• Non ci sono risultati.

7.3 Sollecitazioni elementari

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "7.3 Sollecitazioni elementari "

Copied!
84
0
0

Testo completo

(1)

7 Lesioni strutturali elementari

7.1 Strutture antiche e moderne

“Scava fin quando trovi il terreno solido, e che il cielo ti assista”, Leon Battista Alberti (Genova, 14 febbraio 1404 – Roma, 20 apile 1472).

Architetto, matematico e poeta italiano Leon Battista Alberti è noto anche per le sue opere come crittografo, linguista, filosofo, musicista e archeologo, tanto da essere considerato una delle figure artistiche più poliedriche del Rinascimento. Ma se è noto per l’aspetto innovativo delle sue opere, sintetizzabile in sua famosa frase: “... l’artista … non deve essere un semplice artigiano, ma un intellettuale preparato in tutte le discipline ed in tutti i campi.”, lo è ancor di più per averci lasciato un trattato, il De re aedificatoria, rivolto non solo ad una elite di specialisti ma anche al grande pubblico di educazione umanistica e scritto in latino sul modello dei dieci libri dell’Architettura di Vitruvio, allora circolante in copie manoscritte e non an- cora corrette filologicamente.

L’opera è divisa in dieci libri: nei primi tre l’Alberti tratta di argomenti inerenti la scel- ta del terreno, dei materiali da utilizzare nelle costruzioni e del tipo di fondazione da adot- tare; nel quarto e quinto libro disquisisce delle varie tipologie di edifici; il sesto libro è in- vece incentrato sulla bellezza architettonica, intesa come armonia esprimibile matemati- camente in termini di geometria delle proporzioni, contenendo inoltre anche una trattazio- ne sulle macchine da costruzione; i volumi VII, VIII e IX approfondiscono argomenti ine- renti la costruzione delle singole tipologie di fabbricati, rispettivamente chiese, edifici pubblici e privati, mentre l’ultimo tratta anche dell’idraulica.

Ma l’Alberti dimostra di saper andare anche oltre iniziando un argomento alquanto complesso, oggi esprimibile come l’analisi dei dissesti statici, tanto che in ogni sua tratta- zione inerente i problemi connessi con le fondazioni degli edifici si rinviene la raccoman- dazione di predisporre ed eseguire gli elementi fondali nella maniera più opportuna. In ef- fetti i dissesti statici imputabili all’inadeguatezza delle opere di fondazione sono stati tradi- zionalmente considerati come espressione dei sintomi connessi con una patologia congeni- ta ed incurabile, tanto che l’Alberti non esitava a considerarli esclusivamente come meri errori progettuali e/o esecutivi, fino a sfociare nella frase citata ad inizio capitolo e che lo scienziato rinascimentale attribuì ai costruttori della Roma imperiale.

In ogni caso, qualunque fosse la fonte, occorre rimarcare che i costruttori del nostro passato molto si basavano sulla conoscenza sperimentale e poco o nulla su quella teorica, la quale invece probabilmente fondava tutta la sua natura su di un’unica regola: le fonda- menta devono essere approfondite fino ad interagire con un fondo “sodo”, per sua natura o perché reso tale da opportune lavorazioni. Ma se ciò poteva costituire il primo problema da affrontare, stante le raccomandazioni dell’Alberti, occorreva nel contempo rispettare una ulteriore condizione non meno importante: la stabilità futura dell’opera, all’epoca espressa

(2)

come la garanzia di permanenza nel tempo, con particolare riferimento all’azione fisica e chimica che le acque presenti o correnti nel sottosuolo avrebbero potuto indurre.

7.1.1 Evoluzione storica delle fondazioni

La metodologia utilizzata dagli antichi, basata quindi più sull’esperienza che sull’analisi, non a caso risultava essere corroborata da poche regole tecniche poggianti sulla compara- zione con esempi illustri costituiti da edifici storici, almeno fino a quando non fu avvertita l’esigenza di introdurre anche regole di calcolo a partire dagli studi di Galileo Galilei, il quale ricordiamo aver scritto nel 1594 il trattato Della scienza meccanica e nel 1638 i Di- scorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, che di fatto può essere pertanto considerato come il padre della moderna Scienza delle Costruzioni. Ma fino ad allora vigevano esclusivamente prescrizioni di natura qualitativa, tanto che la “sodezza”

del terreno era valutata con strumenti di ferro (gli arpioni) che lo sondavano fino a 4-5 me- tri di profondità, mentre la costipazione era ritenuta sufficiente se il mazzapicchio, ovvero lo strumento con cui si infiggevano i pali, rimbalzava sulla testa del tronco senza produrre ulteriori approfondimenti, una prova sperimentale antesignana delle moderne prove pene- trometriche dinamiche (nota 5.13).

All’epoca, qualora il terreno non avesse manifestato caratteristiche tali da infondere fi- ducia nell’architetto, la tecnica costruttiva prevedeva l’approfondimento del piano di posa delle fondazioni fino al raggiungimento di strati dotati di un maggior grado di affidabilità;

ma nel momento in cui ciò comportava il raggiungimento della falda acquifera l’unica pos- sibilità consisteva nel miglioramento delle proprietà meccaniche del terreno.

Figura 7.1 Antichi sistemi di esecuzione di fondazioni profonde: fondazione continua su palificata (disegno di Martellacci C.).

(3)

Figura 7.2 Esempio di platea alleggerita con elementi in plastica, con la molteplice funzione di ri- sparmio economico, di isolamento e di canalizzazione dei sistemi impiantistici; A) vista generale di pla-

tea su pali, fondata su terreni in frana; B) particolare (per gentile concessione dell’ing. B. Ciampana).

La tecnica a quel punto prevedeva l’infissione di pali di legno, direttamente al di sotto delle fondazioni (fig. 7.1) o secondo la geometria a “passionata”, ovvero con disposizione regolare su più file a coprire l’intero ingombro dell’edificio.

Ovviamente quella descritta non era l’unica tecnica possibile, dal momento che già gli antichi romani erano risultati abili costruttori con l’introduzione della platea, come nel caso del Colosseo già discusso nei capitoli 1, 3 e 5, ovvero di una soluzione capace di esprimere una estrema rigidezza; ma se le platee hanno di fatto garantito l’integrità strutturale di mol- ti edifici e monumenti dell’antichità manifestando quindi una indiscutibile efficacia, nel contempo proprio l’eccessiva dispendiosità economica in termini di volume di materiali richiesti le ha rese di fatto proibitive per la maggior parte delle applicazioni; almeno fino alla scoperta del calcestruzzo armato il quale, grazie alla presenza delle gabbie di armatura, all’accresciuta resistenza dei cementi e alla possibilità di adozione di nervature bi- direzionali, ha consentito la re-introduzione di tale tipologia fondale, con spessori note- volmente ridotti rispetto al passato.

Occorre però sottolineare che l’esecuzione doveva comunque rispettare rigide regole, a cominciare dalla regolarizzazione del fondo mediante uno strato compatto di argilla il qua- le, alla stregua del moderno calcestruzzo magro (altresì noto come “magrone”), doveva ga- rantire la duplice funzione di ripartitore e di isolante. Ma se negli ultimi anni stiamo assi- stendo ad una ulteriore evoluzione tecnica delle platee, con l’introduzione di elementi in plastica di alleggerimento (fig. 7.2), nel medioevo ulteriori possibili variazioni sul tema erano fornite dalle fondazioni continue su archi rovesci e su piloni ed archi (fig. 7.3).

Le fondazioni su archi rovesci prevedevano sostanzialmente la realizzazione di pozzi strutturalmente connessi mediante archi o volte rovesce, la cui funzione principale consi- steva nella ripartizione dei carichi su di una impronta maggiore, stante gli insegnamenti scaturiti dall’analisi dell’equazione (1.1) unitamente alle conoscenze che abbiamo riguardo la rigidezza strutturale di tali membrature. In buona sostanza, pur palesando sostanzialmen- te una rigidezza non paragonabile a quella delle platee, le fondazioni su archi rovesci erano capaci di assolvere alla duplice funzione di dissipazione dei carichi con cedimenti, soprat- tutto differenziali, minimi o trascurabili nonchè di risparmio economico in termini di mate- riali utilizzati.

(4)

Nel caso invece delle fondazioni su piloni ed archi le stesse possono essere considerate di diritto come la naturale evoluzione del caso precedente, la cui adozione era comunque fortemente condizionata dalla possibilità di raggiungere terreni di elevata resistenza (in ge- nere il substrato); in questo caso di fatti la tecnica prevedeva la realizzazione di veri e pro- pri pozzi, ai quali era affidato il compito di trasmettere al terreno tutti i carichi delle sovra- strutture e che venivano realizzati a sacco, ovvero riempiti con pietre talora legate con mal- te a base di calce e completati con mattoni pieni. Infine gli stessi erano connessi in sommi- tà con archi di varia geometria i quali, oltre a svolgere la funzione di collegamento trasver- sale, agivano come supporti strutturali delle sovrastanti murature.

A questo punto ritengo sia importante notare che le varie tipologie di fondazioni ideate dagli antichi non sono comunque scomparse nell’oblio della storia, ma hanno subito un naturale processo di evoluzione con la comparsa del calcestruzzo armato e di nuove tecni- che costruttive; così è accaduto che alle fondazioni su archi rovesci sono succedute le travi rovesce, le quali forniscono una elevata rigidezza con un notevole risparmio di materiale, mentre le fondazioni su piloni e archi sono state sostituite dai plinti con travi di collega- mento (fig. 7.4) oppure dalle fondazioni su pali.

Figura 7.3 Antichi sistemi di esecuzione di fondazioni su terreni cedevoli mediante archi su pozzi;

talora venivano realizzate fondazioni su archi rovesci, ottenuti mediante raddoppio speculare, rispetto ad un piano di simmetria orizzontale, degli archi su pozzi (disegno di Martellacci C.).

(5)

Figura 7.4 Fondazioni superficiali del tipo: A) a plinti e travi di collegamento; B) a travi rovesce.

7.1.2 Problemi nella classificazione delle strutture

Ma se l’uomo, nel suo cammino nella storia a partire dalle prime palafitte, è stato capace di escogitare diversi metodi per fondare le proprie opere nel contempo ha dimostrato una maggiore efficacia nella ideazione dei sistemi di organizzazione dei singoli elementi costi- tuenti una struttura, in funzione degli innumerevoli modi che abbiamo di far sostenere e trasmettere i carichi di progetto. Occorre in tal senso precisare che gli antichi realizzavano soprattutto edifici (o strutture in genere) decisamente caratterizzati dall’uso della muratura portante, in pietra o in mattoni, talora sostituita da colonne e strutturalmente connessi me- diante archi, volte e più raramente architravi, questi ultimi generalmente in pietra e, solo per aperture di modeste dimensioni, in legno. Viceversa, con l’introduzione e lo sviluppo della tecnologia dell’acciaio prima e del calcestruzzo dopo, abbiamo assistito negli ultimi due secoli ad un rapido sviluppo delle metodologie di costruzione ed in particolare di as- semblaggio delle strutture che, unitamente alla possibilità di utilizzo di un numero estre- mamente vario di materiali spesso compositi, conduce alla necessità di una classificazione dei metodi di aggregazione degli elementi semplici, questi ultimi già introdotti nella prima parte del libro.

Il problema risulta particolarmente sentito se consideriamo che nell’ingegneria esistono diverse soluzioni (e tutte possibilmente corrette) al medesimo problema dal momento che, per esempio, un carico può essere sostenuto e trasmesso tanto da elementi che lavorano a trazione quanto da elementi in compressione, così come avviene nel confronto tra i ponti sospesi (con elementi, le funi, sollecitati a trazione) ed in quelli ad arco (con prevalenza di elementi sollecitati a compressione): il tutto utilizzando il medesimo concetto strutturale, l’arco, già noto agli antichi ma rovesciato nel caso dei ponti a funi.

Appare evidente a questo punto che tale sistema di classificazione delle strutture, per completo che possa apparire, deve essere considerato se non semplicistico almeno limitato, dal momento che un’analisi basata esclusivamente sui metodi di assemblaggio degli ele- menti primari fornisce un’idea della distribuzione spaziale ma non delle sollecitazioni (e di conseguenza delle deformazioni) della singola membratura rispetto al comportamento glo- bale dell’intera aggregazione. Questo perché entrano in gioco ulteriori elementi di non tra- scurabile importanza, tanto nelle operazioni di progettazione di una struttura quanto di ana- lisi del suo comportamento in relazione alla presenza di un quadro fessurativo, quali: la geometria, la rigidezza, l’organizzazione secondo sistemi mono/bi-direzionali, i materiali, i tipi di vincolo, le condizioni di carico e, non ultima, la natura del terreno di fondazione.

(6)

Figura 7.5 A) Schemi di funzionamento di un telaio semplice in relazione alla retta di azione di una forza esterna; B) strategie di progetto per assorbire le forze orizzontali, mediante controventi

diagonali, connessioni rigide e pareti di taglio.

Gli elementi appena introdotti concorrono tutti simultaneamente, in fase di progettazio- ne e di dimensionamento di una struttura, nell’analisi di stabilità della stessa, dal momento che ogni nostra opera non può essere considerata come indeformabile, ma soggetta a varia- zioni di forma in funzione delle sollecitazioni alle quali risulta essere sottoposta durante la propria vita utile, sollecitazioni che, stante gli insegnamenti dei capitoli precedenti, posso- no essere tanto meccaniche quanto chimico-fisiche ovvero ambientali. Ciò comporta che se l’analisi delle varie condizioni di carico può risultare difficile in sede di progettazione di un edificio, nell’ambito della quale si ha comunque il controllo della maggior parte delle condizioni al contorno, appare davvero ardua nello studio a posteriori, ovvero in presenza di un danneggiamento che, ricordiamo, può essere tanto strutturale quanto architettonico, ovvero limitato agli elementi non portanti.

Così accade che, a titolo di esempio, il sistema trilitico (fig. 1.1) può risultare nella sua semplicità costruttiva davvero efficace (stabile) in presenza dei soli carichi verticali, mentre attinge facilmente a condizioni di collasso in fase di azione di carichi orizzontali (fig. 7.5-A).

Ma probabilmente sono state proprio condizioni di carico di tale natura, tipicamente re- lazionabili alle sollecitazioni sismiche, che hanno condotto l’uomo all’adozione di vincoli di maggiore complessità rispetto all’appoggio semplice, considerato che le strategie di progetto in tali casi possono prevedere la presenza di cerniere ed elementi diagonali di con- trovento, di pareti di taglio oppure di giunti rigidi come gli incastri (fig. 7.5-B), conducen- do in definitiva ad una serie di bivi che comportano che ad una medesima struttura possono poi corrispondere diversi schemi la cui scelta finale risulta sovente decisamente influenzata dall’aspetto economico.

Considerata la complessità dell’argomento una prima classificazione delle varie tipolo- gie strutturali non può prescindere anche dai materiali utilizzati i quali, come abbiamo po- tuto scoprire nella prima parte del libro, trovano spesso una chiara collocazione storica, culturale e geografica. Così scopriamo innanzitutto che l’elemento fondamentale che guida le scelte progettuali è rappresentato dal rapporto tra incidenza della manodopera e costo dei

(7)

materiali tanto che, mentre in Italia è fortemente radicato l’uso del calcestruzzo, negli Stati Uniti il materiale più usato è l’acciaio, grazie probabilmente anche alla diffusa presenza di operai specializzati; ma nel contempo anche nella stessa area geografica si assiste a varia- zioni sul tema in funzione delle condizioni sociali, tanto che negli anni sessanta per la co- struzione del grattacielo della Columbia Broadcasting System di New York fu utilizzato il calcestruzzo per il semplice motivo che la maggior parte della manodopera specializzata nell’acciaio era già impegnata nella realizzazione del World Trade Center.

Un problema quindi che accomuna le opere moderne con quelle tramandateci dall’antichità considerato che, se le piramidi furono costruite in pietra per i motivi già visti, i primi ponti a funi apparvero in Cina ed in Sudamerica, laddove la necessità di coprire grandi luci unitamente alla diffusa presenza di fibre vegetali condusse ad una quasi con- temporanea comparsa di ponti costituiti da liane, che fungevano tanto da cavi a trazione quanto da sospensori del piano di camminamento, questi ultimi generalmente costruiti con tavole di legno e spesso irrigiditi da tronchi laterali, una tecnica ripresa nella costruzione dei moderni ponti sospesi in acciaio mediante l’uso delle travi di imbardata.

È ovvio a questo punto che un approccio descrittivo delle strutture basato esclusiva- mente sui materiali utilizzati non può che essere considerato fuorviante, visto che l’utilizzo del legno piuttosto che dell’acciaio non necessariamente deve dipendere esclusivamente da scelte progettuali, ma anche dalla disponibilità locale del materiale stesso e, non ultimo, da possibili esigenze architettoniche. Nel contempo però, soprattutto allorquando rivestiamo il ruolo di investigatori nello studio di opere dissestate, l’importanza del materiale assume un ruolo di maggiore interesse, considerato che esiste sempre una diretta relazione tra le de- formazioni presenti, i carichi agenti, i materiali utilizzati e le tecniche costruttive.

Fortunatamente la nostra comprensione del comportamento delle strutture, decisamente utile in sede di analisi del livello di danneggiamento, risulta essere semplificata se conside- riamo che la creatività umana ha condotto ad un incredibile varietà di forme attraverso l’assemblaggio di pochi elementi strutturali semplici, mediante l’utilizzo di alcuni principi basilari della Fisica ed infine grazie ad una scelta limitata di materiali. Se consideriamo inoltre che gli elementi componenti una struttura possono resistere solo a trazione o a compressione appare ancor più evidente come le opere dell’ingegno umano possano esse- re, in definitiva, ricondotte a pochi, semplici ma decisamente utili schemi strutturali.

7.2 Variabili strutturali

La classificazione degli schemi strutturali richiede però la preliminare analisi tutte le va- riabili che concorrono alla loro definizione le quali, come scopriremo in seguito, si rivele- ranno indispensabili per lo studio tanto delle lesioni semplici quanto dei quadri fessurativi complessi, il tutto nel pieno rispetto dell’obiettivo principale del libro sintetizzato nella fra- se conclusiva dell’Introduzione.

7.2.1 Stabilità ed equilibrio

Il concetto di stabilità può essere didatticamente espresso come la capacità di un corpo, una struttura nel nostro caso, di conservare la configurazione deformata di equilibrio assunta dopo l’applicazione delle azioni esterne. Ciò comporta che, una volta tradotte tali azioni in condizioni di carico, occorre stabilire per ogni singolo componente di una struttura la for- ma e le dimensioni al fine di garantire il rispetto del principio enunciato. Ma poiché ogni problema presenta sempre molte soluzioni occorre anche individuare il materiale da utiliz-

(8)

zare, con lo scopo, in funzione del relativo comportamento meccanico, di minimizzare le di- mensioni, tutte condizioni che si traducono sempre in una riduzione del peso dell’opera ed in definitiva in un’economia dei costi di costruzione prima e possibilmente di gestione poi.

Ne consegue che nell’analisi delle condizioni di stabilità di una struttura occorre conte- stualmente verificare che la stessa non subisca spostamenti, salvo piccole variazioni di forma delle sue porzioni, in relazione al terzo principio di Newton, per il quale ad ogni a- zione corrisponde sempre una reazione uguale e contraria; ciò porta pertanto allo studio del concetto di vincolo, poichè al variare dello stesso cambia radicalmente la risposta struttura- le sia del singolo elemento che dell’intero assemblaggio. In definitiva, considerando quan- to finora introdotto sull’argomento, in fase di progettazione di un’opera ed al fine di garan- tirne le condizioni di stabilità e di equilibrio, è fondamentale studiare il comportamento tanto dell’intera struttura quanto di ogni singola membratura, considerando che nello spa- zio tridimensionale ogni zona di contatto tra i vari componenti (in assenza quindi di vinco- lo) manifesta due possibili condizioni di movimento alle quali corrispondono sei gradi di libertà: rispettivamente la traslazione e la rotazione rispetto ai tre assi coordinati del siste- ma cartesiano di riferimento (fig. 7.6).

Ma se tale approccio richiede, in fase di progettazione, un’analisi che inizia dal singolo elemento e che viene completata con la comprensione della risposta dell’intera struttura, lo studio di un edificio dissestato comporta innanzitutto la mancanza delle condizioni basilari di stabilità e di equilibrio, condizioni che possono risultare non verificate limitatamente ad un singolo componente, ad una o più porzioni o nei casi più gravi all’intera opera. Il che conduce ad un approccio radicalmente diverso, dal momento che risulta indispensabile ri- costruire come primo passo la geometria ed il comportamento di insieme della struttura, in relazione ai possibili carichi agenti; quindi, una volta individuato e perimetrato il dissesto, occorre stabilire una possibile relazione causa-effetto tra l’agente responsabile del danneg- giamento ed il comportamento statico degli elementi coinvolti, relazione che ricordiamo può essere agevolmente espressa dalla ricostruzione dei vettori spostamento, associati ad ogni singola lesione, e dei vettori risultanti, associati ad ogni singolo cinematismo.

Figura 7.6 Un robot industriale PUMA con i relativi sistemi di riferimento ed i possibili gradi di libertà (da: Zaccarian L., 2007/2008).

(9)

Figura 7.7 Tipi di vincolo: A) carrello; B) cerniera; C) incastro; D) pendolo; E) doppio pendolo;

E) doppio doppio pendolo.

7.2.2 Vincoli o connessioni

Per poter rispettare le condizioni di stabilità e di equilibrio i singoli elementi di una struttu- ra devono essere reciprocamente connessi mediante vincoli di varia natura, il cui utilizzo è generalmente arbitrario, capaci di diminuire i gradi di libertà di ogni singola connessione in relazione ai concetti espressi nel capitolo 1. Di fatti, come abbiamo già potuto scoprire con alcuni esempi e con l’analisi di elementi strutturali semplici, l’utilizzo di un incastro piuttosto che di una cerniera comporta sempre lo sviluppo di un numero maggiore di rea- zioni vincolari, la diminuzione dei gradi di libertà del sistema, l’attenuazione delle defor- mazioni, l’incremento della rigidezza, rendendo però nel contempo la struttura decisamen- te più sensibile agli spostamenti come nel caso dei cedimenti differenziali delle fondazioni.

Tali concetti possono essere meglio compresi se consideriamo che sostanzialmente un vincolo consiste in opportune condizioni geometriche in funzione delle quali imponiamo una limitazione agli spostamenti di un corpo rispetto ad un opportuno sistema di riferimen- to. Ma, ragionando in termini realistici, tali condizioni possono essere ottenute mediante appositi dispositivi definiti apparecchi di appoggio, il che comporta che un corpo vincola- to non può più subire spostamenti arbitrari, bensì solo quelli consentiti dalla tipologia del vincolo adottato, conducendo infine all’analisi degli spostamenti possibili, ovvero compa- tibili, e di quelli impossibili, altresì definiti incompatibili.

Un altro grande problema nello studio dei vincoli consiste proprio nella loro classifica- zione, considerato che una prima distinzione può essere effettuata in funzione del numero di elementi da essi collegati ottenendo pertanto i vincoli elementari (connessione di due corpi) ed in vincoli associati (connessione di più corpi). In dettaglio e con riferimento alla

(10)

fig. 7.7 i vincoli elementari, considerato che quelli associati non rientrano nei nostri scopi, possono essere ulteriormente suddivisi in semplici, doppi e tripli in relazione al numero dei gradi di libertà soppressi, ovvero:

Vincolo semplice (fig. 7.7-A)

Consideriamo un punto A, appartenente ad un corpo in movimento lungo una curva; dedu- ciamo immediatamente che il suo spostamento, istante per istante, può avvenire solo lungo la tangente t alla curva (fig. 7.8-A), mentre il corpo unitamente alla traslazione può anche ruotare. In definitiva il moto del corpo corrisponde a due gradi di libertà (nel piano) da cui deduciamo che il vincolo semplice ne sopprime uno solo: la componente di spostamento lungo la normale n alla tangente prima definita alla quale corrisponde pertanto una sola re- azione vincolare. I vincoli di questo tipo possono essere rappresentati dalle bielle (figg.

7.7-D e 7.8-B), con centri istantanei di rotazione e spostamento infinitesimo lungo la nor- male al suo asse (con B fisso ed A in spostamento infinitesimo lungo l’asse AB), e dai car- relli (fig. 7.8-C), con traslazioni parallele alla tangente alla linea di appoggio.

Figura 7.8 Vincolo semplice: A) geometria generale; B) biella; C) carrello (da: Gravina P., 1984 - ridisegnato).

Figura 7.9 Vincolo doppio: A) cerniera semplice; B) cerniera a doppia biella; C) cerniere alla base dei pilastri della Stazione Centrale di Milano.

(11)

Vincolo doppio (fig. 7.7-B)

Nel momento in cui viene realizzata una condizione che impedisce di fatto la traslazione sugli assi, assumiamo in effetti un vincolo con tre gradi di libertà nello spazio (ed uno solo nel piano), in relazione alla coincidenza dello spostamento con il centro istantaneo di rota- zione. Ciò porta alla definizione del concetto di cerniera (fig. 7.9-A), nota anche come col- legamento di taglio, ovvero di una connessione che consente la sola rotazione relativa di elementi adiacenti, impedendo di fatto la trasmissione dei momenti flettenti e sviluppando di conseguenza due reazioni vincolari; ne deriva che il comportamento delle strutture in- cernierate risulta essere totalmente differente da quelle incastrate, dal momento che le con- nessioni a cerniera riducono la resistenza nei confronti delle forze laterali, le quali abbiamo visto devono essere assorbite da elementi diagonali che lavorano a puntone/tirante (rispet- tivamente: compressione/trazione in relazione alla direzione delle forze), ma contestual- mente riducono anche i valori assoluti degli sforzi termici mentre rendono le strutture me- no sensibili agli spostamenti, come nel caso dei cedimenti fondali. Tale tipo di vincolo è decisamente tipico delle strutture intelaiate in acciaio, come mostrato dalla fig. 7.9-C, men- tre occorre considerare che può essere ottenuto anche mediante la combinazione di due vincoli semplici (fig. 7.9-B), poichè ogni biella condiziona il corpo a ruotare attorno al loro punto di intersezione.

Vincolo triplo (fig. 7.7-C)

Quando il vincolo impone la soppressione di tutti i gradi di libertà della connessione ab- biamo ottenuto la totale immobilità del corpo rispetto al sistema di riferimento, ovvero ab- biamo realizzato un incastro (fig. 7.10-A), noto anche connessione rigida o momento- resistente, alla quale corrispondono tre reazioni vincolari. Con lo stesso ragionamento del caso precedente un vincolo triplo può essere ottenuto anche mediante una opportuna com- binazione di vincoli semplici e doppi (fig. 7.10-B), che siano in grado di garantire l’assenza di un centro istantaneo di rotazione.

Figura 7.10 Vincolo triplo: A) incastro semplice; B) incastro quale combinazione di vincoli doppi e semplici.

(12)

Il problema legato all’utilizzo degli incastri, oltre alla differente risposta strutturale alle sollecitazioni, dipende anche dal fatto che in tal modo viene impedita la totale mobilità di una struttura (o di un suo elemento), il che comporta che non possono essere più utilizzate le equazioni della statica poichè il sistema risulta essere staticamente indeterminato, ovve- ro è condizionato dalla presenza di un numero di variabili superiore a quello delle equazio- ni. Ciò impone una strategia di calcolo alternativa, decisamente più complessa, la cui solu- zione può essere ottenuta non più nell’ipotesi di corpo rigido, ma mediante l’analisi della deformazione della struttura a partire dal comportamento del materiale in campo elastico ed evolvendo, per condizioni di calcolo particolari, in campo plastico.

Come abbiamo potuto scoprire nel percorso seguito finora, un vincolo può essere otte- nuto in molteplici modi: per esempio, un caso particolare del vincolo doppio può derivare dall’accoppiamento in parallelo di due bielle, la cui configurazione geometrica complessi- va impone la presenza di un centro istantaneo di rotazione posto all’infinito (fig. 7.7-E). La condizione di vincolo che ne deriva discende dall’eliminazione delle traslazioni lungo le direzioni delle bielle e contestualmente della rotazione per mancanza di intersezione delle rette di azione, risultando di conseguenza assimilabile ad un incastro generalmente noto come glifo o collare o doppio pendolo. Infine è anche possibile la condizione di doppio doppio pendolo (fig. 7.7-F), la quale costituisce un vincolo semplice impedendo di fatto la sola rotazione (con un momento come unica reazione vincolare), mentre l’accoppiamento di due cerniere ruotate di 90° comporta lo sviluppo complessivo di un incastro, una strate- gia anche architettonica utilizzata dall’Architetto Renzo Piano nel progetto della nuova Chiesa di San Giovanni Rotondo (FG) dedicata al santo Padre Pio.

Un’ultima nota: il raffronto tra il numero di gradi di libertà (GdL) ed il numero di vin- coli (V) imposti definisce immediatamente la tipologia strutturale nonché il comportamen- to atteso conducendo a:

– strutture isostatiche o staticamente determinate: GdL = V – strutture iperstatiche o staticamente indeterminate: GdL > V – strutture marcatamente iperstatiche o s.i.: GdL >> V

– strutture labili: GdL = V ma mal disposti tanto da consentire spostamenti infinite- simi tra gli elementi connessi.

7.2.3 Geometria e rigidezza

In relazione alla possibile forma assunta, gli elementi strutturali possono essere classificati sostanzialmente come lineari e di superficie, salvo ulteriori possibilità offerte dagli ele- menti di volume, come per esempio i muri a gravità, per i quali non esiste una dimensione preponderante sulle altre. Gli elementi lineari a loro volta possono essere ulteriormente suddivisi in diritti (o rettilinei, come travi e pilastri) o curvi (come gli archi), mentre quelli di superficie in piani (muri e solai) o curvi, considerando inoltre che la curvatura può esse- re semplice (volte) o doppia (cupole), conducendo quindi ad una vasta scelta di geometrie a partire però sempre da elementi strutturali semplici (trave, pilastro, arco).

Uno dei concetti essenziali associati all’utilizzo di elementi lineari, piuttosto che di su- perficie, è insito nella scelta del materiale da costruzione, considerato che per esempio le travi e i pilastri, rappresentativi della prima tipologia geometrica, possono essere agevol- mente realizzati tanto con il legno quanto con l’acciaio e il calcestruzzo armato, contraria- mente alle superfici che possono essere plasmate altrettanto bene con il calcestruzzo ma risultano precluse agli altri materiali. Pertanto, pur sottolineando eventuali utilizzi partico- lari come nel caso delle lamiere grecate in acciaio per la costruzione dei solai, è evidente

(13)

che la scelta della/e geometria/e di progetto non può prescindere dalla preliminare indivi- duazione del materiale da utilizzare, con le relative caratteristiche di resistenza e deforma- bilità, il tutto ovviamente dipendente dalla funzione alla quale la struttura deve rispondere, giungendo in tal modo ad una prima schematizzazione delle strutture:

7.2.4 Assemblaggi strutturali

Sono costituite esclusivamente da elementi lineari, con una distinzione tra lo sviluppo nel piano e quello nello spazio (fig. 7.11). Nel primo caso il piano può contenere non solo tutti gli assi degli elementi, ma anche gli assi principali di inerzia delle sezioni; se inoltre anche le sollecitazioni esterne e relative deformazioni agiscono all’interno del piano si ha la con- dizione di sistema piano o telaio bidimensionale, mentre la giunzione di più sistemi piani nello spazio, attraverso elementi trasversali, conduce per naturale conseguenza alla defini- zione di un sistema spaziale o telaio tridimensionale. Oggigiorno lo sviluppo di modelli di calcolo sofisticati, implementati in software strutturali commerciali di ampia diffusione, ha condotto alla sistematica progettazione delle strutture direttamente nello spazio, tenuto conto della simultanea presenza di tutti gli elementi, connessioni e condizioni di carico;

viceversa in un passato non molto lontano era di gran lunga più facile (e diffusa) l’analisi nel piano, considerato che i telai 3D potevano essere scomposti in un numero finito di telai piani analizzabili singolarmente, salvo verificare successivamente il comportamento degli elementi di connessione trasversale talora rappresentati da ulteriori telai piani.

Strutture di superficie

L’utilizzo di elementi di superficie conduce all’assemblaggio di strutture di superficie le quali, alla stregua di quanto discusso precedentemente, possono a loro volta essere ulte- riormente suddivise in relazione allo sviluppo nel piano o nello spazio. Le prime a loro volta sono distinte in piastre e lastre (fig. 7.11-C-D) in relazione alla retta d’azione delle sollecitazioni esterne, le quali agiscono perpendicolarmente alla superficie maggiore nel primo caso (esempio le platee di fondazione) o a quella inferiore nel secondo caso, ovvero nel senso dello spessore (muri portanti). Le strutture di superficie nello spazio dipendono sempre dall’elemento primario utilizzato, conducendo nel caso dell’arco a doppia rotazione allo sviluppo delle cupole.

Figura 7.11 A) Telai spaziali; B) telai piani; C) piastre; D) lastre.

(14)

Strutture associate

Sono ottenute da combinazioni di strutture lineari e di superficie, come nel caso di unione di telai piani con piastre a rappresentare l’ossatura portante tipica del calcestruzzo armato e dell’acciaio con pilastri, travi e solai.

L’identificazione della geometria strutturale se rappresenta uno dei passi fondamentali nella progettazione strutturale è invece da ritenersi come condizione prioritaria nella fase investigativa di un edificio dissestato, al fine di poter correttamente relazionare lo schema funzionale con il/i cinematismo/i di rottura; mentre un ulteriore fattore di non trascurabile importanza è dettato dalla rigidezza tanto della singola membratura quanto dell’intero as- semblaggio. Occore però precisare che con tale termine è possibile riferirsi a tre diverse condizioni, tutte influenti sul comportamento strutturale e cioè:

7.2.5 Tipologie di rigidezza

Fornisce un ulteriore metodo di classificazione degli elementi primari, dal momento che consente una distinzione tra elementi rigidi ed elementi flessibili. Ai primi, con la trave come elemento rappresentativo, appartengono tutte le membrature che non subiscono ap- prezzabili variazioni di forma sotto l’azione dei carichi esterni, subendo però nel contempo una modesta flessione in relazione anche al momento di inerzia ed al tipo di materiale a- dottati. Gli elementi flessibili sono invece rappresentati dalle funi, che evidenziano una no- tevole variazione di forma in relazione alla variazione di posizione del carico applicato.

Rigidezza geometrica

Con tale termine si intende la rigidezza flessionale di un elemento inflesso in funzione del- lo sviluppo di un momento resistente generato da sforzi interni. Ciò comporta, come già spiegato con la nota 1.6, che la resistenza a flessione per esempio di una trave dipende dal- le dimensioni della sezione trasversale e dal suo orientamento, considerando che tali forze interne agiscono in funzione della distanza di applicazione. Il concetto può essere di im- mediata percezione se utilizziamo un comune foglio di carta A4, tenuto per un lato minore dapprima in direzione orizzontale e successivamente in direzione verticale, un semplice esercizio che porta a scoprire come la resistenza flessionale di un elemento dipende dalla quantità e dalla distribuzione spaziale del materiale, un concetto che, come approfondire- mo in seguito, ha condotto alla scoperta delle travi in acciaio a T o doppia T.

Rigidezza meccanica

Riassume tutti i concetti già formulati nel capitolo 1 in termini di resistenza dei materiali, ovvero in funzione delle rispettive curve sforzi–deformazioni. Un utile e sintetico ripasso può essere fornito dalla lettura della fig. 1.16 che rappresenta diverse curve sforzi- deformazioni alle quali sono associate due proprietà:

1) la pendenza è nota come modulo elastico (normale o tangenziale in relazione all’azione di sforzi normali o di taglio) ed esprime il comportamento del materiale per condizioni di carico inferiori alla soglia di snervamento, oltre la quale ricordia- mo si sviluppano deformazioni plastiche ovvero irreversibili;

2) all’aumentare della pendenza aumenta la resistenza e diminuisce la deformabilità, un comportamento che comunque determina anche un aumento della fragilità di quei materiali che, come il calcestruzzo armato, non manifestano apprezzabili de- formazioni che consentono di prevenire la condizione di collasso, la quale giunge pertanto in maniera repentina ed incontrollabile, come mostrato dalle figg. 2.9, 4.40-A e 7.12.

(15)

Figura 7.12 Rotture di materiali a comportamento elastico-fragile in relazione a sollecitazioni si- smiche intense e/o persistenti.

7.3 Sollecitazioni elementari

La completa definizione del comportamento di una struttura deve a questo punto necessa- riamente passare per l’analisi, seppur qualitativa, delle sollecitazioni elementari alle quali ogni singola membratura può risultare sottoposta durante la propria vita utile, in funzione dei carichi prevedibili, e cioè imposti in fase progettuale, e di quelli non prevedibili, come nel caso dei cosiddetti carichi da assestamento. In quest’ultimo tanto sfortunato quanto non raro evento la possibilità di sviluppo di cedimenti delle fondazioni, assoluti e/o diffe- renziali o comunque non compatibili con la funzionalità dell’ossatura portante, induce la struttura alla ricerca di una nuova forma di equilibrio e stabilità che si traduce sempre in due condizioni sostanziali:

1) Lo sviluppo di lesioni, volte alla liberazione dell’energia di deformazione accumu- lata, per superamento localizzato della resistenza del materiale.

2) Il trasferimento degli stati di coazione, il cui sviluppo è difficilmente prevedibile in sede progettuale, che tendono a loro volta a sollecitare anche le porzioni strutturali adiacenti e non direttamente coinvolte nel dissesto statico. Un fenomeno da tenere sempre ben presente, soprattutto in occasione dell’esecuzione di consolidamenti parziali delle fondazioni degli edifici: un problema che sarà approfondito con la ca- se history 30 illustrata nel capitolo 8.

In merito al secondo punto vorrei precisare che uno stato di coazione elastica risulta es- sere una condizione di stress, dovuta all’azione di uno stato di sforzo interno, che sollecita un solido elastico anche in assenza di sollecitazioni esterne, sollecitazioni che possono prendere origine da deformazioni impedite, cedimenti di vincoli ed azioni termiche, come nel caso delle tensioni termicamente indotte in travi a doppio incastro discusso nel capitolo 3 con l’equazione (3.29) ed illustrato nella fig. 3.5.

(16)

Figura 7.13 Cannone cerchiato bassomedievale esposto nel Museo del Castello di La Spezia. Nel- la foto piccola: particolare di una cerchiatura e relativo esame radiografico (da: Boniardi et. ali).

Nel contempo occorre comunque rilevare che gli stati di coazione, noti in letteratura tecnica da molto tempo, sono stati abilmente sfruttati per lo sviluppo di una nuova tecno- logia: il calcestruzzo armato precompresso, anche se già nell’antichità gli artigiani applica- vano, mediante la cerchiatura metallica a caldo della ruota di legno a raggi, uno stato di coazione derivante dal successivo raffreddamento che ne migliorava sensibilmente la resi- stenza.

Ma non sono stati gli unici, come ha dimostrato uno studio condotto da alcuni ricerca- tori del Politecnico di Milano su due cannoni bassomedievali (fig. 7.13), il quale ha dimo- strato che la tecnica costruttiva prevedeva la realizzazione di una serie di cerchiature a cal- do sull’anima metallica con lo scopo di applicare una coazione, derivante dal successivo raffreddamento, capace di contenere la pressione che si sarebbe sviluppata durante lo scoppio della polvere da sparo.

Ritornando al c.a.p., una delle applicazioni più comuni consiste nella costruzione dei travetti precompressi utilizzati per la realizzazione dei solai con pignatte, come mostrato nella fig. 6.23-A. In tale caso la tecnica prevede l’applicazione di uno stato di coazione mediante una sforzo di trazione esercitato sulle armature metalliche costituite da trecce di acciaio la quale si traduce, terminata la fase di maturazione del calcestruzzo, in una tensio- ne interna di compressione. In altre parole al travetto prefabbricato viene fornita una riser- va di compressione che viene utilizzata con l’entrata in condizioni di esercizio in relazione all’applicazioni dei carichi di progetto, tanto da determinare la progressiva diminuzione dello stato di coazione pre-applicato.

Non resta quindi che analizzare singolarmente le sollecitazioni elementari, salvo suc- cessivamente relazionarle al comportamento di strutture reali e localizzarle in relazione allo sviluppo di stati di coazione di varia origine e natura.

7.3.1 Trazione

Si tratta della sollecitazione più intuitiva, di maggiore semplicità e forse anche la più nota, considerato che la natura fa ampio sfoggio del suo utilizzo come nel caso delle ragnatele, nelle quali tutti gli elementi risultano sollecitati a trazione mentre le reazioni vincolari (che per legge di compensazione e stante il terzo principio di Newton devono essere di com- pressione) sono fornite dai punti di sostegno ed ancoraggio (fig. 7.14).

(17)

Figura 7.14 Le ragnatele sono strutture biologiche molto efficienti che lavorano esclusivamente a trazione, affidando agli ancoraggi perimetrali le reazioni vincolari di compressione (disegno di

Martellacci C.).

In effetti occorre considerare che, se la natura è stata capace di realizzare strutture bio- logiche interamente soggette a trazione o a compressione, in genere nelle procedure pro- gettuali i carichi applicati ad una struttura vengono ripartiti tra i due tipi di sforzo, in rela- zione ad un concetto ben preciso di ottimizzazione delle geometrie e dei materiali utilizza- ti. Il problema inoltre dipende anche, come abbiamo potuto scoprire finora con l’analisi delle travi inflesse, dalla constatazione che tali azioni possono essere generate, con un pro- cesso di concorrenza, proprio dallo sviluppo delle deformazioni tipiche di tali membrature, con una variazione nella sezione trasversale che prevede un punto (o retta nel piano della trave) di inversione noto con il termine tecnico di asse neutro (capitolo 1 e fig. 1.20).

Occorre nel contempo rilevare come lo sviluppo della trazione sia da preferire in termi- ni di efficienza strutturale, dal momento che le condizioni di rottura differiscono notevol- mente da quelle indotte dai carichi di compressione, considerato che viene a mancare del tutto l’imbozzamento dovuto all’effetto del carico di punta, un fenomeno scoperto da Euler ed ampiamente descritto nel capitolo 3 all’interno della case history 10. Detto diversamen- te un elemento sollecitato a trazione non solo non si imbozza, ma tende a assumere una ge- ometria tanto più rettilinea quanto maggiore è lo sforzo applicato, fino al raggiungimento del collasso che può avvenire localmente per disomogeneità del materiale o per una varia- zione di sezione. Sfortunatamente per noi però la trazione è l’unica vera responsabile dello sviluppo delle lesioni, come abbiamo già verificato nell’Introduzione, mentre nel capitolo 9 avremo l’occasione di approfondire le tecniche costruttive degli artigiani del medioevo ed utilizzate nella realizzazione delle mirabili cattedrali gotiche, nelle quali l’uso della tra- zione raggiunse la sublimazione grazie ad una sapiente (ed apparente) armonia con gli sforzi di compressione.

(18)

7.3.2 Compressione

Considerato che tale sollecitazione è stata ampiamente illustrata nei capitoli precedenti, vorrei concentrare l’attenzione sulle modalità pratiche di esecuzione di una prova condotta su campioni cubici, così come prescritto dalle vigenti normative nell’ambito della proget- tazione e realizzazione di strutture intelaiate in calcestruzzo armato, poiché ritengo che i risvolti concettuali che ne potremo dedurre risulteranno decisamente illuminanti nella comprensione dei quadri fessurativi. E nel fare ciò iniziamo con lo studio astratto di un so- lido elastico omogeneo ideale, di forma cubica di lato di 10 centimetri, al quale applichia- mo uno sforzo di compressione mediante una normale pressa utilizzata nei laboratori di analisi dei materiali da costruzione.

Figura 7.15 Differenti modalità di rottura a compressione in funzione delle condizioni al contorno;

le spiegazioni sono nel testo.

(19)

Se la prova è condotta in condizioni ideali, cioè in assenza di attrito tra le superfici di contatto del campione e della pressa, sulla scorta degli insegnamenti che abbiamo potuto apprendere nel capitolo 1 con le esperienze di Hooke, Young e Poisson, scopriamo che il provino subisce una contrazione assiale ed un’espansione laterale (o radiale nel caso dei provini cilindrici), mentre il quadro isostatico si modifica come illustrato nella fig. 7.15-A;

ciò comporta pertanto che la fessurazione pre-collasso deve risultare costituita da lesioni verticali, sostenute dalla isostatica della tensione principale minima, e la conseguente rot- tura viene definita come prismatica.

Una corretta comprensione della rottura prismatica deve prendere spunto dalla consta- tazione che sono proprio le condizioni di prova, in assenza di attrito alle interfacce, che impediscono lo sviluppo di sforzi di taglio, con la conseguenza che le isostatiche devono necessariamente seguire la deformazione, fino alla rottura che avviene mediante decompo- sizione in elementi per l’appunto di forma prismatica. Ma contrariamente a ciò che po- tremmo pensare, pur rappresentando una prova in condizioni ideali, il quadro fessurativo che ne deriva risulta ricorrere spesso nella pratica, come illustrato dalla fig. 7.16 relativa a strutture murarie antiche sollecitate a compressione, nelle quali le lesioni appaiono in posi- zioni lontane dagli sforzi di taglio assumendo nel contempo un andamento tipicamente sub-verticale. Un argomento che approfondiremo successivamente.

Figura 7.16 Schema di danneggiamento a compressione di strutture murarie antiche (riproduzione di Martellacci C.)

(20)

Figura 7.17 Stato tensionale indotto in un mezzo elastico da un carico concentrato lineare; A) di- stribuzione delle tensioni in relazione alla distanza dal punto di applicazione; solo per distanze eleva-

te è possibile invocare il principio di Saint-Venant; B) bulbo di pressione.

Occorre rilevare a questo punto che nella realtà i solidi reali si comportano in maniera molto diversa e decisamente più complessa di quelli ideali ed i responsabili siamo noi, che modifichiamo le condizioni al contorno proprio in funzione del tipo di prova. Questo perchè occorre tenere conto di alcuni fattori decisamente importanti e non più trascurabili, quali:

1) Il principio di Saint-Venant, così come espresso nella prima parte del libro, non risulta più soddisfatto proprio per le ridotte dimensioni del provino; in altre parole non è più possibile considerare lo stato tensionale omogeneo come nel caso delle prove ideali, ma dobbiamo tenere conto del suo reale andamento. Una migliore comprensione del problema la possiamo ottenere se utilizziamo la fig. 7.17 come guida, riferita ad una prova di compressione mediante applicazione di un carico concentrato e risolta ricor- rendo al calcolo numerico ad elementi finiti. In tal modo scopriamo che la distribu- zione delle tensioni nel solido varia notevolmente in funzione della distanza dal punto di applicazione del carico e che inoltre le stesse raggiungono un andamento uniforme (ideale e conforme all’equazione (1.1)) solo ad una distanza uguale o superiore alla larghezza dell’elemento sollecitato. Ma il problema rimane pur ricorrendo all’adozione di piastre rigide in acciaio poiché, stante i risultati ottenuti nel capitolo 4 con la fig. 4.23, in tal caso la distribuzione di un carico in maniera uniformemente di- stribuita può avvenire solo il presenza di un elemento infinitamente flessibile. Diver- samente, come nel caso delle prove di compressione o delle fondazioni reali, la distri- buzione delle tensioni assume un andamento tanto più diverso da quello ideale quanto maggiore è la rigidezza della piastra ovvero quanto più marcata è la differenza tra i due materiali a contatto: nel caso specifico delle prove si ha che RR = (rapporto di ri- gidezza) = 210.000 MPa / 37.000 MPa = 5,68.

2) Il contatto tra il provino e la piastra comporta la (quasi) perfetta aderenza tra i due materiali, che si traduce in due effetti particolari: 2a) l’annullamento (teorico) o

(21)

comunque la notevole riduzione dell’espansione laterale delle superfici superiore ed inferiore del campione che tendono ad essere vincolate alle piastre; 2b) il conse- guente sviluppo di sforzi di taglio che raggiungono il loro valore massimo alle in- terfacce mentre si annullano in posizione baricentrica.

Tali assunzioni comportano pertanto che la prova stessa modifica in modo sostanziale lo stato tensionale indotto dal carico, il quale tramite l’azione di una pressa viene general- mente aumentato con legge di variazione lineare fino al raggiungimento delle condizioni di collasso. Un’annotazione: utilizzando le cognizioni introdotte nel capitolo 5 è possibile ef- fettuare un paragone tra la diffusione di un carico, applicato mediante una piastra o una fondazione, all’interno di un mezzo elastico e la propagazione di onde sismiche. Di fatti abbiamo scoperto che per condizioni di sufficiente distanza dalla sorgente le onde sferiche risultano essere talmente ampie da poter essere sostituite con onde piane senza incorrere in errori grossolani, potendo nel contempo semplificare la trattazione matematica del proble- ma. Il principio di Saint-Venant sostiene le medesime condizioni ma riferite alla geometria delle isostatiche che da una certa distanza in poi possono essere considerate rettilinee: una affinità pratica di notevole entità ed indubbia utilità, anche se, purtroppo per noi, sono pro- prio le dimensioni del nostro provino a sfuggire a tali regole.

Pertanto, ragionando in maniera realistica ed utilizzando gli elementi sopra introdotti, otteniamo nel caso di una prova reale che lo stato di sforzo interno al solido viene ad essere incurvato, con le isostatiche di minima tensione variabili con legge iperbolica tanto da de- terminare il raggiungimento di condizioni di rottura secondo superficie iperparaboloidi- che, caratterizzate da una concavità diretta verso l’esterno (fig. 7.15-B). Ciò accade proprio perché gli sforzi di taglio, generati dall’attrito, che agiscono al contatto tra la piastra ed il campione attingono al loro valore massimo in detta posizione e a quello minimo (nullo) in posizione mediana, presso la quale coesistono le sole tensioni principali massima e minima con la superficie di rottura che tende di conseguenza a verticalizzarsi.

Ma, come abbiamo potuto scoprire nel capitolo 1 all’interno della case history 3, anche tale tipologia di rottura è piuttosto diffusa, in genere localizzata nelle porzioni di muratura comprese tra aperture adiacenti (spallette), come mostrato dalle figg. 1.15 e 1.19. Oppure può essere presente in solidi prismatici pieni come nel caso delle murature limitate supe- riormente ed inferiormente dai cordoli in calcestruzzo armato e/o dalle fondazioni che in tali posizioni impediscono o comunque limitano l’espansione laterale.

Ma cosa succede se interponiamo tra la piastra e il provino un materiale che abbia spesso- re e massa trascurabili, un modulo elastico inferiore ed un attrito basso se non bassissimo?

Le condizioni al contorno sono tali da modificare nuovamente i risultati rispetto alla prova di compressione ideale; ma nel contempo il seppur basso attrito comporta comunque lo sviluppo di tensioni tangenziali che, pur raggiungendo il loro valore massimo all’inter- faccia, risulteranno dirette verso l’esterno del provino, piuttosto che verso l’interno come nel caso precedente, in relazione alla dilatazione trasversale possibile anche se limitata. Il risultato, se analizzato in funzione delle condizioni tensionali e di rottura di singoli prismi presi come riferimento all’interno del campione (fig. 7.15-C), sarà dato dall’inviluppo del- le singole fratture elementari la cui forma generale è nota come iperparaboloidica inversa.

A questo punto non resta che trovarne una corretta collocazione: all’interno dei setti murari eccessivamente sollecitati a compressione ed in presenza di giunti di malta di spessore ele- vato, proprio per il loro modulo elastico normale inferiore rispetto a quello del materiale circostante.

(22)

Figura 7.18 Modalità di variazione delle tensioni interne in un elemento inflesso.

7.3.3 Flessione semplice

Può essere considerata come uno stato di sollecitazione complesso, con presenza congiunta di sforzi di trazione, compressione e taglio, derivante da una deformazione curvilinea di un elemento originariamente rettilineo e provocata dall’azione di carichi, puntuali e/o unifor- memente distribuiti, che agiscono trasversalmente rispetto all’asse maggiore. Il termine flessione semplice deriva dal fatto che le sollecitazioni esterne, le reazioni vincolari e le deformazioni risultano essere tutte contenute nella sezione longitudinale; diversamente parleremmo di flessione deviata, un argomento che sfugge alle nostre finalità. Nei capitoli precedenti abbiamo avuto modo di studiare il comportamento delle travi inflesse, giungen- do alle seguenti conclusioni che reputo importante riassumere:

1) Tanto le reazioni vincolari quanto la deformata (quest’ultima trattata con le equa- zioni (3.33) e (3.34)) sono decisamente dipendenti dalle condizioni di vincolo; così, alla stregua di quanto visto con l’analisi dei vincoli, passando dai sistemi isostatici a quelli iperstatici assistiamo ad una diminuzione e modificazione della deformazione per inflessione nonchè ad una variazione delle reazioni vincolari, poichè il sistema diviene più rigido ma anche più sensibile ai movimenti o agli sforzi termicamente indotti non previsti o non prevedibili.

2) In una trave il cui materiale obbedisce alla legge di Hooke l’intensità degli sforzi di trazione e di compressione deve variare con legge lineare nel piano della sezione trasversale (in gergo tecnico si dice che la trave lavora a flessione): ne discende che deve esistere un piano ad essa ortogonale sul quale dette tensioni si annullano, ren- dendo nel contempo massimi gli sforzi di taglio (vedere successivamente);

l’intersezione del piano con la sezione verticale della trave è data da una retta nota come asse neutro (fig. 7.18).

L’annullamento delle sollecitazioni di compressione e trazione lungo l’asse neutro (o il piano nello spazio) comporta che anche la deformata deve risultare nulla e variare ugual- mente con legge lineare in funzione della distanza y da esso:

r y

y =−

ε (7.1)

(23)

con r che indica il raggio di curvatura dell’asse neutro. Contestualmente possiamo anche esprimere quantitativamente la legge di variazione delle tensioni in relazione del loro valo- re massimo σm:

I c M

m

= ⋅

σ (7.2)

m y cy σ

σ =− (7.3)

ed in funzione della posizione y rispetto alla massima distanza c (fig. 7.18), con M e I che rappresentano il momento flettente (nota 1.1) ed il momento d’inerzia (nota 1.6). Ma ciò comporta che nella flessione semplice la posizione dell’asse neutro risulta essere baricen- trica rispetto alla sezione trasversale, il che rende il termine c uguale rispetto alle superfici di massima trazione e di massima compressione. Infine si dimostra che esiste anche una relazione inversa tra la curvatura dell’elemento inflesso, il momento flettente e le caratteri- stiche elastiche e geometriche:

I E

M r = ⋅

1 (7.4)

Così, pur non dovendo progettare una struttura, possediamo un bagaglio di informazio- ni utili nel nostro lavoro di investigatori dei dissesti e che potrebbe aiutarci a risalire, nota la deformazione in atto e le caratteristiche della sezione e del materiale, ai valori delle sol- lecitazioni e delle reazioni vincolari e, chissà, forse anche a comprenderne la causa.

Il superamento della resistenza a trazione del materiale di un elemento inflesso porta al- lo sviluppo di lesioni a geometria triangolare, con vertice posto sull’asse neutro o sulla su- perficie compressa in relazione all’entità della deformazione e massima apertura sulla su- perficie tesa (fig. 1.20).

Ma la cosa fondamentale è che lo studio delle membrature inflesse, siano esse travi, sbalzi o pilastri caricati con forze orizzontali, costituisce un elemento indispensabile nella comprensione dei dissesti, come scopriremo nel seguito con l’analisi del comportamento dei telai e delle murature portanti.

7.3.4 Taglio

Il taglio consiste in uno stato di sollecitazioni interne che tende ad opporsi allo scivolamen- to reciproco di porzioni (ideali) della medesima membratura (in genere nelle travi inflesse) in relazione all’azione di carichi esterni; da ciò deriva il riferimento alle forze agenti tan- genzialmente alle superfici di scorrimento e che tendono a deformare le sezioni rettangola- ri di una trave in parallelogrammi (fig. 7.19). Tale condizione, solitamente più evidente in prossimità degli appoggi (nota 1.5), da luogo allo sviluppo di coppie di forze taglianti che tendono ad imprimere anche un movimento rotatorio, il quale viene pertanto ad essere bi- lanciato dallo sviluppo di sforzi di reazione uguali ed opposti, nel pieno rispetto delle e- quazioni della statica (nota 1.4).

Un’opportuna riflessione sulle forze di taglio deve portare alla constatazione che le stesse non rappresentano un nuovo tipo di azioni, quanto piuttosto il risultato di opportune combinazioni di trazioni e compressioni, dal momento che in una trave agiscono sforzi tangenziali verticali ed orizzontali che risultano della stessa entità nel medesimo punto. La presenza di tali sforzi può essere meglio compresa se analizziamo il comportamento delle

(24)

travi di legno, nelle quali esistono fibre naturali disposte orizzontalmente, o di travi com- poste, costituite da diversi strati uniti in modo opportuno, come nel caso delle travi in le- gno lamellare (nota 7.1). La loro inflessione comporta necessariamente lo scorrimento tra le singole porzioni in considerazione della modesta resistenza offerta sui piani originaria- mente orizzontali, tanto che tali travi possono essere considerate come realmente costituite da elementi sovrapposti. Per estrapolazione dei risultati il comportamento a taglio orizzon- tale di una trave compatta ed omogenea risulta corrispondere a quello di un elemento mol- to più rigido, nel quale però il superamento della resistenza ultima porta alla formazione e sviluppo di lesioni del tipo indicato nella fig. 7.19.

La rottura per taglio verticale risulta essere invece più intuitiva, con inizio da fessura- zioni verticali vicino agli appoggi (fig. 7.20) presso i quali lo sforzo raggiunge i valori massimi, mentre un discorso a parte è richiesto dallo studio della fessurazione a 45° tipica delle travi in calcestruzzo armato.

Figura 7.19 Azione degli sforzi di taglio in una trave isostatica.

(25)

Figura 7.20 A) Vista panoramica della Chiesa della Rotonda di Rovigo (da: Jurina & Ferretti, 2004); B e C) rottura per taglio verticale agli appoggi.

In questo caso di fatti assistiamo ad alcune condizioni particolari già note:

a) il calcestruzzo possiede un’elevata resistenza a compressione, alla quale corrispon- de una bassa resistenza a trazione;

b) le armature in acciaio, molto efficienti a trazione, vengono disposte nelle porzioni tese, nell’ipotesi di fessurazione del calcestruzzo e quindi di una sua collaborazione nulla;

c) le sollecitazioni tangenziali, essendo massime agli appoggi ed agendo su piani oriz- zontali e verticali, portano ad una deformazione per taglio puro (fig. 4.15), del tipo indicato nella fig. 7.19 ed alla quale corrispondono sforzi di trazione agenti ortogo- nalmente su piani inclinati all’incirca di 45°.

Ma, avendo introdotto nel capitolo 1 il concetto delle traiettorie delle tensioni e dei quadri isostatici, allora lo stesso fenomeno può essere ulteriormente compreso attraverso la fig. 7.21, che costituisce un’analisi ad elementi finiti di una trave isostatica sottoposta a carico concentrato applicato in mezzeria nonché un modo diverso di vedere la fig. 1.20-A.

Da esse si percepisce chiaramente il ruolo svolto dalla trazione, tanto in valore assoluto quanto in termini di isostatiche o traiettorie delle tensioni, considerando che nel caso dell’analisi FEM nessun punto della trave ha attinto alla resistenza ultima.

Resta da chiarire un ultimo aspetto, relativo alla constatazione che lungo l’asse neutro le tensioni tangenziali orizzontali raggiungono il lovo valore massimo, influenzando di conseguenza il punto di prima rottura. Per comprendere il concetto consideriamo la sezione longitudinale della trave, del tipo rappresentato nella fig. 7.21, analizzandone la sola por- zione superiore rispetto all’asse neutro. È innanzitutto importante comprendere che nella Statica anche una singola porzione di un elemento deve rispettare le leggi di equilibrio, le quali nel caso specifico prendono spunto dall’esistenza di uno sforzo flessionale di com- pressione con valore massimo sull’estradosso come mostrato anche nella fig. 7.18; l’ovvia conseguenza porta alla necessaria esistenza di una forza uguale e contraria che, stante la geometria di analisi, deve agire lungo l’asse neutro, laddove attinge al proprio valore mas- simo essendo inoltre orientata in direzione opposta a quella di compressione. Applicando lo stesso ragionamento alla sezione inferiore otteniamo il medesimo risultato, ma con la direzione degli sforzi tangenziali che agisce al contrario della precedente: in definitiva ot- teniamo due sforzi di taglio orizzontali massimi agenti sull’asse neutro, ma con direzioni opposte e che portano pertanto, per superamento della resistenza del materiale, ad una fes- surazione ad esse parallela.

(26)

Figura 7.21 Trave isostatica con carico concentrato: A) tensioni principali massime (compressio- ne); B) tensioni principali minime (trazione); C) deformata.

7.3.5 Torsione

Nello studio del comportamento delle strutture la torsione può agire tanto sul singolo ele- mento quanto sull’intero assemblaggio, in relazione all’azione di forze torsionali di varia natura ed origine che producono, per elementi semplici rettilinei, la rotazione relativa di singoli porzioni variabile lungo l’asse longitudinale. Alcuni casi tipici di torsione sono i seguenti (fig. 7.22):

a) connessione ad incastro di due elementi collegati a T;

b) connessione tra uno sbalzo ed una trave perimetrale;

c) azione di carichi normali su sbalzi con sezioni non simmetriche;

d) azione di momenti flettenti agenti in direzioni opposte rispetto al medesimo elemento;

e) azioni di sollecitazioni sismiche polarizzate sul piano orizzontale e dirette trasver- salmente rispetto agli assi strutturali di un edificio;

f) cedimenti di fondazioni della medesima porzione strutturale (telaio piano o setto murario) con direzioni opposte.

Ad ognuna delle condizioni descritte appartiene una diversa risposta strutturale, consi- derato per esempio che nel caso “E” è possibile che l’azione di inversione dinamica del taglio sismico possa portare la struttura ad una torsione sul piano o secondo assi ortogonali in relazione all’angolo di incidenza del sisma, in genere evidenziata dallo sviluppo di le- sioni ad X sui solai che in tale condizione agiscono da controventi sul piano orizzontale. È importante però evidenziare che i problemi connessi con la propagazione di onde sismiche rispondono a diverse condizioni di sollecitazione, tra le quali la vibrazione strutturale se- condo modi torsionali propri della struttura (fig. 5.16-B) oppure una torsione indotta obli- quamente e che comporta spostamenti differenziali (ed anche in direzioni opposte) negli elementi dello stesso telaio. Per comprendere meglio il fenomeno è possibile assimilare la deformazione di un solaio con quattro pilastri (visto dall’alto) alla condizione di taglio pu-

(27)

ro come indicato in basso a destra della fig. 7.19, tenuto anche conto dell’interazione terre- no-struttura in relazione alla lunghezza delle onde sismiche, come spiegato nel capitolo 5.

7.3.6 Relazioni sollecitazioni - deformazioni

Prima di addentrarci nell’ultima parte del capitolo, quella per intenderci che vedrà conden- sare tutte le informazioni fin qui acquisite in termini di risposta delle strutture alle solleci- tazioni esterne (derivanti tanto da condizioni di carico di progetto quanto da stati di coa- zione di esercizio), ritengo sia utile introdurre una metodologia che consenta, nell’analisi delle travi inflesse, di trovare una relazione diretta tra i carichi esterni agenti e le sollecita- zioni di T e M, considerato che un dissesto statico si traduce sempre in una deformazione la quale rispecchia in maniera fedele l’andamento del momento flettente. Vediamo come.

Figura 7.22 Esempi di possibili cause di torsione; le spiegazioni nel testo.

(28)

Il primo passo consiste nello scrivere alcune regole fondamentali, di indubbia ed uni- versale applicabilità:

1) Qualunque sia la condizione di vincolo adottata, la deformazione per flessione di una trave rispecchia sempre l’andamento del momento flettente; così, oltre che uti- lizzare tale informazione nel dimensionamento strutturale in termini di sezione resi- stente del calcestruzzo e dell’armatura in ferro, possediamo un elemento sostanziale che ci consente di percepire con immediatezza quale potrà essere il comportamento della membratura. Ma leggendo tale regola al contrario, in presenza di una infles- sione di una trave e stante la necessità che abbiamo di individuare il cinematismo che l’ha prodotta, scopriamo ora una chiave di lettura che, applicata secondo la tec- nica ON/OFF introdotta con la case history 27 (capitolo 6), è in grado di guidarci verso una corretta interpretazione della problematica in essere, ancor prima di aver lavorato con i vettori spostamenti associati ad ogni singola lesione.

2) In presenza di un carico concentrato il diagramma del momento flettente varia con legge lineare, mentre con i carichi uniformemente distribuiti (per intenderci di for- ma rettangolare) la legge di variazione assume una forma parabolica. Ovviamente con condizioni di carico complesse, rappresentate dalla contestuale presenza di più carichi concentrati e distribuiti, questi ultimi anche di forma triangolare, trapezoida- le e parabolica, il momento flettente tenderà a discostarsi dagli andamenti basilari, ma pur sempre rispecchiandone l’identità. Tale regola deve ovviamente essere sem- pre applicata in parallelo con la precedente perché, considerato che le condizioni di carico di una struttura sotto ispezione possono essere dedotte con un buon grado di attendibilità, siamo in grado di autoverificare le nostre deduzioni.

3) Il diagramma del momento flettente è sufficientemente diverso tra le strutture iso- statiche e quelle iperstatiche e ciò dipende proprio dall’influenza che le varie condi- zioni di vincolo prima descritte esercitano sul comportamento dell’elemento in ter- mini di rigidezza globale, deformazione e reazioni vincolari. In tal modo, constatato che nel piano: a) un appoggio ammette una sola reazione vincolare verticale; b) la cerniera ammette due reazioni vincolari relative alla traslazione verticale ed oriz- zontale; c) l’incastro ammette tre reazioni vincolari in quanto non consente nemme- no la rotazione, arriviamo alla conclusione che nelle strutture isostatiche con carichi in mezzeria o carichi uniformemente distribuiti il momento flettente è nullo ai vin- coli e massimo al centro (di segno positivo per convenzione), come già visto con la figura associata alla nota 1.5 e con la fig. 3.11-A; viceversa le strutture iperstatiche ammettono momento negativo agli estremi vincolati e momento positivo nella por- zione centrale, come dettagliato nella fig. 6.24 nella quale è evidente la correlazione tra la deformazione ed il momento flettente, con presenza di due punti di flesso all’incirca corrispondenti al passaggio dai valori positivi a quelli negativi. Nel caso poi di strutture con la coesistenza di vincoli semplici, doppi e tripli, la deformata ed i grafici di T ed M assumeranno una conformazione mista; così una trave con vinco- li a cerniera ed incastro ammetterà una deformazione che risulterà data dalla com- binazione dei due casi presi singolarmente, con presenza di un solo punto di flesso.

Ulteriori chiarimenti possono a questo punto arrivare dal riesame di altre figure:

a) La fig. 2.11-A, relativa ad un caso di inflessione di una trave di impalcato erronea- mente interpretata come dovuta ad un cedimento delle fondazioni (quindi cedimen- to dei vincoli), nella quale è chiaro che la deformazione con i punti di flesso (leggi- bili con livellazione dei pavimenti e dell’intradosso del solaio) è associata ad una

Riferimenti

Documenti correlati

In generale per l’analisi devono essere assegnate le dimensioni degli elementi strutturali e, nel caso di procedimento non lineare, devono essere definite anche le armature

Lo mondo è ben così tutto diserto d'ogne virtute, come tu mi sone, e di malizia gravido e coverto;.. ma priego che m'addite la cagione, sì ch'i' la veggia e ch'i' la

Ai fini della valutazione del comportamento e della resistenza delle strutture in calcestruzzo, questo viene titolato ed identificato mediante la classe di

™ Black-box o Sequenziale modulare: il modello del processo viene interrogato dalla routine di ottimizzazione e fornisce i dati necessari alla valutazione della funzione obiettivo

In questo caso le curve di fragilità sono il risultato di 150 analisi dinamiche non lineari per il telaio base (15 accelerogrammi x 10 valori dell’intensità sismica) e 1500 (10 telai

Secondly, and closely related, Putnam’s account is also society-centred – and again liberal rather than republican - in the sense that he fails to conceptualise civil society as

calcestruzzo alleggerito_ 11 cm 23.vespaio areato con igloo 24.. aula cucina didattica per

strato resistente di rivestimento al pilastro_ 1,5 cm.. membrana impermeabilizzante_