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VALENTINO NOTARI. La storia di Sweet Pea

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Academic year: 2022

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VALENTINO NOTARI

La storia

di Sweet Pea

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VALENTINO NOTARI

COSPLAY GIRL ORIGINS

La storia di Sweet Pea

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#NothingYouCanDo

Rientro a casa che il sole è già basso sopra i palazzi di Corso Buenos Aires. Dopo la giornata passata a bivaccare con Lollo, Barto e Jess mi sento più leggera. Finalmente, la mia estate sembra aver preso la giusta piega.

Ringraziando mentalmente il capo dei miei che li ha convocati per una riunione d’urgenza, dandomi modo di uscire senza dover rispondere a domande di sorta, salgo in ascensore e attendo che la cabina sferragliante mi porti fino all’ultimo piano.

Sul pianerottolo c’è una piacevole frescura e nel mio cuore sembra essersi gonfiata una bolla di ottimismo. Chissà, potrebbero darmi il permesso di andare a Rimini, dopotutto. In cambio potrei promettere di partecipare a quella stupida conferenza a cui cercano di portarmi da mesi, quella sui rifugiati guatemaltechi. Non che non mi importi di certe cose, sia chiaro, sono molto fiera del lavoro che fanno mamma e papà. Ma a volte vorrei poter coltivare anche i miei, di interessi.

Ogni traccia di positività si dissolve non appena faccio scattare la serratura del portone, rivelando l’ingresso illuminato del nostro appartamento.

«Federica?»

Mia madre mi accoglie con uno dei suoi classici tailleur impeccabili, la giacca blu in tinta con la gonna fino al ginocchio, e un cipiglio alquanto minaccioso sul viso affilato.

«Mamma!» esclamo, senza bisogno di fingermi sorpresa.

«Che ci fai a casa?»

«E tu che ci facevi in giro?» domanda lei, gelida. «Hai scordato il cellulare da qualche parte?»

Tiro fuori il telefono con aria colpevole. Sul display campeggiano dodici pesantissime chiamate senza risposta. «Non l’ho sentito» mormoro, afflitta.

«Eri di nuovo a bighellonare con Lorenzo e Giulio, vero?»

Nessuno a parte mia madre chiama Barto con il suo nome di battesimo. Perfino i suoi genitori si sono arresi al nomignolo, diminutivo di Bartolini, al punto che ormai suo padre è noto fra noi come Barto Senior.

«È estate, mamma!» esclamo, posando lo zaino sulla rastrelliera di fianco all’uscio, inalando il familiare profumo di lavanda che permea l’intero attico. «E con i compiti sono messa bene.»

«Ah sì? Per questo sul tuo PC c’è la schermata di quel giochetto, come si chiama...?»

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«World of Warcraft» sibilo. «E no, stavo solo scaricando la nuova patch.»

Lei allarga le braccia, esasperata. «Cosa devo fare con te, Federica? L’anno prossimo hai la maturità, fra due settimane andrai al campo estivo e...»

«Allora non ci andrò, al maledetto campo estivo! Non me l’ha mica ordinato il medico!»

«Ti piaceva tanto...»

«Piaceva a voi, mamma! A me delle simulazioni ONU non frega più un cazzo da anni!»

«Ora basta, niña» interviene la voce profonda di mio padre, la cui sagoma slanciata e possente compare di fianco all’arco che conduce in soggiorno, stagliandosi contro la luce dorata che proviene dall’ampia vetrata in fondo. «Stai esagerando.»

«No, papà, siete voi che state esagerando!» sbotto, stupita del mio stesso coraggio. «Mi avete trascinato per mezzo mondo fin da quando andavo alle elementari e ora che finalmente ho trovato degli amici...»

«È per questo che ci siamo trasferiti qui, mi sembra. Perché tu dicevi di voler venire a Milano.»

Non mi piace il modo in cui ha sottolineato quel “tu”.

Neanche un po’.

«Sai com’è, mi ero un po’ stancata di cambiare scuola ogni volta che riuscivo a mettere un minimo di radici!»

Mia madre incrocia le braccia sul petto. «E quindi? Non sei felice, adesso?»

«Sì, ma...»

«Mi sembra che tuo padre e io ne abbiamo fatti a sufficienza di sacrifici per te, o no?» mi interrompe, tenendosi una mano sulla tempia, come a voler scacciare un’improvvisa emicrania.

«In cambio, chiediamo solo che ti impegni nello studio.»

«E lo faccio! Cazzo, ho la media dell’otto, mamma! Cosa vuoi di più?»

«Niña» si intromette mio padre, avvicinandomisi con un sorriso, «cosa ti ho sempre detto? No hay nada...»

«... que no puedo hacer, sì papà. Grazie, ma chissà come mai, posso fare solo le cose che piacciono a voi.»

«Sei ingiusta, tesoro» ribatte lui, in spagnolo. «Ti abbiamo sempre accontentata, qualunque desiderio tu avessi.»

L’ondata di frustrazione che ho faticosamente represso in queste ultime settimane di pseudoclausura estiva mi travolge del tutto. «Oh, certo!» sbotto, allargando platealmente le braccia. «A parte lasciarmi frequentare la scuola che volevo, studiare quello che mi interessa e coltivare le mie passioni senza dovermi sentire sempre giudicata!»

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11 Mia madre sbuffa come una fottuta teiera. «Quante volte devo ripetertelo?» ribatte, tornando all’italiano. «Il classico ti dà le basi per studiare qualsiasi materia all’università, e...»

«Io voglio studiare robotica, mamma! Dimmi a che cazzo mi servono latino e greco!»

«Sicuramente sono più utili di quello stupido videogioco.»

«Oh mio Dio, il tuo è un chiodo fisso!»

«Sì, perché trovo assurdo che tu non possa neanche metterlo in pausa, quando ti chiamo.»

«Quante volte devo ripetertelo? È un gioco online! Non è che posso metterlo in pausa quando mi pare!»

«Ieri sera sei arrivata a tavola che eravamo già al dolce.»

«E quindi? Adesso ti importa? Quante volte vi ho aspettato per cena fino alle dieci, o anche peggio, mentre voi vi facevate gli affari vostri in ufficio o chissà dove altro?

«Stavamo lavorando!»

«E per colpa del vostro lavoro io ho avuto un’infanzia di merda, va bene? Scusami se ogni tanto preferisco svagarmi piuttosto che mangiare insieme a due genitori che pensano sempre e solo ai problemi del mondo, fregandosene di come sto io!»

«Fede...»

«Cazzo, sembra che vi importi di me soltanto quando dovete farmi la predica!»

Il ceffone mi coglie del tutto impreparata. Gli occhi mi si riempiono di lacrime mentre fisso mia madre, tremando di rabbia e di vergogna. La guancia mi brucia e la accarezzo appena con il palmo della mano.

Sono completamente sotto shock. I miei non avevano mai alzato le mani su di me, tranne forse qualche raro scapaccione, da bambina. E ora...

«Irene...» mormora mio padre, incredulo quanto me.

Lei si sta guardando le dita, come se non riuscisse a capacitarsi del proprio gesto. Ma io sono troppo incazzata e ferita per provare anche un briciolo di compassione nei suoi confronti.

Le volto le spalle e mi dirigo a grandi falcate verso la mia stanza.

«Federica, aspetta...!»

La ignoro.

E per poco non vado a sbattere contro i due pesanti trolley adagiati contro il muro in corridoio. Impiego qualche secondo a registrare l’informazione.

Mi volto verso di loro, stupita. «P-partite?»

«Sì, niña. Il console ci aveva convocato per questo, oggi.

Abbiamo il volo tra un’ora e mezza.»

«Ti abbiamo ricaricato la prepagata» aggiunge mia madre senza guardarmi negli occhi. «Miguel ti chiamerà più tardi.»

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Il rumore del portone che sbatte dietro di loro riecheggia nell’attico vuoto. Fuori, la luce del giorno sta scemando rapidamente. Lotto contro il magone che minaccia di sopraffarmi, l’umiliazione dello schiaffo che ancora mi pulsa sulla pelle, le parole di mia madre che non smettono di rimbombarmi nella testa. “Mi sembra che tuo padre e io ne facciamo a sufficienza di sacrifici per te, o no?”

È sempre stato così, fin da quando ero piccola. Loro sparivano per giorni, assorbiti dal lavoro e da chissà quale crisi internazionale, mollandomi a Miguel o a qualche random babysitter locale, a seconda di dove ci trovavamo. Ogni volta mi lasciavano più soldi di quanti ne potessi spendere e tornavano stracolmi di regali, roba che lì per lì mi piaceva, ma che dopo poche ore mi stufava e che spesso abbandonavo nelle case che lasciavamo, trascinati in un altro paese dalle esigenze di qualche ambasciatore-di-’sto-cazzo.

Quando sei una ragazzina sola, te ne freghi di giocattoli, dolcetti e cose simili. E anche del denaro. Vuoi solo che i tuoi maledetti genitori ti caghino. E crescendo, quei pochi momenti che riuscivamo a passare insieme sono diventati... be’, tipo quello di poco fa. E la colpa è soprattutto della mia supposta intelligenza.

“Com’è intelligente!”

“Vostra figlia è eccezionale!”

“Da grande diventerà qualcuno!”

Questa tiritera si ripeteva in ogni singola scuola, delle decine che sono stata costretta a frequentare. E una volta a casa, si traduceva in una costante pressione perché affinassi questo talento che le maestre dicevano di vedere in me.

«No hay nada que no puedes hacer» mi ripeteva sempre mio padre. Non c’è nulla che tu non possa fare.

Un mantra che si è trasformato in maledizione, perché presto mi sono resa conto che l’unica cosa che avrei potuto fare per essere davvero accettata dai miei era seguire le loro orme e lavorare nel settore delle relazioni internazionali. Mi hanno spedito a decine di campi estivi dell’ONU, dell’UNHCR e di altre organizzazioni con sigle lunghissime che hanno cominciato ben presto a confondersi fra loro. Con buona pace della mia crescente curiosità verso le materie scientifiche.

A dieci anni vidi in televisione L’uomo bicentenario e decisi che avrei voluto diventare una costruttrice di robot.

E se all’inizio assecondarono questa mia curiosità, ben presto ai loro occhi divenne “una perdita di tempo”. Forse credevano che non fossi seria, in quell’aspirazione. O forse il problema fu che coincise con la nascita della mia passione per

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13 ogni pochi mesi, ti ritrovi a cercare un punto fermo. E per me, quell’ancora di salvezza fu World of Warcraft, un mondo online a cui potevo accedere da ogni punto del globo e che restava sempre uguale, per quanto la mia vita all’esterno potesse cambiare. E quando finalmente ci siamo trasferiti qui a Milano, nella vecchia casa dei miei nonni materni, ho conosciuto Barto e Lollo e li ho convinti a iniziare a giocare.

Jess invece era già una gamer.

All’inizio è stato strano, quel miscuglio di vita reale e virtuale, ma ci ho fatto l’abitudine in fretta. E perfino la scuola è diventata più sopportabile. È bello ritrovarsi in corridoio a ricreazione a parlare di quali dungeon esplorare una volta tornati in gioco e a discutere di quale sia il miglior set di equipaggiamento per i nostri personaggi. È come se la boriosa quotidianità del liceo si fosse trasformata nell’anticamera di un mondo fantastico che è sempre lì ad aspettarci, dietro il velo grigio delle aule scolastiche.

E i miei genitori non riescono a capirlo.

Dalla vetrata socchiusa che porta in terrazzo proviene una tiepida brezza serale, accompagnata dal lontano strombazzare di clacson. Mi accarezzo la guancia, specchiandomi nella portafinestra, oltre la quale si intravede il profilo infuocato del sole che cala dietro le antenne del palazzo di fronte. Il segno del ceffone è ancora lì, uno smacco rosso e frastagliato che mi deturpa il volto abbronzato.

Per un attimo, la luce crea uno strano gioco e il tramonto sembra sdoppiarsi, come nella famosa scena di Star Wars.

Sembra quasi di sentire le note di John Williams risuonare nel mio salotto. E in effetti, mi sento un po’ come Luke Skywalker, trattenuto nella fattoria dei suoi zii mentre è costretto a guardare gli amici prendere il volo e inseguire i loro sogni.

A volte vorrei che l’Impero Galattico arrivasse a casa mia e desse fuoco a tutto, genitori compresi.

Scherzo, ovviamente, ma capisco bene la sensazione: quella morsa dolceamara alla bocca dello stomaco che ti lacera dentro, spingendoti a trovare il coraggio di fare ciò che ti rende felice, piuttosto che piegarti al volere di persone che, pur amandoti, continuano a non capirti.

E che stanno per salire su un aereo che li porterà a migliaia di chilometri di distanza.

Una scarica di adrenalina mi attraversa il corpo e percorro di corsa l’intero corridoio fino alla mia stanza. Mi siedo al computer e controllo la lista amici su World of Warcraft: Barto, Lollo e Jess sono tutti online. Mi infilo le cuffie e apro la nostra chat vocale di gruppo.

«Ragazzi!»

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«Oh, eccola!» fa Barto, sgranocchiando rumorosamente qualcosa vicino al microfono.

«Pronta?» chiede Jess, le dita che picchiettano sulla tastiera.

«Ragazzi!» ripeto, incapace di contenere l’emozione. Esito per un istante, poi aggiungo: «Ditemi che i vostri genitori vi hanno dato il permesso».

Un attimo di silenzio.

«No aspetta, stai dicendo che...»

«Sì. Fanculo tutto: vengo a Rimini!»

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