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380/2018 Mostri e altri animali

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380

dicembre 2018

Mostri e altri animali

Premessa 3

Massimo Filippi Tra un fasmide e un axolotl.

La moltiplicazione dei mostri pallidi

e la guerra sulla vita informe 11 Alessandro Dal Lago Attrazioni letali.

Le passioni reciproche di mostri e umani 30 Tommaso Braccini Appunti su Lamia:

per il ritratto di un mostro 51

Benedetta Piazzesi “Dans des voies insolites.”

Il mostro zootecnico nella prima metà

dell’Ottocento 65

Serena Giordano Etologia dell’arte.

Artisti e altri animali 83

Marcello Faletra Mostri in cornice.

Arte e teratologia 105

Federica Timeto Donna Haraway e la teratotropìa

degli altri in/appropriati 127

Marco Reggio A quattro zampe. Note su

animalizzazione, disabilità e colonialismo 140 Enrico Monacelli La risurrezione della carne.

L’orrore e la gioia della morte vivente 156 CONTRIBUTI

Diana Napoli La perdita dell’Eldorado:

V.S. Naipaul 171

Laura Sanò Guerra e società. Tra Marx e Vernant 189

(2)

rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti

redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Mauro Bertani, Graziella Berto, Beatrice Bonato, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Alessandro Di Grazia, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Andrea Muni, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Stefano Tieri, Carla Troilo, Davide Zoletto

direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com

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: 0005-0601

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Finito di stampare nel dicembre 2018

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3

aut aut, 380, 2018, 3-10

Premessa

I n quella che è considerata da molti una del- le massime espressioni del razionalismo no- vecentesco, la filosofia scientista di sir Karl Popper, gli oggetti del discorso filosofico sono distinti in tre mondi: la natura o mondo fisico (Uno), la psiche o soggettivi- tà (Due), i prodotti dello spirito o cultura (Tre).

1

Rispetto alla classica tripartizione metafisica (Dio, uomo e mondo),

2

uomo e mondo sono rimasti, mentre Dio è uscito di scena, sostituito dai prodotti dell’ingegno umano, quali il linguaggio, il sapere scien- tifico, le religioni ecc. L’esempio preferito da Popper e dai suoi seguaci per chiarire la differenza tra questi tre mondi è, inevita- bilmente, un libro. Questo, infatti, è al contempo un oggetto fi- sico, un prodotto del pensiero, ovvero della soggettività umana, e un medium di contenuti trasmissibili attraverso il linguaggio.

La teoria dei tre mondi, elaborata dall’ultimo Popper, ha sempre deliziato i razionalisti, convinti – in fondo – che il sapere con- sista nel descrivere il mondo esterno, a partire dalle nobili fun- zioni della ragione, e nel comunicare analisi e descrizioni al re- sto dell’umanità, magari nella forma di un saggio o, meglio an- cora, di un articolo scientifico, scritto preferibilmente in inglese

1. K. Popper, I tre mondi, Corpi, opinioni e oggetti del pensiero (1978), il Mulino, Bologna 2012.

2. Su questo rimandiamo al classico K. Löwith, Dio, uomo e mondo nella metafisica da

Cartesio a Nietzsche (1967), Donzelli, Roma 2018.

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e pubblicato da una rivista che applichi rigorosamente il sistema della peer review.

Tutto ciò è semplice e convincente (simplex sigillum veri!).

Tuttavia, si ha spesso la sensazione che qualcosa (o qualcuno) sia sfuggito all’analisi di sir Karl Popper. Per cominciare, il mondo Uno (quello fisico o naturale) non è solo oggetto della scienza, che lo conosce nelle sue unità elementari – a partire dalla sfe- ra statistica dei quanti e dalle particelle subatomiche e atomi- che per “risalire” a molecole, cellule, organi, organismi, specie ecc. –, ma anche la sede di una sorta di soggettività, intenziona- le o meno che sia. Tormentati troppo a lungo dal calore ecces- sivo prodotto dall’umanità – soprattutto quella occidentale –, i ghiacciai si sciolgono: il livello dei mari si innalza, le barriere co- ralline scompaiono, le foreste scendono a valle, i fiumi esonda- no, travolgendo i malcapitati abitanti rivieraschi (umani e non umani)… Insomma, la natura pare vendicarsi delle offese subi- te, inducendoci a pensare che sia dotata non solo di mente, co- me pensava Bateson, ma anche di una sorta di moralità risentita, come suggeriscono, tra gli altri, Danowski e Viveiros de Castro.

3

E che dire poi dei viventi che la popolano? Sono semplici og- getti della ricerca o, come si comincia sempre più a ritenere, abi- tanti a tutti gli effetti della Terra che, come noi, sentono, soffro- no e pensano?

4

Questo è sempre stato perfettamente chiaro ad alcuni sparuti anticipatori, da Plutarco a Piero Martinetti, che hanno scritto pagine memorabili sulla coscienza degli animali.

5

3. E. Danowski, E. Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine (2014), Nottetempo, Roma 2017.

4. Al riguardo, cfr. C. Safina, Al di là delle parole (2015), Adelphi, Milano 2018. Ma si consideri anche la serie di domande, che ricapitolano l’intera storia della metafisica oc- cidentale, provocatoriamente elencate da Jacques Derrida in L’animale che dunque sono (Jaca Book, Milano 2006, p. 105): “‘L’animale sogna?’ […] ‘l’animale pensa?’, ‘l’animale ha delle rappresentazioni?’, un ‘io’, un’immaginazione, un rapporto all’avvenire in quan- to tale? L’animale possiede solo dei segni o un linguaggio, e quale? L’animale muore? Ri- de? Piange? Sente il lutto? Si annoia? Mente? Perdona? Canta? Inventa? Inventa musica?

Suona musica? Gioca? Offre ospitalità? Offre? Dona? Possiede le mani? Occhi, ecc.? Il pudore? Dei vestiti? Lo specchio?...”.

5. P. Martinetti, “La psiche degli animali”, in Pietà verso gli animali, Il Nuovo Melan-

golo, Genova 1999. Ma si leggano anche le pagine di Plutarco in L’intelligenza degli anima-

li, Il Nuovo Melangolo, Genova 2011.

(5)

5

Ed è divenuto certezza indubitabile in quelle tendenze della ri- cerca biologica in cui non si pretende di applicare ai mondi ani- mali la nostra razionalità (con i suoi metodi straordinari, certo, ma anche con i suoi pregiudizi ancestrali e la sua inesorabile ca- rica di violenza epistemica e materiale), e si tenta, invece, di im- maginare e poi di conoscere altre forme di ragione, di consape- volezza e di psiche – diciamo sia dei nostri amati cani e gatti, sia di esseri che non frequentiamo con analoga assiduità, quali ele- fanti, lupi e orche, ma anche scarafaggi, blatte, zecche…

Che la soggettività umana non possa essere ristretta, car- tesianamente, alle sue funzioni cognitive è fin troppo ovvio, a cent’anni e più dalla fondazione della psicoanalisi – e a cento- cinquanta, ormai, dalle peregrinazioni filosofiche di Nietzsche.

Ma dove la teoria popperiana dei tre mondi sembra francamen- te esile, troppo esile, è nell’analisi del mondo Tre. Si ha spesso l’impressione che, al di là dei meravigliosi prodotti dello spirito nei suoi momenti più fulgidi (scienza, filosofia, letteratura ecc.), Popper considerasse la cultura come una sorta di ingombro, una dimensione che, sì, esiste, ma che è in sostanza la somma finale di un numero incalcolabile di errori, deviazioni, illusioni, fanta- sticherie, e persino perversioni. Quando, poco prima di morire, condusse la sua inane battaglia contro la televisione, perché cor- rompeva la mente infantile, probabilmente non aveva compreso la natura di quella componente essenziale del mondo Tre che è il sistema mediale che, oggi più che mai, insieme a quello economi- co-poltico, domina i mondi Uno e Due.

6

Noi esseri umani, imperfetti, irrazionali e divagatori abitiamo i tre mondi e molti altri, transitando da uno all’altro senza solu- zione di continuità. Quelli che Popper riteneva errori del pen- siero sono, in realtà, parti essenziali della nostra immaginazione.

Newton, fino all’avvento di Einstein supremo regolatore del mo- to degli astri, credeva fermamente nella ricerca della pietra filo- sofale – il che significa che non gli bastava conoscere il mondo, ma voleva trasformarne la natura più intima. Meno di due secoli

6. K. Popper, Cattiva maestra televisione (1994), Marsilio, Padova 2002.

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prima, Ambroise Paré, padre della moderna chirurgia, scrisse un trattato sui mostri come risultato di pratiche sataniche. Due se- coli dopo, Freud combinò, in buona fede, pasticci scientifici con la cocaina. E che dire di tutti gli scienziati che hanno preso so- lenni cantonate, non solo in campo politico (dove è abbastanza facile), ma anche nei loro specifici settori di indagine? Una sto- ria degli errori scientifici è persino più affascinante della storia istituzionale della scienza, perché ci mostra che, al di là di meto- di, linguaggi e simboli scientifici – ormai impenetrabili per i pro- fani –, il sapere si alimenta alle stesse sorgenti a cui ci abbeveria- mo anche noi, donne e uomini qualunque, soggetti a errori e il- lusioni.

Tra gli aspetti che Popper non ha preso in considerazione, i fantasmi occupano una posizione di privilegio. Non stiamo par- lando dei fantasmi freudiani, che hanno a che fare con l’incon- scio – che è sempre un linguaggio, almeno stando a quanto as- serisce Lacan –, e nemmeno di quelle creazioni letterarie con cui Maupassant, Mérimée, E.T.A. Hoffman, Henry James e, in se- guito, Lovecraft e tanti altri dopo di lui hanno fatto rabbrividire i lettori, deliziandoli. Stiamo parlando, invece, di fantasmi con- creti, reali e ingombranti, fantasmi noti con il nome di mostri.

Con questo termine, con cui gli antichi designavano i portenti e le epifanie del divino, da un certo punto in poi si sono etichetta- te tutte quelle forme di vita, reali e immaginarie, che si poneva- no all’intersezione di mondi naturali e mondi culturali: centauri, idre, draghi, orchi, cefalopodi giganti, abominevoli uomini delle nevi, ma anche androgini, gemelli indivisi, uomini-elefanti, don- ne-gallina, Veneri della savana

7

e tutti quegli altri e innumerevo- li “scherzi di natura” che erano posti davanti all’alternativa tra essere sfruttati, messi a morte e annientati o essere esibiti in cir- chi, fiere e baracconi. Se i mostri mitologici sono, in senso stret- to, contraffazioni culturali più o meno innocenti, i mostri uma-

7. Ci riferiamo qui allo straordinario film di A. Kechiche, Venere nera, in cui razzismo,

scientismo e società dello spettacolo si alleano nella messa in scena e nello sfruttamento –

in vita e dopo la morte – di una donna-mostro.

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7

ni rappresentano l’oscura pulsione collettiva alla celebrazione di ciò che si teme e perciò si odia. Nemici immaginari, e nondimeno concreti, gli “scherzi di natura” d’antan assillano oggi il nostro orizzonte nella forma del Nemico pubblico e nelle sue proteifor- mi astrazioni (quanto mai) reali: lo Straniero, l’Invasore, l’Islami- co, la Bestia che raspa alla porta…

Ma l’insostenibile leggerezza della proposta classificato- ria popperiana non si ferma qui, poiché è la stessa divisione del mondo in soli tre mondi che ormai sembra davvero poco credi- bile. Se è certo, infatti, che noi umani, come già detto, abitiamo almeno tutti e tre i mondi di Popper, altrettanto certo è che an- che gli animali, volenti o nolenti, non smettono di attraversarli da parte a parte. Volenti perché, innegabilmente, hanno un cor- po (Uno), ma sono anche dotati – che ci piaccia o meno – di psi- che e soggettività (Due) e, quindi, sono in grado di produrre cul- ture (Tre). Perché, come insegnano Deleuze e Guattari, disfacen- do la loro stessa classificazione – e, ovviamente, anche quella di Popper –, tutti gli animali, perfino quelli “edipici” e quelli “di Stato”, sono “demoniaci”, sorta di sciamani “che formano mute e provano affetti, che creano molteplicità, divenire, popolazione, racconto...”.

8

Nolenti perché ridotti a mera natura – a ben pen- sarci, anche gli animali, come molti appartenenti alla specie Ho- mo sapiens, sono incessantemente sottoposti a pratiche di anima- lizzazione – e perché le loro soggettività psichiche e le loro cul- ture sono negate, rese invisibili o ridicolizzate. Perché, infine, la combinazione tra questa reificazione e questa negazione – che si sostengono a vicenda, moltiplicandosi a dismisura – li hanno re- si prodotti mostruosi del “nostro” spirito e della “nostra” cul- tura. A quale mondo appartengono, per esempio, gli ibridi mu- tanti dell’ingegneria genetica o i corpi violati e deformi dei non umani degli allevamenti intensivi? Al mondo Uno, non vi è dub- bio. Ma anche al mondo Due, se la psiche e la soggettività di co- sì tanti umani è sempre più assillata dalle loro non-vite e dalla lo-

8. G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia (1980), Castelvecchi,

Roma 2003, pp. 342-343.

(8)

ro messa a morte industriale. E, senza alcun dubbio, al mondo Tre. Tanto che oggi, ci pare, l’oncotopo o il broiler hanno assunto il ruolo che Popper assegnava al libro.

Georges Canguilhem e Michel Foucault, più e meglio di al- tri, hanno descritto l’evoluzione dei mostri da “scherzi di natu- ra” a oggetti di indagine, classificazione e quindi uccisione, non più rituale, ma scientifica, fredda, imparziale. E sempre loro, for- se senza averne piena consapevolezza o senza portare alle estre- me conseguenze il loro discorso, hanno mostrato quanto la storia dei mostri e quella degli animali (non umani e umani animaliz- zati) siano andate progressivamente convergendo fino a rendersi in qualche modo indistinguibili. E, come si è accennato in prece- denza, quello che è successo dopo Canguilhem e Foucault è sta- ta la moltiplicazione del mostruoso nella vita di ogni giorno: da una parte l’inflazione immaginaria di mostri nel linguaggio quo- tidiano, giornalistico e mediale – l’etichettamento animalizzante di qualsiasi essere imprevedibile o sconosciuto – e dall’altra l’in- flazione materiale di mostri animali prodotti dall’“allevamento su una scala demografica che non ha eguali nel passato” dalla

“sperimentazione genetica”, dall’“industrializzazione di ciò che si può chiamare la produzione alimentare della carne animale” e da “tutte le altre finalizzazioni intese al servizio […] di un sup- posto benessere umano dell’uomo”.

9

Fino all’incrocio, per me- tà grottesco e per metà terribile, di queste due inflazioni paral- lele: ormai basta che un povero pesce dotato di denti aguzzi sia pescato al largo delle coste americane perché si evochino mo- stri degli abissi. Basta che alcuni smanettatori ingegnosi montino un video con un ragno che si arrampica sulla facciata di un con- dominio per scatenare la paranoia nelle periferie di Milano, Los Angeles, Singapore o Nairobi.

La difficoltà, nel mondo globalizzato, di definire chi sono i profittatori e gli sfruttatori, di conoscere le loro facce e, soprat- tutto, i loro profitti, induce gli stessi sfruttati, insieme a frustrati di ogni genere, uomini della strada e frequentatori di social net-

9. J. Derrida, L’animale che dunque sono, cit., p. 64.

(9)

9

work a immaginare complotti mostruosi orditi alle loro spalle, avvelenamenti di pozzi, vaccini letali, pandemie microbiche, or- ge sataniche nei piani alti delle multinazionali… I mostri sono tra noi. In un modo o nell’altro, nel bene o nel male, siamo di- ventati tutti mostri. E animali, se vogliamo dar credito alla nar- razione scientifica – una storia che, come tutte le storie degne di questo nome, è popolata da mostri incantevoli (quelli del- le Galápagos) e inquietanti (quelli degli allevamenti dell’Impero britannico) – che ci ha raccontato sir Charles Darwin.

Alle fondamentali, ma ignorate, esclusioni di animali reali e

immaginari dai mondi Uno, Due e Tre è dedicato questo numero

di “aut aut”. I testi che seguono cercano di analizzare, da diver-

se prospettive e ricorrendo a differenti strumenti, la convergenza

di animalità e mostruosità che abbiamo richiamato in queste pa-

gine. Alessandro Dal Lago e Massimo Filippi riflettono sull’idea

di mostruosità, indicando come la supposta differenza tra reale e

irreale, materiale e immaginario venga a cadere: al pari della “na-

tura”, la storia e la società producono incessantemente mostri, in

quanto nutrono le ossessioni dell’umanità, la sua tendenza, già

ricordata, a creare e ricreare ciò che la turba. Una creazione che

si disperde in classificazioni, suddivisioni, incorniciamenti, in

cui si rende manifesta la volontà disperata di dominare ciò che si

crea. Tommaso Braccini rintraccia le origini di un mostro femmi-

nile, un essere insieme affascinante e pericoloso, nella mitologia

greca. Benedetta Piazzesi individua nella biologia e nella medici-

na del primo Ottocento l’inclinazione della scienza moderna per

lo sfruttamento zootecnico della teratologia. Serena Giordano ri-

flette sull’uso spesso inconsapevole, se non ottusamente utilita-

ristico, dell’animalità nell’arte contemporanea. Marcello Faletra

analizza, sulla scorta della riflessione estetica, la trasformazione

della mostruosità nell’arte moderna, dalla pittura di Velàzquez

alle installazioni di alcuni artisti odierni. Federica Timeto sotto-

linea come la mostruosità attraversi, mettendole in crisi, catego-

rie tradizionali, come quelle di specie e di genere, su cui la nostra

cultura ha edificato la rassicurante percezione di sé. Marco Reg-

gio discute, prendendo in esame un caso letterario, la mostruo-

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sità come intersezione problematica tra animalità e umanità. In- fine, Enrico Monacelli, partendo questa volta da un film, riflet- te sull’analogia che accomuna non-morti e neri, sull’esclusione radicale dell’Altro su cui si fondano sia il razzismo che lo speci- smo. In questo modo il cerchio sociale in cui si muovono anima- li e mostri si chiude con lo stesso gesto con cui un cacciatore uc- cide la sua preda in un bosco e un poliziotto fredda il suo “nemi- co” nelle strade di una qualunque cittadina americana.

Con questo numero, “aut aut” affronta alcuni aspetti decisi-

vi, e al tempo stesso tenuti saldamente ai margini, della filosofia

del vivente nei suoi rapporti con i saperi, l’esercizio del potere, la

storia e la società. Ci auguriamo che le riflessioni qui contenute

stimolino ulteriori contributi. [A.D.L., M.F.]

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11

aut aut, 380, 2018, 11-29

Tra un fasmide e un axolotl.

La moltiplicazione dei mostri pallidi e la guerra sulla vita informe

MASSIMO FILIPPI

L’animale mi apre una profondità che mi attira e che mi è familiare.

Questa profondità, in un certo senso, io la conosco: è la mia. È anche ciò che mi è sottratto dalla più remota lontananza, ciò che merita questo nome di profondità che significa precisamente ciò che mi sfugge.

G. Bataille, Teoria della religione

1

1. Didi-Huberman apre il suo tributo al- la potenza conoscitiva delle “minute co- se apparenti”

2

con un saggio intitolato Il paradosso del fasmide, in cui racconta cosa ha provato nel corso di una visita al Jardin des plantes di Parigi. Di fronte alle vetri- ne espositive del vivario, dove il mimetismo degli animali si co- niuga con la scenografia naturalistica degli allestitori per produr- re un’invisibilità più o meno parziale, lo spettatore si trova im- pegnato in un’attività ben poco praticata nella vita quotidiana:

“Il gioco consiste [...] nello scovare il prigioniero, nel distinguere l’animale”.

3

Questo gioco – ma è davvero possibile giocare con un prigioniero? – ha quasi sempre un esito scontato: riconoscia- mo questo o quell’esemplare di questa o di quella specie,

4

aiuta- ti anche dai “cartelli [che] servono [...] a tranquillizzarci”.

5

Sì, a tranquillizzarci, perché quando gli animali agiscono la loro invi- sibilità, eludendo l’invisibilizzazione dello sguardo addomestica-

Massimo Filippi, professore ordinario di Neurologia presso l’Università “Vita e Salute” di Milano, è autore di diversi volumi sulla questione animale affrontata da un punto di vista filosofico e politico.

1. G. Bataille, Teoria della religione (1973),

SE

, Milano 2002, p. 24.

2. G. Didi-Huberman, La conoscenza accidentale. Apparizione e sparizione delle imma- gini (1998), Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 13.

3. Ivi, p. 20.

4. Per questo ha ragione Berger ad affermare che “in uno zoo la visione è sempre difet- tosa. Come una fotografia non a fuoco” (J. Berger, “Perché guardare gli animali?”, in Sul guardare [1980], Bruno Mondadori, Milano 2003, p. 25).

5. G. Didi-Huberman, La conoscenza accidentale, cit., p. 20.

(12)

to dalla norma antropocentrica, scatenano “il terrore più squisi- to, il terrore del dissimile”.

6

È proprio questo terrore indissociabile dalla fascinazione che investe Didi-Huberman di fronte alle teche in cui sono rinchiu- si i fasmidi, insetti che non si limitano “a riprodurre una caratte- ristica particolare” dell’ambiente in cui vivono, ma che hanno fat- to del loro corpo “lo scenario in cui nascondersi”.

7

“Il fasmide”, prosegue Didi-Huberman, “è ciò in cui [...] abita”, “è ramo, talea, frasca, cespuglio”, “la corteccia e l’albero”, “la spina, lo stelo e il rizoma”.

8

Il fasmide suscita orrore perché “appartiene a un ordine biologico di cui rifiuta ogni forma”, perché, privo di capo, di coda e, soprattutto, di volto, “infrange la gerarchia che qualsiasi imita- zione esige”, perché, annullando una delle più resistenti dicotomie (più che) biologiche – quella tra individuo e ambiente, tra dentro e fuori – e facendosi riconoscere come “animale”,

9

“evoca il lato nascosto [...] del mondo visibile”,

10

dislocando la nostra prospetti- va unidirezionale di sguardo e rendendoci in tal modo incapaci di continuare a credere nella favola dell’“animale in sé”.

11

Seguendo Derrida, in esperienze di questo tipo – che possono realizzarsi anche nell’incontro con un gatto o una gatta –, la pa- rola “l’animale” si mostra per quello che è: un “singolare colletti- vo” carico di violenza epistemica e materiale. In queste esperien- ze gli animali, almeno per un momento, accedono alla sfera del- la visibilità e si riprendono la capacità di “rispondere”, facendo così “vacillare i limiti sulla linea di frontiera tra bios e zoe, biolo- gico, zoologico e antropologico, come tra vita e morte, tra vita e tecnica, vita e storia”.

12

“L’animale è lì prima di me, è lì presso di me, lì davanti a me – che lo seguo/sono dopo di lui. E dunque, essendo prima di me, eccolo dietro di me. Mi circonda.”

13

6. Ivi, p. 19.

7. Ivi, pp. 22-23.

8. Ivi, p. 23.

9. Ibidem.

10. Ivi, p. 19.

11. Ivi, p. 23.

12. J. Derrida, L’animale che dunque sono (2006), Jaca Book, Milano 2006, p. 62.

13. Ivi, p. 47.

(13)

13

Il fasmide – ma questo, a ben guardare, vale per tutti gli ani- mali – è un mostro. Di più: è un mostro composto da altri mo- stri perché si situa a metà strada tra un A Bao A Qu invertito, un borametz capovolto e un hidebehind.

14

E, come tutti i mostri degni di questo nome, con la sua inusitata capacità di apparire scomparendo e di scomparire apparendo, è pronto a divorare la comfort zone delle categorie umaniste che proliferano nelle serre, sui globi e dentro le cupole del “continente dell’uomo”.

15

2. Anche una breve scorsa ai bestiari di tutti i tempi – da quelli antichi e medievali a quelli contemporanei dell’ingegneria geneti- ca – permette di individuare, al di là dei differenti periodi storici e delle differenti congiunture culturali, le tipologie secondo cui l’animalità mostruosa è stata declinata. Se la più frequente (che, pertanto, definiremo classica) mescola parti di animali apparte- nenti a due o più specie, almeno altre sei forme di ibridazione si affiancano a questa: i) la radicale, che combina mondo animale e mondo vegetale; ii) la teologica, che conferisce caratteristiche animali alle manifestazioni corporee del divino; iii) l’ambientale, che sposta gli animali, senza modificarne il fenotipo, in ecologie aliene; iv) la moderata, che si limita a moltiplicare o a sottrarre parti del corpo (per esempio, la testa, gli occhi, le chiostre dentarie o gli arti), a ingrandire o a miniaturizzare gli organismi (per il resto

“normali”), a modificare le proporzioni relative dei vari organi o a cambiarne un solo aspetto (per esempio, sostituendo le pinne con gli arti); v) la macchinica, che va dagli automi cartesiani a Dolly, passando per le creature di Bosch, Bruegel e Arcimboldi, e gli ani- mali della zootecnia; e vi) l’estrema, che si risolve nell’indistinzione

14. Questi animali sono alcuni dei protagonisti del Manuale di zoologia fantastica (1957) di J.L. Borges e M. Guerrero, Einaudi, Torino 1979. L’A Bao A Qu “vive in stato letargico” e “fruisce di vita cosciente” (p. 16) quando entra in rapporto con gli umani (in questo senso il fasmide è il suo inverso, conferendo vita cosciente agli umani con cui si re- laziona). Il borametz (p. 45) “è una pianta che ha forma d’agnello”, a differenza del fasmi- de che è un insetto che ha forma di albero, ma che comunque combina anch’esso “il regno animale e il vegetale”. L’hidebehind è un animale che “per quanti giri un uomo faccia, [...]

gli sta sempre alle spalle” (p. 72), sottraendosi così al presunto rigore scientifico della visi- bilità frontale, che anche il fasmide revoca in questione.

15. W. Benjamin, “Franz Kafka”, in Angelus Novus (1955), Einaudi, Torino 1981, p. 286.

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Attrazioni letali. Le passioni reciproche di mostri e umani

ALESSANDRO DAL LAGO

Un terrificante mostro del passato che scatena le sue passioni represse…

ogni uomo è il suo mortale nemico… e la bellezza femminile la sua preda!

Dal trailer originale del film Creature from the Black Lagoon, 1954

Il fascino dei mostri

Si sa che in natura i mostri per lo più non esistono o comunque sono solo variazioni marginali di fenotipi. Secondo S.J. Gould,

“l’evoluzione si manifesta nelle imperfezioni”.

1

È lo scarto di un essere, reale o fantastico che sia, da una norma culturale, e quindi dalle abitudini percettive e cognitive che ne discendono, a farci definire “mostri”, “scherzi di natura”, “esseri abnormi” ecc.

forme viventi insolite o sconosciute. Mentre la scienza antica, da Aristotele a Varrone, considerava mostri gli esseri contro natura, cioè difformi da chi li aveva generati,

2

Agostino contesta l’idea di mostro, attribuendola all’incapacità umana di comprendere i fini ultimi della creazione.

Proprio questo accade agli uomini meno colti, che per la loro mente debole non sono capaci di comprendere e considerare l’ordine e l’armonia dell’universo. Se qualcosa li urta, perché è troppo grande per la loro intelligenza, pensano che nelle cose sia presente una grande perversione.

3

Tante creature singolari vivrebbero la loro esistenza non proble- matica, negli abissi marini o nei retrobottega della nostra imma-

1. Cfr. S.J. Gould, Quando i cavalli avevano le dita. Misteri e stranezze della natura, Fel- trinelli, Milano 1989, p. 261.

2. Così Aristotele, De generatione animalium,

IV

4.

3. Agostino, De ordine,

I

1 2. La pensa allo stesso modo Isidoro di Siviglia: “Un por-

tento, dunque, si dà non contro natura, ma contro la natura conosciuta” (Isidori hispalen-

sis episcopi Etymologiarum sive Originum libri

XX

, libro

XI

, 2, Oxford 1911; trad. a cura di

A. Valastro Canale, Etimologie o origini,

UTET

, Torino 2004, vol.

I

, p. 923).

(15)

31

ginazione, se le culture umane non manifestassero una tendenza universale a farne degli idoli all’incontrario, trasformandole in mostri o incubi. Come dice Canguilhem, “la vita è povera di mostri, mentre il fantastico ne è pieno”.

4

Moby Dick, se andiamo al di là delle interpretazioni metaforiche del romanzo di Melville, per lo più centrate sul mito americano dell’oceano come frontiera e della contesa dell’uomo con le sue ossessioni, è solo un cetaceo che cerca di difendere il suo habitat e, forse, la sua prole dai feroci predatori umani. Allo stesso modo le orche (Orcinus orca), che film dozzinali ci presentano nelle vesti di assassini feroci, sono esseri socievoli e intelligentissimi che soffrono orribilmente in cattività, come tutti gli animali costretti a esibirsi davanti all’uomo. Il fatto che si cibi- no di altri esseri viventi, mammiferi e non (megattere, capodogli, salmoni ecc.), è abituale in natura e non ne fa certo delle eccezioni, ma delle creature che occupano il loro posto nell’ecologia marina (tra l’altro, contrariamente alle leggende, non si conoscono casi di aggressioni di orche all’uomo).

5

Nella produzione culturale della mostruosità, le diverse spe- cie, reali e immaginarie, si collocano in una serie continua. Se i mostri, marini e terrestri, sono umanizzati in quanto assassi- ni, minacce, incarnazioni della malvagità assoluta (come la tigre Shere Kahn, in Il libro della giunga di Kipling) – e hanno ovvia- mente come antagonisti gli animali buoni, miti, materni e pater- ni, insomma uguali a noi –,

6

gli esseri umani fuori norma sono animalizzati. Moby Dick è un mostro perché le sue dimensio- ni eccedono quelle delle balene comuni, e poi perché è insolita- mente bianca, oltre che implacabile. D’altra parte, i vampiri e i

4. G. Canguilhem, “La mostruosità e il portentoso”, in La conoscenza della vita, il Mu- lino, Bologna 1976, p. 242 (trad. modificata).

5. Su questi e altri esseri viventi dotati di un pensiero originale, cfr. C. Safina, Al di là delle parole, Adelphi, Milano 2018. Questo libro è fondamentale perché, al di là delle ric- che analisi del comportamento di altri viventi, mette in discussione la pretesa umana di comprendere, in base alle proprie categorie, il pensiero animale. Ma cfr. anche le incursio- ni di Oliver Sacks nell’etologia comparata: O. Sacks., Il fiume della coscienza, Adelphi, Mi- lano 2018.

6. Nella categoria degli animali come noi o degli uomini-scimmia rientrano anche i casi

di anacronismo letterario. Cfr. per esempio R. Lewis, Il più grande uomo scimmia del Plei-

stocene, Adelphi, Milano 2001.

(16)

lupi mannari sono umani ridotti a bestie o semi-bestie (nell’am- bigua forma di uomini-pipistrelli o uomini-lupi) perché vittime di maledizioni ancestrali, subordinazioni sataniche o colpe eredi- tate dai progenitori. In ogni caso, mostri marini o terrestri e mo- stri semi-umani sono gli estremi di una serie che vanta un gran numero di figure intermedie e anche diramazioni e sottogruppi più o meno innocenti. Nel catalogo di zoologia fantastica compi- lato da Jorge Luis Borges e Margarita Guerrero compaiono in- fatti, accanto al minotauro o al kraken, un mostro nordico degli abissi, anche l’ippogrifo, la lepre lunare e così via.

7

Ciò che conta, comunque, è che caratteristica principale dei mostri è di essere largamente proiettivi, dei predicati cultura- li. Poiché di fatto non esistono in natura, dovremo cercare il lo- ro significato nelle pratiche, complesse e spesso prive di un sen- so dichiarato o preciso, grazie alle quali vengono creati, porta- ti alla luce e riprodotti all’infinito, acquistando con ciò un ruo- lo in quello che gli antropologi del XX secolo avrebbero chiama- to “immaginario collettivo” – e che oggi sarebbe meglio definire

“repertorio simbolico e linguistico” di un’umanità globalizzata.

Tanto per intendersi, gli orchi contemporanei, che fanno la parte dei cattivi nel cinema fantasy (come nella saga di Il signore degli anelli) non sono quelli di Perrault, né tantomeno di Basile, anche se le loro versioni più diffuse si rifanno consapevolmente o no a una tradizione folclorica rielaborata dai favolisti tra XVII e XIX

secolo.

8

Per avere un’idea di questi processi di costruzione ed evoluzione storico-culturale dei mostri si deve tornare proprio al

7. J.L. Borges, M. Guerrero, Manuale di zoologia fantastica, Einaudi, Torino 2015

4

. Una fonte di questo testo è il manuale altomedioevale Liber Monstrorum de diversis gene- ribus (

IX

secolo), compilato in latino in ambiente anglosassone. L’elenco degli esseri mo- struosi (etiopi, donne barbute, divoratori di uomini, arpie, minotauri, mangiatori di carne cruda ecc.) ha senz’altro entusiasmato Borges e, immaginiamo, Michel Foucault. Si veda Liber monstrorum, a cura di F. Porsia, Liguori, Napoli 2012. Per un panorama aggiorna- to dei mostri medievali, della loro origine ecc. cfr. R. Simek, Monster im Mittelalter. Die phantastische Welt der Wundervölker und Fabelwesen, Böhlau Verlag, Wien-Köln-Weimar 2015. Sulla derivazione orientale dell’iconologia dei mostri cfr. J. Baltrusaitis, Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, Adelphi, Milano 1993

2

.

8. Sulle metamorfosi degli orchi, si veda T. Braccini, Indagine sull’orco. Miti e storie del

divoratore di bambini, il Mulino, Bologna 2013.

(17)

51

aut aut, 380, 2018, 51-64

Appunti su Lamia: per il ritratto di un mostro

TOMMASO BRACCINI

U n oscuro mitografo vissuto probabilmen- te nel II secolo d.C., Antonino Liberale, nelle sue Metamorfosi (cap. 8) ricorda la storia di un mostro (lo chiama più precisamente therion mega kai hyperphyes, “belva smisuratamente grande”) che avrebbe infesta- to la località di Cirfi, sulle pendici del Parnaso.

1

Quest’essere, noto come Lamia o Sibari, terrorizzò l’intera regione divorando uomini e animali, finché su consiglio dell’oracolo di Delfi si decise di of- frirgli in sacrificio un ragazzo del luogo. Fu estratto a sorte un cer- to Alcioneo, ma proprio mentre veniva condotto alla caverna del mostro la processione si imbatté in un giovane coraggioso di nome Euribato. Quest’ultimo, invaghitosi all’istante del bell’Alcioneo, si sostituì a lui e, entrato nella caverna della Lamia, l’afferrò e la get- tò giù per le balze del Parnaso. Il mostro morì e nel luogo in cui si era sfracellato scaturì una sorgente.

2

Sarebbe interessante sapere qualcosa di più sull’aspetto e sul-

Tommaso Braccini insegna Lingua e Letteratura neogreca presso l’Università di Torino. È autore di diversi saggi e libri sulla genealogia di orchi, vampiri e altre figure del folklore.

1. Non è possibile, in questa sede, fornire una bibliografia esaustiva su Lamia e le lamie: si può rimandare, per un primo approccio, a O. Imperio, La donna diavolo nella Grecia antica: Lamia, Circe, Empusa e le stagioni della vita umana, “Synthesis”, 22, 2015, disponibile all’indirizzo <synthesis.fahce.unlp.edu.ar>; T. Braccini, Lupus in fabula: fiabe, leggende e barzellette in Grecia e a Roma, Carocci, Roma 2018, pp. 61-62 e 161-180, e so- prattutto all’ampia trattazione di M. Patera, Figures grecques de l’épouvante de l’antiquité au présent: peurs enfantines et adultes, Brill, Leiden-Boston 2015, pp. 1-105.

2. Cfr. A. Liberale, Le metamorfosi, a cura di T. Braccini e S. Macrì, Adelphi, Milano

2018, pp. 44-45 e 162-167.

(18)

le peculiarità di quest’essere, ma Antonino, peraltro sempre mol- to stringato nella sua esposizione, non fornisce alcun dettaglio.

Molto più loquace in materia è un altro autore vissuto tra I e II

secolo d.C., il celebre retore Dione di Prusa, detto Cristostomo (“Bocca d’oro”, per la soavità del suo eloquio). Nella sua Orazio- ne V descrive le lamie, simbolo dei piaceri sregolati, come una ve- ra e propria “razza mostruosa” che infestava i deserti della Libia e che, in cerca di prede, si era spinta fino alla cosiddetta Sirte. Si trattava di un tratto di costa ricco di secche, estremamente pe- ricoloso per i naviganti. Infatti il cibo preferito delle lamie (che peraltro non disdegnavano nemmeno pecore, cervi, asini selva- tici, addirittura leoni e pantere) erano proprio gli esseri umani.

A rischio erano soprattutto i naufraghi, che quando iniziavano a vagare per il lido desolato cercando aiuto finivano per imbatter- si in bellissime donne, dallo sguardo ammaliante e dal magnifico seno nudo. Gli uomini, irresistibilmente attratti, si avvicinavano sempre più alle seduttrici, che rimanevano ferme e mute e volge- vano lo sguardo a terra, come per pudore… ma quando i malca- pitati era giunti abbastanza vicino, i mostri li afferravano con le zampe munite di artigli, nascoste fino a quel momento; come ul- timo orrore, le lamie svelavano anche la metà inferiore del loro corpo, coperta di squame e culminante nella testa di un serpen- te velenoso.

Secondo Dione c’erano stati vari tentativi di estirparle, tra cui uno da parte di Eracle, ma nessuno aveva avuto completamente successo: si raccontava infatti che, più di recente, una comitiva di greci, diretta al celebre oracolo di Zeus Ammone, mentre attraver- sava il deserto libico si fosse imbattuta in un esemplare particolar- mente seducente. Due giovani del gruppo ne furono irretiti e cor- sero verso di lei: il primo a raggiungerla fu trascinato sotto la sab- bia e divorato seduta stante, l’altro venne morso dall’estremità ser- pentina del mostro, che poi fuggì. Le guide locali impedirono ai compagni del giovane agonizzante di prestargli aiuto: se l’avessero anche solo toccato, sarebbero morti pure loro.

Nell’interpretazione moraleggiante di Dione di Prusa, le la-

mie sono femmine mostruose che irretiscono gli uomini con la

(19)

53

loro ingannevole avvenenza per poi ucciderli e divorarli. Sto- rie non troppo differenti circolano anche nel folklore della Gre- cia moderna e non solo (come lamja, infatti, compare anche in Bulgaria

3

). Le lamie in genere sono descritte come donne molto belle, alte, dalle forme avvenenti. Spesso stanno in agguato vici- no a ruscelli o fontane, pettinandosi in maniera civettuola i lun- ghi capelli biondi. Solo avvicinandosi si può scoprire che pre- sentano un difetto inquietante: i loro piedi non sono umani. In alcuni casi presentano estremità di bronzo, in altri hanno zam- pe di animale, per esempio di bue, di asino, di capra. Questo è un tratto forse ereditato dall’Empusa, altro spauracchio dell’an- tica Grecia;

4

ma non bisogna dimenticare che belle donne dal- le zampe asinine, sempre pronte a sedurre e uccidere malcapitati viandanti, sono attestate anche nel folklore orientale fin dal Me- dioevo, e a esse allude già Luciano nella Storie vere (2.46).

5

Nel- la Grecia moderna alle lamie vengono imputate varie malefatte, per esempio quella di succhiare il sangue delle bestie che si van- no ad abbeverare, ma la loro maggiore nefandezza naturalmen- te è quella di uccidere gli uomini, soprattutto quelli che attingo- no acqua alle “loro” fonti nelle ore “demoniache” di mezzogior- no o mezzanotte.

6

In queste varie attestazioni, come si è visto, Lamia aggredisce giovani uomini e adulti. Su di essa, tuttavia, circolavano anche altre tradizioni. Un punto di partenza è costituito da uno scolio, un antico commento a un verso della Pace di Aristofane (v. 758):

Si dice che la Lamia fosse figlia di Belo e di Libia. Dicono che Zeus se ne fosse innamorato... A Era non sfuggì che Zeus si era unito a lei, e allora la dea, in preda alla gelosia, di volta in volta uccideva i figli che nascevano alla rivale. Questa, afflitta dalla

3. Cfr. I. Georgieva, Bulgarian Mythology, Svyat, Sofia 1985, pp. 62-63.

4. Cfr. M. Patera, Figures grecques, cit., pp. 249-290.

5. Cfr. T. Braccini, Luciano e il diavolo nella sala da ballo: una nota a “Storie vere” 2,46,

“Quaderni urbinati di cultura classica”,

NS

119.2, 2018, pp. 127-138; Id., Lupus in fabula, cit., pp. 108-110.

6. Cfr. Id., La fata dai piedi di mula: licantropi, streghe e vampiri nell’Oriente greco,

Encyclomedia, Milano 2012, pp. 59-61 e 121-122; M. Patera, Figures grecques, cit., pp. 76-84.

(20)

“Dans des voies insolites.”

Il mostro zootecnico nella prima metà dell’Ottocento

BENEDETTA PIAZZESI

1. Mostri rurali

“Spesso accade che i pulcini nascano deformi, in difetto o in eccesso nel numero di membra, zampe, ali e creste, non potendo l’artificio imitare sempre perfettamente la Natura.”

1

All’inizio del XVII secolo, uno dei più importanti agronomi del continente europeo osserva che nei serragli e nelle scuderie, nelle stalle e nei covili, nascono animali mostruosi. Se si utilizzano le tecniche di incubazione artificiale questa eventualità diviene addirittura frequente. Olivier de Serres fa queste osservazioni in un’epoca la cui concezione della mostruosità è sancita e resa nota dalle parole di Ambroise Paré: “I mostri sono cose che si manifestano oltre il corso della natura”.

2

Dall’antichità fino almeno al XVII secolo, il mostro è l’emblema di una duplice infrazione: infrazione alle leggi naturali e in particolare a quell’universale principio della vita secondo il quale “il simile genera il simile”; e infrazione alle leggi divine e morali, secondo una forma di hybris, che ancora oggi lascia traccia nella lettera del termine “ibrido”.

Nel momento stesso in cui confermava la sanzione del suo tempo che faceva del mostro una cosa contro natura, de Serres lo introduceva in un campo di osservazione e di causalità nuove.

Benedetta Piazzesi svolge attività di ricerca sulle forme di governamentalità animale presso la Scuola normale superiore di Pisa.

1. O. de Serres, Le théâtre d’agriculture et mesnage des champs (1600), de l’imprimerie de Madame Huzard, Paris 1804-1805, vol.

II

, p. 16. (Laddove non ulteriormente specifica- to, questa e le altre traduzioni dal francese sono mie.)

2. A. Paré, Des monstres et prodiges (1573), Librairie Droz, Genève 1971, p. 3.

(21)

66

Se l’agronomo contrappone infatti mostro e natura è per trami- te del concetto di artificio, il quale valica i confini del “naturale”

nel senso della mancanza piuttosto che dell’eccesso, nella forma dello scarto piuttosto che del prodigio. Benché contro-natura, i piccoli mostri rurali di de Serres sono un fenomeno perfettamen- te “mondano” e nelle parole che li evocano non si avverte né ti- more divino né riprovazione morale. Le chimere, che lasciavano presagire avvenimenti funesti e che testimoniavano un’incursio- ne divina nelle leggi della natura, lasciano il posto a qualche pul- cino nato con poche o troppe membra: animali la cui domestici- tà rende familiare persino la mostruosità.

3

Alla contrapposizione naturale/sovrannaturale si sostituisce quella natura/artificio quale punto d’innesto del fenomeno mo- struoso. Tale slittamento diviene rilevante se lo si colloca nella congiuntura storico-epistemologica di quello stesso inizio seco- lo: il metodo sperimentale, attorno a cui la rivoluzione scientifica avrebbe riorganizzato lo studio della natura, conferiva infatti alle procedure di artificializzazione del fenomeno osservato un nuo- vo potere euristico. Olivier de Serres, pur senza essere scienziato ma tecnico e allevatore esperto, osserva che il mostro è dopo tut- to un tentativo (benché malriuscito) di riproduzione della natura e, più letteralmente, un esperimento di riproduzione animale. È anche a partire da qui che il mostro, da figura del contro-natura- le per eccellenza, acquisirà nel XIX secolo una sua funzione nello studio della natura stessa, e in particolare di quelle leggi che re- golano la riproduzione dei viventi.

3. Si consideri inoltre questo passo: “Si vedono a volte dei saltimbanchi, o altri ciarla- tani, condurre dei galli cornuti che esibiscono come mostruosità della Natura, e se ne tro- va persino la raffigurazione in certe opere sui mostri; ma è per mezzo di un gioco di pre- stigio molto semplice che si può produrre questo effetto, che non è altro che un innesto animale” (ivi, p. 155). Mostri per l’ingenuità popolare, abilmente manipolata da ciarlatani interessati, o per la curiosità di qualche trattatista, questi “innesti animali” sono del tutto demistificati dalle mani e dagli occhi esperti dell’allevatore. L’immagine del mostro come

“innesto animale” è meritevole di considerazione: pur restando fedele al classico immagi-

nario di ciò che è “misto”, lo declina nel campo semantico familiare dell’agricoltura. L’an-

tica tecnica dell’innesto aveva da lungi fornito frutti dalle dimensioni e protuberanze ab-

normi, così come strani ma ormai noti ibridi vegetali.

(22)

2. Mostri scientifici

Anche il fenomeno mostruoso prenderà parte a quella sistematizza- zione disciplinare in corso nelle scienze della vita nella prima metà del XIX secolo, di cui la creazione del termine “biologia” nel 1802 segnala il corso. Étienne e Isidore Geoffroy Saint-Hilaire sono, com’è noto, i due naturalisti responsabili dell’inclusione del feno- meno mostruoso nel consesso delle scienze naturali: in quella che ha i toni di una missione sociale oltre che scientifica, i due naturalisti si propongono di liberare la nascita deforme dalle sue implicazioni morali e sovrannaturali, inscrivendola a pieno regime tra i feno- meni naturali e fondando un nuovo ambito di ricerca scientifica che il giovane Isidore denominerà tératologie.

4

Étienne Geoffroy Saint-Hilaire, personaggio di grande importanza nella propulsione istituzionale delle scienze naturali all’inizio dell’Ottocento e pro- tagonista dello storico dibattito sul fissismo con Georges Cuvier,

5

aveva deciso di dedicare già nel 1822 il secondo volume della sua Philosophie anatomique alla questione della mostruosità,

6

come caso limite di quel rapporto tra varietà di forme e “unità di composizione”

anatomica che ricercava nella sua idea di zoologia comparata. Sulle orme del padre, Isidore Geoffroy Saint-Hilaire dedicherà, dieci anni più tardi, un’opera sistematica in quattro volumi allo stesso tema, l’Histoire générale et particulière des anomalies de l’organisation chez l’homme et les animaux, ou Traité de tératologie.

7

Qui la casistica teratologica è organizzata secondo rapporti di simmetria anatomica

4. Cfr. in generale M. Mazzocut-Mis, Mostro. L’anomalia e il deforme nella natura e nell’arte, Guerini, Milano 1992 (ristampa riveduta e corretta 2013); O. Roux, Monstres.

Une histoire générale de la tératologie des origines à nos jours,

CNRS

Éditions, Paris 2008; e più in particolare B. Nouailles, Le monstre, la vie, l’écart. La tératologie d’Étienne et d’Isi- dore Geoffroy Saint-Hilaire, Garnier, Paris 2017.

5. Cfr. T.A. Appel, The Cuvier-Geoffrey Debate: French Biology in the Decades befo- re Darwin, Oxford University Press, New York-Oxford 1987. Sull’interessante personali- tà e vicenda biografica, oltre che teorica, di Geoffroy Saint-Hilaire cfr. l’opera dedicatagli dal figlio I. Geoffroy Saint-Hilaire, Vie, travaux et doctrine scientifique d’Étienne Geoffroy Saint-Hilaire, P. Bertrand, Paris 1847. Cfr. anche H. Le Guyader, Geoffroy Saint-Hilaire 1772-1844. Un naturaliste visionnaire, Belin, Paris 1998.

6. É. Geoffroy Saint-Hilaire, Philosophie anatomique, vol.

II

: Des monstruosités humai- nes, Paris 1822.

7. I. Geoffroy Saint-Hilaire, Histoire générale et particulière des anomalies de l’organi-

sation chez l’homme et les animaux, ouvrage comprenant des recherches sur les caractères, la

(23)

83

aut aut, 380, 2018, 83-104

Etologia dell’arte. Artisti e altri animali

SERENA GIORDANO

Dire che l’animale è un essere, che ha comuni con noi la natura e il destino, non è ancora un volerne aprire a noi l’anima; essa ci apparirà anzi, dopo quanto si è detto, qualche cosa di ignoto e di misterioso assai più di prima. Del resto anche gli uomini sono esseri simili a noi e con essi ci collega un’infinità di rapporti: ma possiamo veramente dire che li conosciamo?

Piero Martinetti, Pietà verso gli animali

Noi e loro

Nel 1974, a New York, per tre lunghi giorni, un coyote è costretto a convivere, in uno spazio circoscritto della René Block Gallery, con un uomo alto, con una coperta sulla testa, che si agita scomposta- mente brandendo un bastone. L’uomo è un artista, Joseph Beuys.

Del coyote non si conosce il nome anche se, forse, era doveroso citarlo, attribuendogli almeno un cinquanta per cento del successo della performance. L’artista, per spiegare il significato dell’azione, dichiara di aver scelto il coyote perché demonizzato dai coloni americani come bestia feroce. Per Beuys, l’animale è una social sculpture, simbolo di un’America scomparsa.

Quando ho creato l’action con il coyote, non ero interessato a dare una lezione di zoologia o altro. Provavo a mostrare alle persone che c’è un regno che esiste al di sotto del regno umano [corsivo mio] che è una sorta di precursore dell’evoluzione uma- na, un regno animale autonomo. Ho tirato fuori una creatura dal proprio regno e l’ho messa in contatto con gli esseri umani.

1

Beuys ha più volte definito la performance come una riconcilia- zione, attraverso l’arte, dell’uomo con la natura. Ma a dispetto di queste dichiarazioni, ciò che mi ha sempre colpito di questa

Serena Giordano, illustratrice e videoartista, ha pubblicato diversi volumi di teoria e co- municazione dell’arte. Insegna Didattica dell’arte all’Accademia di belle arti di Palermo.

1. J. Beuys, Joseph Beuys, “Flash art”, 306, 2012.

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celeberrima performance è l’assoluto disinteresse dell’artista nei confronti del suo co-protagonista, messo in scena solamente come materializzazione di un’idea, di un simbolo. Il video I like Ame- rica and America likes me mostra il coyote che tenta di togliere la coperta che copre l’uomo, dalla testa ai piedi, per smascherarlo e capire chi l’ha coinvolto in quella situazione imbarazzante [fig. 1].

L’artista, invece, corre da un angolo all’altro dello spazio chiuso, avvolto nel suo manto di feltro da cui spunta un bastone uncina- to.

2

Naturalmente, non ha senso giudicare i comportamenti dei due attori in scena con lo stesso criterio, ovvero con il semplice buon senso. Ed è altrettanto evidente che, in base a quest’ultimo, il coyote ne uscirebbe decisamente meglio, in termini di ragio- nevolezza e razionalità. Ma si sa che i comportamenti dei coyote

2. Il video è consultabile all’indirizzo: <vimeo.com/5904032> (ultima consultazione 16 agosto 2018).

Fig. 1 Joseph Beuys, I like America and America likes me.

(25)

85

sono affare degli etologi e quelli umani degli antropologi, anche se i saperi dell’etologia e dell’antropologia muovono spesso da un preconcetto che li accomuna:

3

Parliamo di “esseri umani e animali”, come se tutti i viventi ricadessero in due sole categorie: noi e tutti gli altri. Eppure abbiamo addestrato gli elefanti a trascinare tronchi d’albero fuori dalla foresta; nei laboratori abbiamo fatto percorrere labirinti ai ratti, per studiare l’apprendimento; e i piccioni ci hanno insegnato i rudimenti della psicologia beccando i bersagli che gli mostravamo. Studiamo i moscerini per imparare come funziona il nostro DNA , e infettiamo le scimmie per mettere a punto cure da usare negli esseri umani […]. A dispetto di tutta questa intimità, conserviamo una tentennante insistenza sul fatto che gli “animali” non sono come noi – benché noi stessi siamo animali. Potrebbe mai una relazione basarsi su un fraintendimento più profondo?

4

L’occhio che vede siamo ovviamente “noi”. Ma quali noi? Gli antropologi che osservano le altre società o la civiltà occiden- tale di cui essi fanno parte o qualche altra comunità di ordine intermedio? Un’antropologia che non può relegarsi soltanto nello studio degli altri, sottraendo a “noi” questi altri e dunque alla stessa prospettiva antropologica, ha da chiarire, in primo luogo, la natura del “noi”.

5

Dunque, ci sarebbero un “noi” (esseri umani) e un “loro”, ov- vero tutto il resto delle creature viventi. Come ci sarebbe una

3. Sui coyote sono stati condotti numerosi studi etologici. I loro comportamenti, le loro abitudini e relazioni all’interno delle comunità sono complesse e variegate e dimo- strano un’intensa attività di comunicazione interpersonale tra gli individui di quella spe- cie. Su questo tema, cfr. M. Beckoff, C. Wells, Behavioural Budgeting by Wild Coyotes:

The Influence of Food Resources and Social Organization, “Animal Behavior”, 3, 1981, pp. 794-801.

4. C. Safina, Al di là delle parole, Adelphi, Milano 2018, pp. 42-43.

5. F. Remotti, Noi, primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Bollati Boringhieri, Torino

1990, p. 216.

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Mostri in cornice. Arte e teratologia

MARCELLO FALETRA

Le disavventure della rappresentazione

Un’installazione del 1986 dell’artista sudafricana Jane Alexander (Butcher Boys) è composta da tre corpi umani le cui teste sono realizzate con vari elementi: corna di arieti, muso di felini, mascel- le e zigomi pronunciati, nasi schiacciati e parti di altre creature inclassificabili [fig. 1]. Seduti in pose simili, osservano il mondo circostante. I loro dettagli realistici compongono un’opera iper- realista. Sembrano turisti che osservano con un misto di curiosità e di indifferenza ciò che li circonda.

Allegoria, metafora, parodia: i tre mostri sono efficacemente rappresentati nella loro estraneità sociale. In nessun caso esprimo- no un pensiero, giacché la loro posa è il riflesso di un universo sco- nosciuto, altro, ma funzionale alla lunga storia dell’immaginario del mostro. Se un tempo la bestialità del mostro rientrava in un sim- bolismo sociale

1

(sacrificale, bellico, mitologico), le figure ibride di Alexander non hanno alcuna pretesa mitologica. Sono celibi, cioè senza l’altro: l’uomo. Ripugnanti e seducenti allo stesso tempo, i tre ibridi non si lasciano “contemplare – nota Anthony Julius – perché coinvolgono lo spettatore e, allo stesso tempo, provocano in lui la frustrazione di non riuscire a risolvere l’esercizio di classificazione:

in quale categoria [rientrano], quella umana o animale?”.

2

Marcello Faletra, artista, ha pubblicato lavori di teoria e fenomenologia dell’arte. Inse- gna Fenomenologia dell’immagine ed Estetica dei New Media all’Accademia di belle ar- ti di Palermo.

1. Cfr. J.-P. Vernant, Figure, idoli, maschere, il Saggiatore, Milano 2001.

2. A. Julius, Trasgressioni, Bruno Mondadori, Milano 2003, pp. 158-159.

(27)

106

I mostri della contemporaneità ereditano da King Kong – gi- gantesca figura sottratta alla giungla – la vocazione alla spettaco- larità. Nati come messaggeri di potenze soprannaturali prima, di- ventati poi guardiani del caos,

3

i mostri, oggi, mettono in scena la loro “vocazione alla rappresentazione”. Secondo José Gil,

4

que- sto primato della vocazione alla rappresentazione si può far risa- lire a Velázquez, quando, in Las Meninas, mette in primo piano una nana [fig. 2]. Ha la stessa altezza dell’infanta e compare die- tro un cane, quasi a suggerire la familiarità con il mondo anima- le; inoltre, vista in prospettiva, benché in primo piano, la donna è molto più piccola del pittore. In tal modo, secondo Gil, la sua presenza “decentra” l’intera percezione del quadro. La nana, an-

3. Cfr. E. Gombrich, Il senso dell’ordine, Leonardo, Milano 2003, soprattutto il capitolo “Il margine del caos”.

4. J. Gil, Mostri, Besa editrice, Nardò (Le) 2002.

Fig. 1 G. Alexander, Butcher Boys, 1985-1986.

(28)

che se posta a lato, entra a far parte della scena costituendo un’a- nomalia. È l’eccesso messo in bella mostra. La nana fa da con- trappunto alle leggi della rappresentazione e, come osserva Fou- cault a proposito della stessa opera, è “una rappresentazione di una rappresentazione” o “una rappresentazione che offre se stes- sa come spettacolo”.

5

Commentando il testo di Foucault, Gil no- ta inoltre che la presenza in primo piano della nana ha anche la funzione di provocare un confronto tra la realtà e la sua rappre- sentazione inserendo anche ciò che la nega.

Per essere vera, la rappresentazione – assillo di Velázquez – deve essere “conforme alla sua veridicità”, quest’ultima garan- tita dalle leggi della prospettiva, che regolano le dimensioni dei corpi, e dall’uso sapiente del doppio generato dallo specchio. La presenza del mostro in tale contesto avrebbe la funzione di sot- tolineare, con la sua difformità, l’estraneità a queste leggi: la fun- zione simbolica della prospettiva – secondo l’espressione di Pa- nofsky – e la rappresentazione come strumento di conoscenza a cui si è aggiunto lo specchio. Il mostro sfugge a questa logica. Il suo eccedere le leggi naturali e conoscitive ne fa una presenza da cui non giunge alcuna informazione.

Sia la nana di Velázquez, dai tratti vagamente maschili, sia i mostri di Alexander sfuggono alla codificazione sessuale e ani-

5. M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1978, p. 30.

Fig. 2 D. Velázquez, Particolare di Las Meninas, 1656 e J.P. Witkin, Las Meninas, 1987.

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aut aut, 380, 2018, 127-139

Donna Haraway e la teratotropìa degli altri in/appropriati

FEDERICA TIMETO

Il monstrous turn: “Come mostri, possiamo dimostrare un altro ordine di significazione?”

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Cosa promettono i mostri? Per capirlo, scrive Donna Haraway, non dobbiamo temere di affrontare un “giro mostruoso” (mon- strous turn)

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dentro il ventre del mostro, dimenticando da dove veniamo, attraversando frontiere, deviando dalle strade segnate, accudendo strane creature, ma soprattutto non avendo paura di restare aggrovigliati in mezzo ai nodi che i mostri disseminano ovunque in modi in/appropriati.

Sul senso di questo giro è opportuno soffermarsi. La parola turn, infatti, è usata di solito per indicare una fase di svolta in cui un insieme di studi che convergono su alcuni concetti chia- ve si afferma rispetto a un corpus precedente, da cui il nuovo si differenzia dimostrandone l’inadeguatezza o l’obsolescenza (un esempio noto: il linguistic turn della filosofia analitica). Tuttavia, quando Haraway in “The promises of monsters” parla di giro mostruoso, trattandosi di un turn che esclude qualsiasi idea di progressione e “pellegrinaggio” verso la salvazione, sembra op- portuno interpretare questo termine più letteralmente come una deviazione, l’uscita da un percorso in avanti che piega la direzio-

Federica Timeto si occupa di estetica femminista, culture visuali e sociologia dei nuovi me- dia. Insegna Sociologia dei nuovi media all’Accademia di belle arti di Palermo.

1. D. Haraway, “Introduction”, in Simians, Cyborgs and Women. The Reinvention of Nature, Routledge, New York 1991, p. 4.

2. Id., “The promises of monsters. A regenerative politics for inappropriate/d others”,

in L. Grossberg, C. Nelson, P.A. Treichler (a cura di), Cultural Studies, Routledge, New

York 1992, p. 304.

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ne del movimento e lo avvita in una serie di “tornanti” (inferna- li?): un trópos che interferisce con il topos.

Trópos, etimologicamente, è ciò che gira, la dislocazione, la fi- gurazione che fa scivolare altrove ogni collocazione stabile e sicu- ra. L’unione material-semiotica di topos e trópos, convergenza e di- vergenza dal locus communis, posizionamento – così importante per l’epistemologia situata di Haraway – e spostamento – altret- tanto fondamentale per la sua metodologia della diffrazione

3

–, in- dica che nessun luogo è mai del tutto chiuso, e non ne esiste rap- presentazione completamente trasparente: l’uno e l’altra emergo- no sempre da un processo di traduzione parziale e incompleto.

Quando la religione, la filosofia, l’arte e la scienza hanno cer- cato di catturare “logicamente” il topos del mostro, dietro l’av- vertimento da decifrare o l’immagine da svelare, come sintomo o sublimazione, per esorcismo o catechismo, hanno sempre finito, invece, per seguire

4

il trópos del mostro. Nonostante la teratolo- gia abbia tentato di naturalizzarne il senso “proprio”, il suo sen- so “meta-forico” ha continuato imperterrito a proliferare.

Il mostro come aberrazione è sempre stato prima di tutto un’aberrazione del concetto, segno del deterioramento dell’epi- stemologia rappresentazionale e dei suoi strumenti (la dialettica), insomma la “rovina della dimostrazione filosofica in generale”

5

e dell’autosufficienza di un sistema che non può mai esaurirsi su se stesso. Il mostro lascia tracce, non può essere presente. È sem- pre altrove rispetto al suo topos: se ne possono avere frammenti, impronte, ossa, brandelli, apparizioni, ombre, ma non lo si può mai cogliere nella sua totalità. Dunque l’invocazione del mon- strous turn ha per Haraway una funzione soprattutto epistemolo- gica, finalizzata a un’articolazione, un détournement dell’approc-

3. Per entrambi gli aspetti rimando al mio Diffractive Technospaces, Routledge, New York-London 2016.

4. Il trópos peraltro non può essere raggiunto, ma giunge da sé, come l’“arrivante” in J.

Derrida, Aporie (1993), Bompiani, Milano 2004, richiamato anche da K. Barad in Diffrac- ting Diffraction. Cutting Together-Apart, “Parallax”, 3, 2014, p. 178, testo in cui discute la temporalità della diffrazione ricollegandosi esplicitamente sia a Haraway che a Minh-Ha.

5. D. Gunkel, Scary Monsters. Hegel and the Nature of the Monstrous, “International

Studies in Philosophy”, 2, 1997, p. 44.

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129

cio rappresentazionale, necessario per comprendere ciò che in- tendiamo per Natura e per elaborare una politica della relazione, ovvero della socializzazione della Natura stessa. Per Haraway, in- fatti, la natura è un “cosmo artefattuale di mostri”, mai lisci e platonicamente sferici, ma insettoidi e vermiformi, ricoperti di

“peli sensibili, evaginazioni, invaginazioni e rientranze”.

6

Artico- lare la natura è lasciare arrivare, divenire-con, questi “mostri”.

In “The promises of monsters”, i mostri sono gli altri in/appro- priati, espressione che Haraway riprende da Trinh T. Minh-Ha

7

e approfondisce in un altro saggio dello stesso anno,

8

nel quale gli in/appropriati sono le “figure trickster”

9

di Gesù e Sojourner Truth. Gesù, che dovrebbe significare l’immagine sacra dell’Uno, è invece “un verme potente nella psicoanalisi edipica della rap- presentazione”,

10

che continuamente evade la narrazione patriar- cale. E così è anche Sojourner Truth, il cui famoso discorso con- tro la schiavitù delle donne nere del 1851, che il titolo del saggio di Haraway riprende, è una tra le tante trascrizioni esistenti,

11

nes- suna delle quali rappresenta pienamente la truth di Truth. Il tenta- tivo di parlare di Gesù e Truth secondo un linguaggio “proprio”

non fa i conti con il fatto che la differenza non può essere ridotta a una diversa autenticità, ma è sempre senza e fuori dall’Io, di cui differisce “all’infinito gli strati”.

12

La differenza è dunque mostruosa non solo perché non anco- ra appropriata, ma anche e soprattutto perché mai interamente appropriabile. Molteplice e intersezionale, come insegna il pen- siero femminista,

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la differenza mostruosa non ha nell’identità

6. D. Haraway, “The promises of monsters”, cit., p. 324.

7. T.T. Minh-Ha, Woman, Native, Other: Writing Postcoloniality and Feminism, Indi- ana University Press, Bloomington 1989.

8. D. Haraway, “Ecce Homo, ain’t (ar’n’t) I a woman and inappropriate/d others: The human in a posthuman landscape”, in J. Butler, J.W. Scott (a cura di), Feminists Theorize the Political, Routledge, New York-London 1992.

9. Ivi, p. 98.

10. Ivi, p. 90.

11. Redatta da un abolizionista bianco in un idioletto del tutto inventato.

12. T.T. Min-Ha, Woman, Native, Other, cit., p. 99.

13. Cfr. R. Braidotti, “La differenza che abbiamo attraversato”, in Nuovi Soggetti No-

madi, Luca Sossella, Roma 2002.

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A quattro zampe. Note su animalizzazione, disabilità e colonialismo

MARCO REGGIO

N el romanzo Animal’s People, Indra Sin- ha racconta la storia di un ragazzo che, per colpa di una malattia causata dai veleni della tragedia di Bhopal, ha perso la capacità di reggersi su due gambe: dall’età di sei-sette anni cammina a quattro zam- pe.

1

Persa la statura eretta – uno dei marchi distintivi della no- stra specie –, egli rivendica apertamente la propria non umanità.

La parola che utilizza per segnare questa presa di distanza dalla specie che ha causato tanta sofferenza a lui e ai suoi concittadi- ni è “Animal”, il nome con cui desidera essere chiamato. È il no- me scelto dai suoi coetanei, anni addietro, per prenderlo in gi- ro mentre emergeva la sua difformità, la schiena si piegava su se stessa e il corpo assumeva un aspetto mostruoso. Il gesto di riap- propriazione e risignificazione dell’insulto richiama quello del- la comunità queer che, come è noto, ha fatto del termine “fro- cio” un ombrello sotto cui raccogliere orgogliosamente tutti quei posizionamenti di genere dissidenti, non conformi, invisibilizzati che minacciano costantemente la tenuta dell’ordine eterocentra- to delle relazioni affettive e di potere. Un’assunzione così espli- cita dell’animalità è certamente rara: pressoché ogni gruppo di

Marco Reggio, attivista antispecista, è curatore di due monografie e una raccolta di saggi su Judith Butler e gli animali.

1. I. Sinha, Animal (2007), trad. di V. Mingiardi, Neri Pozza, Vicenza 2009. Le citazio-

ni seguenti sono tratte dall’edizione italiana, anche se utilizzo il titolo inglese, Animal’s Peo-

ple, in quanto mantiene una significativa contrapposizione fra le parole “animale” e “gente”.

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