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1 FARMACOGENOMICA DEI TUMORI DELLA VESCICA

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INTRODUZIONE

1 FARMACOGENOMICA DEI TUMORI DELLA VESCICA

1.1 Classificazione e stadiazione anatomo-patologica e clinica

I tumori della vescica costituiscono la quarta causa di morte fra tutte le neoplasie del mondo occidentale (Parkin et al, 1999; Jemal et al, 2005) e la sua incidenza negli USA è pari a circa 53.000 nuovi casi ogni anno.

La neoplasia della vescica è classicamente distinta in carcinomi a cellule transizionali, carcinomi epidermoidi, adenocarcinomi e carcinomi squamosi. La forma più frequente è il carcinoma a cellule transizionali, che costituisce il 90% di tutti i tumori della vescica (Tabella 1); questi si possono presentare a forma papillare (75%), piatta o nodulare.

Tabella 1. Classificazione anatomo-patologica dei tumori maligni della vescica

Il sintomo principale del tumore della vescica è rappresentato dalla presenza di sangue nelle urine (ematuria); quando questo non è associato a disturbi della minzione come bruciori o a dolori lombari, che giustificherebbe rispettivamente una cistite o una colica renale, deve sempre costituire un campanello di allarme. I primi esami consigliati sono la ricerca delle cellule tumorali nelle urine (esame citologico) e l’ecografia dell’intero apparato urinario,

TUMORI DELLA VESCICA Carcinomi a cellule transizionali (90%) Invasivo (25%)

Metastatico (5-20%)

Carcinomi epidermidi (7%)

Adenocarcinomi (2%)

Carcinomi squamosi (1%)

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compresa la vescica. In caso di minimo sospetto si deve procedere alla uretrocistoscopia che consente di esplorare l’uretra e tutta la vescica. Per completare la stadiazione clinica si esegue l’urografia, che è un esame radiologico dopo infusione di mezzo di contrasto e che consente di visualizzare l’intero apparato urinario e la TAC addominale e pelvica. Con questa ultima indagine è possibile valutare l’entità della neoplasia vescicale e l’interessamento di eventuali organi limitrofi (retto o linfonodi) o a distanza (fegato). Lo studio della neoplasia deve essere completato con la resezione endoscopica della neoformazione (TURV). Questo atto chirurgico consente correttamente di stabilire se si tratta di un tumore superficiale o infiltrante a secondo che interessi gli strati più superficiali o profondi della vescica. Negli ultimi due decenni la sopravvivenza a 5 anni per tumore della vescica è passata dal 50 al 70%, nelle forme confinate, mentre resta invariata nelle forme più estese o con interessamento linfonodale, non superando il 20-40% (Tabella 2).

Tabella 2. Stadiazione TNM e clinica del carcinoma della vescica

Stadio TNM Stadio 0a Ta, N0, M0

Stadio 0is Tis, N0, M0 Stadio I T1, N0, M0 Stadio II T2a, N0, M0

T2b, N0, M0

Stadio III T3a, N0, M0

T3b, N0, M0

Stadio IV T4a, N0, M0

T4b, N0, M0

T1-4, N1-3, M0

T1-4, N1-3, M1

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I fattori di rischio per questa neoplasia sono: il fumo di sigaretta, l’esposizione cronica alle amine aromatiche e nitrosamine (frequente nei lavoratori dell’industria tessile, dei coloranti, della gomma e del cuoio), l’assunzione di farmaci come la ciclofosfamide e l’infezione da parassiti come Bilharzia e Schistosoma haematobium, diffusi in alcuni paesi del Medio Oriente (Egitto in particolare). Anche la dieta gioca un ruolo importante: fritture e grassi consumati in grande quantità sono infatti associati a un aumentato rischio di ammalarsi di tumore della vescica. Esistono, infine, prove a favore di una componente genetica quale fattore di rischio predisponente (Chester et al, 2004).

Definizioni TNM Tumore primario

Tx Il tumore primario non può essere definito T0 Nessuna evidenza di tumore primario Ta Carcinoma papillare non invasivo

Tis Carcinoma in situ (flat tumor, tumore piatto) T1 Il tumore invade il connettivo subepiteliale T2 Il tumore invade la parete muscolare

a Invasione superficiale della parete muscolare b Invasione profonda della parete muscolare T3 Tumore che invade i tessuti periviscerali

a) Microscopicamente

b) Macroscopicamente

T4 Tumore che invade qualsiasi delle seguenti strutture:

prostata, utero, vagina, parete pelvica, parete addominale a) Tumore che invade prostata, utero, vagina

b) Tumore che invade parete pelvica o parete addominale

Linfonodi

Nx I linfonodi regionali non possono essere definiti N0 No metastasi nei linfonodi regionali

N1 Metastasi in un singolo linfonodo, uguale o inferiore a 2 cm nel diametro maggiore

N2 Metastasi in un singolo linfonodo di dimensioni nel diametro maggiore superiore 2 cm ma non più di 5 cm, o in diversi linfonodi, ognuno dei quali di dimensioni superiori a 2 cm, ma inferiori a 5 cm

N3 Metastasi in un linfonodo di dimensioni più di 5 cm nel diametro maggiore

Metastasi a distanza

Mx Presenza di metastasi non accertabile M0 Non metastasi a distanza

M1 Presenza di metastasi a distanza

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1.2 Terapia

Negli ultimi due decenni la sopravvivenza a 5 anni per tumore della vescica è passata dal 50 al 70%, nelle forme confinate, mentre resta invariata nelle forme più estese o con interessamento linfonodale, non superando il 20-40%.

Nei casi di una neoplasia vescicale superficiale (Stadio 0 e I) il trattamento chirurgico consigliato è rappresentato dalla resezione endoscopica (TURV). Il questi casi le recidive raggiungono il 95% dei casi con un rischio di progressione che varia in funzione della classe di rischio a cui appartiene il tumore e può arrivare fino al 50%

nella forme ad alto rischio (von der Maase et al, 2005; Witjes et al, 2004). Risulta pertanto evidente come sia di fondamentale importanza sottoporre questi pazienti ad una terapia adiuvante in grado di ridurre sia le recidive che le eventuali progressioni di malattia. Se la neoplasia interessa gli strati più profondi e quindi la muscolatura (Stadio II, III e IV), si rende necessaria l’asportazione della vescica e dei linfonodi limitrofi (cistectomia).

Sebbene il trattamento chirurgico rappresenti a tutt’oggi la cura migliore nei casi di neoplasie per questa neoplasia, anche sul versante della chemioterapia sono stati effettuate numerose ricerche, che hanno condotto ad un notevole incremento delle conoscenze relative al trattamento farmacologico della malattia.

Il gold standard terapeutico per la neoplasia della vescica è rappresentato dall’instillazione endovescicale del bacillo di Calmitte-Guerin. Sebbene sia il trattamento più efficace nel ridurre il rischio di progressione, è dotato di uno scarso profilo di tollerabilità sia urinaria (stranguria, disuria, ematuria) che sistemica (febbre, rischio di riattivazione di focolaio tubercolare) (Serretta et al, 2005). Nuove strategie terapeutiche ugualmente attive e meglio tollerate sono pertanto in studio.

Accanto ai classici chemioterapici in uso come la farmorubicina e la mitomicina-C, la gemcitabina sembra avere un ruolo promettente.

1.2.1 Studi clinici con monoterapia

Le neoplasie vescicali superficiali (Ta-T1), dopo adeguato trattamento rappresentato dalla resezione endoscopica (TURV), recidivano in tempi più o meno lunghi in un’altissima percentuali di casi (fino al 95%) con un rischio di progressione che varia in funzione della classe di rischio a cui appartiene il tumore e può arrivare fino al 50% nella forme ad alto rischio (von der Maase et al, 2005; Witjes et al, 2004).

Risulta pertanto evidente come sia di fondamentale importanza sottoporre questi

pazienti ad una terapia adiuvante in grado di ridurre sia le recidive che le eventuali

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progressioni di malattia. La tabella 3 mostra le categorie di rischio e la frequenza di presentazione espressa in percentuale al momento della diagnosi.

Tabella 3. Classificazione in categorie di rischio

I fattori prognostici per discriminare il rischio di recidiva e di progressione sono: dimensione (T), grado di differenziazione (G), numero delle lesioni, numero di recidive, presenza di carcinoma in situ (Palou et al, 2004). Il gold standard terapeutico è rappresentato dall’instillazione endovescicale del bacillo di Calmitte- Guerin. Sebbene sia il trattamento più efficace nel ridurre il rischio di progressione, è dotato di uno scarso profilo di tollerabilità sia urinaria (stranguria, disuria, ematuria) che sistemica (febbre, rischio di riattivazione di focolaio tubercolare). Nuove strategie terapeutiche ugualmente attive e meglio tollerate sono pertanto in studio. Accanto ai classici chemioterapici in uso (Farmorubicina, mitomicina-C), la gemcitabina sembra avere un ruolo promettente. La gemcitabina ha dimostrato essere attiva ed efficace nel carcinoma della vescica avanzato (Mattioli et al, 2005). Studi preclinici hanno dimostrato la fattibilità, e confermato il buon profilo di tollerabilità anche quando somministrata intravescicale per il tumore superficiale (Campodonico et al, 2005).

Categoria Frequenza

Basso rischio 11,5%

Ta G1

T1 G1 singolo

Intermedio rischio 44,6%

T1 G1 multifocale Ta G2

T1 G2 singolo

Alto Rischio 43,9%

T1 G2 multifocale Ogni T G3

Carcinoma in situ

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Tabella 4. Studi di Fase I e Fase II con gemcitabina endovescicale

La tabella 4 riassume gli studi clinici di fase I e II realizzati con la gemcitabina endovescicale. Gli studi di fase II con lesione marker hanno dimostrato che la gemcitabina è dotata di attività con un buon profilo di tollerabilità quando somministrata intravescicale e lo studio randomizzato di Gardmark et al, ha indicato che le instillazioni multiple (3-6) sono più efficaci, rispetto alla singola somministrazione.

1.2.2 Studi clinici con associazioni polichemioterapiche

Il carcinoma a cellule transizionali metastatico è moderatamente sensibile alla monochemioterapia; quindi la soluzione di associare diversi agenti chemioterapici rappresenta un potenziale vantaggio terapeutico per il trattamento dei carcinomi della vescica. La polichemioterapica considerata standard per la forma neoplastica metastatica è rappresentata dalla combinazione di 4 farmaci: metotressato, vinblastina, doxorubicina e cisplatino (MVAC). In uno studio di Fase II la risposta a tale trattamento è stata superiore al 70%, mentre in uno di fase III è risultata essere del 38% (Sternberg et al, 1989; von der Maase et al, 2000). Molti pazienti però non sono eleggibili per il trattamento con il cisplatino; quindi si è rivolta l’attenzione verso nuove combinazioni polichemioterapiche.

Autore Fase N°

somm.

Pazienti Risposte Conclusioni

Witijes’04 I (III livelli di dose 1000- 1500-2000)

6 10 No DLT Dose

raccomandata 2000 mg De Berardinis

‘04

I (IV livelli da 500-2000 mg

6 12 No DLT Dose

raccomandata 2000 mg Palou’04 I(II livelli 1000

e 2000 mg) 1 10 No DLT Dose

raccomandata 2000 mg Serretta’05 I-II (III livelli

500, 1000 e 2000 mg

6 27 6 RC + 1

RP

Dose

raccomandata 2000 mg Gontero’04 II (2000 mg) 6 39 56% RC No tox > G1 Campodonico

’05 II (2000 mg) 4 26 50% RC Minimo

assorbimento sistemico Gardmark’05 II randomizzato 1 vs

3 vs 6

11 10 11

10%

44%

40%

Multiple

somministrazioni

+ efficaci

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Sono state effettuate quindi diverse ricerche con l’antifolato di nuova generazione pemetrexed, che ha ottenuto buoni risultati nella la terapia del carcinoma pancreatico in due studi clinici di fase I in monoterapia (McDonald et al., 1998; Rinaldi et al., 1995). Inoltre, precedenti studi condotti in vitro su cellule tumorali di carcinoma colico hanno dimostrato l’evidente sinergismo della combinazione del pemetrexed con la gemcitabina nell’esercitare un’azione citotossica (Adjei et al., 1998; Tonkinson et al., 1999). Da questi presupposti è nata un’analisi multicentrica sull’uso combinato di entrambi i farmaci, con un protocollo di tre settimane in cui sono stati somministrate dosi di 500 mg/m

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di pemetrexed. Nel 12,8% dei pazienti c’è stata remissione parziale, mentre in una percentuale del 59% si è assistito ad una stabilizzazione della malattia, con un intervallo medio di progressione di 3,6 mesi (Kindler et al., 2001).

1.3 Farmacogenetica e farmacogenomica

La farmacogenetica è una disciplina nata con la finalità di identificare le differenze genetiche interindividuali responsabili dell'ampia variabilità esistente nella risposta ai farmaci (Lessel eta l., 2000). Tale variabilità è in gran parte determinata da fattori ereditari che causano alterazioni nel metabolismo dei farmaci o nell'espressione dei loro recettori, influenzando la farmacocinetica e la farmacodinamica (Boddy e Idle, 1993).

Il termine farmacogenetica risale al 1959, anno in cui Vogel per primo conferì a questo genere di indagine la dignità di branca autonoma della farmacologia.In realtà, alcuni anni prima, Motulsky (1957), era già riuscito ad individuare svariate condizioni genetiche associate a reazioni tossiche nei confronti di specifici farmaci o sostanze ambientali. Una conferma all'ipotesi che le differenti risposte ai farmaci fossero dovute all'eterogeneità genotipica caratteristica della specie umana, fu data dagli studi condotti alla fine degli anni '70 da Vessel e Page sui gemelli monozigoti. In questi individui con identico patrimonio genetico non si riscontravano differenze nel metabolismo dei farmaci, mentre nei gemelli eterozigoti, la variabilità era simile a quella presente nella popolazione generale.

La variabilità genetica ha dunque un'importanza fondamentale nella pratica

clinica, poiché sembra essere alla base di due principali problemi della terapia

farmacologica: il mancato verificarsi dell'effetto farmacologico in alcuni pazienti e la

comparsa di gravi e inattesi fenomeni di tossicità in altri (Barale, 2001). Nel primo

caso, quando si assiste all’inefficacia di un trattamento, si può ipotizzare

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un’alterazione funzionale dell’enzima deputato all’attivazione del farmaco; nel caso di reazioni avverse imprevedibili potrebbe invece trattarsi di polimorfismo a carico del gene che dovrebbe inattivare il farmaco, con gravi conseguenze soprattutto se il farmaco ha un basso indice terapeutico, come avviene per diversi chemioterapici antitumorali (De smeules et al., 1991).

Grazie alla farmacogenetica è quindi possibile effettuare un percorso a ritroso per risalire dal fenotipo clinico al genotipo alterato. Queste conoscenze sono state ulteriormente sviluppate con l'avvento della farmacogenomica, reso possibile dalla realizzazione del progetto Genoma Umano (The Genome International Sequencing Consortium, 2001). La disponibilità di informazioni complete sull'assetto genetico della nostra specie ha dato impulso a questa nuova disciplina, che si prefigge di indagare non tanto le relazioni tra il polimorfismo di un singolo gene e la comparsa di variazioni fenotipiche, quanto tra la variabilità di famiglie complesse di geni che nel loro insieme influenzano la risposta farmacologica. Inoltre, mentre le ricerche di farmacogenetica avevano come punto di partenza tipicamente le differenze fenotipiche nella popolazione, la farmacogenomica potrebbe identificare le potenziali differenze fenotipiche nella risposta ai farmaci sulla base di un’analisi del DNA del paziente (Evans e Relling, 1999).

Il potenziale euristico della farmacogenetica e della farmacogenomica dipende

dalla definizione di gene; se accettiamo la definizione classica di Monod, detta

paradigma centrale della biologia molecolare, il gene è un frammento di DNA che

codifica per un RNA messaggero, che a sua volta produce una proteina, responsabile

di un determinato fenotipo (Monod, 1974). La farmacogenetica derivante da questa

definizione si limiterà a cercare nelle differenze di sequenza o di espressione di un

gene le ragioni della variabilità interindividuale nella risposta ai farmaci, mentre la

farmacogenomica moltiplicherà questo approccio, concentrandosi comunque sullo

studio del genoma. Le più moderne teorie biologiche tuttavia ci hanno permesso di

comprendere che l’espressione genica è un fenomeno molto complesso, che coinvolge

livelli diversi dalla sequenza lineare DNA-RNA-proteina. Negli ultimi decenni in

effetti, il paradigma centrale della biologia molecolare è stato riformulato,

permettendoci di giungere ad una più completa comprensione della plasticità dei

fenomeni cellulari (Pievani, 2005). Si è scoperto ad esempio che da un’unica

sequenza genica possono provenire diversi trascritti, grazie al processo di splicing. La

traduzione di RNA messaggeri è poi regolata da numerosi meccanismi, come quello

dei microRNA. Anche dopo la traduzione, la cellula può controllare l’attività della

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proteina attraverso processi come la fosforilazione/defosforilazione, l’acetilazione, l’ubiquitinazione. Questi meccanismi si sono rivelati spesso importanti per comprendere la patogenesi di alcune malattie umane, e potrebbero essere utili in futuro per spiegare alcune differenze interindividuali nella suscettibilità ai farmaci.

Per capire quanto questo sia vero, si pensi al ruolo emergente degli inibitori del proteasoma nella terapia oncologica (Shah et al., 2001), o ai possibili utilizzi dei microRNA in medicina (Agami, 2002).

Le modificazioni epigenetiche si situano anch’esse nell’ambito dei meccanismi di determinazione del fenotipo imprevisti dal paradigma classico. E’ stato ipotizzato da alcuni autori che le cellule possano controllare l’espressione di certi geni grazie alla lettura di un “codice d’accesso” al genoma, detto codice epigenetico (Qiu, 2006).

Le specifiche di questo secondo codice della vita non ci sono ancora note, ma sappiamo che le interazioni DNA-istoni e la metilazione del DNA sono i meccanismi principali di tale processo. Questi fenomeni modulano in ultima analisi lo stato della cromatina e la sua accessibilità alla RNA polimerasi. Essi sono coinvolti nella modificazione fisiologica del fenotipo cellulare durante il differenziamento, la senescenza, l’embriogenesi. Come vedremo nei prossimi paragrafi, i fenomeni epigenetici potrebbero svolgere un ruolo importante nella patogenesi delle neoplasie umane e nel determinarne la chemiosensibilità.

Uno dei principali campi di applicazione della farmacogenetica, indipendentemente dalla definizione che di essa si accetta, è quello della terapia delle patologie oncologiche. I chemioterapici antitumorali sono stati infatti tradizionalmente oggetto di studi di farmacogenetica per molteplici ragioni: in primo luogo, tali farmaci hanno un basso indice terapeutico; inoltre molti sono profarmaci, attivati da sistemi enzimatici polimorfi; anche gli enzimi coinvolti nella detossificazione di queste sostanze sono contraddistinti da un grado, talvolta spiccato, di variabilità funzionale. E' noto da tempo come lo stesso protocollo chemioterapico per la cura di uno stesso istotipo di neoplasia giunta ad uno stesso grado di differenziazione possa determinare un ampio spettro di risposte cliniche, dalla remissione completa alla comparsa di gravi fenomeni tossici (Calabrese, 1996).

Attualmente, la dose di farmaco da somministrare viene definita in base a parametri

come l'altezza e la superficie corporea del paziente, benché ci siano stati tentativi di

stabilire dei dosaggi più specifici con il monitoraggio terapeutico delle concentrazioni

plasmatiche del farmaco nel paziente e la successiva individualizzazione dello schema

terapeutico (Gourney, 1996). Pertanto, effettuando in ogni paziente una valutazione

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accurata del profilo genetico ed epigenetico degli enzimi coinvolti nella farmacocinetica e nella farmacodinamica di un chemioterapico, sarebbe possibile individualizzare la dose dei farmaci, ottenendo risultati terapeutici più efficaci e minori effetti collaterali. Il corrispettivo clinico di queste acquisizioni sarebbe lo sviluppo di una chemioterapia ideata non solo in base alle caratteristiche genetiche ed epigenetiche del paziente, ma anche in base a quelle della neoplasia da aggredire.

1.3.1 Determinanti genetici della chemiosensibilità nelle neoplasie

La chemioterapia antitumorale rappresenta una modalità di trattamento efficace per molti tipi di neoplasie; tuttavia, il suo uso è ancora oggi limitato dall'impossibilità di predire la risposta al trattamento e la scelta del protocollo terapeutico è in molti casi, empirica. L'influenza delle caratteristiche genetiche sulla risposta ai farmaci antineoplastici è un argomento di ricerca di grande interesse, in considerazione del fatto che non è ancora possibile spiegare in termini scientifici le ragioni del successo della chemioterapia in alcune forme tumorali e gli scoraggianti risultati in altre. In questo contesto, la farmacogenetica potrebbe essere in grado di identificare i fattori genetici che contribuiscono alla variabiltà tra i pazienti nei confronti della risposta ai farmaci impiegati nella chemioterapia antineoplastica. Con il completamento del Progetto Genoma Umano, i prossimi obiettivi saranno la comprensione dell’influenza degli oncogeni dominanti e dei geni oncosoppressori recessivi sulla suscettibilità agli agenti terapeutici e l’applicazione del profilo genetico alla scelta del trattamento farmacologico.

I prodotti genici possono essere direttamente o indirettamente coinvolti

nell’attività dei farmaci antineoplastici. Esempi della correlazione diretta tra prodotto

genico, che costituisce il bersaglio farmacologico, e l’agente chemioterapico,

comprendono: (a) topoisomerasi, camptotecine e antracicline (Holden, 1997); (b)

ribonucleotide redattasi e gemcitabina (Goan et al., 1999); (c) timidilato sintetasi e 5-

fluorouracile. Poichè le modificazioni delle normali attività di tali enzimi possono

influenzare la chemiosensibilitàe la resistenza ai farmaci, l’espressione dell’enzima

bersaglio nel tumore deve essere considerata nella pianificazione di un trattamento

farmacologico al fine di ottenere la maggiore efficacia possibile. Oltre a ciò esempi di

fattori indirettamente coinvolti nell'azione dei farmaci antineoplastici sono costituiti

dalle delezioni di geni oncosoppressori. In particolare le anormalità della proteina

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p53, che regola negativamente la crescita e la proliferazione cellulare, sembrano rivestire un ruolo primario nel determinare la suscettibilità ai farmaci chemioterapici, in quanto è un elemento cardine nel processo di morte cellulare programmata. E' stato, infatti, dimostrato che cellule di tumori del colon-retto con p53 inattiva sono resistenti al 5-fluorouracile (Bunz et al., 1999), mentre le cellule di carcinomi ovarici con delezione dei geni TP53 e anomalie del sistema MLH1 di riparazione del danno al DNA, sono altamente resistenti al cisplatino (Branch et al., 2000). E’ in virtù di questi fenomeni che l’uso dei derivati del platino potrebbe essere maggiormente indicato per alcuni tumori piuttosto che altri, dal momento che l’apoptosi indotta da questi farmaci è incrementata dalla presenza di una proteina p53 normale. In alternativa a tale terapia può essere indicata la somministrazione di tassani poichè questi farmaci inducono l’apoptosi indipendentemente dalla funzione della proteina p53, tramite la fosforilazione delle proteine antiapoptotiche bcl-2/bcl-xL (Haldar et al., 1997). Anche la delezione del gene oncosoppressore che codifica per la proteina p14ARF rende le cellule tumorali resistenti ai farmaci citotossici, mentre la normale espressione del gene CDKN2A aumenta la sensibilità agli inibitori delle topoisomerasi I (Fukuoka et al.,1997). Infine, il prodotto del gene MDR1 è responsabile dei fenomeni di resistenza pleiotropica nei confronti di antracicline, tassani ed alcaloidi della vinca attraverso la glicoproteina P (P-gp), e inibitori di P-gp possono ristabilire la chemiosensibiltà a tali farmaci (van der Kolk et al., 2000). Bcl-2 appartiene ad una famiglia di geni coinvolti nella regolazione dell’apoptosi, ed è noto che le cellule epiteliali esprimono diverse proteine correlate a Bcl-2, tra cui Bax, Bad e Bcl-1. L’espressione dei geni correlati all’apoptosi ha un valore prognostico specifico in alcune patologie neoplastiche; i tumori umani con alti livelli di Bax possono essere sensibili ai tassani a causa dell’aumento della captazione cellulare del farmaco (Strobel et al.,1998), mentre l’esposizione di cellule di tumore mammarico umano MCF-7 all’estradiolo aumenta il rapporto intracallulare tra Bcl-2 e Bax e riduce l’apoptosi indotta da paclitaxel (Huang et al., 1997). I dati riportati dalla letteratura scientifica offrono un quadro semplificato, ma largamente incompleto, delle numerose interazioni tra geni che regolano lo sviluppo della neoplasia e l’effetto dei farmaci antineoplastici, sottolineando l’importanza di indagini genetiche integrate per la selezione dei pazienti oncologici per i quali è indicata la somministrazione di un trattamento chemioterapico.

L’importanza della farmacogenetica nella terapia antitumorale si estende al

metabolismo dei farmaci e alle variabilità individuali che sono alla base delle gravi

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tossicità secondarie alla somministrazione di 5- fluorouracile, 6-mercaptopurina, metotressato, irinotecano, cisplatino ed etoposide. Le risposte tossiche possono essere associate a polimorfismi genetici di diidropirimidina deidrogenasi (DPD), tiopurina S-metiltranferasi (TPMT), 5,10-metilenetetraidrofolato reduttasi (MTHFR),

UDP-glucuronosiltranferasi (UGT), glutatation S-tranferasi (GST), e enzimi del citocromo P 450 (CYT), rispettivamente. La DPD degrada la maggior parte di 5- fluorouracile somministrato ai pazienti; tuttavia, l’attività enzimatica è estremamente variabile, a causa di numerose mutazioni genetiche, tanto che il conseguente deficit di DPD può predisporre a gravi tossicità neurologiche e gastrointestinali (van Kuilemburg et al., 2000). La TPMT inattiva la 6-mercaptopurina e la 6-tioguanina mediante un processo di S-metilazione dell’anello purinico; l’attività enzimatica è generalmente polimorfa e un paziente su 300 è portatore di deficit di TPMT come carattere autosomico recessivo. Pazienti con un genotipo mutato possono incorrere in una neutropenia grave o addirittura mortale se vengono loro somministrate 6- mercaptopurina o 6-tioguania per una leucemia acuta o azatioprina per una terapia immunosoppressiva. Inoltre, il genotipo TPMT può influenzare il rischio di neoplasie secondarie, tra cui i tumori cerebrali e le leucemie acute. Il gene MTHFR è caratterizzato da due alleli comuni, C677T e A1298C e il polimorfismo di MTHFR predispone a gravi tossicità ematologiche durante il trattamento con inibitori della sintesi dei folati, quale il metotressato (Toffoli et al., 2000). Gli enzimi UGT sono divisi in due famiglie, UGT1 e UGT2. Gli studi sull’importanza dei polimorfismi della regione promoter e delle regioni codificanti per questi enzimi nei confronti della tossicità dei farmaci antineoplastici hanno dimostrato una significativa associazione tra le varianti genotipiche UGT1 e le tossicità gravi da irinotecano (Ando et al., 2000).

Gli enzimi della famiglia GST svolgono un ruolo importante nei fenomeni di

detossificazione dei farmaci e sono associati alla resistenza delle cellule tumorali agli

agenti antineoplastici. Il polimorfismo di GST può modificare il rischio di ototossicità

indotta da cisplatino, poichè pazienti portatori dell’allele GSTP3*B sono meno

suscettibili di altri al danno iatrogeno (Peters et al., 2000). Infine, gli isoenzimi CYP

possono influenzare l’effetto della chemioterapia antitumorale attivando i profarmaci

(ad esempio, ifosfamide) e modulando la suscettibilità all’effetto leucemogeno delle

epipodofillotossine. Infatti, il polimorfismo del promoter del gene CYP3A4 è

associato a ridotta produzione dei metabolici catecolici e chinonici delle

epipodofillotossine che sono in grado di danneggiare il DNA. Questo risultato può

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spiegare l’aumento del rischio di leucemia negli individui trattati con etoposide e portatori del genotipo CYP3A4*W rispetto a quello CYP3A4*V (Felix et al., 1998).

1.4 Applicazione della genomica alla ricerca medica

L'introduzione di tecniche di biologia molecolare in ambito oncologico ha contribuito all'identificazione e alla caratterizzazione di vari elementi genetici, come oncogeni, geni oncosoppressori, fattori di crescita e relativi recettori, ai quali è ormai riconosciuto un ruolo molto importante nella genesi e nell'evoluzione delle malattie neoplastiche. Inoltre, l'individuazione e lo studio dei geni coinvolti in diversi tipi di tumori ha consentito di definire nuovi parametri diagnostico-classificativi (Bustin e Dorudi 1998), nonché possibili indicatori prognostici e di risposta o, viceversa, di resistenza alla chemioterapia, che potrebbero essere molto importanti per lo sviluppo di protocolli terapeutici su base genetica (Ramachandran e Melnick 1999).

In particolare, tecnologie emergenti, tra cui la PCR quantitativa (Oldach et al., 1999; Sgroi et al., 1999), offrono nuove strade per identificare l’assetto genetico delle neoplasie e individuare gli eventi molecolari coinvolti nello sviluppo e nella progressione del cancro polmonare e potrebbero essere sfruttate per creare una mappa individuale di chemiosensibilità-chemioresistenza essenziale nel processo di ottimizzazione della terapia sulla base delle caratteristiche genetiche di tale neoplasia.

Queste prospettive implicano che l’approccio tradizionale di combinazione dei farmaci per il trattamento di uno specifico tumore a prescindere dalle sue caratteristiche molecolari, potrà essere abbandonato in futuro a favore di protocolli chemioterapici personalizzati, sulla base del profilo genetico della malattia.

1.4.1 Analisi dell'espressione genica con PCR quantitativa

La maggior parte dei processi implicati nella sopravvivenza, crescita e differenziazione cellulare costituiscono il risultato di particolari condizioni di espressione genica, e la capacità di quantificare i livelli di trascrizione di specifici geni potrebbe fornire importanti informazioni sulle alterazioni responsabili dell'eziologia, della risposta terapeutica e della prognosi di molte patologie (Zamorano et al., 1996).

A tal proposito, i recenti progressi della biologia molecolare hanno portato alla

ideazione di quattro principali metodiche per la quantificazione dei livelli di RNA

messaggero (mRNA): l'analisi Northen blot, che è il corrispettivo del Southern blot

per il DNA, l'ibridazione in situ, lo studio con microarray o chip a DNA e

l'amplificazione con DNA-polimerasi del prodotto di trascrizione inversa o PCR

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quantitativa (Bustin, 2000). Confrontando queste metodiche la PCR quantitativa è l'analisi dotata di maggiore sensibilità e flessibilità poiché permette lo studio contemporaneo di diverse sequenze geniche trascritte nei rispettivi mRNA provenienti da campioni tessutali di minima entità. La PCR permette l'amplificazione di un segmento specifico di DNA a partire da piccolissime quantità di materiale genetico, come quelle presenti in un'unica cellula (Wang, 1999). Le basi teoriche di questo metodo sono estremamente semplici: una sequenza di DNA, dopo denaturazione al calore, viene ibridizzata a specifiche sequenze oligonucleotidiche (primers), che legano i filamenti opposti del DNA e sono orientati con le loro estremità 3' una di fronte all'altra, in modo che per mezzo di una DNA-polimerasi termostabile avvenga la sintesi di una catena di DNA complementare lungo il filamento fra loro interposto (Mullis, 1986). I prodotti di questa reazione diventano i substrati di successivi cicli di denaturazione, ibridazione dei primers e estensione, in un processo a catena che dà origine ad una amplificazione esponenziale della sequenza di DNA inizialmenete presente nel campione.

Con la PCR è possibile amplificare DNA e RNA, previa retrotrascrizione nel

DNA complementare (cDNA). Nei casi in cui si deve amplificare mRNA, per evitare

contaminazione genomica è sufficiente utilizzare primers specifici per frammenti

localizzati su esoni separati da almeno un introne, cosicché l'eventuale prodotto

derivante da DNA genomico abbia una dimensione troppo grande per essere

efficacemente amplificato (Bauer et al., 1997). Per studi di espressione genica il primo

passo è pertanto rappresentato dalla reazione di trascrizione inversa del mRNA in

cDNA. Questa reazione è catalizzata da DNA-polimerasi RNA dipendenti o

trascrittasi inversa derivate geneticamente da retrovirus murini o aviari, come la

retrotrascrittasi del virus della leucemia murina Moloney (Moloney Murine Leukemia

Virus Reverse Transcriptase, MMLV-RT) e la retrotrascrittasi del virus della

mieloblastosi aviaria (Avian Myeloblastosis Virus Reverse Tanscriptase, AMV-RT),

che hanno una funzionalità ottimale intorno ai 37°C. Oltre alla trascrittasi inversa,

nella miscela di reazione, sono presenti anche deossinuceotidi trifosfati, esameri a

sequenza randomizzata, che agiscono da primers aspecifici, e uno specifico tampone a

cui sono aggiunti inibitori delle ribonucleasi che assicurano l'eliminazione di RNAsi

che possono degradare il campione (Zhang e Byrne, 1999). La successiva analisi

dell'espressione genica con la reazione di PCR può esser effettuata con metodiche

semiquantitative o quantitative (Figura 1) (Ferre, 1992). I risultati della PCR

convenzionale sono valutati per mezzo dell'elettroforesi dei prodotti di reazione su un

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gel di agarosio marcato con bromuro di etidio che, intercalandosi alla catene di DNA ne permette la visualizzazione mediante transilluminazione con la luce ultravioletta.

L'acquisizione fotografica di tale immagine permette di effettuare un'analisi densitometrica della banda corrispondente al segmento genico in studio e di esprimere l'espessione genica in rapporto alla densità della banda di un gene di riferimento che viene amplificato nelle medesime condizioni (Sirotnak et al., 2000).

Una variante di questa metodica consiste nell'effettuare una PCR in cui il gene in studio e quello di riferimento competono per gli stessi reagenti, in provette con diluizione seriale note del gene di riferimento (Becker-Andre, 1993). A causa della variabilità esistente nell'efficienza delle reazioni e della complessità e del numero dei passaggi necessari per l'analisi, i risultati di queste metodiche non permettono comunque di ottenere informazioni certe riguardanti la quantificazione dell'espressione genica e diversi autori stimano che l'errore minimo della PCR competitiva sia pari al 10% (Souaze et al.,1996).

Figura 1. Rappresentazione schematica delle procedure sperimentali nella PCR semiquantitativa e quantitativa

Negli ultimi anni l'applicazione delle tecniche di fluorescenza, insieme allo sviluppo di strumenti capaci di effettuare contemporaneamente l'amplificazione,

PC R

Sem iquantitativa Q uantitativa

R eazione di PCR

G el-elettroforesi

A nalisi densitom etrica delle bande

Southern Blot Sequenziam ento

Risultati sem iquantitativi

Reazione di PC R

Risultati quantitativi PC R

Sem iquantitativa Q uantitativa

R eazione di PCR

G el-elettroforesi

A nalisi densitom etrica delle bande

Southern Blot Sequenziam ento

Risultati sem iquantitativi

Reazione di PC R

Risultati quantitativi

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l'acquisizione dei risultati e la quantificazione, ha permesso la realizzazione di metodiche di PCR che permettono di valutare in modo realmente quantitativo l'espressione genica degli acidi nucleici (Orlando et al., 1998). Lo strumento utilizzato in questo studio, l'ABI PRISM 7900 sequence detection system (Perchin Elmer Applyed Byosystem, Forster City, CA, USA), comprende, oltre ad un termociclatore per una piastra di 96 pozzetti, sia un laser Argon a fluorescenza per eccitare i campioni che un sistema di fibre ottiche dirette ad uno spettrofotometro che permettono la risoluzione spettrale della fluorescenza emessa dalla sonde. In questo strumento la reazione di PCR avviene in circa due ore e uno specifico software permette l'analisi immediata dei risultati. Il principio alla base di tale analisi è il seguente: il filamento di cDNA viene denaturato e viene così consentita l'ibridazione dei primers e della specifica sonda TaqMan, che contiene all'estremità 3' e 5' due molecole di colore diverso identificate rispettivamente con i nomi di "Quencer" e

"Reporter" (Figura 2). Quando il "Quencer" è spazialmente vicino al "Reporter" ne inibisce l'emissione di fluorescenza e, se durante la PCR non avviene l'ibridazione con lo specifico frammento di DNA non è registrato nessun fenomeno di emissione di fluorescenza. Viceversa, se durante la fase di estensione del primers la Taq polimerasi che copia il filamento di DNA in senso 3'-5' (foward primer) incontra la sonda legata al DNA, l'enzima, a causa della sua azione nucleasica ne provoca la frammentazione.

In questo modo il "reporter" viene allontanato dal "Quencer" ed è libero di emettere fluorescenza quando è eccitato dalla luce laser (Livak, 1999). I valori della fluorescenza sono registrati durante ogni ciclo ed indicano la quantità di prodotto amplificato dalla reazione, per cui, in presenza di un maggior quantitativo di DNA all'inizio dell'esperimento, è necessario un minor numero di cicli per raggiungere il punto in cui il segnale fluorescente è identificato come statisticamente significativo rispetto al rumore di fondo (Gibson et al., 1996). Questo punto è definito come ciclo soglia ed è sempre presente durante la fase esponenziale della PCR, prima di raggiungere la tipica fase lineare di plateau che è determinata principalmente dalla concentrazione limitante della polimerasi rispetto alle copie di DNA da sintetizzare.

La valutazione del ciclo soglia, che è inversamente proporzionale al logaritmo del

contenuto iniziale di DNA del campione in studio, rappresenta la base dell'analisi

della PCR quantitativa (Higushi et al., 1993). La misura del ciclo soglia registrata per

il DNA in esame può essere infatti confrontata direttamente a quella ottenuta in scale

di calibrazione realizzate con concentrazioni note del campione durante le procedure

di validazione della metodica. Oltre a tali metodi di quantificazione, per ridurre gli

(17)

errori dovuti alla varietà del materiale da analizzare e paragonare profili di espressione genica di campioni provenienti da vari pazienti è possibile amplificare, contemporaneamente al gene in studio, anche una porzione di gene di riferimento che può essere usato come controllo per la normalizzazione dei risultati.

Il gene di controllo ideale dovrebbe essere espresso ad un livello costante nei diversi tessuti dell'organismo, in tutte le fasi dello sviluppo, e non dovrebbe essere modificato da eventuali trattamenti sperimentali. Per esempio, per l'analisi di cellule e tessuti di carcinoma polmonare non a piccole cellule Minamya et al. (2004) hanno utilizzato il gene che codifica per la gliceraldeide-3-fosfato deidrogenasi (GAPDH), che in questi modelli sperimentali è espresso in modo costante nelle varie fasi di crescita cellulare.

Figura 2. Rappresentazione schematica della reazione alla base della PCR quantitativa con sonda TaqMan

Sonda TaqMan

5’

3’

5’ 5’

3’

5’

Primer senso

Primer antisenso R

Q

5’

3’

5’

5’

3’

5’

Q

5’

3’

5’

5’

3’

5’

R Q

Ibridazione e polimerizzazione

Distacco della sonda dal filamento di DNA

Rottura della sonda ed emissione di fluorescenza R

Sonda TaqMan

5’

3’

5’ 5’

3’

5’

Primer senso

Primer antisenso R

Q

5’

3’

5’

5’

3’

5’

Q

5’

3’

5’

5’

3’

5’

R Q

5’

3’

5’

5’

3’

5’

R Q

Ibridazione e polimerizzazione

Distacco della sonda dal filamento di DNA

Rottura della sonda ed emissione di fluorescenza

R

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1.4.2 Ideazione di protocolli chemioterapici su base genetica L’evoluzione delle tecniche diagnostiche promossa dagli studi di farmacogenetica e farmacogenomica racchiude in sé notevoli potenzialità anche per quanto concerne l’ideazione di nuovi protocolli terapeutici. In quelle patologie in cui al momento attuale l’indirizzo farmacologico è scelto in base a criteri empirici, come ad esempio il cancro, l’ausilio di queste discipline potrebbe sovvertire completamente la strategia di trattamento. In oncologia vengono normalmente scelti regimi terapeutici che abbiano dimostrato efficacia in studi clinici, ma i risultati sono spesso imprevedibili dal momento che la selezione avviene su base empirica.

Identificando i geni implicati nella risposta ai farmaci sarà possibile predisporre delle mappe di chemiosensibilità- chemioresistenza per ciascun paziente, nell’ottica di approntare di volta in volta terapie antitumorali basate sulle caratteristiche genetiche del paziente e della sua neoplasia (Figura 3).

Figura 3. Algoritmo dei protocolli chemioterapici

In questo modo sarà forse possibile incrementare la percentuale di successo delle chemioterapie e, allo stesso tempo, ridurre il fenomeno della comparsa di tossicità.

Osservazione della tollerabilità- tossicità del trattamento

Diagnosi di tumore

Presente Futuro?

Ricaduta- refrattarietà

Terapia di seconda linea

Risultato clinico

Scelta della combinazione chemioterapica Probabilità di tossicità

Analisi degli acidi nucleici del paziente Probabilità di risposta Analisi degli acidi nucleici del tumore Trattamento di prima linea

Osservazione della tollerabilità- tossicità del trattamento

Diagnosi di tumore

Presente Futuro?

Ricaduta- refrattarietà

Terapia di seconda linea

Risultato clinico

Scelta della combinazione chemioterapica Probabilità di tossicità

Analisi degli acidi nucleici del paziente

Probabilità di risposta

Analisi degli acidi nucleici del tumore

Trattamento di prima linea

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