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VALENTINO NOTARI. La storia di Sweet Pea

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Academic year: 2022

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VALENTINO NOTARI

La storia

di Sweet Pea

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VALENTINO NOTARI

COSPLAY GIRL ORIGINS

La storia di Sweet Pea

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#Families

Nei pochi giorni che ci separano dalla partenza cerco di tenere la mente il più concentrata possibile e, ogni volta che non sono impegnata nei preparativi insieme agli altri, passo ore e ore sulle letture estive facoltative, forse anche per tenere a bada i sensi di colpa che mi divorano a ogni telefonata dei miei.

Di solito chiamano all’ora di cena, che a Barbuda significa primo pomeriggio.

La strategia ideale è riempirli di domande per evitare che siano loro a farne a me. Ascolto lunghi resoconti dei posti meravigliosi che hanno visitato al seguito dell’entourage del console, a volte anche con una punta di invidia. Quando ero più piccola, capitava spesso di andare con loro, e i viaggi di rappresentanza erano quelli che preferivo. Ricordo bene una giornata trascorsa a tuffarci tutti e tre da una bassa scogliera a Cuba, la sensazione dell’acqua che mi gorgogliava nelle orecchie mentre affondavo come un siluro nell’oceano cristallino.

Fin quando, immancabile, arriva la fatidica domanda di rito:

«Come va lì?».

«Tutto bene» dico di solito, condendo la mia elusiva risposta con qualche dettaglio della trama di Canne al vento o di 1984. Sì, a scuola amano rifilarci roba particolarmente allegra.

Ovviamente nessun accenno a Rimini, anche perché ormai il piano di fuga è quasi del tutto definito.

Barto e Lollo hanno ottenuto il permesso per andare. Le loro famiglie si conoscono da anni e, a patto che restino insieme, gli viene lasciata parecchia libertà. Per fortuna, i miei sono sempre troppo impegnati per instaurare chissà che rapporti con gli altri genitori, non credo abbiano neppure il loro numero. Quindi, a meno che non decidano di telefonare a casa di punto in bianco, non avrebbero motivo di sospettare che io non mi trovi lì. E anche in quel caso, posso sempre dire di essere uscita momentaneamente.

Sembra a prova di bomba, a parlarne così. Eppure spesso mi ritrovo a immaginare scenari orribili in cui qualche crisi diplomatica li richiama a Milano all’improvviso, o in cui Miguel passa a trovarmi senza preavviso e scopre che non ci sono.

Ma no, dai.

Lui è tutto preso dal lavoro e, per quanto plausibile, la possibilità che mamma e papà rientrino così presto a causa di un imprevisto è davvero remota. Eppure...

Per fortuna c’è Jess a mitigare le mie ansie. Il progetto di fare il gruppo dei Teen Titans ha scatenato il suo entusiasmo a livelli mai visti prima, un fuoco creativo che si diffonde a

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macchia d’olio, trascinando me, Lollo e Barto su e giù per la città a caccia di materiali e oggetti di uso comune da adattare per mettere insieme i nostri costumi.

Dopodiché, andiamo a costruirli a casa sua.

Vive con la madre in un piccolo appartamento vicino alla Stazione Centrale, un po’ buio e piuttosto disordinato. Ovunque aleggia quella fragranza alla vaniglia che associo immediatamente a lei, mescolata all’odore pungente di lacca per capelli.

«Non vedo l’ora che sia sabato!» esclama, agitando il phon come se fosse un ventaglio. «Soprattutto per l’Anime Night!»

Il getto bollente mi solletica piacevolmente la nuca. Sul tavolo è ammassato un delirio di capelli sintetici, spilli, scampoli e tubetti di colla Artiglio e, all’estremità vicino all’unica finestra, una vecchia Singer che ha decisamente visto giorni migliori.

«La festa a tema?» chiede Barto, gridando per sovrastare il rumore.

Jess piega le labbra in un ghigno, a cui non posso fare a meno di unirmi. «Esatto!»

Di nuovo, la mia fantasia spicca il volo e la testa mi si riempie di immagini di me e Jess che balliamo al centro di una folla festante.

«Vedrete, Rimini non è come le altre fiere!»

A quanto pare, l’evento si tiene nel bel mezzo di una delle piazze principali della città, di fianco al lungomare.

«E sì, è pieno zeppo di normies.»

Lollo la fissa da sopra la propria piadina. «Di che?»

«Normies, persone normali» specifica lei, con lo stesso identico tono di Hagrid quando spiega a Harry Potter cosa sia un babbano. «Gente che non fa cosplay.»

Non mi ero mai soffermata a ragionare su quante cose diverse sappiano fare i cosplayer. Ma osservando il riflesso di Jess nella portafinestra, che tagliuzza e ravviva la mia nuova chioma rosso fiammante con la professionalità di una vera parrucchiera, non posso che rimanere affascinata. Quello, e il fatto che le sue unghie mi sfiorino piacevolmente il collo di tanto in tanto mentre lavora.

La voce di sua madre mi riporta alla realtà. «Ragazzi, la cena è pronta!»

«La cena?» biascica Lollo, cercando di mandare giù un boccone di piadina. «Non era questa?»

Un istante dopo, la signora Masera piomba in salotto con un grosso pentolone fumante. Rasatura laterale e abiti da pseudopunkettona a parte, è la copia sputata di Jess con vent’anni di più. E tanto basta a far girare ogni volta la testa di Barto e Lollo, che la fissano come se si fossero trovati davanti a Michelle

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17 Pfeiffer dei tempi d’oro. Inutile dire che si beccano una delle mie caratteristiche alzate di sopracciglio con rotazione completa della pupilla.

«Tesoro dai, metti via adesso e aiutami ad apparecchiare.»

«Ma mamma, ci siamo sfondati di piada...»

«Su, forza» la interrompe lei, con un sorriso accondiscendente, iniziando a spostare un po’ della roba su una sedia nell’angolo. «Scusate per il disordine, ragazzi» aggiunge poi, posando gli occhi su di noi. «È sempre così prima di qualche fiera.»

C’è una sorta di tacita e dolce complicità tra loro. Penso a come reagirebbero i miei se riducessi il nostro angolo cottura in questo stato e provo una stilettata di invidia per Jess, a cui è permesso coltivare la sua passione in casa propria senza venire giudicata e messa a disagio. Altra cosa che le invidio, scopro ben presto, è la qualità della cucina di sua madre. Dalla pentola arriva un profumo di ragù che non mi fa certo rimpiangere la busta di 4 Salti in Padella che mi attende nel freezer di casa.

Non appena ci sediamo a tavola, mi fiondo sulle penne, infilzandone quattro in una sola forchettata. Piadina o no, dopo una giornata passata a scarpinare su e giù per via Paolo Sarpi ho ancora parecchio spazio nello stomaco. Jess mi rivolge un sorrisetto da sopra il piatto e, sentendomi avvampare, abbranco il bicchiere colmo di limonata e ne prendo un lungo sorso, godendomi la sensazione del liquido gelido lungo la gola.

«Allora» esordisce sua madre, affabile, «primo cosplay, eh?»

«Mmh-mmh» mugugna Lollo.

«Oh, bene, bene. Sono contenta che Jessica abbia trovato dei nuovi amici.»

È il suo turno di arrossire. «Mamma!»

Osservo la scena rapita. Il lieve imbarazzo sul volto di Jess, l’affetto con cui si rivolge a sua madre mentre condividiamo la pasta al ragù che ha cucinato per noi... quella semplice scena di vita quotidiana mi gonfia il cuore di un’emozione sconosciuta, una sorta di nostalgica malinconia verso qualcosa che non ho mai provato, se non in rare occasioni.

«Federica! Posso sistemare la tua stanza?»

Mi affaccio dal bagno, la bocca impastata di dentifricio.

«No, Gina!» biascico, dando una spinta alla porta per nascondere il disastro nella mia camera. «Ci penso io!»

«Ma tua madre...»

«Davvero, lascia stare» la interrompo, «sto facendo un progetto per scuola, c’è un casino pazzesco.»

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La sento borbottare qualcosa mentre gira i tacchi e percorre il corridoio a ritroso. È sempre così, con lei: fa le pulizie in casa nostra da quando ci siamo trasferiti e a volte ho l’impressione che voglia farmi da seconda madre. E sinceramente, una basta e avanza.

Mi sciacquo rapidamente il viso e mi do un velo di fondotinta e cipria, più un tocco di eyeliner, per celare la stanchezza delle ultime notti passate a lavorare al costume di Starfire, tra un dungeon e l’altro su World of Warcraft. Una spruzzata di profumo, rigorosamente Chanel alla pesca, e imbocco l’uscio proprio mentre il mio cellulare vibra insistentemente.

Doppio messaggio di Miguel: “Sono qui sotto”, e poi: “Sei sempre la solita ritardataria”, più una serie di faccine con la linguaccia.

Ridacchio, mentre gli invio un paio di emoticon sbuffanti.

«Gina, io scendo!»

«Va bene! Ci vediamo martedì!»

Faccio rapidamente le scale, le pieghe della minigonna di jeans che mi rimbalzano sulle cosce a ogni gradino. Un breve saluto al portiere e, riparandomi gli occhi, mi immergo nella calura di luglio. Corso Buenos Aires è già affollato di gente, uomini e donne d’affari in giacca o tailleur che marciano frettolosi lungo i marciapiedi, superando turisti intenti a specchiarsi nelle vetrine dei negozi e gruppi di liceali che si godono l’estate passeggiando pigramente su e giù per la via.

Individuo Miguel appoggiato alla ringhiera del sottopasso della metro, il corpo scolpito avvolto da una sottile camicia di lino e un paio di Ray-Ban dalla montatura sottile a celarne gli occhi scuri.

Gli corro incontro e mi lascio avvolgere in un abbraccio, inalando la piacevole fragranza del suo dopobarba mentre mi posa un ruvido bacio sulla guancia.

«Fatti guardare» esordisce con il suo italiano fortemente accentato. «Eres un encanto.»

Sorrido, dandogli un pugno sulla spalla muscolosa. «Anche tu non te la passi male! Allora, come va all’agenzia? Devi raccontarmi tutto!»

Mi offre il braccio e ci incamminiamo a passo tranquillo verso San Babila, accarezzati dal sole ancora non eccessivamente caldo. Mi piace andare in giro con Miguel, adoro la sua sicurezza, quel suo modo di guardare il mondo negli occhi come se nulla potesse turbarlo. Mi ha sempre fatto sentire protetta, fin da quando ero bambina e lui un adolescente tanto gentile quanto irritante. Ogni volta che i nostri genitori ci lasciavano a giocare insieme, mi tormentava infilandomi ricci nelle scarpe o

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19 facendomi perdere anni di vita arrivandomi alle spalle all’improvviso.

Un giorno mi spaventò così tanto che caddi all’indietro e sbattei forte il sedere contro il marciapiede. Lo ricordo come fosse ieri. Eravamo a Barcellona, sul lungomare, e lui era venuto a stare da noi per qualche giorno. Gli strillai che lo odiavo e corsi a piangere da mio padre, che però si fece una risata e mi arruffò i capelli, dicendomi: «Su, niña, stava solo giocando».

Lo difendeva ogni volta. Lui e le sue stramaledette imboscate.

Eppure, la verità è che nessuna giornata era bella come quelle che trascorrevamo insieme. I compagni di scuola andavano e venivano, ma Miguel era una costante nella mia infanzia. E sebbene si divertisse a prendermi in giro e a fare scherzi idioti, quando importava davvero è sempre stato dalla mia parte. Ho perso il conto di quante volte si sia addossato la colpa delle nostre malefatte, anche perché era ben consapevole che i miei genitori lo avrebbero a malapena sgridato.

Negli ultimi anni ci siamo visti molto meno, a causa del nostro trasferimento a Milano, ma qualche mese fa papà gli ha trovato quest’occasione di lavoro in un’importante agenzia di moda e lui è venuto a vivere in un piccolo appartamento sui Navigli. Non riusciamo a frequentarci chissà quanto, tra la scuola e i suoi impegni di rampollo in carriera, ma è bello saperlo a solo qualche fermata di distanza.

«Potrei essere promosso molto presto» confessa, passandosi la mano libera tra i corti capelli ingellati.

«Di nuovo? Non ti avevano dato un aumento tipo due mesi fa?»

«Che posso dire? Sono un... ¿cómo se dice? Ah sì, un figo!»

Gli tiro un altro cazzotto. «Lo stai imparando bene l’italiano, eh?»

«Ho avuto un’ottima insegnante.»

Continuiamo a punzecchiarci e a raccontarci le nostre ultime novità, fin quando non ci sediamo accaldati sui gradini del Duomo. Miguel tira fuori una borraccia e me la cede.

«Allora, chi è la fortunata?»

Per poco non sputo la sorsata d’acqua tiepida che sto cercando di mandare giù. «Come, scusa?»

«Ti conosco» mi fa lui, stiracchiando le spalle. «Sono tre settimane che mi dai buca e tua madre mi ha detto che esci continuamente di nascosto.»

«Non ci riesce proprio a tenere la bocca chiusa, cazzo.»

Per un attimo, penso di confessargli ogni cosa. Rimini, il piano di fuga, quello che provo per Jess. Vorrei sfogarmi con lui,

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raccontargli cosa mi affligge, chiedergli di aiutarmi a convincere i miei a farmi studiare ingegneria.

Ma qualcosa mi frena. Una sensazione, forse legata al rapporto che Miguel ha con papà. Un conto sono le stronzate che combinavamo da ragazzini, ma nulla mi garantisce che decida di reggermi il gioco per una cosa del genere. Non dopo che i miei gli hanno chiesto di badare a me.

«E comunque non sono io ad averti dato buca» blatero infine, «sei tu che sei sempre impegnato con le tue modelle!»

Si fa una grassa risata, scuotendo il capo. «A proposito»

aggiunge voltandosi verso di me, «hai mai pensato di diventarne una?»

Ricambio il suo sguardo attraverso le lenti scure dei Ray- Ban. «Io? Sei serio?»

«Assolutamente» risponde, passando allo spagnolo. «È un po’ che volevo proportelo, in realtà. Non sei stanca di dover sempre chiedere soldi ai tuoi?»

Sfioro il rigonfiamento del portafogli. «Altroché.»

In effetti, sarebbe forte avere un lavoro mio. Poter rinfacciare a mamma e papà che non ho bisogno di loro. Forse a quel punto comincerebbero a trattarmi da adulta.

Miguel mi fissa da sopra la montatura degli occhiali. «Se ti rappresentassi io potresti guadagnare molto bene. Te l’ho detto, sono un...»

«... un figo, sì.»

Mi posa una mano sull’avambraccio. «Tu pensaci, d’accordo? Comunque fino a dicembre non potresti lavorare, bisogna avere diciott’anni.»

Faccio spallucce, restando silenziosa, gli occhi fissi in quelli liquidi di un piccione intento a beccare qualche briciola dal sagrato della cattedrale.

Lui si protende verso di me. «Sai che sono sempre dalla tua parte.»

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