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Iran. La fine del comandante ombra e il silenzio dei capi militari

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Academic year: 2022

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Iran. La fine del “comandante ombra” e il silenzio dei capi militari

In apparenza, la sua morte da “shahid” sembra aver riunificato il paese. L’Iran si stringe attorno al feretro del generale Qassem Soleimani, il capo delle Forze Quds, reparto d’élite dei Guardiani della rivoluzione (i Pasdaran) ucciso da un drone americano all’aeroporto di Baghdad. Ma quei funerali oceanici sono la rappresentazione di un’unità di popolo e di regime che è più di facciata che di sostanza. Perché il “martire” Soleimani era in cima alla catena di comando militare di una

“corporazione” invisa all’esercito iraniano. Invisa perché in competizione. Perché drena

finanziamenti che non erano disponibili per le forze armate iraniane, quelle che oggi sarebbero costrette a far fronte ad una guerra con gli Stati Uniti. Invisa, perché i generali sono la

componente più “pragmatica” dell’apparato militare iraniano, quella che non ha mai visto di buon occhio l’estendersi dell’influenza dei Pasdaran in ogni ambito della vita politica, economica, sociale e, naturalmente, militare dell’Iran.

Non è un caso, dunque, che le orazioni funebri nei tre giorni di lutto decretati dalla Guida

suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, siano stati tenute dai chierici più legati a Khamenei e dai comandanti dei Pasdaran. Assenti, invece, i vertici dell’esercito iraniano. Silenti. Ed è un silenzio che racconta di una faglia che l’azzardo di Trump ha mascherato ma che non ha rimosso.

Così come non è rimosso il malessere della borghesia iraniana, sempre più impoverita non solo dalle sanzioni imposte dagli Usa, ma dai miliardi sottratti ai piani di riforma evocati dal presidente

“moderato” Hassan Rouhani, per essere destinati al finanziamento delle milizie sciite filo-pasdaran che agiscono nel Grande Medio Oriente.

Le proteste erano iniziate il 15 novembre per gli aumenti del carburante (più cinquanta per cento fino a sessanta litri al mese, più trecento per cento sopra quella soglia) che si sono aggiunti al crollo della moneta iraniana, il rial, dopo l’imposizione delle sanzioni Usa. “No Gaza, no Libano, sacrifico la mia vita per l’Iran”: è ciò che i manifestanti iraniani cantavano mentre davano fuoco alle effigi di Khamenei.

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Il generale Mohammad Baqeri, capo delle forze armate iraniane

Quella della benzina è solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Le sanzioni americane, le più severe di sempre, stanno strangolando l’economia. Da quando, lo scorso maggio, Washington ha annullato le moratorie per i paesi autorizzati a importare greggio dall’Iran, Teheran riesce a malapena a esportare il venti per cento dei volumi che vendeva prima. Quando va bene. Il rial, la valuta locale, è precipitato (solo nel 2018 ha ceduto il sessanta per cento sul dollaro), l’inflazione galoppa (più trentacinque per cento), la disoccupazione sta creando grandi malumori, soprattutto tra i giovani. Nel 2020 la recessione rischia di sfiorare il dieci per cento. Mai, neanche durante la lunga e sanguinosa guerra con l’Iraq di Saddam Hussein (1980-1989) l’Iran s’era trovato in una situazione economica così grave, ha denunciato il Fondo monetario internazionale. E la sensazione è che il peggio debba ancora venire.

A essere colpiti non sono più solo i ceti più disagiati ma, per l’appunto, la “middle class” e i ceti borghesi, che sanno cosa vuol dire fare affari, dimostrando di sapersi muovere con abilità nella finanza mondiale e in una economia globalizzata. Ceto borghese e classe media che vanno ben oltre la “borghesia dei bazar”: loro, non hanno certo pianto la dipartita di Soleimani.

Oggi – scrive Rassa Ghaffari su PandoraRivista – è indubbiamente vero che la classe media urbana sta attraversando un periodo di profonda crisi che ha portato alcuni a parlare di un suo vero e proprio fallimento. Sebbene il presidente Rouhani abbia concentrato le sue politiche economiche

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Iran. La fine del “comandante ombra” e il silenzio dei capi militari

proprio su questa fascia sociale, moltissime persone descrivono la propria condizione affermando che “la nostra classe media non esiste più”. I due governi di Ahmadinejad, la crisi economica e la situazione internazionale hanno contribuito all’ampliamento del divario tra classi, l’impoverimento di quella media e l’arricchimento di una nuova upper class con redditi altissimi e spesso poco trasparenti… Largamente ignorata dai media e dall’opinione pubblica internazionale, su cui sembra fare più presa lo stile libertino dei giovani della upper class urbana, la classe lavoratrice costituisce ciò nondimeno un’ampia fetta della popolazione iraniana impegnata principalmente nella produzione economica, anziché nel consumo sfrenato. Questo spiega anche il supporto alle proteste ricevuto da alcune frange politiche conservatrici, desiderose di tenersi stretta una parte importante del proprio elettorato e pronte ad attribuirne il malcontento alle politiche del

presidente Rouhani.

Per i Guardiani della Rivoluzione, Soleimani, era diventato una leggenda vivente. Per le milizie sciite mediorientali era l’uomo che le legava, militarmente e finanziariamente, alla casa madre iraniana. Qassem Soleimani non era l’efficiente “strumento” di tutte le operazioni della Repubblica islamica d’Iran all’estero. Era molto di più. Ne era la mente, oltre che l’uomo di fiducia, assoluta, di colui che detiene realmente il potere a Teheran: la Guida Suprema della rivoluzione islamica, l’ayatollah Ali Khamenei.

Il “comandante ombra” era uno dei personaggi più popolari in Iran, aveva milioni di follower sui social. The Times, proprio negli scorsi giorni, l’aveva inserito nella classifica dei venti personaggi protagonisti del 2020.

Per gli sciiti in Medio Oriente, è un mix di James Bond, Erwin Rommel e Lady Gaga,

come ha scritto l’ex analista della Cia Kenneth Pollack nel suo ritratto di Soleimani per la rivista americana Time dedicata alle cento persone più influenti al mondo nel 2017.

Fino all’11 settembre del 2001, il generale è il punto di riferimento degli Usa nella lotta ai

Talebani afghani. Ma dopo la caduta delle Torri gemelle e l’inserimento dell’Iran, da parte di Bush, nel cosiddetto “asse del male” gli Usa per lui diventano un nemico. Il Pentagono lo considera così un avversario pericoloso. Da eliminare. Un alto funzionario iracheno, qualche tempo fa, l’aveva descritto come un uomo calmo e loquace.

È seduto dall’altra parte della stanza, da solo, con molta calma. Non parla, non commenta: ascolta soltanto,

aveva detto all’inviato del New Yorker, Dexter Filkins, autore di un dettagliato ritratto dello Shadow Commander (“comandante ombra”).

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Qassem Soleimani ritratto da Krzysztof Domaradzki, a corredo dell’articolo di Dexter Filkins sul New Yorker Secondo uno studio pubblicato nel 2018 da IranPoll e dall’Università del Maryland, l’83 per cento degli iraniani intervistati aveva un’opinione favorevole di Soleimani, superiore persino a quella del presidente Rohani e a quella del capo della diplomazia Zarif.

Soleimani – annota Pierre Hasky, direttore di France Inter – era una figura mitica della rivoluzione islamica, una sorta di Che Guevara iraniano, protagonista della vittoria dell’ayatollah Khomeini nel 1979 e diventato l’incarnazione del fervore e del messianismo della rivoluzione, anche oltre le frontiere iraniane. Lo abbiamo visto ovunque: in Siria, in Libano, in Yemen e naturalmente in Iraq.

L’abbiamo visto vittorioso tra le rovine di Aleppo, che Bashar al-Assad non avrebbe mai potuto riconquistare senza l’aiuto dei Guardiani della rivoluzione. Lo abbiamo visto a Mosca mentre parlava di strategia con Vladimir Putin. Ma soprattutto Soleimani ha manovrato per anni per aumentare l’influenza iraniana in Iraq, attraverso le stesse milizie sciite che in settimana hanno preso d’assalto l’ambasciata degli Stati Uniti.

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Iran. La fine del “comandante ombra” e il silenzio dei capi militari

L’ayatollah Ali Khamenei

I servizi di intelligence occidentali, e con essi quelli arabi e il Mossad israeliano, concordano su un punto cruciale: l’eliminazione di Soleimani da parte americana è il colpo più duro sferrato alla nomenclatura teocratica-militare che “regna” a Teheran. Perché il sessantaduenne comandante della Forza Quds (lo era dal 1998) era lo stratega della penetrazione della mezzaluna rossa sciita in Medio Oriente, sulla direttrice Baghdad-Damasco-Beirut. Non solo: Soleimani era anche al centro della “Pasdaran holding”. Un impero economico, oltre che una potenza militare.

Secondo uno studio recente, i Pasdaran controllerebbero addirittura il quaranta per cento

dell’economia iraniana: dal petrolio al gas e alle costruzioni, dalle banche alle telecomunicazioni.

Un’ascesa che si è verificata soprattutto sotto la presidenza di Ahmadinejad, ma che è proseguita sotto quella di Rouhani.

Se si somma il potere diretto di Khamenei a quello, altrettanto pervasivo e radicato della

“Pasdaran Holding”, si ha un quadro sufficientemente nitido su un regime teocratico-militare che si è fatto, per l’appunto, sistema. Un sistema che ha sempre più condizionato le politiche della Repubblica islamica dell’Iran. Per sostenere direttamente il regime di Assad, l’Iran, come Stato, attraverso le proprie banche, ha investito oltre 4,6 miliardi di dollari, che non includono gli armamenti scaricati quotidianamente da aerei cargo iraniani all’aeroporto di Damasco, destinati principalmente ai Guardiani della Rivoluzione impegnati, assieme agli hezbollah, a fianco

dell’esercito lealista.

Non basta. Almeno cinquantamila pasdaran hanno combattuto in questi anni in Siria, ricevendo un salario mensile di trecento dollari. Lo Stato iraniano ha pagato loro anche armi, viaggi e

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sussistenza. E così è avvenuto anche per i miliziani del Partito di Dio. E al centro di questo impero c’era Qassem Soleimani. Un impero che ruota attorno alla Forza Quds, un network esteso in tutto il Medio Oriente, con forze in Libano, Siria, Iraq e Yemen. Per esse, Soleimani è diventato il

“Martire” da vendicare. Il leader sciita iracheno Moqtada al-Sadr ha già dato ordine ai suoi

combattenti, su Twitter, di “tenersi pronti”, riattivando così la sua milizia ufficialmente dissolta da quasi un decennio e che aveva seminato il terrore tra le fila dei soldati americani in Iraq. E

vendetta promettono Hamas e la Jihad islamica palestinese, come Hezbollah libanese. Da

comandante-ombra a shahid per cui immolarsi: Qassem Soleimani fa paura anche da morto. Ma in Iran sono in molti a sentirsi più liberi. Anche nell’esercito.

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