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Schopenhauer - La vita come sofferenza e noia

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Academic year: 2021

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Schopenhauer - La vita come sofferenza e noia

“Il mondo come volontà e rappresentazione”, da libro 4 capp.56 – 58

Domando prima di tutto al lettore di richiamare bene alla memoria la riflessione presentata sulla fine del secondo libro, quando ci si affacciò il problema del fine della volontà; in luogo di trovare una risposta positiva, constatammo che la volontà, in ogni grado della sua manifestazione, dal più basso al più alto, manca interamente di un fine ultimo; aspira sempre, perché la sua essenza si risolve in un’aspirazione che non può cessare per via di nessun conseguimento, e che quindi è incapace di una soddisfazione finale; la volontà, per sua natura, si slancia nell’infinito, e soltanto degli ostacoli possono metterle un freno. Tutto ciò venne verificato nel più semplice dei suoi fenomeni naturali, nella gravità; sforzo incessante che tende verso un punto centrale inesteso, a cui non potrebbe giungere senza annientare se stessa e insieme tutta la materia; pure vi tende, e vi tenderebbe quand’anche l’universo fosse concentrato e ridotto al minimo in una massa unica. E venne ugualmente verificato in tutti gli altri fenomeni semplici della natura; ogni corpo solido tende, sia per fusione, sia per soluzione, verso lo stato liquido; il solo, in cui le sue forze chimiche siano interamente libere; laddove il freddo le chiude nella solidità, come in un carcere. La materia liquida tende allo stato gassoso, a cui passa non appena libera dalla pressione. Corpi senza affinità, senza una tendenza, o, come direbbe Jakob Böhme, senza un desiderio, senza una passione non esistono. L’elettricità propaga fino all’infinito la sua interna scissione, benché l’effetto ne sia neutralizzato dalla massa terrestre.

[…]

Dappertutto le varie forze naturali e le forme organiche si disputano la materia che tendono a dominare, ciascuna possedendo ciò che tolse all’altra; donde, fra la vita e la morte, una lotta continua, che tende invano a superare le resistenze opposte allo sforzo costituente l’essenza intima di ogni cosa; essenza che tuttavia dura, e si tormenta, finché il suo fenomeno svanisca per fare luogo ad altri che avidamente afferrino la stessa materia.

Già da tempo riconoscemmo che questo sforzo, costituente il nocciolo e l’in sé di ogni cosa, è tutt’uno con ciò che in noi, dove si manifesta con la massima chiarezza nella piena luce della coscienza, si dice volontà. Il suo impedimento per via di un ostacolo che ne impedisca il fine momentaneo, si dice sofferenza; mentre il conseguimento del suo fine si dice soddisfazione, benessere, felicità. Queste denominazioni si possono applicare anche ai fenomeni, più deboli di grado ma identici di natura, del mondo privo di cognizione. Anche questi, allora, ci si presentano affetti da un perpetuo soffrire, senza piacere durevole. Perché ogni tendere nasce da una privazione, da una scontentezza del proprio stato; è dunque, finché non soddisfatto, un soffrire;

ma nessuna soddisfazione è durevole; anzi, non è che il punto di partenza di un nuovo tendere.

Il tendere si vede sempre impedito, sempre in lotta; è dunque sempre un soffrire; non c’è nessun fine ultimo al tendere; dunque, nessuna misura e nessun fine al soffrire.

Ma ciò che nella natura incosciente possiamo scoprire soltanto con una riflessione acuta e faticosa, ci appare chiaramente nella natura consapevole, nella vita degli animali, di cui è facile dimostrare il soffrire continuo. Ma senza indugiarci su questo gradino intermedio, veniamo alla vita umana, dove tutto appare con la massima chiarezza, nella luce della conoscenza più distinta. Quanto più perfetto è il fenomeno della volontà, tanto più manifesto è il soffrire. Nella pianta non c’è ancora sensibilità, quindi non dolore; gli animali inferiori, infusori e raggiati, non hanno di certo che un grado minimo di dolore; la facoltà di sentire e di soffrire è ancora limitata negli insetti, cresce col perfezionato sistema nervoso dei vertebrati, e sempre più cresce, quanto più si sviluppa l’intelligenza. Dunque a mano a mano che la conoscenza diviene più distinta, e che la coscienza si eleva, cresce anche il tormento, che raggiunge nell’uomo il grado più alto, e tanto più alto, quanto più l’uomo è intelligente; l’uomo di genio è quello che soffre di più. In questo senso, cioè in ordine alla conoscenza in generale, non al semplice sapere astratto, intendo e cito il detto dell’Ecclesiaste: “Qui auget scientiam, auget et dolorem”. […]

Già nella natura incosciente, constatammo che la sua essenza è una costante aspirazione senza scopo e senza posa; nel bruto e nell’uomo, questa verità si rende manifesta in modo ancor più eloquente. Volere e aspirare, questa è la loro essenza, una sete inestinguibile. Ogni volere si fonda su di un bisogno, su di una mancanza, su di un dolore: quindi è in origine e per essenza votato al dolore. Ma supponiamo per un momento che alla volontà venisse a mancare un oggetto, che una troppo facile soddisfazione venisse a spegnere ogni motivo di desiderio;

subito la volontà cadrebbe nel vuoto spaventoso della noia: la sua esistenza, la sua essenza, le diverrebbero un peso insopportabile. Dunque la sua vita oscilla, come un pendolo, fra il dolore e la noia, suoi due costitutivi essenziali. Donde lo stranissimo fatto, che gli uomini, dopo aver

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ricacciati nell’inferno dolori e supplizi, non trovarono che restasse, per il cielo, niente all’infuori della noia. […]

La soddisfazione o, come si dice, ordinariamente, la felicità, è per natura essenzialmente negativa, senza nulla di positivo. La felicità non è mai originaria, né ci viene spontaneamente;

ma si deve sempre alla soddifazione di un desiderio. Il desiderio, la privazione, sono infatti condizione preliminari di ogni gioia. Ma con la soddisfazione cessa il desiderio, e quindi anche la gioia. Dunque, la soddisfazione, la felicità, si riducono in fondo alla liberazione da un dolore e da un bisogno. (Intendendo sotto questo nome non soltanto le sofferenze reali o sensibili ma ogni specie di desiderio che turbi la nostra quiete, e la stesa noia mortale che rende la vita un peso). Conquistare un bene qualsiasi è ben difficile; ad ogni progetto si oppongono difficoltà senza numero; gli ostacoli si centuplicano ad ogni passo. E quando infine, superati gli inciampi, siamo giunti al fine desiderato, che guadagno abbiam fatto? Nessuno: siamo riusciti semplicemente a liberarci da un dolore, da un desiderio; ci ritroviamo, insomma, nello stato di prima. Il dato primitivo è il bisogno, cioè il dolore. Della soddisfazione, della gioia, non abbiamo che una conoscenza indiretta, che si deve al ricordo delle antecedenti sofferenze, delle privazioni da cui fummo liberati. Perciò, dei beni e dei vantaggi attualmente posseduti, non sappiamo né renderci un conto preciso né fare un’esatta valutazione; le cose, ci sembra, non potrebbero andare diversamente; infatti, la felicità che quei beni ci danno, è negativa: ci tien lontani dal dolore. Non possiamo sentire il valore dei beni, che dopo averli perduti; la mancanza, la privazione, la sofferenza, sono i soli elementi positivi che si facciano sentire direttamente.

Questa è anche la ragione che ci rende così dolce il ricordo di mali superati, ad esempio angustie, malattie, povertà, ecc.; non abbiamo infatti altro mezzo per gustare i beni presenti. […]

Essendo la felicità negativa, senza niente di positivo, la soddisfazione, l’appagamento non possono durare a lungo: non fanno che liberarci da un dolore o da una privazione, a cui seguiranno di certo un’altra nuova sofferenza, o il languor, un’aspirazione senza oggetto, la noia.

Esercizio

Esponi in modo schematico i passaggi argomentativi che sono contenuti nel brano di Schopenhauer.

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