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Troppo grande e troppo piccola

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Academic year: 2022

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Troppo grande e troppo piccola

Sono sempre stata troppo grande o troppo piccola. Come se gli appuntamenti significativi della vita mi avessero sempre colta

disassata e impreparata rispetto alle svolte che, di volta in volta, mi attendevano. Tutto cominciò dalla nascita. La mia, ovviamente. Che avvenne nel gennaio del 1924. Il nove. Per la precisione mercoledì.

Volendo essere proprio tanto pignoli alle quattro del mattino. Era una notte metallica. Senza una nuvola. Con luna e stelle che parevano a portata di mano. La luminosità scendeva veloce dal cielo e rotolava arrogante sulla neve dura come il marmo. Il risultato era un quadro di Chagall, senza violinista né musica. Non avevamo certo un

termometro che misurasse la temperatura. Figuriamoci. Però l’acqua gelata nel pozzo, la durezza della neve e i bianchi ricami sui vetri delle finestre di casa erano elementi sufficienti per poter affermare che i gradi sotto lo zero erano molti. La frazione Vareglio dove sono nata io si caratterizzava per un freddo invernale aspro e ruvido, contrastato da estati così umide e calde da collocarsi ai limiti della sopportabilità. Insomma, per viverci, un postaccio. La stanza dove mia madre provava con tutta se stessa a scaraventarmi nel mondo poteva contare su una stufa a legna che, pur facendo appieno il proprio dovere, risultava troppo timida per il contesto nel quale

doveva operare. Questa situazione difficile non impedì che nascesse una bimba sana, robusta, grossa, vispa. Giovanna Vallesio. Cioè io.

Mi piacerebbe poter aggiungere “bella” alla lista degli aggettivi, ma risulterei poco credibile. Meglio non esagerare. Fatto sta che

trascorsi i primi anni della mia esistenza giostrando nel mio personale triangolo di vita. Casa, stalla (soprattutto in inverno), cortile. Correndo e caracollando senza posa. Appunto, da bambina sana e vispa. Incrociando tutte le esperienze più scontate e banali per una bambina piccola a quell’epoca. Corsi dietro alle galline.

Rubai i mandarini nascosti e destinati a trasformarsi in pacco regalo di Gesù Bambino. Mi ferii mille e mille volte. Ebbi una sorella cui volevo tanto bene e che provai ad uccidere almeno un paio di volte.

Presi carezze e schiaffi da mia madre in proporzioni che non saprei

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quantificare. Tutto normale insomma. Sino a che non arrivò l’estate del 1929, quando io avevo abbondantemente superato i cinque anni.

Ed ero diventata grande. Così almeno sentivo dire. La cosa che mi parve strana fu che i miei cinque anni e mezzo fossero diventati crescente oggetto di discussione tra mio padre e mia madre. Li sentivo e li vedevo chiacchierare alludendo chiaramente a me, per zittirsi all’improvviso al mio apparire. Insomma parlavano senza dubbio di me. L’argomento però, qualunque esso fosse, non veniva mai affrontato pubblicamente. Captavo solo qualche parola a caso:

ottobre, grande, gennaio. Sino a che una mattina mia madre mi fece indossare il vestito con cui la domenica andavamo a messa. Ma non era domenica. E mi disse «Devi andare con papà. E’ importante.

Comportati bene.» Assorbii quelle parole senza capirle, accettai la mano che mi porse mio padre e lo seguii trotterellando.

Attraversammo un’ora di cammino nel reciproco silenzio. Io ogni tanto guardavo quasi di nascosto (o almeno così credevo) il volto di mio padre. E vedevo lei. La storta ruga che la fronte metteva in mostra tutte le volte che mio padre era alle prese con un momento significativo o con una decisione importante. Era estate, giorni afosi come solo quella zona infossata nel terreno poteva regalare. Io ero piccola (o grande?), però sudavo sotto quel soffocante vestito della festa. L’ostinato silenzio di mio padre mi imbarazzava. Avevo intuito che le discussioni dei miei genitori e la camminata verso Tigliole che stavamo facendo mi riguardavano. Ma non avevo certo gli strumenti per capire il perché. Entrammo in paese sotto un sole rovente,

degno di un luglio feroce e violento. La strada era deserta e

arrivammo di fronte al palazzo comunale senza incontrare nessuno.

Mio padre bussò forte a una porta e poco dopo, con la colonna sonora di uno scalpiccio pigro, apparve un uomo con una camicia nera stazzonata e i capelli arruffati. Mio padre e quell’uomo

parlarono alcuni minuti, mentre la mia attenzione venne attratta dai marmi che adornavano il palazzo nel quale ci trovavamo. Ciò non mi impedì di intercettare qualcuna delle poche ma significative parole che i due si scambiarono. Scuola, non dipende da me, ottobre, regalo, maestra, grande. Ma soprattutto intuii che, discutendo, si riferivano a me. Questo non rese omogeneo il quadro nella mia testa, però mi diede la forza, dopo essere ripartita con mio padre, di

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porre una domanda. «Papà, dove stiamo andando?» «Adesso

torniamo a casa. Ma nel pomeriggio andremo a trovare una maestra.

Sei contenta?» Per quanto ovvio non capii perché mai avrei dovuto essere contenta di andare a trovare una maestra. Compresi tempo dopo che mio padre, nella sua immensa confusione sul ruolo delle istituzioni, era andato a domandare un servizio scolastico non a una autorità preposta, bensì al podestà del comune di Tigliole. Al

colloquio con la maestra Verdi del pomeriggio mio padre mi fece assistere e, per certi aspetti, anche partecipare. «Grazie. Li posi pure lì.» Così ci accolse la maestra in casa sua, indicando a mio padre l’acquaio dove posare i due polli che lui teneva in mano e che aveva portato per tutto il cammino. I polli erano già morti e, pertanto, non si erano beccati tra loro. Seduti al tavolo di fronte a tre bicchieri di acqua la maestra provò blandamente a interrogarmi. «Sei

contenta di venire a scuola a ottobre?» Come era giusto che fosse non capii bene la domanda, però intuii che la risposta giusta poteva essere una sola. «Sì.» «Hai l’aria sveglia. Imparerai sicuramente senza difficoltà. Ci vediamo a ottobre.» Fu così che, grazie a due polli e a poche chiacchiere, nell’ottobre del 1929 iniziai a frequentare la prima elementare in anticipo di un anno rispetto a quanto previsto.

Cominciò un periodo di quasi felicità. Andare a scuola si rivelò per me come una carezza. Aritmetica e grammatica. E poi storia,

geografia, italiano. Imparare, capire, conoscere. Questa dimensione della vita mi inebriava, dandomi gioia al massimo. Ero la più piccola di tutti i miei compagni, ma non mi pesava assolutamente. Nessuno se ne accorse e, quindi, nessuno me lo fece notare. Ricordo le spiegazioni, i compiti, le interrogazioni. Tornavo a casa e provavo a trasferire a mio padre e a mia madre il complesso mondo della conoscenza. Loro mi guardavano. Stupiti e contenti. Ma anche

increduli. Felici della mia felicità ma incapaci di comprendere sino in fondo. Preoccupati ogni qual volta chiedevo loro i soldi per comprare un quaderno. Mio padre, ferito negli occhi mai curati e limitato da una seconda elementare frequentata troppi anni prima, prese a farsi leggere da me il giornale acquistato la domenica. Ero una semplice scolara delle elementari, ma mi sentivo, nel mio microcosmo

familiare, come una depositaria del sapere, una intellettuale a tutto tondo. Spiegavo libri e quaderni sul tavolo di cucina per fare i compiti

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con la sacralità con la quale il prete si appresta a consultare le scritture. Un aspetto strideva e i relativi conti non mi tornavano. Gli insegnamenti della maestra Verdi e del sussidiario erano

interamente conditi da continue lodi verso il Duce e il fascismo.

Canti, fatti storici, frasi roboanti. Tutto serviva per esaltare Mussolini.

Mio padre, viceversa, non perdeva occasione per criticare il regime.

Esercizio che, per quanto ovvio, limitava ben dentro le mura di casa.

Ma alla fine nemmeno questo mi turbava molto. In fondo mio padre era anziano, forse anche saggio, però non certo allineato alle

modernità del mondo. Insomma trascorsi alcuni anni da sapiente.

Contenta della scuola e del mio status di prima della classe. Arrivò così la mia quarta elementare, l’ultimo anno di scuola. All’epoca, infatti, l’obbligo scolastico si arrestava alla quarta elementare.

Dall’anno successivo la frequenza diventava facoltativa e, soprattutto, con costi considerevoli. Ragion per cui era fuori discussione che io potessi continuare a studiare. Mi sarebbe

piaciuto, certo. La stessa maestra Verdi aveva più volte detto a mia madre che ero molto brava, intelligente e che avrei meritato di

continuare gli studi. L’argomento però non era nemmeno entrato nella nostra casa. Né io ebbi mai modo di insistere su questo. Il mio ruolo di figlia non prevedeva certo che io potessi dire la mia opinione su un argomento così strano quale il mio futuro. Iniziai e proseguii la quarta elementare senza troppo crucciarmi che di lì a poco questa fase della mia vita sarebbe finita. Con la stessa consapevolezza e determinazione degli anni precedenti studiai e imparai. Con

l’orgoglio di Roma antica, gli insegnamenti del Duce e inni patriottici vari a fare da cornice a ogni giornata di lezione. La mia grande fierezza di scolara non si era per nulla affievolita, anzi era cresciuta nel tempo. L’inverno tra il 1932 e il 1933 fu una stagione gonfia di neve. Benevola per le coltivazioni e fonte di gioia per noi bambini.

Giocare a palle di neve e scivolare su rudimentali slitte riempivano i nostri pomeriggi. Quel giorno di febbraio era splendido. Un sole senza nuvole nemiche rendeva luminescenti i campi occupati dalla neve. Un cielo blu da ferire gli occhi era solcato da uccelli neri che sgranchivano le ali aspettando primavera. Il freddo era, come si suol dire, pungente, reso quasi insopportabile dal nostro immergere mani e piedi nella neve. Quattro rintocchi rotolarono nell’aria e, parimenti,

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le ombre diventarono maggioranza rispetto alla luce. A quel punto corsi a casa. Per il freddo, il quasi buio, i compiti da fare. Gli zoccoli di legno e una lastra di ghiaccio nel cortile mi tradirono, scivolai e caddi strisciando le ginocchia su acuminati cristalli di ghiaccio. Mi sedetti sui gradini di ingresso della casa per ripulirmi. Fu così che udii i miei genitori discutere. Direi anzi confabulare. Poche parole mi arrivarono: piccola, ottobre, maestra. Feci una ulteriore prova.

Spalancai la porta di ingresso in cucina all’improvviso. Mia madre e mio padre si zittirono di colpo con un fare quasi imbarazzato. A questo punto avevo avuto la certezza che parlavano di me. Nello stesso modo misterioso usato anni prima. Come un tempo, però, non compresi l’argomento. Gli anni erano comunque passati. Io ero più grande. Mi ero fatta più furba. O almeno così credevo. Iniziai quindi a porre grande attenzione a tutte le volte che vedevo i miei genitori discutere con fare riservato, sperando di riuscire a decifrare quello che si stava di me dicendo e, soprattutto, decidendo. Niente da fare. Le parole captate erano sempre più o meno le stesse.

Pensai pertanto che, se io mi ero fatta più astuta, anche loro avevano aumentato le precauzioni. Capii ovviamente che l’argomento era la scuola. Non poteva essere altrimenti,

considerando che era l’unica attività di rilievo che svolgevo dall’alto dei miei nove anni compiuti. «Vattene via brutto nano» così marzo apostrofò febbraio spodestandolo e planando sui campi

accompagnato dai primi stormi di uccelli. La prima disposizione del nuovo mese fu quella di trasformare immediatamente il ghiaccio del cortile in fango scuro e colloso. La primavera pettinò la cima degli alberi colorando di verde scarni e scheletrici rami imploranti verso il cielo. Mentre accadeva tutto questo la mia scuola proseguì e il

chiacchiericcio dei miei genitori alle mie spalle anche. Le parole che riuscivo a captare erano sempre le stesse. Ottobre, piccola, maestra, scuola. A volte faceva capolino anche il termine polli. Ripetuto

soprattutto da parte di mia madre. Intanto aprile aveva preso a calci marzo e, successivamente, maggio aveva regalato al mondo il primo fieno, dando un senso al lavoro, sino ad allora asfittico, di mio padre.

Le galline avevano ripreso a fare le uova e l’insalata cominciava a crescere. Mia madre, nel preparare pranzi e cene, appariva meno corrucciata. Un pomeriggio brillante della fine di maggio mio padre,

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dopo essersi sommariamente lavato e avere indossato il vestito migliore, partì portando in mano due polli e nelle tasche le mille raccomandazioni di mia madre. Attraversò il cortile con fare

imbarazzato, scoccandomi una occhiata insieme fulminante e dolce.

Immaginai che stesse andando a trovare la maestra. Di conseguenza mi si spalancò nella mente una immagine

meravigliosa. Capii quello che sino ad allora non avevo compreso.

Avrei fatto anche la quinta elementare. O meglio, in maniera più prudente, i miei genitori stavano tentando di farmi frequentare la quinta classe elementare. Sapevano quanto io ci tenessi. Avevano inteso la maestra Verdi ribadire più volte quanto lo meritassi. Certo, le tasse scolastiche erano elevate e i soldi non c’erano. Però forse, potendo contare sull’amicizia della maestra, si sarebbe potuto

risolvere il problema. E poi se due polli erano serviti per farmi andare a scuola prima, avrebbero ben potuto avere una funzione anche quattro anni dopo. Attraversai i giorni che mi separavano dalla fine della scuola cullandomi in questo sogno. Che non mi osavo rendere pubblico in casa. Anche perché i miei genitori si guardavano bene dall’affrontare la questione. Arrivò infine l’ultimo giorno di scuola. Era un caldo giorno di inizio giugno, con il grano quasi maturo e le piante di pomodoro che nell’orto mostravano già i loro fiori. Arrivai in classe in quella che si annunciava come una mattina scolastica senza

studio. Ci aspettavano invece ore di saluti, risate, abbracci. Di

biscotti portati da casa. Di pagelle. E, soprattutto, di addii. Le finestre spalancate innaffiavano di vento l’intera stanza. Entrai, timorosa e piena di speranza, nel locale ancora semivuoto. I banchi

monoblocco, scomodi all’inverosimile, erano lucidi da decenni di utilizzo. La lavagna dritta, sull’attenti, si preparava a salutare ufficialmente i propri compagni di viaggio. La cattedra e la stufa, impettite, parevano consce dell’importanza della giornata. Mi sedetti composta al mio posto, come se si trattasse di un giorno qualunque.

Eccezione fu l’estrarre dalla cartella una decina di biscotti

confezionati da mia madre la sera precedente. La maestra si mostrò più allegra e gioviale e gentile del solito. Forse era in qualche modo emozionata anche lei. O, più banalmente, era contenta di iniziare le vacanze. Proprio come noi scolari. L’eccitazione era palpabile. Il brusio crescente. Io ero agitata come se, anziché l’ultimo, fosse

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stato il primo giorno di scuola. L’ipotesi che l’anno successivo io avrei frequentato la quinta aveva fatto strada tra le mie convinzioni.

Ma, tutto sommato, la certezza non esisteva ancora e non immaginavo quando la avrei avuta. Poi mangiammo biscotti e gridammo come pazzi, felici di poterlo fare in un luogo così sacro come un’aula scolastica. La maestra recuperò un minimo di autorità e ottenne un simulacro di silenzio. «Bambini, oggi è il giorno dei saluti. Ma non solo. Adesso sedetevi nel vostro banco. Vi chiamerò uno alla volta, ci saluteremo e vi darò la pagella.» Obbedimmo, esibendo il miglior silenzio che ci era possibile produrre. Luigi, Mariacarla, Carlo. I miei compagni sfilarono tra i banchi a ritirare, nell’ordine, la pagella e un bacio della maestra. Quando sentii

scandire «Giovanna Vallesio» dovetti penare per convincere le mie gambe a muoversi. Presi la pagella e la infilai nella cartella. Incassai bacio e abbraccio della maestra. Ma per me ci fu un supplemento di commiato. «Giovanna» mi richiamò sorridendo la maestra mentre già me ne stavo andando «tu e io ci rivedremo l’anno prossimo. Sei contenta?» Con questa consacrazione ufficiale della mia quinta elementare per l’anno scolastico 1933/34 il vaso della mia emozione fu colmo. Percorsi come volando la discesa che mi conduceva a casa. Il film degli alberi e dei campi e delle case scorreva davanti ai miei occhi a velocità accelerata. Il desiderio di abbracciare i miei genitori, di baciarli, di ringraziarli per il grande regalo che mi avevano fatto traboccava dalla mia testa, rotolava quasi per la strada

costellata di sassi e mi procurava una frenesia grande. Arrivai come una freccia nel cortile di casa. Tanto veloce da spargere il panico.

Mio padre, alla mia vista, trotterellò verso la stalla trascinando la sua gamba offesa a causa di una scheggia di bomba intercettata oltre quindici anni prima in una trincea. Lo sbattere di una porta salutò invece mia madre che scomparve nella immensa cantina e dispensa posta dietro la casa. Di lei feci in tempo a intravedere il nero

grembiule svolazzante. Non li inseguii, immaginando che fossero alle prese con problemi (una mucca era in attesa di partorire) troppo gravi e urgenti per occuparsi di me e della mia felicità. Sedetti

pertanto sola su una sedia in cucina e posai la cartella sul tavolo.

Estrassi i libri. Intravidi la pagella. Già, la pagella. L’emozione per la notizia del proseguimento della scuola era stata così robusta da

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accantonare persino la curiosità sui voti ricevuti per le varie materie.

E’ vero, ero la prima della classe. I voti erano sicuramente tutti buoni. Tuttavia c’è una differenza tra un sette e un otto e un nove.

Presi pertanto a guardare con attenzione i miei risultati dell’anno scolastico 1932/33, undecimo dell’era fascista. Primo trimestre. Gli otto e i nove fiorivano. E poi, ovviamente, il dieci di storia. Nel

secondo era ancor meglio. I dieci erano tre. Storia, lingua italiana orale e scritta. E tanti nove. Sette di disegno. Ero veramente

incapace a disegnare. I voti del terzo trimestre non c’erano. Guardai meglio, controllai, quasi “grattai” la pagella. Niente. Nessun voto.

Tutte le caselle di qualsiasi materia erano vuote. Al posto dei giudizi, di traverso, una frase. “Per motivi di salute l’alunna non ha

frequentato le lezioni del terzo trimestre.” «Non è vero» mi sfuggì a voce alta «a scuola sono sempre andata. Non sono stata malata.

C’è di sicuro un errore!» Pensai a uno scambio di pagelle e voltai istintivamente pagina. Il mio nome era lì. Netto con i suoi corollari. A fugare ogni dubbio. Giovanna Vallesio. Nata a Tigliole il 9 gennaio 1924. Era proprio la mia pagella. Tornai all’interno del documento. E scrutai ancora, convinta di avere avuto una visione. Lessi tutto con pedante attenzione, a partire da “pag. 2” in alto a sinistra. Scorsi tutto: trimestri, materie, voti. Tutto era come avevo letto pochi minuti prima. Intanto i miei genitori continuavano a non farsi vedere. Una strana inquietudine si impadronì di tutto il mio essere, mentre un leggero tremore, partendo dalle mie mani, occupò tutte le parti del mio corpo. Poi arrivai al fondo a destra di pagina 3. “L’alunna

Vallesio Giovanna non è stata promossa.” Non iniziò a girarmi la testa. E nemmeno cominciai a piangere. Il mondo restò uguale a prima, compreso un vento indifferente che, entrato dalla finestra, prese a pettinare le pagine dei quaderni e i miei capelli. Spazzò anche la nebbia che circondava i miei pensieri. E pertanto, improvvisamente, capii tutto. Il colloquio di mio padre con la

maestra, i due polli, la frase “Tu e io ci rivediamo l’anno prossimo.

Sei contenta?” Si erano messi tutti d’accordo per bocciarmi.

Bocciare me. Giovanna Vallesio. La prima della classe. Tentai di alzarmi e di andare a nascondermi da qualche parte. Però, a quel punto, mi cedettero un poco le gambe e ripiombai sulla sedia. Sentii un rumore brusco e un soffio lieve sulla testa. Era mia madre che mi

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accarezzava. Strinsi i pugni e provai ancora a rialzarmi. Niente da fare. Pregai persino. «Mamma, se mi vuoi bene vattene via» così mi pare fosse il mio pensiero. Che non riuscì a tradursi in parole. E appunto non accadde e mia madre rimase. «Giovanna, devi capire.

Hai poco più di nove anni. Non potevamo farti andare a lavorare nei campi.» Mi voltai a guardarla. «Sei troppo piccola.»concluse mia madre girando il minestrone sulla stufa.

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