di Pietro Leopoldo e la Restaurazione, venne eseguita la creazione di quello che oggi chiamiamo catasto ferdinandeo-leopoldino, o più correttamente catasto napoleonico-lorenese. Tale strumento avrà un’importanza molto rilevante per la conoscenza e per l’aspetto fiscale-economico della Toscana.

Il catasto napoleonico-lorenese

Si darà qui un cenno relativo alle lunghe vicende della sua formazione: dai falliti tentativi settecenteschi all’imposizione del nuovo catasto dei francesi, fino alla sua ripresa e conclusione da parte dei restaurati Lorena.

La questione del rifacimento dei catasti si trascinò con fasi alterne per quasi tutto il regno di Pietro Leopoldo (1765-1790). Secondo quanto afferma Hermann Büchi, la Decima del Pagnini, fu il prodotto della Commissione, del 1763, costituita per condurre il rifacimento dei catasti, già sotto il periodo della Reggenza. Se così fosse, se ne dovrebbe concludere che l’idea dominate del periodo, quella del Pagnini, fosse quella di affossare i propositi di un nuovo catasto, dato che egli sosteneva che una riforma degli estimi in vigore sarebbe stata sufficiente a sanare tutti gli squilibri.

Nel 1769, Pietro Leopoldo commissionò a diversi funzionari, fra cui Nelli e Pagnini, l’ideazione di un piano di riforma catastale. Nelli optava per un catasto geometrico-particellare, Pagnini invece continuava a dar fiducia al vecchio sistema delle portate dei proprietari, per ovviare alle grandi spese che comportava un catasto geometrico. Il progetto di un nuovo catasto venne ancora rinviato, le motivazioni sono varie: i pareri dei commissari erano in primo luogo discordi, ed inoltre la

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necessità di preventivare un’ingente somma per il rifacimento degli estimi su basi moderne rischiavano di rinviare a data incerta l’attuazione dei nuovi regolamenti comunitativi, che stavano a cuore a Pietro Leopoldo (attuati nel 1772). Per il momento ci si limitò a semplificare ed unificare gli svariati tributi riscossi in sede comunitativa.

Nel 1778 Pietro Leopoldo nominò una nuova Commissione: G. Neri, Nelli, Barbolani da Montauto, Ippoliti e il già citato Pagnini; era evidentemente forte la volontà di collegare una riforma tributaria alla riforma comunitativa, per il rifacimento degli estimi. Grazie alle idee fisiocratiche del Tavanti, prevalse la tesi di un nuovo catasto, realizzato con criteri di uniformità in tutto il territorio e sotto il diretto controllo del governo centrale. I componenti della Commissione sostennero questa necessità, anche il Pagnini. Il sistema di misura doveva essere quello geometrico, con compilazione di mappe di eguale scala per tutte le comunità toscane.

Ci furono discussioni sulle modalità della stima, inizialmente la Commissione fu favorevole all’utilizzazione delle portate dei proprietari, controllate dagli estimatori del catasto; non fu più favorevole a questo uso, dopo che il Tavanti dimostrò, contro il Pagnini, la facilità della presenza di errori all’interno delle denuncie dei possessori, e la necessità, per una stima equa, dell’opera di funzionari alle dirette dipendenze del governo centrale. Ci furono ancora controversie sulla stima, per quanto riguardava il calcolo della rendita di un appezzamento: doveva essere calcolata in base al suo grado di coltura e produttività, al momento della stima, oppure doveva essere tenuta in conto la sua potenziale produttività (calcolata in grano)? Sempre all’interno delle sue dimostrazioni, il Tavanti, sosteneva la prima modalità; i Deputati eletti prima del 1778, con il compito di curare l’estimo senese, optavano per la seconda. È evidente che la Deputazione senese manifestava una decisa volontà di lotta radicale alla proprietà assenteista, che sarebbe duramente colpita dall’applicazione della modalità di stima della rendita, da loro sostenuta. La tesi dei deputati senesi venne respinta, ma ricomparirà spesso fino ai primi decenni dell’Ottocento. Nel 1780 si avviarono i lavori del rifacimento, si scelsero come comuni prova, quelli che erano in possesso di catasti in cattive condizioni: 16 comunità della Montagna di Pistoia, 3 della Valdinievole e 2 del senese.

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Con la morte del Tavanti, e col crescere dell’influenza di F. M. Gianni, la possibilità di portare a termine il nuovo catasto diventa sempre più difficile.

Nel 1782 venne eletta una nuova Deputazione, ne facevano parte: Serristori, Gianni, Mormorai, Neri e Pagnini; il Gianni fece pressioni affinché fossero sospesi i lavori intrapresi per volontà della Commissione precedente, inutili furono le opposizioni dei Deputati Neri e Pagnini. Dopo un paio di anni venne deciso che il catasto generale non sarebbe stato portato più a termine, tutto ciò si poneva in difesa della rendita, della proprietà assenteista, le decisioni sugli estimi tornava di competenza delle singole comunità.

Nel 1801, con il trattato di Lunéville, la Toscana viene ceduta dall'Austria alla Francia. Soppresso il Granducato di Toscana, viene istituito il Regno di Etruria.

Successivamente nel dicembre 1807 il Regno d'Etruria viene eliminato e la Toscana è amministrata, per conto dell'impero francese, da Elisa Bonaparte Baciocchi, nominata a capo del restaurato Granducato di Toscana.

Il caso del rifacimento degli estimi, dunque, passò ai Francesi, ma si dovette giungere alla fine del Regno di Etruria e l’annessione diretta della Toscana all’Impero per poter vedere muoversi qualcosa in maniera efficace. Ciò avvenne per l’automatica estensione a questo paese, dopo tale data, della legge di rifacimento del catasto in vigore nell’Impero: in Francia, già nel 1790 si era riconfermata la volontà di compiere un nuovo catasto generale.

Nel 1807, a completamento del Codice civile promulgato pochi anni prima, Napoleone decise di effettuare con nuovi metodi e su larga scala il nuovo catasto; si doveva estendere a tutto il territorio dell’Impero. Le modalità vennero programmate con due Istruzioni (1° Dicembre 1807 e 20 Aprile 1808), e due successive leggi (29 Ottobre e 5 Novembre 1808) indicarono i metodi di stima; la copertura finanziaria fu assicurata da una legge del 25 Novembre 1808: tutti i Dipartimenti erano tenuti a contribuire con una somma pari ad un trentesimo dell’imposta fondiaria. Quest’opera di rifacimento era presentata come opera di giustizia, a vantaggio di tutti i Dipartimenti, e si sottolineava il fatto che il risultato non sarebbe stato quello di un aumento delle imposte, ma solo una migliore ripartizione15

15 G. BIAGIOLI, L’agricoltura e la popolazione in Toscana all’inizio dell’Ottocento, Pisa, Pacini 1975, Pubblicazioni dell’Istituto di storia, Facoltà di lettere dell’Università di Pisa, 8.

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Questi discorsi convincevano poco i proprietari terrieri toscani, in quanto molti pagavano ancora un’imposta fondiaria che si basava su vecchi estimi, che male riflettevano la situazione attuale; essi, tuttavia, non avevano l’autorità sufficiente per bloccare l’impresa, come era avvenuto invece nel periodo di Pietro Leopoldo.

Secondo le leggi imperiali, l’imposta doveva basarsi sul reddito netto dei fondi al momento della catastazione, si ammettevano esoneri per le bonifiche più recenti.

Per stabilire questo reddito, il criterio indicato come più sicuro, era quello di basarsi sugli atti di compra-vendita o di affitto dei beni rustici; in seconda istanza ci si poteva avvalere di una stima, desunta dai prezzi medi dei prodotti agricoli in un periodo precedente, scelto in modo che i suoi risultati non fossero troppo distanti dai prezzi di mercato che correvano al momento del nuovo catasto.

Fra l’annessione all’Impero e l’effettivo inizio delle operazioni, passò più del tempo previsto, la semplice applicazione dei metodi francesi risultò impossibile. Uno dei problemi che risultò maggiormente evidente, fu quello della divisione amministrativa del paese: i comuni toscani erano molto più ampi di quelli francesi, e questo rendeva impossibile applicarvi il sistema di mappatura già in uso nel territorio della Francia. Si pensò ad una loro suddivisione, tendenza contraria a ciò che avveniva oltralpe, dove si tendeva a compattare i comuni; questa idea non ebbe seguito. Si procedette con rettifiche ai confini dei comuni, per l’esecuzione delle mappe si adottò un sistema di frazionamento comunale. Le misurazioni ebbero inizio nel 1810, le prime tracce si possono riscontrare nei catasti di Fauglia e Collesalvetti (due comunità che facevano parte del Dipartimento del Mediterraneo), in cui si trovano anche le indicazioni sulla modalità di misura e di stima: il lavoro dei geometri consisteva in mappe e matrici. Le prime erano geometrico-particellari, le seconde avrebbero fornito le seguenti indicazioni: nome del proprietario, particelle che gli appartenevano, loro numero sulla mappa, situazione sul terreno, natura delle colture e loro collocazione; da ultimo veniva la definizione del reddito imponibile, ovvero il reddito al netto delle spese di coltura e di raccolto16. Mentre le operazioni catastali erano state portate avanti senza molti problemi per la parte metrica, sorsero discussioni sulla questione delle stime, in quanto collegate all’imposta fondiaria.

Sono già stati presentati i vari punti di vista e la posizione assunta dal governo

16 ASL, Dip. Mediterraneo, F. 1538 cit., Lettera del 3 agosto 1810; in G. BIAGIOLI, L’agricoltura e la popolazione in Toscana all’inizio dell’Ottocento.

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francese, si doveva scegliere tra due vie: se basarsi sugli atti di compra-vendita o di affitto, oppure sui prezzi medi dei prodotti agricoli in un certo numero di anni, dai quali si poteva determinare le entrate lorde, detrarre le spese ed arrivare ad accertare il reddito netto. Data la scarsa diffusione dell’affitto si scelse la seconda via, rimaneva da decidere in quale periodo prendere in esame la serie dei prezzi.

All’inizio del 1812 il ministro delle Finanze francese, dopo che i direttori delle contribuzioni dei tre Dipartimenti toscani avevano espresso la loro opinione, scelse il progetto del direttore del Dipartimento dell’Arno: d’Averton propose la serie che comprendeva gli anni 1790-98 e 1804-9, gli anni intermedi vennero esclusi data la straordinaria elevatezza dei prezzi. La decisione non venne accolta bene dai toscani, che prevedevano un’impennata delle imposte. Dopo altri incontri si raggiunse un compromesso: nel 1813 il ministro delle Finanze indicava come anni da tenere in considerazione quelli 1779-90 e 1797-99; i proprietari ottennero un notevole successo nella discussione.

All’epoca della caduta dell’Impero, l’impresa del catasto generale in Toscana non era ancora conclusa, aveva tuttavia dato qualche risultato: la misurazione ex- novo di quasi 200.000 ha di superficie, completa di mappe e registri di possessori per 24 comunità, più altre 16 anche se incomplete. Non è chiaro se vi fossero, o come fossero, le descrizioni dei fondi rappresentati nelle mappe; quando, sotto Ferdinando III, si riprese il catasto si utilizzarono tutti i lavori di misura francesi apportandovi solo delle correzioni; pare che quest’ultime riguardassero solo i nomi dei possessori ed i frazionamenti in particelle e non la loro qualità colturale. Dunque per le 24 comunità che i francesi completarono, dovremmo pensare che l’utilizzazione riportata nel catasto toscano risalga in realtà al periodo francese? Tale ipotesi è in realtà poco attendibile, in quanto il catasto ferdinadeo-leopoldino, a differenza del francese, prevedeva un’epoca censuaria, il 1817, periodo in cui la Toscana vede la reggenza dei restaurati Lorena, a cui riferire lo stato dei fondi. Sembra quindi più opportuno pensare che, dopo la Restaurazione, siano stati utilizzati i documenti del periodo precedente più facilmente utilizzabili, come le mappe, rifacendo invece quelli invecchiati o superati dalle nuove disposizioni.

A parte ogni risultato pratico, furono importanti i principi teorici imposti dai francesi nel campo del catasto: il governo centrale cessa di soccombere sotto

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