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Relazione genitori/figli e danno: violazione degli obblighi di assistenza e relazione con i figli (PAS e non solo). Responsabilità di genitori,

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“Relazione genitori/figli e danno: violazione degli

obblighi di assistenza e relazione con i figli (PAS e non

solo). Responsabilità di genitori, tutori ed educatori per

il danno arrecato dai minorenni”

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Indice Paragrafo 1

Premessa………. » 3

Paragrafo 2

Violazione degli obblighi di assistenza familiare…...………... » 3

Paragrafo 3

Responsabilità di genitori, tutori ed educatori per il danno arrecato dai minorenni…..………..……. » 9

Paragrafo 3.1

Culpa in vigilando e culpa in educando………» 10 Paragrafo 3.2

La responsabilità civile degli insegnanti………..…» 12 Paragrafo 3.3

Bullismo e cyberbullismo………...» 14 Paragrafo 3.4

Danno a se stesso………..» 21

Paragrafo 4

Relazione genitori/figli: nodi e snodi della crisi familiare………….... » 22 Paragrafo 4.1

PAS (Parental Alienation Syndrome)………. » 24 Paragrafo 4.2

Interventi della CEDU……….………. » 27 Paragrafo 4.3

Affidamento condiviso con collocamento paritetico e prevenzione del conflitto………» 32

Paragrafo 5

Nuove forme di danno………...….» 34

Paragrafo 6

Conclusioni………..……» 36

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3 1. Premessa

La relazione genitori/figli e danno nella triplice accezione della violazione degli obblighi di assistenza, della relazione con i figli nonché della responsabilità di genitori, tutori ed educatori per il danno arrecato dai minorenni può essere analizzata prendendo a modello come elemento unificante il sistema di tutele che l’ordinamento appresta in ciascuno dei suddetti ambiti.

Secondo un’impostazione di tutele multilivello, la disamina odierna prenderà le mosse dalla violazione degli obblighi di assistenza familiare di cui agli artt. 570 e 570 bis c.p., in cui si rinviene una tutela rafforzata al contempo penalistica e civilistica.

Lo stadio intermedio è occupato dalla tutela civilistica in materia di responsabilità di genitori, tutori ed educatori per il danno arrecato dai minorenni.

Infine, l’ultimo livello di questa scala gradata è rivestito dalla relazione genitori/figli, in cui spicca la diatriba sulla sindrome di alienazione parentale (e non solo), ambito all’interno del quale le tutele apprestate dall’ordinamento risultano di non sempre semplice individuazione, anche alla luce della metagiuridicità del tema trattato.

2. Violazione degli obblighi di assistenza familiare

La materia della violazione degli obblighi di assistenza familiare nel rapporto genitori/figli mette in luce la scelta del legislatore di costituire un tessuto rafforzato di tutele mediante la compresenza di tutela civilistica e al contempo penalistica.

Espressione della tutela penalistica sono gli art. 570 e 570 bis c.p., che individuano nella fattispecie incriminatrice obblighi di natura civile: colui che si sottrae agli obblighi di assistenza morale connessi all’esercizio della responsabilità genitoriale ovvero viene meno agli obblighi di assistenza materiale nei confronti della prole pone in essere un comportamento suscettibile di integrare gli estremi dei reati di cui sopra.

Agli strumenti civilistici si affiancano quelli penalistici in funzione di una più pregnante tutela della prole.

Per avere un’idea concreta dell’incidenza del portato penalistico nei procedimenti riguardanti separazioni e divorzi mette conto evidenziare che, allo stato, non esistono

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4 dati statistici relativi ai procedimenti per le violazioni di cui all’articolo 570, comma 2 , n. 2 (far mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge): il reato in esame, infatti, è di difficile catalogazione, motivo per cui, procedendo sulla base delle casistiche relative alle separazioni riportate nel report dell’Istat per l’anno 2015 è possibile ipotizzare le seguenti stime in via prudenziale: a fronte di 91.706 separazioni complessive, risulta che il 53,3% è relativo a separazioni con figli, pari a 48.879 casi. Di tali casi, il 33,9% si riferisce a separazioni con assegni di mantenimento per figli, per un numero di 16.570. Di queste si può stimare che circa il 2% possa essere ricompreso nei procedimenti relativi alla disposizione in esame per un numero pari a 331 casi interessati, (…) come si evince dalla tabella di seguito riportata:

Invece, per quanto riguarda le violazioni di cui all’articolo 570 bis c.p. che estende l’applicazione delle pene previste dall’articolo precedente al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, cessazione degli effetti civili o nullità del matrimonio ovvero viola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli, le casistiche sono sussumibili presuntivamente, secondo un’analisi effettuata riguardo alla percentuale del numero di divorzi e separazioni rilevati dall’Istat nell’annuario statistico del 2018 sulla media degli anni 2014 - 2016, come dalla tabella di seguito riportata:

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5 Pertanto, prendendo in considerazione le separazioni ed i divorzi nel triennio di riferimento è stata qui ipotizzata una media di procedimenti pari 171.505 casi annui:

di tali casistiche si presume che su un totale di una percentuale del 15% riguardi separazioni e divorzi con assegni di mantenimento per i figli minori ovvero inabili al lavoro, per una quota pari a 25.726 procedimenti. Di tali procedimenti (…) si stima che circa il 3% di questi riguardino controversie in cui gli interessati abbiano diritto di accedere al gratuito patrocinio per la violazione degli obblighi di mantenimento di cui al reato ex articolo 570-bis c.p., per un numero complessivo di 772 cause.”1

Per quanto attiene il foro di Roma, la relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2020 della Procura Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Roma mette in luce i seguenti dati per i delitti di cui agli artt. 570 e 570 bis c.p.:

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Dai suindicati grafici emerge dunque una considerevole incidenza nel processo civile dei reati di violazione degli obblighi di assistenza familiare3.

1 Disegno di legge, Atto Camera dei Deputati n. 1881, XVIII Legislatura, 2019, pp. 3-5.

2 Relazione anno giudiziario 2020 della Procura Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Roma, pp. 165-166.

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6 La fattispecie prevista dal dettato normativo dell’art. 570 fa riferimento alla privazione dei mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore o inabili al lavoro.

In una recente pronuncia della Suprema Corte (Cass. pen. n. 26993/2019) è stato ribadito che “la violazione dell’obbligo di assistenza per integrare il reato di cui all’art. 570 c.p., comma 2, deve essere tale da avere fatto mancare i mezzi di sussistenza al minore, e che diversamente dal delitto di omesso versamento dell’assegno periodico per il mantenimento, l’educazione e l’istruzione dei figli, previsto dall’art. 570 bis c.p., non ricorre solo per effetto del mancato versamento integrale dell’assegno di mantenimento determinato in sede civile. ….

L’omessa assistenza deve avere avuto l’effetto di far mancare i mezzi di sussistenza, che comprendono quanto è necessario per la sopravvivenza, situazione che non si identifica né con l’obbligo di mantenimento né con quello alimentare, aventi una portata più ampia, e tenuto conto della suddivisione del relativo onere che grava su entrambi i genitori, in proporzione alle rispettive capacità economiche.

Ancora Cass. pen. n. 27175/2018 in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare: “Lo stato di bisogno di un minore il quale, appunto perché tale, non è in grado di procacciarsi un reddito proprio, è un dato di fatto incontrovertibile per cui entrambi i genitori sono tenuti a provvedere per ovviarvi;

il reato sussiste anche quando l'altro genitore provveda, direttamente o indirettamente, in via sussidiaria ai bisogni della prole (Sez. 6., n. 8912 del 04/02/2011, K., Rv. 249639; Sez. 6, n. 53607 del 20/11/2014, S., Rv. 249639; Sez.

6, n. 5525 del 21/03/1996, Pulga, Rv. 204875; Sez. 6, n. 10216 del 23/04/1998, Perri, Rv. 211573)”.

Ma cosa accade nel caso in cui l’obbligato non disponga di sufficienti risorse?

La mera allegazione della condizione di disagio economico-patrimoniale e/o la generica indicazione dello stato di disoccupazione non fanno automaticamente cessare l’obbligo di fornire la prestazione assistenziale, fermo restando che l’ipotesi di reato di cui all’art. 570 c.p. si realizza solo se sussiste la concreta capacità economica dell’obbligato a fornire i mezzi di sussistenza (in tal senso Cass. pen. n. 6597/2011).

3 Per un esame del tema trattato si v. A. Anceschi, Illeciti penali nei rapporti di famiglia e responsabilità civili: con formulario, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna, 2012, pp. 179 ss.

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7 Nella recente pronuncia Cass. pen. n. 38690/2019, gli Ermellini hanno puntualizzato che “l'incapacità economica dell'obbligato, intesa come impossibilità di far fronte agli adempimenti sanzionati dall'art. 570 cod. pen., deve essere assoluta e deve, altresì, integrare una situazione di persistente, oggettiva ed incolpevole indisponibilità di introiti (Sez. 6, n. 33997 del 24/06/2015, C, Rv. 264667).

L’orientamento rigoristico della Cassazione teso ad evitare l’elusione dell’obbligo emerge anche nella pronuncia di Cass. pen. n. 34952/2018: “In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, incombe all'interessato l'onere di allegare gli elementi dai quali possa desumersi l'impossibilità di adempiere alla relativa obbligazione, là dove lo stato di disoccupazione in caso di giovane età dell'imputato e la mancata dimostrazione delle cause che rendano al primo impossibile o difficoltoso il reperimento di una occupazione vale ad integrare l'estremo della colpevole incapacità di adempiere integrativo del reato.

L'indisponibilità da parte dell'obbligato dei mezzi economici necessari ad adempiere si configura come scriminante soltanto se essa perduri per tutto il periodo di tempo in cui sono maturate le inadempienze e non è dovuta, anche solo parzialmente, a colpa dell'obbligato (Sez. 6, n. 41697 del 15/09/2016, B., Rv.

268301).

(...) La minore età dei discendenti, destinatari dei mezzi di sussistenza, rappresenta "in re ipsa" una condizione soggettiva dello stato di bisogno, che obbliga i genitori a contribuire al loro mantenimento, assicurando i predetti mezzi di sussistenza; il reato sussiste anche quando uno dei genitori ometta la prestazione dei mezzi di sussistenza in favore dei figli minori o inabili, ed al mantenimento della prole provveda in via sussidiaria l'altro genitore (Sez. 6, n.

53607 del 20/11/2014, S., Rv. 261871)”.

Non dimostra l’impossibilità di adempiere dell’onerato neppure l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato in quanto il provvedimento di ammissione si fonda su un’autocertificazione del richiedente che verrà fatta oggetto di successivi controlli (Cass. pen. n. 31124/20144).

4 In materia di falsità o incompletezza dell’autocertificazione allegata alla domanda di ammissione al patrocinio a spese dello Stato si v. la recentissima pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite n. 14273/2020 con la quale è stato affermato il seguente principio di diritto: «la falsità o l’incompletezza della dichiarazione sostitutiva di certificazione prevista dall’art. 79 c. 1 lett. c) d.p.r. 115 del 2002, qualora i redditi effettivi non superino il limite di legge, non comporta la revoca dell’ammissione al patrocinio a

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8 L’ulteriore risvolto pratico induce ad operare una classificazione dei mezzi di prova in ordine alla rilevanza che un’allegazione di reato ex art. 570 o 570 bis c.p.

riveste nell’ambito di un giudizio di separazione, divorzio o disciplina delle condizioni di mantenimento di un minore non matrimoniale.

Nel caso in cui l’allegazione riguardi una denuncia/querela effettuata da una delle parti e ad essa non abbia ancora fatto seguito la successiva fase della richiesta di archiviazione o di rinvio a giudizio, nel processo civile tendenzialmente non potrà tenersi conto del profilo penalistico.

Qualora invece il pubblico ministero abbia fatto richiesta di rinvio a giudizio ex artt. 416 ss. c.p.p. l’allegazione assumerà valore come argomento di prova ex art. 116 c.p.c.

Invero, tutte le fasi del processo penale antecedenti all’emanazione della sentenza potranno formare argomento di prova per il giudice civile.

Quanto alla sentenza penale non definitiva, la Suprema Corte si è pronunciata sulla sua natura di “prova atipica” nel processo civile affermando che “La sentenza penale di condanna non definitiva integra una prova atipica, dalla quale il giudice può trarre elementi di convincimento ex art. 116 c.p.c., in particolare utilizzando le prove raccolte e gli elementi di fatto acquisiti nel giudizio penale ma resta necessario che il procedimento di formazione del libero convincimento sia esplicitato nella motivazione della sentenza civile, atteso che il generico richiamo alla pronuncia penale si tradurrebbe nella elusione del dovere di autonoma valutazione delle complessive risultanza probatorie e di conseguenza nel vizio di omessa motivazione” (Cass. n. 10055/2010)5.

Nel caso invece di sentenza definitiva passato in giudicato con condanna per gli artt. 570 e 570 bis il giudice dovrà tenere conto della decisione assunta nell’ambito del processo penale e l’allegazione potrà costituire un mezzo di prova. Ciò ha la funzione di evitare che i processi in sede civile e in sede penale non comunichino tra loro dando luogo a decisioni schizofreniche ed incoerenti.

Per una uniformità di giudizio si rende anzi necessaria l’acquisizione della decisione penale, come elemento essenziale per dirimere la controversia nel civile,

spese dello Stato, che può essere disposta solo nelle ipotesi espressamente disciplinate dagli artt. 95 e 112 d.p.r. 115 del 2002»

5 In dottrina si v. G.F. Ricci, Le prove atipiche, Giuffrè, Bologna, 1999, pp. 264 ss. e 419 ss.

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9 proprio alla luce di questa tutela rafforzata che l’ordinamento appresta nel caso di specie alla parte debole, in particolare alla prole.

Definitivamente, è necessario tener presente che sul piano penalistico le fattispecie criminose di cui agli artt. 570 e 570 bis mantengono comunque una loro autonomia, come ribadito più volte dalla Cassazione. Di recente la Suprema Corte ha affermato che: “In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare di cui all’art. 570, 2° comma, c.p., non v’è equiparazione tra il fatto penalmente rilevante e l’inadempimento civilistico, necessitando per l’integrazione della figura criminosa in disamina una condotta di volontaria e continuata inottemperanza, con la quale il soggetto agente intende specificamente sottrarsi all’assolvimento degli obblighi derivanti dalla separazione in maniera dolosa”. (Cass. pen. n. 52393/2014).

3. Responsabilità di genitori, tutori ed educatori per il danno arrecato dai minorenni

Nel secondo livello della presente scala gradata di tutele, centrale è la tutela civile di cui all’art. 2048 c.c.6, che disciplina la responsabilità di genitori, tutori ed educatori per i danni cagionati dai minorenni a terzi7.

Autorevole dottrina8 insegna che “dire che un soggetto è giuridicamente responsabile non sempre corrisponde a dire che egli è stato l’autore del fatto dannoso che egli è chiamato a risarcire”.

Si configura dunque una responsabilità per fatto altrui sulla base della natura del vincolo tra soggetto responsabile e soggetto agente.

3.1 Culpa in vigilando e culpa in educando

6 Art. 2048 - Il padre e la madre, o il tutore, sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori non emancipati o delle persone soggette alla tutela, che abitano con essi. La stessa disposizione si applica all’affiliante.

I precettori e coloro che insegnano un mestiere o un’arte sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza.

Le persone indicate dai commi precedenti sono liberate dalla responsabilità soltanto se provano di non avere potuto impedire il fatto.

7 Per un approfondimento monografico sul tema in questione si v., tra gli altri, A.

Ferrante, La responsabilità civile dell’insegnante, del genitore e del tutore, Giuffrè, Milano, 2008.

8 S. Rodotà, 1967.

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10 Il primo profilo che verrà esaminato concerne il rapporto tra culpa in vigilando dei genitori e degli operatori che entrano in contatto con i minori e culpa in educando dei genitori.

Il dato normativo costituito dall’art. 2048 accomuna la responsabilità di genitori ed educatori con la previsione per entrambi della prova liberatoria solo se provano di non aver potuto impedire il fatto. L’unica differenza si rintraccia nel dato temporale, rispondendo i precettori soltanto dei fatti illeciti commessi dal minore nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza, mentre i genitori rispondono fino a quando i figli coabitano con essi.

“Solo la convivenza può consentire l'adozione di quelle attività di sorveglianza e di educazione, il cui mancato assolvimento giustifica la responsabilità medesima»

(Cass. n. 2195/1979). Ai fini della responsabilità, la coabitazione non viene meno nel caso in cui il minore si allontani temporaneamente per ragioni di studio o di svago eccetto il caso in cui il minore abbia definitivamente abbandonato la casa familiare9.

Del pari, la convivenza non cessa in caso di separazione personale o divorzio dei genitori in caso di affidamento condiviso. Il collocamento fisico del minore presso uno soltanto dei genitori non esclude la responsabilità del genitore non collocatario avendo anch’egli doveri educativi verso la prole.

Una volta chiarito il dettato normativo, è necessario che esso venga letto alla luce dell’orientamento giurisprudenziale prevalente secondo il quale gli esercenti la responsabilità genitoriale sono responsabili non solo per culpa in vigilando ma anche per culpa in educando.

Oltre alla prova di non aver potuto impedire il fatto “i genitori (devono) dovevano dimostrare che era stata impartita al figlio un'educazione normalmente sufficiente ad impostare una corretta vita di relazione in rapporto al suo ambiente, alle sue abitudini, alla sua personalità non assumendo alcun rilievo, a tal fine, la prova di circostanze (quali l'età ormai raggiunta dal minore e le esperienze lavorative da lui eventualmente avute) idonee ad escludere l'obbligo di vigilare sul minore, dal momento che tale obbligo può coesistere con quello educativo, ma può anche non sussistere, e comunque diviene rilevante soltanto una volta che sia stata ritenuta,

9 Per un precedente si v. Cass. n. 3491/1978.

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11 sulla base del fatto illecito determinatosi, la sussistenza della "culpa in educando".

(Cass. n. 9556/2009 così come Cass. n. 7459/9710).

Il corretto espletamento del dovere di educare i figli, costituzionalmente previsto all’art. 30 Cost. “E’ dovere e diritto dei genitori (mantenere, istruire ed) educare i figli” e rafforzato ulteriormente dalla previsione di cui all’art. 147 c.c. che dispone

“(…) l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole, tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli”, non risulta però di semplice dimostrazione.

Cass. n. 20322/2005 soccorre affermando che “In relazione all'interpretazione della disciplina prevista nell'art. 2048 cod. civ., è necessario che i genitori, al fine di fornire una sufficiente prova liberatoria per superare la presunzione di colpa dalla suddetta norma desumibile, offrano non la prova legislativamente predeterminata di non aver potuto impedire il fatto (atteso che si tratta di prova negativa), ma quella positiva di aver impartito al figlio una buona educazione e di aver esercitato su di lui una vigilanza adeguata, il tutto in conformità alle condizioni sociali, familiari, all'età, al carattere e all'indole del minore. L'inadeguatezza dell'educazione impartita e della vigilanza esercitata su un minore (…) può essere desunta, in mancanza di prova contraria, dalle modalità dello stesso fatto illecito, che ben possono rivelare il grado di maturità e di educazione del minore, conseguenti al mancato adempimento dei doveri incombenti sui genitori. (…) Non è conforme a diritto, invece, per evidente incompatibilità logica, la valutazione reciproca, e cioè che dalle modalità del fatto illecito possa desumersi l'adeguatezza dell'educazione impartita e della vigilanza esercitata».

Ancora Cass. n. 18804/2009: “L’educazione è fatta non solo di parole, ma anche e soprattutto di comportamenti e di presenza accanto ai figli, a fronte di circostanze che essi possono non essere in grado di capire o di affrontare equilibratamente.”

“La responsabilità dei genitori per i fatti illeciti commessi dal minore con loro convivente, prevista dall'art. 2048 cod. civ., è correlata ai doveri inderogabili posti a loro carico all'art. 147 cod. civ. e alla conseguente necessità di una costante opera educativa, finalizzata a correggere comportamenti non corretti e a realizzare una personalità equilibrata, consapevole della relazionalità della propria esistenza e della protezione della propria ed altrui persona da ogni accadimento

10 A riprova della granitica posizione giurisprudenziale si v. anche Cass. 20322/2005;

Cass. 3088/1997; Cass. 3424/1992 e Cass. 5751/1988.

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12 consapevolmente illecito. Per sottrarsi a tale responsabilità, essi devono pertanto dimostrare di aver impartito al figlio un'educazione normalmente sufficiente ad impostare una corretta vita di relazione in rapporto al suo ambiente, alle sue abitudini ed alla sua personalità, non assumendo alcun rilievo, a tal fine, la prova di circostanze (quali l'età ormai raggiunta dal minore e le esperienze lavorative da lui eventualmente avute) idonee ad escludere l'obbligo di vigilare sul minore, dal momento che tale obbligo può coesistere con quello educativo, ma può anche non sussistere, e comunque diviene rilevante soltanto una volta che sia stata ritenuta, sulla base del fatto illecito determinatosi, la sussistenza della culpa in educando (Cass. n. 9556/2009 cit.)”.

3.2 La responsabilità civile degli insegnanti11

L’affidamento dei figli alle cure temporanee di terzi, quali a titolo insegnanti o precettori, solleva i genitori dalla culpa in vigilando, ma non dalla suesposta culpa in educando, che è connaturata con il ruolo genitoriale.

Il comma 2 dell’art. 2048 c.c. dispone che “I precettori e coloro che insegnano un mestiere o un’arte sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza”.

La responsabilità in capo ai precettori si fonda su una presunzione di colpa, o meglio sulla presunzione di una culpa in vigilando che concorre con la culpa in educando gravante sui genitori.

L’iscrizione presso un istituto scolastico fonda “un vincolo giuridico tra l'allievo e l'istituto, da cui scaturisce, a carico dei dipendenti di questo, appartenenti all'apparato organizzativo dello Stato, accanto all'obbligo principale di istruire ed educare, quello accessorio di proteggere e vigilare sull'incolumità fisica e sulla sicurezza degli allievi, sia per fatto proprio, adottando tutte le precauzioni del caso, che di terzi, fornendo le relative indicazioni ed impartendo le conseguenti prescrizioni, e da adempiere, per il tempo in cui gli allievi fruiscono della prestazione scolastica, con la diligenza esigibile dallo status professionale rivestito, sulla cui competenza e conseguente prudenza costoro hanno fatto affidamento, anche quali educatori e precettori del comportamento civile e della solidarietà sociale,

11 Cfr. M. Bessone, La ratio legis dell’art. 2048 c.c. e la responsabilità civile degli insegnanti per il fatto illecito dei minori, in Foro pad., 1982, I, pp. 304 ss.

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13 valori costituzionalmente protetti, e da inculcare, senza il limite del raggiungimento della maggiore età dell'allievo" (Cass. n. 11751/2013).

Un rilievo non trascurabile attiene al grado di vigilanza che il personale scolastico deve porre in essere nei confronti degli alunni. Il controllo deve essere inversamente proporzionale alla fascia d’età dei discenti e al livello di maturazione degli stessi12.

Quanto al risvolto pratico della responsabilità degli insegnanti e agli obblighi accessori scaturenti dal c.d. contatto sociale degli insegnanti medesimi con gli allievi occorre far riferimento alla disciplina di cui al R.D. 30 aprile 1924, n. 965, art. 39, comma 2, secondo e terzo cpv. (Ordinamento interno dei regi istituti di istruzione media, di primo e secondo grado), che dispongono:

"I Professori devono trovarsi nell'Istituto almeno cinque minuti prima che cominci la propria lezione" e "assistere all'ingresso e all'uscita dei propri alunni", nonché alla l. n. 312/1980 (“Nuovo assetto retributivo-funzionale del personale civile e militare dello Stato”) il cui art. 6113 dispone che "la responsabilità patrimoniale del personale (direttivo), docente, educativo e non docente della scuola materna, elementare ed artistica dello Stato e delle Istituzioni educative statali, per danni arrecati direttamente all'Amministrazione in connessione a comportamenti degli alunni, è limitata ai soli casi di dolo o colpa grave nell'esercizio della vigilanza sugli alunni stessi. La limitazione di cui al comma precedente si applica anche alla responsabilità del predetto personale verso l'Amministrazione che risarcisca il terzo dei danni subiti per comportamenti degli alunni sottoposti alla vigilanza. Salva rivalsa nei casi di dolo o colpa grave, l'Amministrazione si surroga al personale medesimo nelle responsabilità civili derivanti da azioni giudiziarie promosse da terzi".

La tutela degli insegnanti non esclude la responsabilità degli stessi ex art. 2048, ma opera sul piano processuale sollevando gli insegnanti dall’essere direttamente essere convenuti in giudizio. Legittimato passivo sarà il Ministero della Pubblica Istruzione.

12 Cass. n. 9906/2010 motiva tale impostazione affermando che “la particolare fascia d’età di questi bambini (da 3 a 6 anni) li rende incolpevoli di valutare eventuali ‘pericoli’ ee ciò, quindi, rende ancora più stringente l’obbligo di vigilanza da parte delle maestre che, per non lasciarli incustoditi, possono anche avvalersi di personale scolastico non docente”.

Per una casistica di danni in ambito scolastico si v. G. Pianezze, Culpa in vigilando, Giuffrè, Milano, 2013, pp. 30 ss.

13 Con sent. Corte cost. n. 64/1992 l’articolo 61 della l. 312/1980 ha superato il vaglio di costituzionalità.

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14 3.3 Bullismo e cyberbullismo

Estranei al quadro sociologico del tempo in cui il codice civile fu redatto sono i fenomeni del bullismo e del più recente cyberbullismo, che possono essere calati nella fattispecie normativa pocanzi esaminata dell’art. 2048 c.c.

Allo stato attuale non esiste una definizione univoca di bullismo. Al fine di inquadrare il fenomeno sul piano giuridico è utile rifarsi alla definizione che il Ministero della pubblica istruzione dà del suddetto termine nella direttiva recante

“Linee di indirizzo generale ed azioni a livello nazionale per la prevenzione e la lotta al bullismo” secondo la quale: “Il termine italiano ‘bullismo’ è la traduzione letterale di ‘bullying’, parola inglese comunemente usata nella letteratura internazionale per caratterizzare il fenomeno delle prepotenze tra pari in contesto di gruppo. Il bullismo si configura come un fenomeno dinamico, multidimensionale e relazionale che riguarda non solo l’interazione del prevaricatore con la vittima, che assume atteggiamenti di rassegnazione, ma tutti gli appartenenti allo stesso gruppo con ruoli diversi. Il comportamento del bullo è un tipo di azione continuativa e persistente che mira deliberatamente a fare del male o danneggiare qualcuno. La modalità diretta si manifesta in prepotenze fisiche e/o verbali”.14

Nell’ordinamento giuridico italiano il fenomeno del bullismo sconta l’assenza di una normativa organica.

Mette conto evidenziare che attualmente è all’esame del Senato una proposta di legge rubricata “Modifiche al codice penale, alla legge 29 maggio 2017, n. 71, e al regio decreto-legge 20 luglio 1934, n. 1404, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 maggio 1935, n. 835, in materia di prevenzione e contrasto del fenomeno del bullismo e di misure rieducative dei minori” presentata il 23 gennaio 2019 e già approvata dalla Camera.

Analizzando il dato statistico emerge che “i dati erano allarmanti già nel 2013- 2014, periodo in cui l’associazione « Telefono Azzurro » aveva calcolato che, su 3.330 consulenze sui problemi dei giovani, il 14,6 per cento dei soggetti aveva affermato di essere stato vittima di bullismo. Nel 2014, secondo l’indagine «

14 Altra definizione accreditata a livello internazionale è quella proposta dagli psicologi inglesi Peter Smith e Sonia Sharp secondo i quali il bullismo è: «Un tipo di azione che mira deliberatamente a fare del male o a danneggiare; spesso è persistente, talvolta dura per settimane, mesi e persino anni, e per coloro che ne sono vittime è difficile difendersi. Alla base dei comportamenti sopraffattori c’è un abuso sistematico di potere e un desiderio di intimidire e dominare».

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15 Osservatorio adolescenti » promossa dalla stessa associazione « Telefono Azzurro » e rivolta a un campione di 1.500 studenti di età compresa tra undici e diciannove anni, il 34 per cento dei ragazzi ha affermato di aver subìto atti di bullismo.

Dall’ultimo rapporto dell’ISTAT del 15 dicembre 2015 (con riferimento all’anno 2014) è emerso che il 50 per cento dei ragazzi tra undici e diciassette anni « riferisce di essere rimasto vittima di un qualche episodio offensivo o violento ». Secondo quanto si rileva dal rapporto del Censis sulla situazione sociale del Paese/ 2016 (del 2 dicembre 2016), il 52,7 per cento dei ragazzi tra undici e diciassette anni, nel corso dello stesso 2016, ha subìto comportamenti offensivi, non rispettosi o violenti da parte di coetanei. La percentuale sale al 55,6 per cento tra le ragazze e al 53,3 per cento tra i ragazzi più giovani di 11-13 anni. Quasi un giovane su cinque (19,8 per cento) è oggetto di questo tipo di soprusi almeno una volta al mese, un’eventualità più ricorrente tra i giovanissimi (22,5 per cento). Su internet sono le ragazze a essere oggetto in misura maggiore degli attacchi dei coetanei cybernauti (24,9 per cento). Il 47,5 per cento degli oltre 1.800 dirigenti scolastici interpellati dal Censis indica i luoghi di aggregazione giovanile come quelli in cui si verificano più frequentemente episodi di bullismo, poi il percorso tra la casa e la scuola (34,6 per cento) e la scuola medesima (24,4 per cento). Ma è sul web che il bullismo trova ormai terreno fertile, secondo il 76,6 per cento dei soggetti intervistati. Nel corso della propria carriera, il 75,8 per cento dei dirigenti scolastici si è trovato a gestire casi di bullismo. Per l’80,7 per cento dei dirigenti scolastici, i genitori tendono a minimizzare, qualificando tali episodi come « scherzi » tra ragazzi, quando sono i loro figli a essere coinvolti in episodi di bullismo, e solo l’11,8 per cento segnala atteggiamenti collaborativi da parte delle famiglie, a seguito della richiesta di aiuto della scuola e degli insegnanti. Il 51,8 per cento dei dirigenti ha organizzato incontri con i genitori sulle insidie del web, avvalendosi prevalentemente del supporto delle Forze di polizia (69,4 per cento) e di psicologi od operatori delle aziende sanitarie locali (49,9 per cento). Nonostante l’impegno delle scuole, non vi è stata un’equivalente risposta delle famiglie, la cui partecipazione è risultata bassa nel 58,9 per cento dei casi, media nel 36 per cento e alta in un marginale 5,1 per cento di scuole. Davanti a tali fenomeni i genitori restano spesso impotenti, ignorando in molti casi gli strumenti d’intervento più adeguati. Per contrastare il fenomeno del bullismo e del cyberbullismo è essenziale il rafforzamento del ruolo educativo dei genitori, che, con i loro comportamenti, costituiscono un modello per i figli. I dati

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16 raccolti dimostrano, dunque, come il fenomeno del bullismo e della violenza in genere, soprattutto tra gli adolescenti, sia diffuso e in preoccupante crescita:

pertanto è necessaria e urgente una particolare attenzione da parte delle famiglie, delle istituzioni, soprattutto quelle scolastiche, e di tutti gli altri attori sociali tramite la messa in opera di nuovi strumenti sul piano sia della prevenzione sia della repressione. Si sta abbassando sempre più l’età nella quale si commettono azioni che, seppur non gravi in sé, sono l’anticamera di comportamenti che, in futuro, potrebbero sfociare nella delinquenza.”15

Tale proposta di legge, ponendosi in continuità con la legge n. 71 del 2017 sul cyberbullismo, accosta alle misure di carattere socio-educativo l’impiego di strumenti di repressione penale e una riforma delle misure coercitive di natura non penale applicabili dal Tribunale per i minorenni ai minori che pongano in essere condotte irregolari o aggressive.

Più in dettaglio la proposta normativa apporta modifiche:

al codice penale e in particolare all’art. 612 bis – delitto di atti persecutori - per ampliare l’ambito oggettivo dell’illecito penale alle condotte di reiterata minaccia e molestia che pongono la vittima in una condizione di emarginazione introducendo una nuova aggravante per fatto commesso da più persone e prevedendo la confisca obbligatoria degli strumenti informatici eventualmente utilizzati, nonché all’art. 731 che punisce l’inosservanza dell’obbligo scolastico estendendone l’applicazione all’istruzione obbligatoria;

alla legge n. 71 del 2017 estendendone il campo di applicazione anche alla prevenzione e al contrasto del bullismo e prevedendo che il dirigente scolastico a fronte di episodi di bullismo e cyberbullismo in ambito scolastico che non costituiscano reato possa, dopo aver informato i genitori, coinvolgere i servizi sociali e nei casi più gravi avvisare le autorità competenti per l’attivazione delle misure previste dall’art. 25 della legge sui Tribunali per i minorenni;

alla legge sull’istituzione e sul funzionamento del Tribunale per i minorenni riguardo la disciplina delle misure coercitive di intervento non penale nei confronti di minorenni che tengano condotte aggressive anche di gruppo nei confronti di persone, animali, cose o condotte lesive dell’altrui dignità.

La proposta di legge prevede, inoltre, un adeguamento dello statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria specificando gli impegni della

15 In proposta di legge n. 1524 del 23 gennaio 2019, pp. 3 ss.

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17 scuola e delle famiglie per la prevenzione dei fenomeni del bullismo e del cybercbullismo; l’impegno di MIUR a mettere a disposizione delle scuole piattaforme di formazione e monitoraggio per la prevenzione e il contrasto dei fenomeni di bullismo e cyberbullismo; l’istituzione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per le politiche della famiglia di un servizio di assistenza alle vittime di bullismo e cyberbullismo, accessibile attraverso un numero di telefono pubblico e gratuito attivo 24 ore su 24 e tramite un’applicazione informatica da installare sui cellulari; lo svolgimento di una rilevazione degli atti di bullismo effettuata dall’Istat con cadenza triennale al fini di individuare le caratteristiche del fenomeno e i soggetti più a rischio.

Nella presente trattazione il fenomeno del bullismo verrà esaminato dal punto di vista della tutela16, in particolare sotto il profilo della responsabilità dei genitori del minore che ha commesso atti di bullismo ai danni di altro minore nonché il caso, recentemente giunto all’attenzione della Suprema Corte, riguardante la reazione violenta di un minore vittima di bullismo nei confronti dell’aggressore.

Come è stato già analizzato, i genitori sono responsabili dei danni causati dai figli minori per culpa in vigilando e/o per culpa in educando, mentre la scuola è responsabile per culpa in vigilando alla luce dell’art. 2048 c.c..

La tutela della vittima dal punto di vista civilistico passa attraverso le forme di danno patrimoniale ex art. 2043 c.c. e/o non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c..

Interessante dal punto di vista della tutela è altresì il profilo del soggetto vittima di atti di bullismo, che a sua volta esternalizza il disagio traducendolo in comportamenti aggressivi nei confronti del bullo.

La Cassazione, nell’ordinanza n. 22541/2019, ha preso in esame il caso di un adolescente, da tempo oggetto di ripetuti atti di bullismo, che nel corso di una lite sferrava al minore bullizzante un pugno sul viso che gli aveva provocato l’avulsione traumatica dell’incisivo superiore laterale di sinistra, la lussazione dell’incisivo centrale oltre che escoriazioni al labbro. La Suprema Corte17 ha confermato la

16 Per un’analisi psicologica e giuridica del fenomeno si v. A. Micoli, C. Puzzo, Bullismo e responsabilità, Maggioli Editore, Milano, 2012.

17 “(…) la prova liberatoria richiesta ai genitori dall'art. 2048 c.c., di non aver potuto impedire il fatto illecito commesso dal figlio minore coincide, normalmente, con la dimostrazione, oltre che di aver impartito al minore un'educazione consona alle proprie condizioni sociali e familiari, anche di aver esercitato sul minore una vigilanza adeguata all'età e finalizzata a correggere comportamenti non corretti e, quindi, meritevoli di un'ulteriore o diversa opera educativa. A tal fine, non essendo necessario che il genitore provi la costante ininterrotta presenza fisica accanto al figlio, pena la coincidenza

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18 valutazione della Corte territoriale che aveva ritenuto che i genitori del danneggiante non avessero vinto la presunzione di responsabilità gravante su di loro, ma ha ritenuto che la Corte territoriale “abbia del tutto sbrigativamente negato qualunque rilievo al comportamento provocatorio e offensivo” di cui il danneggiante era stato vittima da parte del danneggiato, non permeando in alcun modo il contesto situazionale all’interno del quale si era verificata la dinamica.

In questo senso la Suprema Corte compie un’analisi comparata del caso tenendo conto non solo dell’offesa subita dal danneggiato, ma anche del contesto nel quale il danno è stato provocato con particolare attenzione ai numerosi atti di bullismo subiti dal danneggiante: “Quando l'autore della reazione sia un adolescente, vittima di comportamenti prevaricatori, aggressivi, mortificanti e reiterati nel tempo, occorre

… tener conto che la sua personalità non si è ancora formata in modo saldo e positivo rispetto alla sequela vittimizzante cui è stato supposto; è prevedibile, infatti, che la sua reazione possa risolversi, a seconda dei casi, nell'adozione di comportamenti aggressivi internalizzati che possono trasformarsi, con costi anche particolarmente elevati in termini emotivi, in forme di resilienza passiva e autoconservative, evolvere verso forme di autodistruzione oppure tradursi, come è avvenuto nel caso di specie, nell'assunzione di comportamenti esternalizzati aggressivi.

Pur dovendosi neutralizzare e condannare l'istinto di vendetta del minore bullizzato, è innegabile che la risposta ordinamentale non possa essere solo quella della condanna dell'atto reattivo come comportamento illecito a sé stante, ignorando le situazioni di privazione e di svantaggio che ne costituivano il sostrato, non solo perché l'ignoranza e la sottovalutazione possono (persino) attivare un circolo negativo di vittimizzazione ulteriore, ma anche perché il bullismo non dà vita ad un conflitto meramente individuale, come dimostrano le rilevazioni statistiche, e richiede un coacervo di interventi coordinati che, oltre a contenere il fenomeno, fungano da diaframma invalicabile che si interponga tra l'autore degli atti di

dell'obbligo di vigilanza con quello di sorveglianza, ma che per l'educazione impartita, per l'età del figlio e per l'ambiente in cui egli viene lasciato libero di muoversi, risultino correttamente impostati i rapporti del minore con l'ambiente extrafamiliare, facendo ragionevolmente presumere che tali rapporti non possano costituire fonte di pericoli per sè e per i terzi, è del tutto irrilevante che il fatto illecito si sia svolto lontano da casa, giacché l'obbligo di vigilanza per i genitori del minore capace non si pone come autonomo rispetto all'obbligo di educazione, ma va correlato a quest'ultimo, nel senso che i genitori devono vigilare che l'educazione impartita sia consona ed idonea al carattere ed alle attitudini del minore e che quest'ultimo ne abbia "tratto profitto", ponendola in atto, in modo da avviarsi a vivere autonomamente, ma correttamente (Cass. 22/04/2009, n. 9556)”.

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19 bullismo e le persone offese, anche onde rendere del tutto ingiustificabile la reazione di queste ultime.

In assenza di prove circa come le istituzioni, la scuola, in particolare, fossero intervenute per arginare il fenomeno del bullismo e per sostenere l'odierno ricorrente, quindi mancando anche la prova della ricorrenza di espressioni di condanna pubblica e sociale del comportamento adottato dai cosiddetti bulli, non era legittimo attendersi da parte di R.F., adolescente, una reazione razionale, controllata e non emotiva.

Nel caso di specie, non solo non è fuori luogo, ma è persino doveroso che l'ordinamento si dimostri sensibile verso coloro che sono esposti continuamente a condizioni vittimizzanti idonee a provocare e ad amplificare le reazioni rispetto alle sollecitazioni negative ricevute; soprattutto ove la vittima venga privata del meccanismo repressivo istituzionale dell'illecito e, come sembra sia avvenuto in questo caso, venga lasciata sola nell'affrontare il conflitto. Non una sola parola è stata spesa, infatti, per chiarire se la scuola si fosse fatta carico di predisporre interventi di contrasto della piaga del bullismo attraverso un programma serio e articolato fondato su specifiche direttive psicopedagogiche e su forme di coinvolgimento dei genitori.

Sicché è opinione di questo Collegio che l'accertamento di una responsabilità individuale decontestualizzata non sia in grado di garantire una giustizia riparativa efficace.

Nell'attesa che si diffondano forme di giustizia riparativa specificamente calibrate sul fenomeno del bullismo, ferma la necessaria condanna tanto dei comportamenti prevaricatori e vessatori quanto di quelli reattivi, la risposta giuridica, nel caso di specie, non avrebbe dovuto ignorare le condizioni di umiliazione a cui l'adolescente in questione è provato fosse stato ripetutamente sottoposto.

E senza mortificare le regole causali, né utilizzarle come giudizi di valore, alla luce del risultato che si intendeva conseguire in termini di responsabilità, tarando le prime sul secondo, il giudice avrebbe dovuto tener conto della loro permeabilità da parte di istanze di giustizia sostanziale, onde pervenire "alla più corretta delle soluzioni possibili" (Cass. 21/7/2011, n. 15991), anche abbandonando il piano naturalistico proprio della causalità materiale per accedere ad un piano di valutazione della dimensione complessiva della convergenza e dell'interazione di tutti i fattori concausali all'interno della più ampia fattispecie di responsabilità civile”.

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20 E’ proprio in considerazione di una tutela manchevole e debole in materia che si auspica al più presto l’intervento del legislatore onde tipizzare quell’insieme di atti prevaricatori che troppo spesso sono sottovalutati o, peggio, valutati

“sbrigativamente”.

Stesse considerazioni possono essere fatte per il cyberbullismo, in cui si rinviene il medesimo impianto di sopraffazione del bullismo (atti di prevaricazione reiterati nel tempo in una relazione asimmetriche di forze tra due o più soggetti), ma che si discosta da esso per le modalità in cui si manifesta.

Una definizione è stata elaborata nella legge n. 71 del 2017 “Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del cyberbullismo”, che all’art. 1 dispone: “Per «cyberbullismo» si intende qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica, nonché la diffusione di contenuti on line aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo.”

Nel cyberbullismo la prevaricazione si attua attraverso la trasmissione in campo digitale, uno spazio fluido dai confini di difficile individuazione, un vero e proprio

“non luogo”18. Anche il concetto di reiterazione nello spazio virtuale della rete assume inevitabilmente connotati differenti: “da una parte la vittima può subire un attacco tutte le volte che si collega in rete, ma dall’altra parte, a ben vedere, non serve nemmeno più la presenza reale della vittima a mantenere la spirale violenta”19.

Diversa è altresì la posizione del cyberbullo rispetto a quella del bullo. Il cyberbullo può celarsi dietro l’anonimato e sfruttare tale posizione per spingersi ancora più oltre nella spirale di aggressività che risucchia la vittima. Gli stessi spettatori, che nella vita reale hanno tendenzialmente un ruolo passivo, nella rete alimentano la macchina della prevaricazione supportando il cyberbullo20.

18 Definizione di M. Augé, Nonluoghi – Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano, 1993.

19 A.L. Pennetta, Bullismo, Cyberbullismo e nuove forme di devianza, Giappichelli, Torino, 2019, p. 39.

20 Un’indagine sui tratti caratteristici di bullismo e cyberbullismo è quella di M.L.

Genta, L. Berdondini, A. Brighi, A. Guarini, Il fenomeno del bullismo elettronico in adolescenza, in Rass. Psicologia, 2009, pp. 141 ss.

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21 Anche in questo caso saranno i genitori del cyberbullo minore d’età a rispondere dei danni arrecati alla vittima sulla base del dettato di cui all’art. 2048 per culpa in vigilando e/o culpa in educando o la scuola per culpa in vigilando con tutte le specificazioni già viste.

3.4 Minore d’età e danno a se stesso

In tema di responsabilità civile ex art. 2048 c.c. assume rilievo a livello di tutele apprestate dall’ordinamento la fattispecie del danno che il minore d’età cagiona a se stesso.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte si sono pronunciate sul punto, Cass. Sez.

Un. n. 9346/200221, definendo un’annosa diatriba giurisprudenziale e premesso che

“La presunzione di responsabilità posta dall'art. 2048, secondo comma, cod. civ. a carico dei precettori trova applicazione limitatamente al danno cagionato ad un terzo dal fatto illecito dell'allievo; essa pertanto non è invocabile al fine di ottenere il risarcimento del danno che l'allievo abbia, con la sua condotta, procurato a se stesso” hanno affermato che “nel caso di danno arrecato dall’allievo a se stesso, la responsabilità dell’istituto scolastico e dell’insegnante non va ricondotta nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, bensì in quello della responsabilità contrattuale, con conseguente applicazione del regime probatorio desumibile dall’art. 1218 c.c.”.

Dunque quanto all’onere della prova “nelle controversie instaurate per il risarcimento del danno da autolesione nei confronti dell’istituto scolastico e dell’insegnante, l’attore dovrà soltanto provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, mentre sarà onere dei convenuti dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato da causa a loro non imputabile”.

Il consolidato orientamento giurisprudenziale è fatto proprio anche da Cass. n.

10516/2017: “In caso di danno cagionato dall’alunno a sé stesso (ma anche in caso di danno cagionato all’alunno per responsabilità ascrivibili a difetto di vigilanza o

21 Per la dottrina antecedente alla pronuncia delle Sezioni Unite si v. M. Bianca, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 1994, pp. 701 ss. nonché M. Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità presunte, in Il codice civile, Commentario Schlesinger e Busnelli, Milano, 2002, pp. 262 ss. Dopo la nota pronuncia, R. Morozzo della Rocca, Le Sezioni Unite sul danno cagionato dal minore a se stesso, in Corr. Giur., 2002, 10, 1293.

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22 di controllo degli organi scolastici), la responsabilità dell’istituto scolastico e dell’insegnante ha natura contrattuale, atteso che, quanto all’istituto, l’instaurazione del vincolo negoziale consegue all’accoglimento della domanda di iscrizione, e, quanto al precettore, il rapporto giuridico con l’allievo sorge in forza di “contatto sociale” (cfr., da ultimo, Sez. 3, Sentenza n. 3695 del 25/02/2016, Rv. 638980 – 01;

conf. Sez. 3, Sentenza n. 5067 del 03/03/2010, Rv. 611582 – 01; Sez. 3, Sentenza n.

24456 del 18/11/2005, Rv. 587952 – 01, tutte discendenti da Sez. U, Sentenza n.

9346 del 27/06/2002, Rv. 555386 – 01). Una volta collocato sul piano sistematico l’ambito della responsabilità ascrivibile alla sfera dell’amministrazione scolastica – e dunque ricondotta alla violazione di un dovere di prestazione la ratio della tutela risarcitoria rivendicata dagli originari attori – dev’essere coerentemente ricostruita, nel quadro dei principi della responsabilità contrattuale, la connessa dimensione obbligatoria dell’insieme dei profili di doverosità che discendono – con riguardo, rispettivamente, all’istituto e al singolo insegnante – dall’iscrizione scolastica e dal contatto sociale qualificato che prelude all’individuazione dei relativi obblighi di prestazione nei confronti dei familiari (quali contraenti) e dei singoli alunni (quali adiecti solutionis causa). Ciò posto, individuato l’ambito obbligatorio in cui si inserisce il complesso delle prestazioni esigibili dall’istituto scolastico e dall’insegnante, a tale ambito dev’essere altresì ricondotta l’intera gamma delle fonti integrative dell’obbligazione, tra le quali, in primo luogo, la normativa di correttezza e di buona fede (cfr. gli artt. 1175 e 1375 c.c.), cui risalgono i c.d. doveri di protezione che l’istituto scolastico e ciascun insegnante assume con riguardo a ognuno degli alunni agli stessi affidato. In quanto inseriti in un programma di natura obbligatoria, tali doveri di protezione chiedono d’essere individuati e commisurati in relazione all’interesse sostanziale del creditore in cui si concreta lo scopo del rapporto obbligatorio, ossia (con approssimazione al caso di specie) all’interesse che il minore affidato dalle famiglie per la formazione scolastica non rimanga in nessun momento lasciato a sé stesso fintantoché, di detto minore, non intervenga a occuparsi un altro e diverso soggetto responsabile, eventualmente chiamato a succedere all’istituzione scolastica nell’assunzione dei doveri connessi alla relativa posizione di garanzia”.

4. Relazione genitori/figli: nodi e snodi della crisi familiare

(23)

23 A seguito della rottura del legame affettivo tra i coniugi/conviventi interviene un mutamento delle modalità di esplicazione delle funzioni genitoriali. Inevitabilmente la prole sarà collocata presso uno soltanto dei genitori, eccetto i casi modesti anche se in aumento di collocamento paritetico su cui si tornerà di seguito, con conseguenze di ampio respiro sulla relazione genitori/figli.

22

Come mostrano i suindicati grafici, negli anni 2008-2015 si è assistito ad un costante aumento dell’affidamento condiviso a scapito dell’esclusivo, come auspicato dalla riforma della materia sfociata nella legge n. 54/2006.

La normativa di riferimento all’attualità è quella prevista dalla legge n. 219/2012 e dal successivo d.lgs. n. 154/2013.

22 Servizio studi del Senato, Dossier n. 55 del 2018, pp. 8 e 9.

(24)

24 L’art. 337 ter dispone che “Il figlio minore ha diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.”

Costituisce un dato comune ed esperienziale nelle aule di giustizia italiane la violazione di tale dettato normativo che viene infranto sotto la spinta di manovre genitoriali volte a compromettere il mantenimento di un rapporto continuo ed equilibrato con i figli.

4.1 PAS (Parental Alienation Syndrome)

A tal proposito viene in evidenza la teoria della sindrome da alienazione parentale (o PAS, dall’acronimo Parental Alienation Syndrome), una dinamica psicologica disfunzionale, che è stata oggetto di accese diatribe dottrinarie e giurisprudenziali.

L’espressione è stata coniata nel 1985 dallo psichiatra forense statunitense Richard Alan Gardner che ha definito la sindrome da alienazione parentale come “a childhood disorder, which arises almost exclusively in the context of child custody disputes. Its primary manifestation is the child’s campaign of denigration against a parent that results from the combination of a parent’s programming (brain washing) indoctrinations and the child’s own contributions to the vilification of the target parent” - “un disturbo che insorge primariamente nel contesto di conflitti sulla custodia dei bambini. La sua principale manifestazione è la campagna denigratoria di un bambino contro un genitore, campagna che non ha giustificazione. Il disordine risulta dalla combinazione di indottrinamento dal genitore alienante e i contributi propri del bambino allo svilimento del genitore alienato”.23,24

Secondo Gardner, gli otto sintomi primari rintracciabili nella prole in caso di PAS sono i seguenti:

Campagna di denigrazione: i figli evidenziano astio nei confronti del genitore alienato in maniera continua e insistente;

23 Gardner, RA. Recent trends in divorce and custody litigation. In: The Academy Forum, 29,2, 3–7. New York: The American Academy of Psychoanalysis 1985.

24 Gardner R. The parental alienation syndrome: a guide for mental health and legal professionals. Cresskill, NJ: Creative Therapeutics, Inc 1998.

(25)

25

Razionalizzazioni deboli, superficiali e assurde per giustificare il biasimo: i figli riferiscono giustificazioni irrazionali e spesso risibili per spiegare il loro rifiuto del genitore odiato;

Mancanza di ambivalenza: i figli mostrano una minima, se non nessuna, ambivalenza nella loro ostilità per il genitore-bersaglio, il quale è sempre considerato totalmente negativo;

Fenomeno del pensatore indipendenti: i figli affermano orgogliosamente che i loro sentimenti di avversione verso il genitore odiato e le ideazioni relative provengono da loro stessi e non dal genitore alienante;

Appoggio automatico al genitore alienante: i figli accettano come valide unicamente le asserzioni del genitore amato, a danno di quelle del genitore odiato, prima ancora di averle ascoltate o comprese;

Assenza di senso di colpa: i figli non mostrano empatia per la sofferenza del genitore alienato e si permettono di bersagliare impietosamente con una crudeltà quasi psicopatica;

Scenari presi a prestito: i figli utilizzano termini o frasi solitamente estranee al repertorio dei ragazzi della loro età e di cui possono anche non conoscere esattamente il significato;

Estensione dell’ostilità alla famiglia allargata ed agli amici del genitore alienato.25

Il minore, a seguito delle pressioni subite dal genitore cd. alienante, diviene parte attiva della scissione intrafamiliare osteggiando e rifiutando di incontrare la figura genitoriale alienata, che in conseguenza di ciò, non può dare attuazione ai provvedimenti giurisdizionali disposti.

Accade “frequentemente, nelle procedure giudiziarie di separazione, che l’aggressività scatenata nella coppia in crisi porti a rappresentare il partner non solo come colpevole della rottura ma anche come persona equivoca, disturbata,

‘cattiva’. E questo non solo di fronte al giudice ma anche di fronte al bambino, chiamato ad assumere un ruolo di alleato e testimone delle incapacità dell’altro genitore, sottilmente influenzato perché esprima giudizi pesanti sull’altro genitore rendendo così impossibile l’affidamento a questi (non sono infrequenti i casi di

25 G.B. Camerini, M. Pingitore, G. Lopez, Alienazione Parentale: Innovazioni cliniche e giuridiche, Franco Angeli, Milano, 2016, p. 22.

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26 bambini spinti da un genitore a dichiarare falsamente di aver subito abusi di ogni genere da parte dell’altro genitore)”.26

L’insieme di tali condotte integrano una fattispecie che da larga parte della dottrina internazionale è stata ritenuta un disturbo psichiatrico27.

Per quanto riguarda il profilo italiano, la SINPIA (Società Italiana della Neuropsichiatria e dell’Adolescenza), ha annoverato la sindrome da alienazione parentale all’interno delle “Linee Guida in tema di abuso sui minori”28 del 2007.

Nonostante ciò è del tutto assente una legislazione in materia, così come esigue e contraddittorie sono le pronunce giurisprudenziali della Cassazione29.

Di recente la Suprema Corte con la pronuncia n. 13274/2019 ha accolto il ricorso di una madre di un minore alla quale la consulenza tecnica d’ufficio nel corso del giudizio aveva diagnostico la sindrome di alienazione parentale affermando che

26 A.C. Moro, Figli e genitori separati: quali soluzioni per garantire il diritto ai minori di incontrare i genitori, in Politiche per l’Infanzia e la famiglia, Fondazione Zancan, Alberto Brigo editore, Rovigo, 2006, p. 2.

27 Si v. tra gli altri W. Bernet, psichiatra statunitense che ha raccolto l’eredità del Gardner, battendosi per l’introduzione della PAS nel DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders).

Contra S. Vaccaro e C. Barea, che giungono a definire la sindrome da alienazione parentale quale un costrutto pseudo-scientifico (El pretendido síndrome de alienación parental - Un instrumento que perpetúa el maltrato y la violencia, Bilbao, Desclée De Brouwer, 2009).

28 “Una ulteriore forma di abuso psicologico può consistere nella alienazione di una figura genitoriale da parte dell’altra sino alla co-costruzione nel bambino di una ‘Sindrome di Alienazione Genitoriale’ ”, p. 10.

29 Cass, sez I, Sentenza 8 marzo 2013, n. 5847, che ha confermato la pronuncia della Corte d’Appello di Catania asserendo che “La Corte di appello, utilizzando la predetta relazione della Asl che diagnosticava una sindrome da alienazione parentale dei figli ed evidenziava il danno irreparabile da essi subito per la privazione del rapporto con la madre, si è limitata a fare uso del potere attribuito al giudice dall’ art.155 sexies comma 1 c.c. di assumere mezzi di prova anche d’ufficio ai fini della decisione sul loro affidamento esclusivo alla madre. Essa inoltre ha fondato la decisione anche su altri elementi non specificatamente censurati del ricorrente concernenti il giudizio negativo circa le attitudini genitoriali del (desunto anche dalla reiterata condotta ostruzionistica posta in essere al fine di ostacolare in ogni modo gli incontri dei figli con la madre) dandone conto in una motivazione priva di vizi logici e quindi incensurabile in questa sede”; Cass., Sez. I, Sentenza 20 marzo 2013, n. 7041 in cui la Cassazione ha negato il fondamento scientifico della PAS; Cass., sez. I, Sentenza 8 aprile 2016, n. 6919, che ha enunciato il seguente principio di diritto: “In tema di affidamento di figli minori, qualora un genitore denunci comportamenti dell'altro genitore, affidatario o collocatario, di allontanamento morale e materiale del figlio da sè, indicati come significativi di una PAS (sindrome di alienazione parentale), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità in fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l'altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena”.

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