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4. L E FONTI DEL LIBRETTO : N OVELLE , D RAMMI E C RONACHE

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(1)

C

APITOLO

4. L E FONTI DEL LIBRETTO : N OVELLE , D RAMMI E C RONACHE

Il libretto è il veicolo (mai sufficiente in se stesso) di questa nuova vita della letteratura:

esso si pone come una sorta di specchio intermedio tra i libri da cui è ricavato e il dramma musicale realizzato, come la chiave per estrarre la musica implicita in organismi che di per sé non contengono musica; e per aprire così questi organismi verso un pubblico più ampio.

(GIULIO FERRONI)1

4.1. L

A RISCRITTURA MELODRAMMATICA

: «

IL BANCO DI PROVA DI COMPETENZE DIVERSE

»

«Il testo melodrammatico è un testo ambiguo, nasce dall’incrocio di percorsi disomogenei, è il banco di prova di competenze diverse»

2

. Così Marco Emanuele definisce il libretto in musica, imprecisato e sfuggente, poiché raggiunge una propria completezza, solo nel momento in cui viene musicato e messo in scena:

Il libro è un testo che ha in sé la propria ragione d’essere, compiuto anche nelle sue finalità; il libretto invece non si può nemmeno definire genere letterario, proprio perché costituzionalmente “imperfetto”, per usare il termine col quale Goldoni definiva anche le proprie commedie musicali3.

1 FERRONI,G., Introduzione. I paradossi del libretto, cit., p. III.

2 EMANUELE,M., Opera e riscritture, cit., p. XI.

3 GOLDIN FOLENA,DANIELA, Libro e libretto: definizione e storia di un rapporto, in TATTI,M. (a cura di), Dal libro al libretto, cit., p. 7.

(2)

La maggior parte dei libretti per musica è tratta da testi preesistenti (narrativi, drammatici, lirici o musicali):

Potremmo definire il rapporto tra i due termini o se si vuole tra la grande letteratura, sia drammatica, sia narrativa, sia poetica, e quel suo parente minore (il testo per musica) come un rapporto sostanzialmente di dipendenza o di derivazione dell’ultimo dalla prima.

Una derivazione che comporta però anzitutto una trasgressione, cioè una rielaborazione pur sempre radicale del testo di partenza, dovuta alle imprescindibili necessità o esigenze del genere (melodrammatico) di arrivo4.

Il libretto, pur dipendendo e derivando da una fonte alla quale si ispira, per necessità ed esigenze proprie (strutturali e/o contenutistiche), deve trasgredire e reinterpretare il lavoro da cui ha inizio la “riscrittura”. Giulio Ferroni giustifica tale trasgressione definendo il testo per musica uno strumento necessario a comprendere criticamente l’opera da cui è desunto:

Il libretto è cosa ben diversa da una “riduzione” (come si può pensare quando ci si trova di fronte a libretti tratti direttamente da precedenti scritture drammaturgiche) o da una “traduzione” in altro codice: […] l’opera musicale nel suo complesso non può mai essere concepita come “riduzione” o “traduzione” del libro o del dramma da cui è ricavata. Avrei molti dubbi sull’impiego, nelle analisi dei passaggi da un’opera letteraria a un’opera musicale, di un termine come transcodificazione, che comporta comunque la pretesa di misurare il tragitto da un sistema all’altro, di verificare tecnicamente il movimento e la messa a punto di specifiche strutture semiotiche. Più che di riduzione, traduzione o transcodificazione, bisognerebbe in effetti parlare di interpretazione, non nel senso generico di esecuzione o messa in atto, ma in senso più propriamente ermeneutico.

I libretti (parlo naturalmente di quelli di alto livello) costituiscono delle messe in scena critiche, mettono in un circolo interpretativo le opere da cui prendono spunto: pur nella loro concisione (talvolta proprio grazie a questa loro concisione) possono arrivare a svelare caratteri, meccanismi, orizzonti, significati dei testi che utilizzano. Questa funzione critico-ermeneutica agisce d’altra parte anche sulla partitura musicale: il libretto è un imprescindibile strumento di analisi e di comprensione critica dell’opera nel suo complesso5.

In realtà non sempre le opere melodrammatiche arrivano a «svelare caratteri, meccanismi, orizzonti, significati dei testi che utilizzano»; talvolta si tratta di lavori che cambiano intenti, personaggi e risoluzioni del soggetto di

4 Ivi,p. 8.

5 FERRONI,G., Introduzione. I paradossi del libretto, cit., pp. III-IV.

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partenza. Sono però d’accordo nel dire che non sia corretto (è anzi restrittivo) considerare i libretti musicali come “riduzioni” o “traduzioni”, essendo essi stessi opere a sé stanti, con strutture, esigenze e regole proprie, da rispettare e seguire. Daniela Goldin Folena, indagando i legami tra un testo operistico e il riferimento letterario, parla infatti di un rapporto «di profonda distinzione […]

dovuta alla loro diversa finalità e alla diversa eseguibilità dei due oggetti; e poi di derivazione, che nel prodotto derivato, vale a dire nel libretto, propone però ancora una marcata diversa identità, rispetto al “libro” di partenza, per un processo di rielaborazione-adattamento»

6

. Allo stesso modo Guido Paduano parla di non assoggetazione delle opere alle fonti, trattandosi di testi con pari dignità e autonomia artistiche:

La produzione operistica ad essi [i «testi sacri della tradizione europea», NdA]

ispirata non ne è mai un surrogato, nel senso di equivalente banalizzato e svilito, per la semplice ragione, intanto, che non ne è mai un equivalente: la mutazione di struttura funzionale e di destinatario comporta una mutazione di prospettive e di significati, che non limita l’influsso dell’ipotesto a quel meccanico rapporto autoreferenziale in cui molti, oggi, credono che consista la letteratura, ma lo articola secondo uno spessore storico, che rende ragione dell’esistenza dell’opera nello spazio generato dalle direttrici compresenti di conservazione e innovazione. Ciò equivale a dire che la fruizione ideale è quella che recepisce l’opera in qualche modo assieme all’ipotesto7.

La stesura di un testo in musica dipende da molti fattori, di carattere estetico-artistico, strutturale-compositivo, ma anche economico-commerciale, come già più volte riscontrato. La scelta stessa del tema è stata nei tempi ponderata e calcolata: preferire trame già note ed apprezzate da una cerchia ampia di lettori/spettatori garantiva all’opera un certo successo di partenza (si

6 GOLDIN FOLENA,D., Libro e libretto, cit., p. 9. Il corsivo è mio.

7 PADUANO, GUIDO, Premessa, in ID., Se vuol ballare. Le trasposizioni in musica dei classici europei, Torino, UTET, 2009, pp. VII-VIII. I «testi sacri della tradizione europea» a cui si riferisce Paduano sono i testi di Shakespeare, Cervantes, Schiller, Prévost, Racine, Hugo, e altri. A partire da questi sono state composte importanti opere in musica da non considerare “surrogati”, come invece li ha definiti Tomasi di Lampedusa citato dallo stesso Paduano: «Gli Italiani conoscono Goethe, Schiller, Shakespeare, Prévost e Merimée; o meglio li conoscono benissimo: hanno il Faust e il Mefistofele, il Don Carlos, l’Otello e il Falstaff, le due Manon, la Carmen… tutta una cultura di surrogati» (TOMASI DI LAMPEDUSA, in ivi, p. VII).

(4)

ricordino le parole di Mascagni: «Io credo che il Sig. Ricordi farebbe un buon affare con questa Cavalleria rusticana, che si raccomanda col solo titolo»)

8

. A fine Ottocento, soprattutto dopo il trionfo di Cavalleria, l’Opera cominciò ad interessarsi agli autori del repertorio verista: Giovanni Verga e Luigi Capuana per i soggetti siciliani; Salvatore Di Giacomo, Eduardo Pignalosa e Goffredo Cognetti per quelli napoletani; Nicola Misasi per la Calabria. Gli editori stessi in questo modo si sentivano rassicurati e preservati da clamorosi insuccessi:

Fino ad Ottocento avanzato, sono gli organizzatori degli eventi spettacolari e poi delle stagioni teatrali a richiedere a musicisti e loro parolieri di inventare suoni e parole su soggetti ricavati da libri, ma anche da libretti precedenti, che garantiscano a priori il successo, che siano à la page, che vengano incontro ad un’audience – si direbbe oggi, ma allora era nell’accezione corretta – ampia e sicura9.

È senz’altro valso per la Cavalleria di Mascagni e la Mala Pasqua di Gastaldon: i due compositori parteciparono infatti al “Concorso Sonzogno” del 1889

10

, convinti di ottenere popolarità grazie al soggetto rusticano di Verga

11

. Il musicista livornese mise addirittura da parte il suo amato Guglielmo Ratcliff, perché non conveniente per un debutto, né garante di un indiscusso successo di pubblico:

L’anno scorso andai a Napoli per salutare Puccini che dava Le Villi al San Carlo. Mi disse: “E tu hai sempre l’idea del Ratcliff? Ascoltami: il Guglielmo non potrà mai essere per te un primo lavoro; pensa prima a farti un po’ di nome, sacrificando da una parte i tuoi ideali, e dopo potrai importi”. Non ti faccio commenti, ora ti chiedo se queste parole abbiano influito sulla mia decisione; certo si è che io soffro da troppo tempo e voglio spezzare le catene12.

8 Lettera di Pietro Mascagni ad Alfredo Soffredini (5 maggio 1889), cit. La sottolineatura è mia.

9 GOLDIN FOLENA,D., Libro e libretto, cit., p. 9.

10 Il Concorso ha poi ritardato di quasi un anno nella proclamazione del vincitore (da agosto 1889 a marzo 1890), a causa del numero esorbitante di concorrenti.

11 Secondo Giorgio Ruberti il soggetto rusticano è stato scelto in primis per fare colpo su Amintore Galli, uno dei giudici del Concorso, nonché principale teorico del verismo musicale dell’epoca (Cfr. RUBERTI,GIORGIO, Il verismo musicale italiano, tesi di Dottorato di Ricerca discussa presso l’Università “La Sapienza” di Roma, Anno Accademico 2007/2008, tutor Prof. Antonio Rostagno. La tesi mi è stata gentilmente procurata dal Prof. Michele Girardi, che qui ringrazio).

12 PIETRO MASCAGNI, in MORINI,MARIO (a cura di), Pietro Mascagni, vol. I, Milano, Sonzogno, 1964, pp. 278-279.

(5)

Ed è senz’altro valso per La Lupa (che ha avuto al contrario un esito infelice): certo di ripetere il successo di Cavalleria, Ricordi accetta il libretto di Verga e De Roberto; egli crede fermamente nell’opera al punto da premere prima su Puccini, poi su Mascagni, affinché si occupino della composizione musicale. Entrambi i musicisti rifiutano la sfida, considerando testo e soggetto non adatti ad una rielaborazione librettistica. Puccini denota soprattutto un’eccessiva “dialogicità” del libretto e la mancanza di un personaggio di spessore:

Carissimo Signor Giulio, ho tardato a scriverle perché volevo riflettere seriamente alle cose che sto per dirle. Dopo ritornato dalla Sicilia e dopo le conferenze con Verga, invece di essere animato per La Lupa le confesso che mille dubbi mi hanno assalito e mi fanno decidere a temporeggiare la decisione di musicarla sino all’andata in scena del dramma. Le ragioni sono “la dialogicità” del libretto spinta al massimo grado, i caratteri antipatici, senza una sola figura luminosa, simpatica che campeggi. Speravo che Verga mi mettesse più in luce e considerazione il personaggio di Mara, ma è stato impossibile dato l’impianto del dramma. Anche le sue osservazioni e le sue ultime lettere mi hanno dato luce per questa decisione. E con questo credo di non dispiacere a Lei! Solo è il tempo perduto che mi accora, ma lo riprenderò buttandomi a Bohème a corpo morto [...] Per La Lupa è meglio attendere il giudizio che il pubblico darà sul dramma. In Sicilia non raccolsi niente di musicale, solo fotografai tipi, cascinali, ecc., tutte cose che le mostrerò a suo tempo. Intanto ho bisogno di una sua lettera che mi tranquillizzi e non condanni la mia incostanza che chiamerei veduta tarda. Ma meglio tardi che mai, accorgersene13.

Mascagni parla di vera e propria impossibilità di musicare un soggetto e personaggi che non hanno niente di “lirico”:

Io la trovo impossibile sotto tutti i rapporti: un soggetto che rivolta lo stomaco, una forma monotona e per nulla adatta alla musicabilità, un intercalare per metà siciliano e per metà toscano: quella madre e quella figlia che se ne dicono di tutti i colori; il carattere della Pina a base di scocciatura da cima a fondo; quel ballo con canto di stornelli; quei mobili delle parti secondarie; quella poesia fatta unicamente di stornelli e di rispetti: tutto in un carattere soverchiamente peso al lavoro. – Ci sono bellissime scene, come quelle del principio del secondo atto ed altre; ma il lavoro melodrammatico, per me, non c’è assolutamente. Il Verga ha voluto fare una cosa nuova per le scene: ha voluto dare al pubblico un fatto di cronaca siciliana, presentandolo nella sua completa rusticanità; e nel

13 Lettera di Giacomo Puccini a Giulio Ricordi (13 luglio 1894), in CINCOTTA,VINCENT JOSEPH, Federico De Roberto commediografo. Dalle lettere all’amico Sabatino Lopez, Catania, Tringale, 1980, pp. 154-155.

(6)

suo lavoro c’è del carattere, c’è del sapore in qua e in là; ma si provi qualcuno a metterla in musica?! […] Sapevo che di lirico non c’era nulla, ma speravo che i versi fossero migliori […] Verga, pensando al successo (doppio successo) di Cavalleria, ha voluto fare di più ed ha strafatto14.

Il lavoro passò infatti a Pierantonio Tasca (nonostante il tentativo di Verga di affidarlo a Domenico Monleone

15

), e l’opera venne messa in scena molti anni più tardi (dopo la morte dei due librettisti), con scarso successo

16

.

In fase di rielaborazione melodrammatica non di rado gli autori sono spinti da «esigenze scenografico-spettacolari, prima ancora che propriamente drammaturgiche»

17

:

Se per “dramma moderno” s’intende il teatro del rinascimento, del classicismo e del realismo, basta un confronto sommario per evidenziare nell’opera in musica una propensione specifica, e assai più spinta di quella del dramma letterario, verso la spettacolarità scenica, una propensione che essa semmai condivide col teatro barocco e che è radicata nell’affinità, in certo qual modo “naturale”, che lega la musica alla ritualità religiosa o profana, al corteo, alla festa. Se nella vita associata il rituale abbisogna della musica, pari pari esso prende nel dramma in musica un posto stabile che nel dramma letterario non gli compete (se non, tutt’al più, col sostegno della musica di scena)18.

Da ciò derivano tagli, aggiunte, soluzioni sceniche. Tale pratica si è verificata da sempre in ambito operistico, con esiti più o meno felici a seconda delle capacità artistiche di librettisti e compositori:

14 Lettera di Pietro Mascagni a Giulio Ricordi (21 maggio 1895), in MORINI,M.–IOVINO,R.– PALOSCIA,A. (a cura di), Pietro Mascagni. Epistolario, cit., pp. 165-166.

15 Così scrisse Monleone a Verga: «Spero e mi auguro che si possa definire l’affare della Lupa alla quale mi dedicherò con tutto entusiasmo cercando di fare quanto le mie modeste forze possono di migliore» (Lettera di Domenico Monleone a Giovanni Verga [21 aprile 1907], in RAYA, GINO, Carteggio Verga-Monleone, Roma, Herder, 1987, p. 23.

16 Cfr. CINCOTTA,V.J., Federico De Roberto commediografo, cit.; CINCOTTA,VINCENT J., Verga, Puccini, De Roberto e il mancato melodramma della Lupa, in «Rivista di Studi Italiani», anno IV, n.

1, giugno 1986, pp. 64-74; FERRONE,S. (a cura di), Teatro dell’Italia unita, cit.: la tavola rotonda Libretti d’opera; MORINI, MARIO, Perché Mascagni rifiutò di musicare “La Lupa”, in AA. VV., Cavalleria Rusticana. Cento anni dopo, Livorno, cit.; SANSONE,MATTEO, Verga, Puccini and La lupa, in «Italian Studies», vol. XLIV, 1989, pp. 63-76; SCOGNAMIGLIO,GIUSEPPINA, La Lupa di Giovanni Verga dalla novella alla scena, in «Rivista di letteratura teatrale», n. 1, 2008, pp. 73-91.

17 GOLDIN FOLENA,D., Libro e libretto, cit., p. 11.

18 DAHLHAUS,C., Drammaturgia dell’opera italiana, cit., pp. 81-82.

(7)

[Giuseppe Verdi] preleva – ovviamente sintetizzandole, dati i tempi diversi dell’opera rispetto a quelli del teatro parlato – dal libro modello le scene di maggiore tensione affettiva o psicologica o quelle di maggior dinamismo interpersonale, e però anche quelle che più si prestano ad una esecuzione scenografica carica di suggestioni circostanziali o di grande effetto visivo; recupera dalle sue fonti i personaggi – di necessità sempre in numero inferiore rispetto a quelli originali – capaci di riassumere in sé gli affetti primari, ma anche le sfumature psicologiche più profonde, qua e là con reazioni esasperate, ma la cui sopravvivenza nel nuovo testo melodrammatico garantisca una costante interazione tra tutti i protagonisti. Nelle selve19 verdiane riemergono però, senza alcuna variazione, anche sequenze testuali del libro-fonte, che sarebbero rimaste spesso fin nel libretto in versi, perché capaci di tradurre il reale significato dell’azione e delle situazioni, e nello stesso tempo di coinvolgere emotivamente il pubblico nei momenti chiave del nuovo dramma musicale20.

Non vi è un procedimento prestabilito e obbligato di rielaborazione librettistica, ogni artista ha suoi schemi, stile e concezione scenica di un lavoro melodrammatico. Il caso di Verdi è solo un esempio (artisticamente molto elevato e singolare) tra tanti. Ma è importante sottolineare che i cambiamenti sono evidenti e notevoli anche quando l’autore dell’opera è inoltre autore del/i testo/i preesistente/i: mi riferisco ad esempio a Verga o Di Giacomo che si sono cimentati nelle trasposizioni operistiche di propri lavori, e che in fase di (ri)scrittura del libretto hanno apportato tutte le modifiche necessarie e adeguate al genere lirico. Parlo di “testi preesistenti” usando il plurale, perché i libretti veristi sono spesso preceduti non solo da una versione narrativa di riferimento (novelle o romanzi), ma anche da una trasposizione drammatica (antecedente o comunque concomitante).

Riporto di seguito l’elenco delle opere che ho preso in esame, specificando di ciascuna il/i proprio/i testo/i di riferimento, con autori e date di composizione

21

:

19 In ambito operistico ottocentesco la “selva” rappresenta un testo in prosa, una sorta di prima stesura del lavoro, con la quale gli autori dell’opera definiscono la struttura drammatica e scenica della vicenda.

20 GOLDIN FOLENA,D., Libro e libretto, cit., pp. 16-17.

21 Dall’elenco ho escluso i libretti con soggetto originale (non desunto da alcun testo preesistente) e I Pagliacci: l’opera di Leoncavallo non è infatti tratta da nessun lavoro narrativo/drammatico/melodrammatico antecedente, bensì da un fatto di cronaca locale, avvenuto a Montalto Uffugo (città natale del compositore).

(8)

O

PERA MUSICALE

T

ESTO

N

ARRATIVO

/P

OETICO

T

ESTO DRAMMATICO

Mala Pasqua (1890) tre atti

Cavalleria rusticana (1880) novella di Giovanni Verga

Cavalleria rusticana (1884) atto unico di Giovanni Verga

Cavalleria rusticana (Mascagni, 1890) atto unico

Cavalleria rusticana (1880) novella di Giovanni Verga

Cavalleria rusticana (1884) atto unico di Giovanni Verga

Mala Vita (1892) tre atti

Il voto (1884) novella di Salvatore Di Giacomo

Mala Vita (1888) tre atti di Salvatore Di Giacomo e Goffredo Cognetti

Mastro Giorgio (1892) atto unico

Mastro Giorgio (1884) racconto di Nicola Misasi

Mastro Giorgio (1891) atto unico di Nicola Misasi

A Santa Lucia (1892) due atti

--- A Santa Lucia (1887) due atti di Goffredo Cognetti

Nennella (1892) due atti

Il voto (1884) novella di Salvatore Di Giacomo

Mala Vita (1888) tre atti di Salvatore Di Giacomo e Goffredo Cognetti

Malìa (1893) tre atti

--- Malìa (1891) tre atti di Luigi Capuana

A Basso Porto (1894) tre atti

--- A Basso Porto (1888) tre atti di Goffredo Cognetti

A “San Francisco” (1896) atto unico

A “San Francisco” (1895) sonetti di Salvatore Di Giacomo

A San Francesco (1897)

atto unico di Salvatore di

Giacomo

(9)

Il voto (1897) tre atti

Il voto (1884) novella di Salvatore Di Giacomo

Mala Vita (1888) tre atti di Salvatore Di Giacomo e Goffredo Cognetti

Un mafioso (1898) due atti

--- I mafiusi di la Vicaria (1863) due atti di Gaspare Mosca e Giuseppe Rizzotto

Rosella (1899) atto unico

Il voto (1884) novella di Salvatore Di Giacomo

Mala Vita (1888) tre atti di Salvatore Di Giacomo e Goffredo Cognetti

Forturella (1899) atto unico

Dopo tre anni romanzo di Eduardo Pignalosa

---

Cavalleria rusticana (Monleone, 1907) atto unico

Cavalleria rusticana (1880) novella di Giovanni Verga

Cavalleria rusticana (1884) atto unico di Giovanni Verga

Mese mariano (1910) atto unico

Senza vederlo (1886) novella di Salvatore Di Giacomo

Mese mariano (1898) atto unico di Salvatore Di Giacomo

Mara (1919) due atti

Jeli il pastore (1880) novella di Giovanni Verga

---

Il mistero (1921) atto unico

Il mistero (1882) novella di Giovanni Verga

Il mistero (1921) bozzetto in prosa di Giovanni Verga

La lupa (1932) due atti

La lupa (1881) novella di Giovanni Verga

La lupa (1896) due atti di

Giovanni Verga

(10)

4.2. Q

UESTIONE DI GENERE

La narrativa è un genere che si fonda su un tipo di comunicazione diegetica: l’autore di norma non scompare, mantiene la sua funzione epica all’interno del racconto, talvolta commenta persino l’operato dei suoi personaggi. Nella narrativa verista si ha uno sdoppiamento/separazione tra autore e narratore: il primo si pone quale spettatore esterno dei fatti raccontati, che si succedono quasi autonomamente; il secondo al contrario è del tutto coinvolto nella vicenda, al punto da esprimersi in un linguaggio più simile a quello delle sue dramatis personae (è il caso dell’indiretto libero verghiano). Vi è dunque una compartecipazione dall’interno, che permette al lettore di entrare più a fondo nelle vite, in apparenza poco interessanti, di umili contadini, tintori, bottegai, prostitute e malavitosi. L’aspetto sociale, folklorico e popolare, è preponderante nella narrativa verista, in cui l’autore mostra la realtà così com’è, senza compromessi né mediazioni, mentre il narratore si spinge in profondità indagando la psicologia dei personaggi e il loro background socio-culturale.

Talvolta il racconto si sofferma su dettagli che in un primo momento possono sembrare superficiali e ridondanti ai fini della vicenda, non interessando il lettore per la comprensione della trama; in realtà sono fondamentali nella connotazione dei caratteri e dell’ambiente in cui ci si trova; peraltro è proprio questa minuzia di particolari secondari a rendere tutto più reale. Si vedano alcune descrizioni presenti ad esempio in Jeli il pastore:

Dove il mangime era abbondante, e i cavalli indugiavano volentieri, il ragazzo si occupava con qualche altra cosa: faceva delle gabbie di canna per i grilli, delle pipe intagliate, e dei panierini di giunco; con quattro ramoscelli, sapeva rizzare un po’ di tettoia, quando la tramontana spingeva per la valle le lunghe file dei corvi, o quando le cicale battevano le ali nel sole che abbruciava le stoppie; arrostiva le ghiande del querceto nella brace de’ sarmenti di sommacco, che pareva di mangiare delle bruciate, o vi abbrustoliva le larghe fette di pane allorché cominciava ad avere la barba dalla muffa (Jeli il pastore, p. 132)22.

22 Per tutte le citazioni tratte dai testi narrativi e drammatici (in questo capitolo) riporterò

(11)

Ogni mese Mara andava a riscuotere il salario del padrone, e non le mancavano né le uova nel pollaio, né l’olio nella lucerna, né il vino nel fiasco. Due volte al mese poi Jeli andava a trovarla, ed ella lo aspettava sul ballatojo, col fuso in mano; e dopo che egli avea legato l’asino nella stalla e toltogli il basto, messogli la biada nella greppia, e riposta la legna sotto la tettoja nel cortile, o quel che portava in cucina, Mara l’aiutava ad appendere il tabarro al chiodo, e a togliersi le gambiere di pelle, davanti al focolare, e gli versava il vino, metteva a bollire la minestra, apparecchiava il desco, cheta cheta e previdente come una brava massaia, nel tempo stesso che gli parlava di questo e di quello, della chioccia che aveva messo a covare, della tela che era sul telaio, del vitello che allevavano, senza dimenticare una sola delle faccenduole che andava facendo. Jeli quando si trovava in casa sua, si sentiva d’essere di più del papa (Jeli il pastore, p. 157).

L’esposizione delle capacità del giovane pastore e l’accurata rappresentazione del suo focolare domestico non sono elementi vincolanti al procedere della vicenda, ma sono essenziali per ricreare l’atmosfera popolare e dare un quadro più veritiero e completo del personaggio di Jeli; solo in questo modo sarà possibile al lettore comprendere gesti, comportamenti ed azioni del protagonista. Allo stesso modo si veda Il mistero:

Comare Filippa, la quale ci aveva il marito in galera per avere ammazzato a colpi di zappa il vicino della vigna, quello che gli rubava i fichidindia, piangeva come una fontana, al vedere San Giuseppe inseguito dai ladri peggio di un coniglio, e pensava a suo marito, quando gli era arrivato alla capannuccia della vigna tutto trafelato, coi gendarmi alle calcagna, e gli aveva detto:

– Dammi un sorso d’acqua. Non ne posso più!

Poi l’avevano ammanettato come Gesù all’orto, e l’avevano chiuso nella stia di ferro, per fargli il processo, col berretto tra le mani, e i capelli divenuti per intero una boscaglia grigia in tanti mesi di prigione – l’aveva ancora negli occhi – che ascoltava i giudici e i testimoni con quella faccia gialla di carcerato. E quando se l’erano portato via per mare, che non ci era mai stato, il poveretto, colla sporta in spalla, e legato coi compagni di galera, a resta come le cipolle, egli si era voltato a guardarla per l’ultima volta con quella

solo il titolo e il numero di pagina. Le edizioni di riferimento sono: CAPUANA,LUIGI, Malìa, in ID., Teatro dialettale siciliano, a cura di Pietro Mazzamuto, Catania, Giannotta, 1974; DI GIACOMO, SALVATORE, A San Francesco [dramma], in ID., Il teatro e le cronache, a cura di Francesco Flora e Mario Vinciguerra, Milano, Mondadori, 1946; DI GIACOMO, SALVATORE, A San Francisco. Scene napoletane, in DORIA,G., Di Giacomo, Croce e A San Francisco, cit.; DI GIACOMO,SALVATORE,Il voto [novella], in ID., Le poesie e le novelle, a cura di Francesco Flora e Mario Vinciguerra, Milano, Mondadori, 1957; DI GIACOMO,S.,’O voto[dramma],cit.;DI GIACOMO,SALVATORE,Senza vederlo, in ID., Le poesie e le novelle, cit.; DI GIACOMO,SALVATORE,’Omese mariano [dramma], in ID., ’O voto,

’O mese mariano, Assunta Spina, cit.;MISASI,NICOLA, Mastro Giorgio [novella], in ID., Pagine calabresi, antologia a cura di Lina Iannuzzi, Bologna, Cappelli, 1969; MISASI, NICOLA, Mastro Giorgio. Commedia in un atto, Napoli, Luigi Pierro, 1891; VERGA,G., Cavalleria rusticana [novella], cit.; VERGA,G., Cavalleria rusticana [dramma], cit.; VERGA,GIOVANNI, Jeli il pastore, in ID., Tutte le novelle, vol. I, cit.; VERGA,GIOVANNI, Il mistero [novella], in ID., Tutte le novelle, vol. I cit.

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faccia, finché non la vide più, ché dal mare non torna nessuno, e non se ne seppe più nulla.

– Voi lo sapete dove egli sia adesso, Madre Addolorata! – biascicava la vedova del vivo inginocchiata sulle calcagna, pregando pel poveretto, che gli pareva di vederlo, là, lontano, nel nero (Il mistero, p. 242).

Il racconto della Comare Filippa è irrilevante ai fini della trama, dal momento che la donna non verrà più menzionata, né suo marito tornerà mai dal mare. Ma – come già per Jeli – il racconto è funzionale a far entrare il lettore all’interno della situazione rustico-contadina e della mentalità popolare descritte. Anche la rappresentazione della fucina di Mastro Giorgio è fin troppo particolareggiata, al punto da sembrare più una didascalia scenica:

La fucina era angusta e nera: dalla parete presso la porta pendevano i ferri del mestiere, scintillanti alla fiamma; più in là era il banco con la morsa e il trapano, in un angolo la fornace col mantice, in mezzo l’incudine, in fondo cumuli di carboni e di ferravecchia. Una porticina metteva alla cameretta che aveva due lettucci l’uno pel fabbro, l’altro per la bimba; e coi lettucci, una cassa, un cassettone, alcune sedie, e pendente dal soffitto una graticcia per le provviste (Mastro Giorgio [novella], p. 406).

L’elenco pedissequo di ciò che si trova nella stanza di Mastro Giorgio vuole dare al lettore una visione completa del luogo in cui si ambienta la vicenda, ma soprattutto rivelare la povertà e la situazione del protagonista, la cui vita si divide (così come il locale in cui vive) tra il rigido lavoro da fabbro (in mezzo a morse, trapani, fornaci, incudini, cumuli di carbone e ferravecchia) e il calore che gli dà l’affetto per la piccola Rosaria. La presentazione di una camera così desolata rende ancora più triste il momento in cui la bambina verrà portata via.

Il teatro (drammatico e melodrammatico), genere mimetico per il quale è

necessaria una rappresentazione sulla scena, in cui ogni personaggio rivela se

stesso senza descrizioni esterne, epura tutto ciò che è superfluo e fuorviante

perché allo spettatore interessa solo la vicenda principale priva di divagazioni

(che creerebbero inoltre problemi di comprensione e di durata della mise en

scène). Se si considera l’opera lirica nello specifico, si può notare ad esempio che

il colore locale e la presentazione dei personaggi veristi emergono attraverso le

(13)

precise riproduzioni degli ambienti, l’introduzione di canti, feste e danze, spaccati di vita religioso-popolare (inni, processioni e mercati), problematiche proprie delle regioni meridionali (mafia, camorra, brigantaggio, delitto d’onore).

Tutto ciò viene però privato di significati più profondi, di valenze socio-politiche, perché primarie diventano le esigenze del genere teatrale e dell’elemento musicale.

In realtà, nei casi in cui esista una trasposizione drammatica, già con il passaggio al teatro di prosa si registra di norma una modificazione, come se il dramma costituisse un componimento di transito tra il genere narrativo e quello melodrammatico. Caso esemplare è rappresentato da Cavalleria rusticana, che nasce come novella, diventa pièce teatrale, per poi giungere fino alle scene operistiche

23

. Il racconto appare per la prima volta nel «Fanfulla della Domenica», il 14 marzo 1880; gli intenti della narrazione verghiana sono intenti politico-sociali, rispetto ai quali l’intreccio amoroso scivola in secondo piano e si riduce ad una semplice vicenda di rivalse, invidie, gelosie femminili e ripicche personali, priva di alcun rimando emotivo-sentimentale. Di continuo si parla della ricchezza di Alfio, ciò che più di tutto inasprisce Turiddu:

Ma con tutto ciò Lola di massaro Angelo non si era fatta vedere né alla messa, né sul ballatoio ché si era fatta sposa con uno di Licodia, il quale faceva il carrettiere e aveva quattro muli di Sortino in stalla (Cavalleria rusticana [novella], p. 179).

– Sentite, compare Turiddu, gli disse alfine, lasciatemi raggiungere le mie compagne.

Che direbbero in paese se mi vedessero con voi?... – È giusto, rispose Turiddu; ora che sposate compare Alfio, che ci ha quattro muli in stalla, non bisogna farla chiacchierare la gente. Mia madre invece, poveretta, la dovette vendere la nostra mula baia, e quel pezzetto di vigna sullo stradone, nel tempo ch’ero soldato (Cavalleria rusticana [novella], p. 180).

La gnà Lola si maritò col carrettiere; e la domenica si metteva sul ballatoio, colle mani sul ventre per far vedere tutti i grossi anelli d’oro che le aveva regalati suo marito (Cavalleria rusticana [novella], p. 180).

23 Cfr. GAILLARD,JONE, Cavalleria rusticana: Novella, Dramma, Melodramma, in «MLN», vol.

107, n. 1, January 1992 (Italian Issue), pp. 178-195.

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Turiddu seguitava a passare e ripassare per la stradicciola, colla pipa in bocca e le mani in tasca, in aria d’indifferenza, e occhieggiando le ragazze; ma dentro ci si rodeva che il marito di Lola avesse tutto quell’oro, e che ella fingesse di non accorgersi di lui quando passava (Cavalleria rusticana [novella], pp. 180-181).

Il giovane bersagliere cerca di riconquistare Lola, solo per avere una rivalsa sociale nei confronti di compare Alfio, per il quale prova un forte senso di invidia, sebbene non si preoccupi di fare niente per rimediare alla sua povertà (è proprio questo che suscita sdegno da parte della gente, e segna così la sua condanna:

«– Che non ha nulla da fare Turiddu della gnà Nunzia, dicevano i vicini, che passa le notti a cantare come una passera solitaria?», Cavalleria rusticana [novella], p.

179). Non riuscendo a sedurre la moglie del compare, il ragazzo decide di fare la corte alla dirimpettaia Santuzza:

Di faccia a compare Alfio ci stava massaro Cola, il vignaiuolo, il quale era ricco come un maiale, dicevano, e aveva una figliuola in casa. Turiddu tanto disse e tanto fece che entrò camparo da massaro Cola, e cominciò a bazzicare per la casa e a dire le paroline dolci alla ragazza (Cavalleria rusticana [novella], p. 181).

Per pura gelosia femminile Lola torna a provocare Turiddu:

Lola che ascoltava ogni sera, nascosta dietro il vaso di basilico, e si faceva pallida e rossa, un giorno chiamò Turiddu. – E così, compare Turiddu, gli amici vecchi non si salutano più? – Ma! sospirò il giovinotto, beato chi può salutarvi! – Se avete intenzione di salutarmi, lo sapete dove sto di casa! rispose Lola (Cavalleria rusticana [novella], p. 182).

Segue la decisione di Santa di fare la spia ad Alfio, una confidenza del tutto gratuita, per dispetto, dato che tra lei e Turiddu non c’è stato niente più che semplici chiacchierate alla finestra:

Compare Alfio tornò colle sue mule, carico di soldoni, e portò in regalo alla moglie una bella veste nuova per le feste. – Avete ragione di portarle dei regali, gli disse la vicina Santa, perché mentre voi siete via vostra moglie vi adorna la casa! […] – Santo diavolone!

esclamò, se non avete visto bene, non vi lascierò gli occhi per piangere! a voi e a tutto il vostro parentado! – Non son usa a piangere! rispose Santa; non ho pianto nemmeno quando ho visto con questi occhi Turiddu della gnà Nunzia entrare di notte in casa di vostra moglie (Cavalleria rusticana [novella], p. 183).

(15)

Nella trasposizione drammatica la questione cambia aspetto (sebbene l’autore sia il medesimo). È come se in teatro, oltre a dover ridurre i risvolti psicologici dei personaggi (per una questione di comprensione e fruizione dell’audience), si sentisse la necessità di edulcorare e giustificare ciò che si presenta sulla scena, perché ogni azione avviene di fronte ad un pubblico, ad un testimone esterno che giudica e si lascia trasportare, e che tra l’altro appartiene ad un mondo regolato da codici diversi rispetto a quelli dei personaggi rusticani di Verga. Le ripicche e le gelosie che nella novella i tre personaggi si lanciano l’un l’altra vengono in qualche modo attenuate, lasciando spazio alle questioni sentimentali. Santuzza assume le vesti della giovane sedotta e abbandonata («SANTUZZA. Ora che sono in questo stato… che i miei fratelli quando lo sapranno m’ammazzano colle sue mani stesse», Cavalleria rusticana [dramma], p. 62), offesa duramente dalle malelingue che sparlano («ZIO BRASI. Volete che recitiamo insieme il Santo Rosario? […] Eh!... Che non vi mangio, diavolo!... Come se non si sapesse…» Cavalleria rusticana [dramma], p. 64), e umiliata sino alla fine dalle parole di Turiddu. In questo modo la delazione della donna è accettata dall’audience, dalla quale è avvertita come giusta e legittima:

SANTUZZA

Dico che mentre voi siete fuorivia, all’acqua e al vento, per amor del guadagno, comare Lola, vostra moglie, vi adorna la casa in malo modo! […] Piangere non posso, compar Alfio;

e questi occhi non hanno pianto neppure quando hanno visto Turiddu Macca che m’ha tolto l’onore, andare dalla gnà Lola vostra moglie! (Cavalleria rusticana [dramma], p. 75)

Per lo stesso motivo Turiddu, sebbene colpevole, dedica adesso il suo ultimo pensiero non solo alla madre

24

, ma anche alla povera Santa:

24 Nella novella Turiddu rivolge le sue ultime parole alla madre, senza più preoccuparsi né di Lola né di Santuzza: «– Compar Alfio, cominciò Turiddu dopo che ebbe fatto un pezzo di strada accanto al suo compagno, il quale stava zitto, e col berretto sugli occhi. Come è vero Iddio so che ho torto e mi lascierei ammazzare. Ma prima di venir qui ho visto la mia vecchia che si era alzata per vedermi partire, col pretesto di governare il pollaio, quasi il cuore le parlasse, e quant’è vero Iddio vi ammazzerò come un cane per non far piangere la mia vecchierella» (Cavalleria rusticana [novella], cit., p. 184).

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TURIDDU

Come è vero Dio so che ho torto, e mi lascerei scannare da voi senza dir nulla. Ma ci ho un debito di coscienza con comare Santa, ché son io che l’ho fatta cadere nel precipizio; e quant’è vero Dio, vi ammazzerò come un cane, per non lasciare quella poveretta in mezzo alla strada (Cavalleria rusticana [dramma], p. 82).

TURIDDU

E se mai… alla Santa, che non ha nessuno al mondo, pensateci voi, madre (Cavalleria rusticana [dramma], p. 83).

L’autore tenta di redimere il protagonista agli occhi dello spettatore, permettendogli di prendere coscienza dei propri errori e del male che ha provocato ad una ragazza innocente.

L’attenzione che la novella porge alla componente sociale scompare dunque nella trasposizione teatrale, nella quale si mantengono personaggi e vicende: i tradimenti di Lola e Turiddu, la vendetta di Santuzza, la sfida di Alfio, la morte del giovane amante. Al pubblico non interessa l’impegno civile del racconto (forse non tutti sarebbero stati neppure in grado di coglierlo), ma solo le azioni di scena e folklore, circondate da forti sentimenti, redenzioni e passioni.

Per lo stesso motivo si assiste ad una trasformazione delle dramatis personae: la Santuzza della novella, ricca, vendicativa e poco partecipe della vicenda, si ritrova in teatro oltraggiata, povera e tradita, e intorno a lei ruota tutta la trama

25

; il Turiddu della narrativa, giovane “vinto” verghiano, vittima della società, a teatro si presenta come fedifrago e colpevole, per questo punito con la morte. Il motivo del castigo si sposta su un versante romantico-sentimentale, cosicché il bersagliere soccombe per il disprezzo che ha mostrato nei confronti dei nobili e sinceri sentimenti di Santuzza. La trasformazione appare ancora più interessante se si considera che a compierla è stato il medesimo autore, Verga, il quale confrontandosi con due scritture distinte, ha dovuto tener conto delle diversità

25 Il maggior spessore dato al personaggio è anche conseguenza del fatto che Santuzza sarebbe stata interpretata da Eleonora Duse e Gemma Bellincioni, rispettivamente per la trasposizione drammatica e quella melodrammatica. Secondo le nuove istanze commerciali, era infatti necessario puntare molto sul nome dei grandi attori/cantanti, ai quali però spettavano ruoli importanti e di rilievo all’interno della vicenda.

(17)

di genere (narrativa/teatro), di fruizione (lettura/visione) e di destinatario (lettore colto/spettatore «di media intelligenza e di gusto» – per citare l’artista catanese).

Il passaggio al melodramma (mi riferisco all’opera di Mascagni), di cui non si è occupato Verga, pur partendo dal testo drammatico (al quale si mantiene piuttosto fedele), presenta uno scarto ulteriore; si azzera quasi del tutto ogni residuo di sicilianità, e della terra verghiana rimane soltanto una sorta di “guscio”

superficiale:

Nel libretto, dopo la trasformazione che il testo originale ha subìto, questo mondo ci appare snaturato e svuotato di ogni sua “verità” così che a parte i fichi d’india di cartone sulla scena e “l’esotico” morso all’orecchio, niente resta della Sicilia verghiana26.

Del resto «Cavalleria rusticana determinò una moda di breve durata quanto di profonda incidenza sui gusti del pubblico che, non lo si dimentichi, voleva il nuovo, il diverso, ma sempre inserito in determinati schemi consolidati»

27

. Il cambiamento melodrammatico è dunque causato da un altro fattore, ossia la necessità di rispettare certi standard, che anche gli autori contemporanei a Mascagni tennero presenti: di norma nell’opera in musica verista si ritrova una coppia di amanti (anche quando non è presente nei testi di partenza); secondo il modello romantico, l’intreccio amoroso vede due giovani innamorati pieni di passione, la cui relazione è ostacolata da qualche impedimento (che provoca momenti di tensione e pathos); vengono introdotte e ben descritte scene collettive e corali con l’intento di movimentare la scena e puntare su una certa spettacolarità d’effetto; il finale si macchia di sangue, suicidî ed omicidî congedano lo spettatore.

26 GAILLARD,J., Cavalleria rusticana, cit., p. 192.

27 SCARDOVI,S., L’opera dei bassifondi, cit., p. 3.

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Non potendo analizzare singolarmente la “costruzione” di tutti i libretti che ho preso in esame nella mia ricerca, farò solo alcuni esempi, scegliendo quei testi in cui la trasformazione da narrativa a libretto (talvolta attraverso il dramma) ha comportato una modificazione non solo strutturale, ma anche di contenuti ed intrecci. Alcuni di questi libretti hanno subìto piccoli cambiamenti, necessari per un andamento scenico più conveniente al genere melodrammatico (Mastro Giorgio, Nennella/Rosella, Mese mariano, Mara); altri presentano invece una vicenda totalmente diversa da quella di partenza (I Pagliacci, Un mafioso, Il mistero).

4.3. E

SIGENZE E CONVENZIONI

Il passaggio dalla narrativa al melodramma comporta talvolta alcune modificazioni perché – parafrasando Giuseppe Di Nunno-Giannattasio – i lavori in prosa non sempre si prestano alle esigenze del teatro melodrammatico [cfr.

quivi, paragrafo 3.3. Arte di denuncia o di costume?]. Il librettista di Mastro Giorgio ha infatti apportato sostanziali modifiche al soggetto di Misasi (autore della novella e del dramma omonimi). Nei lavori del narratore calabrese (mi riferisco sia al racconto che alla pièce teatrale, molto simili tra loro) Rosaria è una bambina di sette anni, allevata e amata da Mastro Giorgio come fosse figlia sua.

Nella novella è il narratore a riferire la situazione, nel dramma – come ovvio – è uno dei personaggi, Giovannino, a farsi portavoce dei fatti:

MASTRO GIORGIO (NOVELLA)

Era buono ed onesto: non aveva mai negato un tozzo di pane al mendico, né l’opera sua al contadino povero. Nella domenica andava a diporto pei sentieruoli della montagna, con una bambina che da un anno aveva raccolta e che lo chiamava babbo. [...] La bambina

MASTRO GIORGIO (TESTO DRAMMATICO) GIOVANNINO

Abbandonar così quell’anima di Dio! Bisogna davvero non aver visceri. Abbandonare così la propria figliuola! Se non l’aveste presa con voi, quella donna, che l’aveva in cura, l’avrebbe deposta nell’Ospizio dei Trovatelli. Quella

(19)

viveva contenta e veniva su rigogliosa e bella come figlia di signori, né le mancavano vesticciuole graziose e gingilli. Si chiamava Rosariuzza (Mastro Giorgio [novella], p. 405).

povera piccina così buona, così dolce, così delicata all’Ospizio! Per uscirne viziata, corrotta, e darsi per necessità alla vita di quella sciagurata che l’è madre! Vedete… mi vengono le lagrime agli occhi solo al pensarlo! (Mastro Giorgio [dramma], p. 9).

Rosaria è figlia di Carmela, dalla quale è stata abbandonata: la donna l’ha lasciata per fuggire con il proprio amante, tradendo lo stesso Giorgio, di lei innamorato. La piccola è considerata da tutti l’unica persona al mondo che sia stata capace di rendere Giorgio buono, dolce e amorevole. Misasi mostra infatti un uomo apparentemente burbero, dagli istinti violenti, ma in realtà assai premuroso e benevolo nei confronti dei più bisognosi. Una sera bussa alla sua fucina Carmela, per riavere la figlia ed intraprendere una nuova vita retta ed onesta. La prima reazione del fabbro è quella di uccidere la donna, entrata ancora una volta nella sua vita per rovinarla; Rosariuzza viene svegliata dalla disputa dei due, entra nella bottega, e il suo apparire frena il braccio del padre putativo, il quale accetta addirittura che la bambina, contenta di aver ritrovato la madre, se ne vada con Carmela, sebbene consapevole che la sua vita verrà distrutta (in teatro i pensieri struggenti che lo assalgono vengono espressi attraverso un monologo del protagonista stesso):

MASTRO GIORGIO (NOVELLA)

Il pensiero gli martellava il cervello come gli martellava il ferro, feroce, a balzi, a furia.

Dunque doveva rimaner solo di nuovo ora che lui ne aveva pieno il cuore di quella fanciulletta? Gliela strappava dalle viscere quella donna che un giorno abbandonandolo gli aveva strappato l’amore, la fede, la pace?

Dunque, dopo otto anni, avrebbe dovuto sentir l’istesso dolore, lo stesso vuoto fatto di odio, di desideri, di spasimi di struggimenti (Mastro Giorgio [novella], p. 410).

MASTRO GIORGIO (TESTO DRAMMATICO) MASTRO GIORGIO

Siede a mezzo sull’incudine, incrocia le braccia sul petto e china il capo – Pausa

Dunque rimarrò solo di nuovo!!... Dunque quella donna, che un giorno mi strappò dalle visceri l’amore, la fede, la pace, mi strappa ora dal cuore quella fanciulletta, che aveva ridonata a me la fede, la pace, l’amore!... Non ho fatto mai male a nessuno, quantunque mio padre avesse detto che io ero nato per far male… non ho fatto mai male a nessuno e mi sono conservato sempre onesto… ma a che vale l’esser onesto?!... Sì, di un colpo di martello avrei potuto schiacciare il capo di quella donna, ma non ho osato… mi son sentito vile innanzi a quella creaturina… Dio vuole così,

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perché davvero l’ha mandata a tempo per salvare sua madre… Avevo sangue agli occhi, e l’avrei uccisa… Dio dunque vuole così… e sia fatta la volontà di Dio!... (Mastro Giorgio [dramma], pp. 26-27).

Il passaggio al melodramma comporta parecchi cambiamenti (rispetto ai testi misasiani), non unicamente legati al genere diverso. Tra questi – come abbiamo già accennato – l’età anagrafica di Rosariuzza e i suoi rapporti con Giorgio e Giovannino; la ragazza è infatti un’adolescente, figlia naturale del fabbro, e innamorata del giovane garzone di suo padre (all’insaputa del genitore). Ma ciò che cambia maggiormente nella vicenda è proprio la figura di Mastro Giorgio. La persona mite e benevola tratteggiata da Misasi lascia il posto ad un uomo violento ed aggressivo, che non ammette di essere disonorato da una donna, né offeso dalla figlia:

MASTRO GIORGIO

Perdono! Rinnegasti l’amor mio, fuggisti col tuo drudo e torni ancora?

La sola rimembranza del tuo nome m’avvelena il core e ti rivedo ancora?!

CARMELA

Ebbene, io me ne andrò, ma datemi mia figlia…

MASTRO GIORGIO

Rosariuzza? Vuoi tu togliermi il solo bene che mi sia rimasto?

CARMELA

Voglio la figlia mia, io son sua madre, sento lontan da lei mancar la vita;

deh!… questa grazia ridondante, o Giorgio, a la pentita donna!…

MASTRO GIORGIO Maledetta!…

Mi togliesti l’onor, la vita, tutte le mie speranze, mi strappasti, infame, ogni felicità, e vuoi tua figlia,

il solo bene che mi sia rimasto?

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Il sollievo de’ miei cadenti giorni, la mia luce, il mio mondo, la mia vita.

Ah, no, va via…

CARMELA

Deh! Per la Madonna

Santa, pel Santo Iddio, dammi mia figlia

Si trascina ginocchioni ai piedi di Mastro Giorgio

[…]

CARMELA

Non andrò via di quì che con mia figlia, ne ho il diritto…

MASTRO GIORGIO Ah! Tu? Parli di diritto

in casa mia che tu contaminasti, mala femmina…

CARMELA Son sua madre!

MASTRO GIORGIO Và!

Che t’ammazzo…

[…]

CARMELA

Rosariuzza io vo’, o rimango.

MASTRO GIORGIO Ah!! Ma non viva…

Esasperato, riafferra la mazzuola, deciso di ammazzarla, ma in quel mentre esce precipitosamente dalla stanza Rosariuzza, che avrà tutto udito, e lo trattiene quasi piangendo (Mastro Giorgio, Atto Unico, Sc. VI, pp. 18-20).

Nell’opera melodrammatica Rosariuzza, venuta a conoscenza dei fatti,

decide coscientemente e volontariamente di partire con la madre, vista la

caparbietà di Giorgio che non ammette alcuna possibilità di perdono né di

convivenza familiare. Il fabbro arriva persino a minacciare la figlia, e in preda

all’ira per l’onta subìta, chiama in soccorso Giovannino, perché fermi la carrozza

sulla quale le due donne sono salite. A trambusto, odio, ira e desiderio di

vendetta, segue il gesto del povero ragazzo che uccide la sua amata Rosaria

[esempio riportato quivi, paragrafo 3.3. Arte di denuncia o di costume?]. Questi

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pochi cambiamenti modificano del tutto il senso della storia, il carattere dei personaggi, e le azioni che ne derivano. L’intento è quello di avvicinarsi il più possibile ai canoni del genere melodrammatico, che non può non avere la sua vicenda amorosa, non può non avere i suoi momenti di pathos e furore, non può non avere la sua “catastrofe finale”:

Il nodo dell’azione sarà sempre una passione; purché questa passione sia forte, purché essa si estrinsechi in mezzo a vivi contrasti, potrà essere perno d’una azione musicale. Il librettista penserà a spogliare il carattere vero di tutte quelle sfumature che formano la bellezza della riproduzione artistica. Se nel suo lavoro avrà assassinato la creazione originale, la musica gliene saprà buon grado.

[…] Il libretto non può essere giudicato alla stregua delle opere letterarie, perché esso, fatto per la musica, deve obbedire alle esigenze della musica, la quale, se scuote il sentimento, riesce impotente nel campo intellettuale.

Quindi il libretto dovrà fornire un’azione ricca di passioni, priva di concetti intellettuali, con personaggi tutti d’un pezzo, opposti possibilmente, per le virtù od i vizi, fra di loro. Che se in ciò egli si scosterà dalle regole del vero, poco danno; in mezzo alle mille inverosimiglianze della scena, una incongruenza di più sarà il conticino di un armaiuolo di provincia nell’enorme bilancio della guerra (VILLANIS, 1892, p. 734).

Stessa cosa accade per Mara, tratta da Jeli il pastore. In questo caso non vi

è una trasposizione drammatica che lega narrativa e melodramma, e le

innovazioni esterne sono minime, sebbene sostanziali. La trama è la medesima e

anche i fatti non cambiano: Jeli perde il lavoro e viene assunto da Don Alfonso,

ricco signore e amico di giovinezza; accetta di sposare Mara alla quale il

matrimonio serve come copertura per poter continuare la sua tresca col

padrone; scopre il tradimento della moglie e uccide Don Alfonso. Al di là dei

cambiamenti dovuti alla diversità di genere (molti intrecci secondari, racconti e

fatti, soprattutto passati, vengono eliminati), la vera differenza sta proprio nel

personaggio del giovane pastore, che perde del tutto la sua connotazione. Nella

novella Jeli è uno spirito libero, un figlio della natura, più simile agli animali che

agli uomini, spinto da istinti ed emozioni primordiali, spesso inconsapevole di ciò

che lo circonda. Nel momento in cui Mara gli chiede di sposarla, lui accetta senza

esitazione, ignorando in seguito i chiacchiericci che circondano la sua dimora, e i

nomignoli che gli vengono dati (“Corna d’oro”):

(23)

Jeli non sapeva nulla, ch’era becco, né gli altri si curavano di dirglielo, perché a lui non gliene importava niente, e s’era accollata la donna col danno, dopo che il figlio di massaro Neri l’aveva piantata per aver saputo la storia di don Alfonso. Jeli invece ci viveva beato e contento nel vituperio, e s’ingrassava come un majale, “ché le corna sono magre, ma mantengono la casa grassa!”

Una volta infine il ragazzo della mandra glielo disse in faccia, mentre si abbaruffavano per le pezze di formaggio che si trovavano tosate. – Ora che don Alfonso vi ha preso la moglie, vi pare di essere suo cognato, e avete messo superbia che vi par di essere un re di corona con quelle corna che avete in testa.

Il fattore e il campajo si aspettavano di veder scorrere il sangue a quelle parole; ma invece Jeli rimase istupidito come se non le avesse udite, o come se non fosse stato fatto suo, con una faccia da bue che le corna gli stavano davvero bene (Jeli il pastore, p. 158).

L’assassinio di Don Alfonso non avviene per le maldicenze, né per l’onore macchiato, ma per istinto, nel momento in cui Jeli vede Alfonso che prende per mano la sua Mara e balla con lei, nel momento in cui assiste al contatto fisico tra i due. Come un animale che tenta di difendere il proprio territorio, il pastore si avventa sul ricco signore:

Egli non profferiva più alcuna parola intelligibile, mentre stava curvo sulle pecore che tosava. Mara si strinse nelle spalle, e se ne andò a ballare. Ella era rossa ed allegra cogli occhi neri che sembravano due stelle, e rideve che le si vedevano i denti bianchi, e tutto l’oro che aveva indosso le sbatteva e le scintillava sulle guancie e sul petto che pareva la Madonna tale e quale. Jeli s’era rizzato sulla vita, colla lunga forbice in pugno, e così bianco in viso, così bianco come aveva visto una volta suo padre il vaccajo, quando tremava di febbre accanto al fuoco, nel casolare. Tutt’a un tratto come vide che don Alfonso, colla bella barba ricciuta, e la giacchetta di velluto e la catenella d’oro sul panciotto, prese Mara per la mano per ballare, solo allora, come vide che la toccava, si slanciò su di lui, e gli tagliò la gola di un sol colpo, proprio come un capretto (Jeli il pastore, p. 161).

In seguito non riesce neppure a comprendere quale sia il misfatto che ha compiuto:

Più tardi, mentre lo conducevano dinanzi al giudice, legato, disfatto, senza che avesse osato opporre la menoma resistenza.

– Come! – diceva – Non dovevo ucciderlo nemmeno?... Se mi aveva preso la Mara!...

(Jeli il pastore, pp. 161-162).

Nel melodramma Jeli è un’altra persona, più consapevole; è un uomo

d’onore, il quale, dopo aver scoperto il tradimento della moglie, parla di odio,

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rivalsa e desiderio di sangue [esempio riportato quivi, paragrafo 3.3. Arte di denuncia o di costume?]. Il delitto è premeditato e non istintivo. Il modello è quello di Cavalleria e Pagliacci, a partire dai quali disonore e vendetta diventano elementi che sulla scena funzionano, e che quindi molti autori scelgono di sfruttare.

Anche Nennella e Rosella (opere melodrammatiche tratte dal Voto digiacomiano) introducono infatti un assassinio a chiusura della vicenda, assente in ogni altra riscrittura del medesimo soggetto. Salvatore Di Giacomo è autore della novella e della pièce teatrale; entrambe concludono la vicenda con il ritorno della povera Cristina alla “mala casa”, dopo essere stata cacciata da Amalia e dalla madre di Vito:

IL VOTO (NOVELLA)

La capuana, sbucando dal vico Astuti, andò diritta al Crocifisso e gli si buttò in ginocchio davanti. L’avevano cacciata dalla casa di Vito, e la madre dell’amante aveva scopata la soglia, urlando:

– Fuori! Fuori, trista femmina! Fuori di casa mia! Qui si mangia onore e pane!

Onore e pane! E la moglie d’Annetiello era lì, e tutti lo sapevano che Vito s’era perso ancora una volta per la moglie d’Annetiello!

E la moglie d’Annetiello, anche lei gridava:

– Fuori! Fuori! Vattene a Capua!

E le carte? E tre mesi di privazioni, di vita solitaria, di umiliazioni? E il voto? Il voto ch’egli aveva fatto? Oh, Dio! Dio! Dio!

– Tu lo sai! – gridò al Cristo, con le mani afferrate alla balaustra che cingeva il Crocifisso – Tu lo sai che cosa ho sofferto! La mia vita la sai, Cristo in croce! E sei tu che mi ci fai tornare, pei peccati miei. Io mi volevo salvare. Ho fatto tutto, ho sofferto tutto, per salvarmi! Non hai voluto… E così sia! Così sia!... Così sia!

Si levò, gettò indietro i capelli e si strinse nello scialle. Poi fece ancora, risolutamente, quattro o cinque passi, raccattò una pietra e picchiò con quella al portoncino della mala casa.

’O VOTO (TESTO DRAMMATICO) DONNA ROSA

Vedendo Cristina

Neh, mia signò! N’ ata vota ccà staie?!... Neh, Vi’! E ched’è st’affare?... Ll’ e’ chiammata n’ ata vota? T’ è benuta ’arricchì n’ ata vota?!...

Le mani sui fianchi VITO

Confuso, balbettando

Io?... No… Chella è passata e s’è fermata…

DONNA ROSA E ghiammo ia’!

Con intenzione, guardando Cristina

Facimmo ampresso ca donn’Amalia s’è pure vestuta e ’a carozza mo vene! Iammo, ia’!

A Vito

Spicciàmmece!

Vito entra in bottega. A Cristina, voltandosi Vuie nun ve ne iate?

CRISTINA

Mo mme ne vaco…

AMALIA

Arrivando in fretta dal vicolo. Anch’ella è vestita a festa e ha una rosa nei capelli, gli orecchini di perle e il crespo giallo nelle spalle.

(25)

Una finestra si schiuse. Una voce di vecchia chiese: – Chi è?

Cristina rispose, liberando la testa dallo scialle e guardando in su:

– Sono io. La Capuana (Il voto [novella], p.

758).

È raggiante Ccà stammo nuie!

DONNA ROSA

Ebbiva ’onna Amalia! Gué! È stata ’e parola!

AMALIA

E nuie simmo sempe ’e parola!...

Vede Cristina. Seccata e ironica Uh! Bonasera, bella figliò!...

Cristina la guarda, trasognata, senza rispondere

DONNA ROSA

Afferrando donn’Amalia pel braccio e spingendola nella tintoria

Favurite! Favurite!...

V’entra con lei

[…]

VITO

Appare sulla soglia. Vede Cristina ch’è ancora lì, muta, disfatta, immobile. Si guarda intorno come smarrito anche lui e guarda di sfuggita nel vicolo. Poi s’accosta rapidamente a Cristina Cristì?...

Cristina lo guarda, trasognata. Rimane muta VITO

Cristì… Nun songo io… Non è colpa mia… È màmmema, màmmema… L’ha voluto màmmema… È destino… È destino… (’O voto [dramma], pp. 78-80).

La madre del giovane parla di “onore e pane”, non accetta che suo figlio si sposi con una donna che in passato è stata una prostituta, ma accetta che sia amante di una donna maritata. E in questo caso nemmeno la trasposizione drammatica tenta alcuna nobilitazione dei personaggi, anzi si accresce la viltà di Vito, privo di coraggio e volontà, al cospetto di una madre e un’amante padrone.

La soluzione di Blengini (librettista di entrambe le trasposizioni operistiche citate)

al contrario, eleva proprio il protagonista, il quale non appare più come un uomo

debole e infantile che segue il volere di Donna Rosa e non riesce a resistere alla

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seduzione di Amalia (al punto da umiliare una innocente che si è fidata di lui e in lui ha riposto ogni sua speranza di redenzione); Nennella e Rosella presentano un giovane capace di opporsi alla tentazione di Amalia/Carmela, una persona di cuore, che si sacrifica per la sfortunata Rosella. Durante un diverbio fra i tre – Vito, Carmela e Rosella – la donna furente cerca di colpire la “capuana”, ma il protagonista difende la ragazza con il proprio corpo, perdendo lui stesso la vita:

CARMELA

Quel voto infrangi, tu m’ami ancora VITO

È sacrilegio, no!

ROSINA28 Fuori

Vito! Vieni, Vito!

VITO

Indicando dietro la vetrata È lei.

CARMELA Chi?

VITO

Rosina, eccola là!

CARMELA

Ah! Malnata! Mio tu sei, guai se ti muovi.

VITO

No ’l posso ella è là.

[…]

CARMELA Cerca un’arme

Ah no? Per la Croce di Dio, quel voto infrangi, o ch’io…

28 Con Nennella si ha un ulteriore cambiamento di nome: la giovane “capuana” si chiama Rosina. E la Donna Rosa digiacomiana prende il nome di Assunta

(27)

VITO

Sì, sì, ve lo prometto Uragano al di fuori

[…]

ROSINA Dietro la vetrata Vito, non mi tradir!

Vien, non mi far morir!

T’imploro per pietà!

[…]

CARMELA

Taci, rinunzia a lei, o guai a te!

Brandisce un coltello ROSINA

Sforzato l’uscio a vetri corre a Vito O Vito, Vito!

VITO

O mia Rosina!

CARMELA

Ah miserabile d’una sgualdrina!

ROSINA

Fuggiam, pazza è costei!

CARMELA

Scagliandosi per ferirla Ah! Figlia rinnegata, io vo’ mangiarti il cor!

VITO

Interponendosi, riceve il colpo Ah!

Cade ROSINA

Esterrefatta fuggendo

Aiuto, aiuto, all’assassina, aiuto!

[…]

ASSUNTA

Entra affannata correndo al figlio Oh Vito, il figlio mio, me l’ànno ucciso!

A Rosina E la cagion sei tu!

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