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Capitolo 2: Zangezi.

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Academic year: 2021

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Capitolo 2: Zangezi.

Consapevole di aver dato vita a un testo estremamente complesso ed eterogeneo, è lo stesso Chlebnikov a suggerire, nel prologo, come definire

Zangezi: è una sverchpovest’, termine di difficile traduzione. Nel seguente

lavoro è stato tradotto come supernarrazione/oltrenarrazione, in quanto il prefisso sverch- è lo stesso usato per tradurre in russo il prefisso Über- di

Übermensch (il superuomo/oltreuomo ipotizzato da Nietzsche) e la parola

italiana narrazione sembra essere la più adeguata per descrivere i generi letterari che in russo sono definiti come povest’ (racconti, canti epici, ecc.). Chlebnikov aveva una motivazione profonda per creare ex novo un nuovo tipo di sperimentazione letteraria:

«Khlebnikov’s ambitious attempt to create the supertale shows that he was not completely satisfied with is own more or less traditional major genres. He strove for a “super-major” genre, which loomed before his eyes as a cycle created from heterogeneous material united on an unspecified level.» (Markov 1962, pag. 28)

Come scrive anche Rainer Grübel,

«Zangezi is not a (traditional) drama or poem, not a pure combination of genres nor just a combination of layers, but rather a montage of the fundamental literary genres epic, lyric and drama.» (Grübel 1986, in Weststeijn 1986, pag. 402)

Il termine suggerito da Chlebnikov è calzante per la descrizione di quest’opera. Composta da diversi piani narrativi e di significato, la narrazione è divisa in più parti, definite superfici, piani di lavoro in cui l’autore concatena universi verbali profondamente diversi tra loro, uniti dalla comparsa di un profeta silvano, Zangezi, che si erge sulla cima di una foresta pietrificata come un folle predicatore. È circondato da un paesaggio

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incorrotto e boschivo, attraversato da rupi, segno di un ritorno totale alla Natura e ai suoi elementi. Il bosco di conifere non è una scelta casuale (nulla lo è, nei testi chlebnioviani): nella mitologia slava gli dei abitavano negli alberi (il dio slavo Perun, il capo di tutti gli dei del Pantheon, risiedeva in una quercia) (cfr. Pisani 1950, pag. 79)

Il testo non ha una vera e propria trama: ogni superficie è governata da una propria gerarchia fisica, analizzabile attraverso il linguaggio utilizzato. In ognuna di esse Chlebnikov utilizza tecniche ed espone riflessioni che hanno accompagnato la sua educazione poetica fin dagli inizi, rendendo Zangezi un sommario elaborato e preciso delle sue tecniche letterarie. Grazie ai suoi esperimenti verbali, Chlebnikov rende labile il piano della realtà e mescola tra loro diverse superfici, creando così un nuovo piano interdimensionale del reale, che interseca diversi mondi e contemporaneamente li trascende tutti. La forma trascendentale di Zangezi è sia nella forma fisica del testo sia nei contenuti espressi da esso. Il profeta è l’Oltreuomo per eccellenza, è colui che grazie al linguaggio stellare può comunicare con tutti gli esseri viventi di tutti i mondi e ha la possibilità di vedere passato, presente e futuro

Nel suo passare dal linguaggio teatrale al linguaggio letterario (literaturnyj

jazik), dal linguaggio poetico al linguaggio scientifico, Zangezi è un

amalgama (non troppo coeso) di diverse realtà e dei diversi modi di interpretarla. Lo stesso Chlebnikov elenca i tipi di linguaggio utilizzati nel testo:

«1 Zvukopis’ (Pittura sonora) – Lingua degli uccelli 2 Lingua degli dei

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4 Lingua transmentale – superficie del pensiero 5 Scomposizione della parola

6 Zvukopis’ (Pittura sonora) o fonopittura

7 Lingua folle» (Cit. in Solivetti 1985, pp. 71-72)

Nella prima superficie il lettore incontra subito il linguaggio degli uccelli. Gli uccelli si esprimono tramite un linguaggio onomatopeico e vivificante, che riproduce in modo poetico il verso reale: attraverso il canto, attraverso la produzione di suoni, attraverso la ripetizione linguistica, gli uccelli prendono vita, si autodefiniscono attraverso il linguaggio.

«An onomatopoeic principle is also evident in Khlebnikov’s ‘bird language’ (ptichiy yazyk [sic]). Although this is generally considered in the context of Khlebnikov’s zaum’, it is really an attempt by Khlebnikov to reproduce the sound of birds […]. Nor should one neglect the semantic implications of his bird language, since Khlebnikov was well aware that different bird sounds reflected different moods.» (Cooke 1987, pag. 87)

I volatili sono accomunati da alcune caratteristiche: sono tutti uccelli passeriformi, che nidificano nei boschi di conifere. Chlebnikov era un esperto ornitologo e pubblica anche alcuni articoli di divulgazione scientifica nel 1907 e nel 1911 (in ivi, pag. 4).

Il linguaggio degli dei invece è un linguaggio stellare, incomprensibile ai non-dei. Esprime la confusione che regna ormai tra i vecchi dei che hanno abitato i continenti (compaiono il dio africano Unkulunkulu, Giunone, Eros, il dio slavo Veles, le due rappresentazioni del supremo dio del cielo cinese Tian e Changti), ridotti a figure silvane senza alcun potere tranne quello del volo. È una lingua musicale, non onomatopeica, in cui l’uso continuo di dure occlusive bilabiali e velari (p e b, k e g) si contrappone all’uso delle

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più dolce di nasali alveolari e bilabiali (m e n). Questa attenzione fonetica, secondo Vroon, è degna di nota:

«Vroon points out ‘the striking parallel […] between the names of the gods […] and their subsequent utterances’ and suggest that they are ‘apparently trying to utter their own names and those of their fellow deities, perhaps in an attempt to define their own essence.» (Vroon 1982, cit. in Cooke 1987, pag. 91)

Questo utilizzo particolare di fonetica e di velate allusioni al folklore derivano, oltre che dal primitivismo gilejano, anche dal simbolismo. Scrive a riguardo Ripellino:

«Dal simbolismo Chlebnikov deriva la propensione al folclore slavo, alle formule magiche, ai miti […]. Persino la ricerca di un linguaggio metalogico, «zaum» (ossia transmentale) germina dal repertorio dei simbolisti, che amavano la fonetica astrusa, la stregheria dei suoni.» (Ripellino 1978, pag. 152-153)

E nota anche Weststeijn:

«A careful analysis of Chlebnikov’s language experiments shows his intermediate position between symbolism and futurism. Chlebnikov was a futurist in so far as he gave the word as such a prominent place in his work and put its material aspects in the foreground. He was connected with symbolism, however, by his search for meaning, by his attempt to discover the basic figurativeness of language and thus achieve a better under standing of the world.» (Westesteijn 1983, pag. 37)

Infine, la Vitale scrive:

«[Zangezi è] una fusione visionaria di linguaggio stellare e linguaggio comune […] [nella quale agisce] la volonta di far rientrare il puro suono sotto il cielo del senso, in base a un processo di semantizzazione e semasiologizzazione dei singoli segni che compongono l’«alfabeto della ragione». Nel’ipotesi attiva di questo «linguaggio delle superfici» Chlebnikov combina certamente spunti del pensiero

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razionalista con la tradizione simbolista della parola-immagine […].» (Vitale 1979, pag. XLII-XLIII)

La ricerca artistica di Chlebnikov, naturalmente, evolverà in modi completamente diversi, sia dalle idee futuriste che da quelle simboliste, rimanendo però sempre profondamente legata a esse.

In diverse superfici vengono utilizzate (o si fa cenno) a diverse equazioni e formule matematiche. La matematica diventa sistema per osservare il passato, il presente e il futuro. Partendo dal presupposto che gli eventi che governano il mondo siano ciclici e destinati a ripetersi per sempre, il linguaggio matematico diventa metodo per osservare la realtà, una sfera di cristallo in cui scrutare, attraverso gli eventi storici del passato, quello che accadrà nel futuro. Questo tipo di riflessione accompagna Chlebnikov fin dai suoi studi all’Università di Kazan’, dove diventa un fervido lettore delle opere del matematico Nikolaj Lobačevskij. I vaticini matematici espressi nelle “tavole del destino” di Zangezi di solito sono accompagnati da un profondo senso di rispetto per il tempo e da una sottile ironia, un velato rammarico per il continuo ripetersi degli errori dell’uomo attraverso le epoche:

«Sulla base dell’elevazione a potenza dei numeri due e tre, Chlebnikov crea le sue “Tavole del Destino”, tentando così di evidenziare i rapporti causali nascosti dietro gli avvenimenti, che esplicano “le leggi del tempo” rendendole visibili. Guerre, nascite di stati e di geni, scoperte scientifiche che si ripetono a determinati intervalli, ogni evento non essendo che un anello di un’infinita catena. La giustizia storica o nemesi si raggiunge quando un avvenimento è annullato da un antiavvenimento, ogni fenomeno storico collettivo o individuale suscitando sempre il suo opposto.» (in Solivetti 1985, pag. 37)

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«Chlebnikov ha potuto produrre una rivoluzione nella letteratura anche perché il suo ordine non era letterariamente chiuso, perché egli comprendeva con essa la lingua del verso e la lingua dei numeri, le casuali conversazioni di strada e gli avvenimenti della storia mondiale, perché per lui i metodi della rivoluzione letteraria e delle rivoluzioni storiche erano vicini.» (Tynjanov 1968, pag. 287) Le forze e le energie continue che attraversano le epoche e mettono a soqquadro i piani dell’uomo sono analizzate metaforicamente grazie alle lettere dell’alfabeto, a cui viene assegnata un significato traslato preciso. Chlebnikov crea un “alfabeto della mente”, che esporrà lui stesso in una delle superfici. Ne è un esempio la disputa tra Ka, El ed Er (K, L, R), ossia lo scontro feroce tra forze stagnanti e conservatrici (rappresentate dalla K, che corrisponde anche ad alcuni generali dell’esercito bianco) e forze rivoluzionarie e centrifughe (rappresentate dalla L e dalla R). Rappresentano inoltre sia personaggi storici che hanno colpito profondamente l’immaginazione del poeta (per esempio Aleksandr Vasil'evič Kolčak e Aleksej Maksimovič Kaledin, generali dell’armata dei Bianchi), sia entità statali in conflitto (La Erre rappresenta la Russia, la Ghe la Germania, cfr. Solivetti 1985, pag. 75). Su tutti sembra però trionfare El, probabilmente iniziale di Ladomir, poema di Chlebnikov in cui l’autore racconta di un mondo (mir) finalmente in armonia (lad) (cfr Vroon 1983, pag. 76). La lotta tra El’ ed Er avviene anche nella costruzione stessa delle parole. Trasformando una elle in erre o viceversa, Chlebnikov denota lo scambio di poteri tra queste due forze contrapposte, che scatenano il loro potere anche nella costruzione del significato interno della parola: questo fenomeno è presente soprattutto nella settima superficie:

Lopot’ (giacca lisa) diventa ropot’ (mormorio)

Poroch (la polvere da sparo) diventa placha (patibolo) Burja (procella, tempesta) diventa bulka (pagnotta)

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Plašanca (frombola) diventa praša (la sindone) Gorod (città) diventa golod (fame)

Gordyj (superbo) diventa golyj (nudo)

Lug (prato) diventa rugan’ (parolacce, male parole) Laty (corazza) diventa rat’ (schiera)

Lazit’ (cedere) diventa razit’ (trionfare)

Bol’noj (malato) diventa borec (guerriero) Chlam (sozzura) diventa chram (santuario) Vol’ (volontà) diventa vor (ladro)

Graždany (cittadini) diventa glaždany (vista-dini)

L’ossessione per la trasformazione e la trasfigurazione delle consonanti e dei morfemi raggiunge il suo apice nell’uso smodato di prefissi e suffissi atti a creare nuovi neologismi. Nella X superficie Chlebnikov utilizza come prefisso il morfema verbale Moč’(potere), che unito ai morfemi russi per la costruzione di sostantivi, aggettivi e verbi, dà vita a una serie di entità distruttive che hanno il potere (insito nel loro stesso nome) di cambiare finalmente il mondo e la realtà (M-ogatiry): si contrappongono idealmente agli eroi della tradizione russa (B-ogatiry) (Cfr. ivi, pag. 45). Nella superficie precedente Chlebnikov userà come prefissi preposizioni e parole della lingua russa, che amplieranno il significato di Um (mente, intelletto), trascendendo i limiti imposti dal significato della parola e creando un nuovo linguaggio di difficile comprensione, ma intuibile attraverso la comprensione della sua costruzione. Per tradurre i neologismi creati con la parola um si è deciso di utilizzare la parola Logos: questa scelta è motivata

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dall’amplia gamma di significati del termine, che riesce a restituire in italiano i vari significati della parola russa um.

Goum diventa GoLogos Oum diventa OLogos

Uum diventa ULogos e così via.

Questa scelta traduttiva è motivata dal fatto che era fondamentale sia mantenere la musicalità del testo russo anche in quello italiano senza appesantirlo troppo (i neologismi di Chlebnikov sono orecchiabili per un ascoltatore russo), sia per mantenere visibile il lavoro di evidenziazione della semantica della parola presa in considerazione.

Un altro gioco di parole viene attuato con gli idronomi Dnepr e Dnestr, nella superficie XIV:

Lelepr (Dnepr + lelejat’, cullare) diventa Cullafiume Ognepr (Dnepr + ogon’, fiamma) diventa Fiammafiume Volestr (Dnestr + volja, libertà) diventa Liberfiume, e così via.

Per quanto riguarda la trasformazione con la parola Moč’, si è scelto di utilizzare in italiano una suffissazione/prefissazione tramite il verbo potere e le sue coniugazioni (io posso, ecc.), gli aggettivi possente e potente, il sostantivo potenza:

Mogatyr diventa potreroe (colui che potrà agire) Moglec diventa potentario e così via.

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Nella superficie XV l’invenzione di un nuovo linguaggio è possibile tramite un cambiamento arbitrario e soggettivo dell’attribuzione fisica che una consonante suscita nel poeta. A ogni consonante viene assegnato un colore e ogni parola costruita su questa base indica una sfumatura di colore precisa, avendo come base una tavolozza decisa dal poeta. Le consonanti labiali indicano colori scuri (la “m” il blu scuro, la “p” il nero), le velari “k” e “g” colori come il blu cielo e il giallo (Cit. in ivi, pag. 38, 78). Utilizzando questi colori base, Chlebnikov crea un insieme pittorico che si avvicina sia alle creazioni su tela dei cubisti (un tentativo di portare nel reale una frammentazione pittorica che, unita adeguatamente, avrebbe dato una nuova visione sulle cose) sia alla glossolalia di stampo biblico (un tentativo da parte di Chlebnikov di originare tramite la lingua una nuova realtà materiale, obbiettivo di tutta la sua poetica).

La creazione di una nuova dimensione partendo dal piano linguistico è accompagnata dal bisogno di riflettere sulla caducità della vita e sul ruolo predestinato che sembrano avere gli esseri umani nella Storia. Personaggi storici (di epoche anche remote tra loro), come i generali degli eserciti dei Rossi e dei Bianchi, i khan tartari che hanno invaso la Russia, tutti sono destinati alla sconfitta e alla distruzione. Attraverso calcoli matematici, Chlebnikov riflette sulla fragilità delle città (la presa di Costantinopoli sopra tutte) e delle nazioni, sulla ripetitività dei destini umani. Zangezi dispensa beffardo la sua conoscenza, ma il suo tono è venato di amarezza: il profeta soffre per l’abitudine dell’uomo allo sbaglio, all’errore. Per porvi rimedio, cerca di parlare direttamente al cuore delle persone, attraverso un linguaggio che lui stesso definisce ora stellare (zvёzdnyj jazyk) ora transmentale (zaumnyj jazyk). Nonostante la folla stessa sia la prima a ingiuriarlo e a farsi beffa di lui, Zangezi tenta in tutti i modi di attirare l’attenzione e comunicare con chi lo ascolta. Come un Jurodivyj (stolto in

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istanze superiori, sa di avere una conoscenza tale da poter dichiararsi superiore agli altri. Ma non esita a dichiararsi «farfalla che vola/ nella stanza della vita degli uomini», consapevole della propria fragilità. Zangezi soffre per la incomunicabilità che accompagna il linguaggio di tutti i giorni e tenta di scioglierlo per far intravedere agli ascoltatori attraverso il velo del tempo e dello spazio.

Il rapporto di Zangezi con la folla oscilla tra il disprezzo (alla fine dei suoi discorsi viene definito “effeminato”, “noioso”) e partecipazione esaltata (i passanti chiedono a gran voce che lui continui a parlare). Questo rapporto altalenante è una esemplificazione della relazione che Chlebnikov aveva con i suoi lettori. Accusato di incomprensibilità, non per questo smetterà mai di tentare di comunicare con tutti gli strati della popolazione, in quanto sentirà il ruolo di poeta come missione “evangelizzatrice” (nel senso di portatore di un messaggio) del volgo, di cui si sente sempre profondamente parte. Chlebnikov, nelle sue poesie, tende a fondersi completamente non solo con l’oggetto della lirica, ma anche con chi legge la legge: nella sua poesia troviamo un alternarsi tra un Io che scrivo e un Noi che possiede l’Io e anche il resto della lirica (cfr. Weststeijn 1986, pp. 217-225). Anche in

Zangezi questo Noi totalizzante viene ripreso anche tramite una completa

(almeno all’inizio) cancellazione dell’Io narrante e l’uso continuo della terza persona:

«In the “Introduction” to Zangezi there is no speaking “I”. By means of passive constructions […] the use of the first person is consequently avoided and furthermore the author is described in third person […] It can serve as a model of the unfixed position of the implied author and the impossibility to separate him from the explicit author as well as from the hero Zangezi». (in Grübel 1986, pag. 413).

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L’ultima superficie del testo si distacca completamente dalle altre, tanto da poter diventare un poema autonomo: è intitolata Il Dolore e il riso (Gore i

Smech). Narra l’incontro tra la personificazione del Dolore e del Riso con

un misterioso Vecchio, che sembra reggere il destino del mondo. Elaborazione ancora più complessa delle precedenti superfici, viene evidenziata la complementarità dei due sentimenti contrapposti: procedendo mano nella mano, il Dolore legittima l’esistenza del Riso e viceversa. Il poemetto si conclude con la morte improvvisa del Riso, segno che il Dolore ha preso il sopravvento sul destino dell’uomo.

La morte del Riso si può anche interpretare come un rovesciamento ironico delle attese dello spettatore, così come avviene nell’ultima parte del testo, una sorta di prologo, in cui Zangezi compare dopo aver fatto credere di essere morto, proclamando che si è trattato di uno scherzo. L’ironia nelle opere di Chlebnikov è utilizzata per dilatare le attese del lettore/ascoltatore e far riflettere sulla imprevedibilità della creazione artistica e della vita stessa. Il poeta sarà profondamente influenzato in questo dalla tradizione del balagančik (teatrini di saltimbanchi che si esibivano per strada, elemento importante della tradizione teatrale russa) (cfr Lőnnqvist 1983, pp. 113-115), in cui i colpi di scena derivati dalla Commedia dell’Arte avevano un effetto dissacrante e grottesco. Lo stesso effetto che vuole creare Zangezi, in un estremo tentativo di riscatto, per far capire l’importanza del profeta/poeta alla folla/pubblico e per ribaltare, come ultimo atto, le implacabili leggi già scritte del destino.

Il vero intento di Chlebnikov in questo testo è, come detto in precedenza, la costruzione, attraverso una scomposizione quasi cubista della realtà in mondi diversi, di una nuova dimensione del reale. Le ambizioni di Chlebnikov saranno particolarmente apprezzate da Tatlin per la somiglianza con gli ideali costruttivisti:

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«Come in molti progetti architettonici dei costruttivisti […], nell’opera di Chlebnikov si manifesta questa polarità estrema della concezione dell’arte come “costruzione della vita” quando la progettualità artistica diventa utopia o fantascienza. Quello che la scienza ammette solo come ipotesi, diventa in Chlebnikov un assioma amplifica in un sistema unico di spiegazione totale del mondo, in una utopia che invoca lo scienziato dei secoli a venire perché segua il cammino tracciato dall’era della rivoluzione della parola.» (Solivetti 1985, pag. 46)

Nonostante la particolarità e l’unicità del testo, per la traduzione si sono utilizzati testi saggistici specifici sulla traduzione della poesia (presenti nella bibliografia di questo elaborato). Per la traduzione dei neologismi si è fatto affidamento alle spiegazioni fornite da Ronald Vroon (in Vroon 1983), che analizza nel dettaglio i singoli elementi della logopoiesi chlebnikoviana. Detto questo, per mantenere al meglio la musicalità dello stile del poeta e soprattutto la semantica propria della declinazione interna di Chlebnikov, si sono operate anche scelte personali e distinte da questo lavoro.

Per la traslitterazione in italiano si sono generalmente seguiti questi criteri: C = «Z» dell’italiano pazzo

CH = «CH» del tedesco Bach

Č = «C» dell’italiano cielo

J = «I» semivocalica dell’italiano ieri

‘ = Segno dolce del cirillico: palatalizza (addolcisce) la consonante che la precede.

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Verosimilmente, si deve porre la questione non dell’esattezza della traduzione, ma della sua adeguatezza, del tentativo di riprodurre in generale il grado di densità dei legami semantici nel testo. (Lotman 1964, in Nergaard 1995, pag. 259)

Durante il lavoro di traduzione, si è cercato di mantenere come principio base quello espresso da Anton Popovič: il traduttore «si sforza di riprodurre la qualità semantica dell’originale nonostante le differenze che separano il sistema di partenza da quello di arrivo, le due lingue e i due diversi modi di presentare l’argomento» (in Popovič 1970, cit. in Bassnett 1993, pag. 121). È lecito chiedersi perché tradurre in italiano un testo così complesso. La scelta è stata motivata dal desiderio di mostrare tutte le sfaccettature del pensiero chlebnikoviano e permettere al lettore di capire, attraverso la traduzione, tutte le sfumature di significato, i giochi verbali e le geniali intuizioni semantiche della poesia di Chlebnikov.

Citando il poeta Valerij Brjusov,

«È impossibile trasmettere la creazione di un poeta da una lingua all’altra; ma è impossibile anche rinunciare a tale sogno.» (cit. in Nergaard 1995, pag. 258) Quando l’autore si riferisce a personaggi ed eventi storici non deducibili dal contesto, si è deciso di utilizzare delle note a piè di pagina: vista la scarsità di questi riferimenti, la fruibilità del testo non verrà intaccata.

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