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Una scura vibrante (2) - La sconosciuta

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Academic year: 2022

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1 Una scura vibrante (2) - La sconosciuta

Aprono e chiudono a ripetizione la vetrata per uscire sulla terrazza. Il tepore che proviene da fuori è atipico. Si sta bene, suona male. Di solito quassù le mani ghiacciate della notte ti s’infilano fino sotto la camicia. Non conviene fidarsi. Anche se è estate. Ma stasera si sta bene, imprevisti a parte: un gomito mi urta il braccio facendomi rincorrere la schiuma della birra che trasborda.

-E sta attento –mi viene detto.

-Sta attento tu.

Un ragazzino che non ha più di diciassette anni resta immobile a guardarmi per un attimo. Poi riprende a menare i gomiti verso il bancone, nella ressa degli zombie. Che scivoli e muoia.

La terrazza è piena di un'umanità varia che succhia birra bionda dai boccali da mezzo litro accomodata alle versioni gigeriane di sedie e tavoli. Curve e riflessi alla Alien e Predator su un pavimento di simil acciaio.

Questo non è un sogno. Questo non è il paradiso, ma potrebbe assomigliargli. Questo non è l'inferno, ma potrebbe assomigliargli.

Scivolo accanto ai tavoli con passo leggero. Poggio il boccale su una base di alluminio rotonda sorretta da un cilindro trasparente che la fa sembrare sospesa come un disco. Mi arrotolo una sigaretta, lappando sotto il palato prima di infilarmela in bocca. Accendo un fiammifero, lo avvicino alla punta che prende fuoco sotto il mio naso. Brucio l'ossigeno in cambio di un sapore amaro che al cervello appare dolce. Che strana cosa è la mente. Si lascia ingannare pur sapendo di essere ingannata.

Nel fantasma di fumo s’intravede, seduta, Annalisa. Prima le cosce. L'effetto ventaglio aperto dell'orlo del vestito verde oliva scuro. Scuro, scuro, le fa brillare la pelle chiara delle gambe, tirato dal filo invisibile della gravità. Come una lingua pronta a leccare il pavimento. Risalendo lungo i fianchi, oltre alle cosce, c'è anche il resto. Gli occhi verdi. Quelli. Dello stesso colore del vestito. Occhi saettanti, dai riflessi mobili come un vortice d'acqua. La frangetta non è fitta. È leggera, riversa fin sulle sopracciglia. Gli zigomi sono ampi e distesi. È lei. C'è tutta.

Ha il gomito poggiato su un rialzo ergonomico del tavolo. Il pugno le regge la mascella. Gioca a far oscillare un ginocchio a destra e sinistra sotto il tavolo, dando aria alle gambe nude. Nel vestito arancione che le danza intorno alle caviglie, sua sorella è seduta di fronte con uno che dovrebbe essere il marito.

Riprendo in mano il bicchiere. Lo inclino e trattengo la schiuma col labbro superiore per far passare la birra.

Sgorga come da una fontana. Mi pulisco con il dorso della mano, appoggiato con l'altra al disco volante.

Annalisa si è appena girata, sua sorella le ha fatto segno. Mi vede, gira un ciuffo di capelli dietro l'orecchio e sorride. Le sorrido anch'io. Fa ciao con la mano, le si illuminano gli zigomi. Inclina la testa e lascia pendere la frangetta da un lato. Per comodità. Ha tagliato i capelli in quel modo per comodità. Stanno sempre al posto loro, così.

È allergica al lattosio. Questo lo so. E sta bevendo una birra senza glutine. So anche questo. So tante cose di lei. Poche ma tante. Quelle che bastano.

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Leggevo una rivista nell'ingresso quando l'ho vista per la prima volta, alle quattro e mezzo, entrare nello studio. Non aveva niente di particolare. Il seno appena accennato, le spalle spigolose, la pelle troppo chiara.

Quel vestito non mi diceva niente. Ho riabbassato lo sguardo sulla pagina per finire di leggere l'articolo sulla teoria di Everett dei molti mondi. Tutta la parte sulla fisica quantistica non l'avevo capita, ma mi mancavano appena cinque righe. Rino si è fatto avanti per presentarmela. Era una prenotazione che aveva preso lui. Ho dovuto mettermi in piedi e lasciare perdere l'ultima frase nella rivista abbandonata sulla sedia.

-Ciao, io sono Annalisa –le si sono contratte le pupille.

-Diego Conese –ho allungato la mano. Tenevo l'altra in tasca.

Non staccavo gli occhi dai suoi. Erano quel genere di occhi che non si capisce se stiano ridendo o tutt'altro.

E mentre te lo chiedi, ti fregano saettando dappertutto sul tuo viso.

-Ha prenotato lunedì scorso –Rino si è messo a leggere nella sua enorme agenda dalla copertina fiorata. Ci scrive ogni cosa, lì sopra –È un trenta per quindici longitudinale sulla schiena mediamente articolato per cui ho calcolato tre ore.

-Che cos'è? -ho cercato di guardare nell'agenda di Rino.

-È un’Ecate da incidere in zona B1 posteriore.

Annalisa ha corrugato la fronte, sollevando gli angoli delle labbra.

-È il suo modo di indicare la parte di dietro della spalla sinistra.

-Ah, ok.

-Hai un disegno?

-Sì –ha iniziato a frugare nella borsa della ragazza alle sue spalle –Lei è mia sorella, Diego. E lui suo marito – ha detto -Spero solo di non averlo dimenticato a casa.

Ho allungato una mano verso i due mentre lei cercava. Mi sono messo ad aspettare.

-Rino –ho sussurrato con una mano sulle labbra, girandomi verso di lui –Che cazzo sarebbe un'Ecate?

-È una specie di dea degli spettri e delle streghe. Porta le anime nell'aldilà. Infatti le sue statue venivano posizionate agli incroci –ha spinto gli occhiali in su con un dito –Ha tre volti: uno di ragazza, uno di donna e uno di vecchia.

Annalisa ha tirato fuori la dea. Monocromatica con chiaroscuri molto accentuati.

-Andiamo di là –li ho preceduti, li ho fatti mettere comodi. Rino ha offerto dei biscotti. Lei ha alzato una mano, facendo oscillare la frangetta. Aveva l'altra piantata tra le cosce, stretta in mezzo al vestito.

-Sono allergica al lattosio.

-Non credo che ci sia –Rino ha girato la confezione, per leggere gli ingredienti.

-Sembrano biscotti al burro. E comunque sono allergica anche al glutine.

-Lo vuoi di questa grandezza, così com'è o vuoi che lo modifichi? -le ho chiesto mettendomi di fronte.

-Di quella grandezza, grazie –ha tirato su il dito.

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3 -Vuoi metterci uno sfondo?

-Cose tipo?

-La luna, il ramo di un albero.

-Penso di sì –si è puntellata il mento con il dito –Fammi vedere che fantasie hai –ha aperto il sorriso e fatto oscillare le ginocchia.

Ci siamo guardati per diversi secondi, in silenzio come se non ci fossimo che noi. Le pareti della stanza devono essersi allontanate senza che me ne accorgessi. Klee, Kandiskji e la finestra sono andati a finire ai confini dello spazio. Dunque lei aveva questo potere.

La sterilizzatrice ha terminato. Mi sono infilato i guanti, ho raccolto il materiale, l'ho poggiato sul tavolino mobile, mi sono messo seduto e l'ho invitata con un cenno.

Ha scavalcato la poltrona reggendosi alla mia mano. Si è messa di spalle, con i gomiti sullo schienale. Ha voltato la testa guardando se la gonna era a posto sul sedere.

-Non farmi male –mi ha detto.

Ho spinto la sedia verso di lei. Ho sentito il calore della sua carne accarezzarmi l'interno delle gambe. I sandaletti alla greca cercavano una posizione stabile sul pavimento.

Per un momento l'oscurità balena sotto il suo vestito mentre si volta sulla sedia verso di me. Poi le

ginocchia si uniscono. Sua sorella mi sorride con dolcezza mentre il marito continua a parlarle di qualcosa.

Mi avvicino al loro tavolo.

-Mica lo pensavo di rivederti così presto –dice Annalisa.

Mi fermo davanti a lei. Potrei dirle tante cose. Sono quella serie di cose banali che non ho più pazienza di accettare, neanche come semplici argomenti di conversazione. Prendo un altro sorso di birra senza dire niente. Ne respiro il profumo e guardo oltre l'inferriata che delimita la veranda.

-Vieni. Devo farti vedere una cosa –allungo una mano.

-A me?

-Sì. A te.

-Dove mi porti?

-Vieni e basta.

Mi guarda con gentilezza. Lei non è finta. Non finge di essere gentile, è proprio così.

Passa in fretta una mano sul tavolo, come se cercasse qualcosa. Poi fa un gesto di rinuncia mentre l'altra mano finisce nella mia.

Si mette in piedi e io la sto già conducendo verso la vetrata.

-Dove vai? -la voce divertita di sua sorella supera il paio di tavoli che ormai ci separa.

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-Non lo so –scoppia a ridere lei, mentre entriamo attraverso la porta di vetro. Senza difficoltà proprio, non direi. Di nuovo il ragazzino, quello di prima, questa volta quasi mi spacca una costola con il gomito. Ha le ossa dure come il legno, ok.

-E sta attento –ringhia di nuovo, sputacchiando con i denti macchiati di bianco per carenza di calcio.

-Sta attento tu –rispondo. Non so se sa che cosa intendo.

Usciamo fuori. L'ombra del parcheggiatore con le mani dietro la schiena passeggia lontano sotto gli alberi dietro le auto. La sera si fa notte come un’adolescente si fa donna. La notte conosce più cose, ma sa tenerle per sé. Al passo veloce superiamo il cancello a sbarra del pub, andiamo verso la strada.

Annalisa respira al mio fianco, senza dire niente, guarda il marciapiedi per capire se sta mettendo bene i passi. È assorta nei suoi pensieri, sembra quasi mugugnare una canzone. La sua mano oscilla nella mia.

-Dove mi stai portando? -sussurra senza togliere lo sguardo da terra. Non lo sta chiedendo a me. Lo sta chiedendo a se stessa.

Svoltiamo all'angolo di un palazzo, tagliamo in diagonale una strada. Puntiamo un piccolo passaggio tra due palazzi da cui emerge il buio. Abbandoniamo la luce piatta che i lampioni riversano stancamente

sull'asfalto. Rallentiamo. C'è qualcosa a terra: staffe di legno marcio che affondano nella terra morbida sotto i nostri piedi.

-Attenta –le dico.

-Sì –neanche lo dice, sembra scivolare. Lancia un mezzo grido. Una mano corre veloce attorno alla sua vita.

È la mia mano. Con quella la trattengo a me. Annalisa soffoca una risata. Sembra su di giri.

-Vieni –le dico adesso che ha sistemato una delle sue scarpe piegando un ginocchio e alzando una gamba e che ha ripreso l'equilibrio.

Ci voltiamo verso la notte: un'antenna per la trasmissione telefonica s’innalza sulla collina puntando il cielo con una luce rossa. Riprendiamo a camminare, tenendoci con una mano sul muro farinoso di una vecchia casa abbandonata. Alla base c'è un rosa antico che ha resistito fino a un metro di altezza. Oltre è venuta fuori l'umida ossatura di tufo. Mettiamo qualche altro passo incerto sul passaggio di legna marcia. Poi scendiamo sul terreno, scansando dei bassi cespugli. Ci fermiamo ancora.

Annalisa si ripulisce le mani dal tufo sgretolato. Abbassa la testa a osservarsi le caviglie, nasconde lo sguardo sotto la frangetta. La sterpaglia ha rovinato la lucentezza dei suoi stinchi. Tenta di ripulirseli con una mano. La guardo.

-Che c'è? -mi chiede col sorriso che non ha mai tolto da quando ci siamo incontrati.

-Niente. Da qui in poi è più facile.

-Menomale. Mi sono graffiata tutte le gambe –mette su una smorfia. Quella con il labbro inferiore piegato verso il basso.

Riesce a distrarsi completamente da me soltanto quando è ritta sul bordo della collina a guardare

Manbassa. Una periferia continua attraversata da un fiume che adesso è ancora un torrente e ad agosto si seccherà del tutto. Ai limiti del paese, a Nord Ovest, i capannoni industriali sono illuminati solo dalla luce della luna. Ai tempi dei tomaifici molta gente riusciva a mandare avanti la famiglia costruendo scarpe.

Adesso è tutto abbandonato. Migliaia e migliaia di metri quadri un tempo attrezzati per la produzione, sono

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vuoti. I loro proprietari sono scappati in Albania e Romania, dove la manodopera costa meno. Più vicino a noi Manbassa circola lenta nei fari delle auto che illuminano i giardini segreti, le finestre aperte sui cortili, i quartieri bassi.

La brezza notturna scivola tra i capelli di Annalisa che si sollevano sulla nuca. Gli steli di erba incolta rivestono la calata di terra che ci divide da quel silenzioso mondo in miniatura. Tra i rami di un noce non molto lontano è incastrata una luna a tre quarti. Gliela indico con un dito.

-È il tuo sfondo –le dico –Volevi vedere che fantasie avevo. Questa è quella che ti riguarda.

Annalisa si gira e sorride. Mi guarda le labbra. Adesso è bellissima. È Ecate, dea degli spettri, delle streghe e della notte. Dea della morte e del crocevia sul sentiero di terra che ne incrocia un altro proprio sotto i suoi piedi.

Valuta il terreno prima di portare una mano dietro la gonna. Se la tiene per mettersi seduta. Con l'altra mano si ravvia i capelli. Mi siedo vicino a lei, raccogliendo le ginocchia.

-Non so se ho mai visto uno scenario così suggestivo –dice.

Alle nostre spalle, in lontananza, dall'inferriata del pub ci separa dalla terrazza in cui il vestito arancione continua a svolazzare attorno alle caviglie di sua sorella. Le luci e la musica fanno parte di un mondo che abbiamo temporaneamente lasciato agli altri. Nessuno può vederci o scoprirci.

Alzo un dito fino alla punta del suo naso. I suoi occhi si avvicinano tra loro per seguirlo. Scoppia a ridere.

-Dai. Mi fai sentire stupida –gli zigomi le diventano rossi. È più grande di me. Deve esserlo, di qualche anno.

Si sente stupida per questo.

Respiro il suo corpo, il profumo delle sue cosce e della timidezza che nascondono, respiro il suo alito, il sonno dell'erba, le luci e il buio. Assaggio le sue labbra. La parte superiore in un timido bacio su un'arcata umida. Non si può credere a niente di simile. Eppure lo stiamo facendo. Una piccola dose alla volta.

Le raccolgo la mano. Attraverso con un dito lo spazio fra due delle sue. Accarezzo le nocche con il polpastrello, divaricando piano, con dolcezza. Lei mi guarda estasiata. Il punto è quello, dove volevo arrivare. La piccola valle liscia che s’immerge nel passaggio tra due dita. Un posto segreto dove potermi nascondere, per il momento. Avvicino la sua mano alla mia bocca. La punta della lingua le chiarisce meglio qual è il punto.

Le sue gambe si aprono piano, come le dita nell'affronto. Sono disarmate, attendono. Adesso non le importa più se l'orlo a ventaglio della gonna si sposta di un centimetro più su lasciandole scoperte. Le guardo. Ne suono una velocemente come un'arpa, col tocco di un'unghia. Lei la ritira, le sono venuti i brividi. La gonna sale ancora un po'.

-Hai il sapore di una cosa buona –dice. Ravvia i capelli dietro un orecchio, sorridendo e chiudendo gli occhi.

Posso sentire il suo odore sprigionarsi nell'aria. Le sue gambe si stringono appena.

-Mi assaggeresti ancora?

-Oh, sì, sicuro, te lo faccio se a te va bene –agita le mani nell'aria per tirare giù qualsiasi dubbio.

-A me va bene –glielo dico sulle labbra. Il vortice adesso gira al contrario. Sono i suoi occhi a diluirsi nei miei. Ci sfioriamo le labbra. Abbiamo un po' di tempo. Lo dilatiamo piano con le lingue fino a farlo diventare un varco attraverso cui costringiamo la notte a osservarci.

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Distendiamo insieme il suo busto sul terreno, il petto le si gonfia lentamente mentre respira. Accarezzo con una mano la sua gamba lucida, quella che avrei voluto stringere e annusare quando era seduta di spalle davanti a me, mentre le incidevo la pelle e sentivo il calore dei suoi glutei.

Un dito solca l'orlo di pizzo oltre il quale la sua pelle si fa ancora più liscia. La solletico appena, è morbida e umida come una mollica di pane appena sfornato. Emana fantasie. La solletico appena, ma lei trema di colpo.

-Tirati su –mi dice.

Mi metto in piedi piano, davanti a lei.

Alza la testa sul terreno, girandola in direzione del pub per capire quanto siamo lontani. Non ha più esitazioni. Sento le sue unghie scivolarmi oltre il bordo dei jeans, l'aria fresca della collina sulla pelle.

Il calore di un respiro che si avvicina si trasforma in una stretta umida che inizia a scivolare. Si avvicina, si allontana. Prende un ritmo fluido, mentre le sue dita si aprono sulla mia pancia e la mia mano finisce da qualche parte fra i suoi capelli.

Sfila le gambe dalle mutandine con un gesto unico, senza smettere di usare la bocca. Le stringe in una mano per paura di perderle. Era una bambina, adesso è una donna e domani mattina saremo già vecchi.

Stefano Saccinto

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