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L UNICA INNOCUA MERAVIGLIA Traduzione

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Academic year: 2022

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Testo completo

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brooke BOLANDER_

L’UNICA INNOCUA

MERAVIGLIA

Traduzionedi Martina Del Romano Vincitore Premio Nebula e Premio Locus

Finalista Premio Hugo

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a cura di Chiara Reali

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Brooke Bolander

L’unica innocua meraviglia

titolo originale: The Only Harmless Great Thing traduzione di Martina Del Romano

@2018 Brooke Bolander

@2021 Zona 42 Srls Tutti i diritti riservati

La traduzione del brano di Michel de Montaigne

è di Fausta Garavini e André Tournon da SAGGI, Bompiani 2012 I Edizione Zona 42, gennaio 2021

ISBN 978-88-98950-64-5 Edizioni Zona 42, Modena www.zona42.it - info@zona42.it

Zona 42 è un progetto di Giorgio Raffaelli, Marco Scarabelli e Annalisa Antonini.

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L’UNICA INNOCUA MERAVIGLIA

Traduzione

di Martina Del Romano

brooke BOLANDER_

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A Ben.

“Quando il sangue si sarà asciugato e il fumo dissipato, ci troveranno schiena contro schiena.”

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prima parte

FISSIONE

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C’è un segreto sepolto sotto la pelle grigia della montagna. Quelli che l’hanno messo lì, creature rosa squittenti con la faccia piatta e più furbizia che buonsenso, non ci sono più da molte Madri, le loro ossa ormai così sgretolate che l’agitarsi di un orecchio le sparpaglia come semi di un sof- fione. Per arrivare al segreto del Laggiù servono una lunga proboscide e una memoria ancora più lunga. Centinaia di matriarcati fa quelle creature squittenti hanno scolpito nella roccia ammoni- menti minacciosi, ma la roccia non li svela alle sue figlie e la pioggia pungente ha lavato via ogni cosa, rendendola liscia e pulita come una vecchia zanna.

Le Molte Madri hanno una memoria più lunga della pietra. Ricordano come avvenne, come fu sta- bilito il loro compito e perché nessun’altra creatura vivente può entrare nella montagna. È una tregua con i Morti, e le Molte Madri non sono niente di più e niente di meno che il Ricordo dei Morti, la somma totale di tutte le storie raccontate loro.

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Di notte, quando la luna si trascina dietro la montagna e la terra si fa scura come pelle bagna- ta, brillano. C’è una storia dietro. Non impor- ta quanto lontano camminerai, mia amatissima cucciola sognante, ti trascinerai sempre il passato attorno alla caviglia, una catena spezzata che il tempo non può sciogliere.

* * *

Tutte le ricerche di Kat, gli anni di università, i costosi manuali di fisica e sociologia, il debito che non ripagherà mai nemmeno avendo tutto il tempo di dimezzamento dell’uranio a dispo- sizione, il sangue, il sudore e le lacrime, tutto si è ridotto alla stramaledetta idea di far brillare gli elefanti al buio. C’era da aspettarselo. Da qual- che parte, sicuro come la morte, sua nonna se la starà ridendo della grossa.

Negli anni sono state suggerite un milione di soluzioni diverse al problema. Pittogrammi, un ordine religioso, codici matematici scolpiti nel granito: soluzioni interessanti, intriganti anche, ma nessuno era riuscito mai a trovare un metodo

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infallibile per dire alle persone di stare alla larga.

Alcuni avevano perfino suggerito note musicali dissonanti, una discordia chiassosa che, se strim- pellata, pizzicata o fatta tintinnare, avrebbe pro- vocato una reazione di terrore in qualsiasi prima- te abbastanza sfortunato da udirla. Il problema di questa soluzione era, ovviamente, capire cosa per l’esattezza potesse suonare sinistro alle orec- chie delle generazioni future. Torna indietro duecento anni e fa’ ascoltare un album di death metal scandinavo a un uomo o una donna media dell’epoca e vedrai come se la fanno sotto.

E poi arrivò l’Ipotesi dell’Elefante Atomico.

Durante l’infanzia Kat, come molti bambini americani, aveva sempre associato gli elefanti ai pericoli delle radiazioni. Tutti i bambini degli ultimi cento anni avevano visto e rivisto milio- ni di volte la versione animata, edulcorata, tar- gata Disney della Tragedia di Topsy (il finale in cui Topsy capisce che la vendetta non è Mai La Cosa Giusta e decide di continuare a dipingere i quadranti degli orologi Per La Patria, fa ancora alzare gli occhi al cielo a Kat al punto da far- le accavallare un nervo ottico) e alle medie in-

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tere lezioni di storia erano dedicate ai Processi dell’Elefante Radium. Spezzoni graffiati e color sabbia di telegiornali riproducevano sempre lo stesso momento, la spettrale leader degli elefanti morta ormai da ottantacinque anni che, rivol- gendosi all’interprete ufficiale scelto dal tribuna- le, formava le parole “Riteniamo” in lingua dei segni, con la proboscide che ondeggiava dentro e fuori l’inquadratura. La vista di quella roba in tenera età ti segnava dentro. E a quanto pare ave- va segnato un sacco di persone: la Route 66 è ancora punteggiata di elefanti al neon che salu- tano allegramente viaggiatori dissoltisi in polvere e miraggi cinquant’anni fa. La mascotte del più grande fornitore di energia nucleare del paese è l’Elefante Atomisk, un allegro pachiderma rosa che Paga Sempre Le Bollette In Tempo. Fat Man e Little Boy erano state decorate con elefanti dal- le grandi zanne in preda a una furia distruttrice, cosa sbagliatissima da un sacco di punti di vista.

È una macabra corrente culturale che il paese non è mai davvero riuscito a estirpare.

Kat ci aveva riflettuto a lungo, si era strofinata il mento nella classica posa pensosa e aveva sug-

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gerito un sistema di allarme così ridicolo che all’i- nizio nessuno l’aveva presa sul serio. Ma era pro- prio una di quelle cazzo di cose, avete presente?

Più ridevano e più aveva senso. Erano alla frutta, tutti quanti; le scorie continuavano ad accumu- larsi ed era necessario far sapere a chi sarebbe ve- nuto dieci millenni più tardi cosa fossero, dove fossero e perché non avrebbero dovuto utilizzarle come decorazioni per dolci o supposte rettali.

Ed è per questo che Kat è seduta qui, la cra- vatta stirata, i capelli cotonati alti fino al cielo, che aspetta di incontrare l’ambasciatrice degli elefanti. Spiegare le ragioni culturali dietro il progetto di far brillare al buio la popolazione elefantina sarà un esercizio di danza su campo minato, e che dio la mandi buona all’interprete a cui toccherà l’impresa.

* * *

Si ammazzavano tra loro tanto per passare il tempo. È così che cominciò tutto. Come le gazze, gli umani erano ipnotizzati dalle cose luccicanti, ma nessuna gazza aveva mai pensato troppo al

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tempo che le rimaneva prima di trasformarsi in racconto. Perfino nell’oscurità si tormentavano, mentre migravano lassù in alto e sentivano le stelle pungere come tafani estivi. Costruirono tettoie per nascondere il proprio passaggio. Servì solo a rendere le cose più indistinte: il leone na- scosto nell’erba alta è un leone che esiste comun- que. Legarono insieme cacciatori di sole girevoli che si portavano dietro il chiacchiericcio delle cicale così che gli umani sapessero sempre dov’e- ra il sole, aggrappandosi alla sua coda infuocata come cuccioli spaventati.

(Non giudicarli, se puoi; le loro madri ave- vano vita breve e memoria corta, e i clan era- no capeggiati da maschi facili all’oblio e ancor più alla collera. Non possedevano una storia, né una Memoria condivisa. Come biasimarli se si aggrappavano, scimmie impaurite, alle uniche costanti che avevano?)

– Come possiamo seguire nella notte le piro- ette del tempo con occhi e orecchie così minu- scoli? – squittivano gli umani. – E se il sole se ne andasse lasciandoci soli e noi non ci rendessimo nemmeno conto di essere stati abbandonati?

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La risposta, come succedeva spesso con le cose che quelle piccole, miserevoli creature dragavano dal fango, era veleno.

Trafissero la terra squarciandola, ne scossero le ossa finché non ne caddero fuori cristalli come pezzi di cielo senza stelle. Intrappolate dentro c’erano mosche luccicanti. Se schiacciate produ- cevano un bagliore untuoso, ma nelle loro vene e viscere scorreva un malanno. Poveri umani! I loro nasi erano arnesi corti e ridicoli e non senti- vano l’odore del Grande Male, neanche mentre se lo spalmavano sui denti e sul viso. Tutto ciò che riuscivano a vedere era quanto fosse lumino- so, come la luce del sole attraverso le foglie verdi.

Per mancanza di proboscide avrebbero sofferto molto, quegli umani — e anche noi, anche se allora non lo sapevamo.

* * *

C’era un bel posto, una volta. L’erba faceva cic-ciac sotto le zampe. Madre faceva baaa. Il mondo era caldo come frutta appiccicosa e la luce del sole era solcata da proboscidi con ombre

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grigie ondeggianti che odoravano di Noi. Fango e storie e Madri, così tante Madri, che sempre toccavano, sempre raccontavano, sensibili solide indomite infinite. Le loro zanne sorreggevano il cielo su su su. I loro nudi scheletri canticchiava- no nei luoghi di ossa, cantavano ancora perfino quando tutta la carne e la pelle non erano di- ventate che latte di iena. Non c’era niente di più grande delle Molte Madri. Insieme erano mon- tagne ed eternità. Finché avessero avuto l’una la compagnia delle altre e le Storie, non c’erano zanne o artigli che potessero renderle Niente.

Avevano aperto squarci rossi sanguinanti nelle Molte Madri, rubato le loro bellissime zanne, e il cielo non era caduto e lei non ne aveva pianto la carne. Lei era Lei, la sopravvissuta, la prigio- niera, quella che chiamavano Topsy, e custodiva le Storie nel suo cranio, proprio dietro l’occhio sinistro, così che in qualche forma continuas- sero a vivere. Ma non è rimasto nessuno a cui raccontare il passato in questa caverna sporca e fumosa dove gli Uomini l’hanno portata, dove il terreno è di pietra senza un filo d’erba e il fer- ro sfrega contro la pelle della caviglia facendone

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una sanguinolenta esca per mosche. Ci sono altri come lei, ombre grigie ondeggianti che odorano di Noi, ma legno e freddo metallo si frappongo- no fra lei e loro, e non può vederli, e non può toccarli.

* * *

In questo vecchio mondo mediocre e cattivo si fa quel che si deve per guadagnarsi il pane, an- che se te la senti giù fino al midollo della co- scienza la maledetta certezza che è sbagliato e che Dio Onnipotente in persona si prenderà la briga di farti una lavata di capo il Giorno del Giudizio.

Quando hai due sorelle piccole e una mamma malaticcia là sulle montagne che aspettano la prossima busta paga, t’ingoi il tuo giusto e t’in- goi il tuo sbagliato e t’ingoi quelle che è saltato fuori essere parecchie dosi letali di semi mortiferi verdi brillanti, e continui a spalare merda con un sorriso (a cui ora mancano denti) finché o arriva l’assegno di risarcimento o tu cadi stecchita, di- pende cosa capita per prima. Regan è determina- ta a resistere fino a quando avrà la certezza che la

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sua famiglia sarà sistemata, e quando Regan è de- terminata a fare qualcosa, puoi scommetterci, è meglio rizzare le orecchie e allacciarsi le cinture.

Il dolore fisso alla mascella è passato da pallido lamento a fuoco eterno che sboccia dalla giuntu- ra dietro i denti posteriori, sfrecciando sui binari lungo la mandibola fino ad arrivare alla regione del mento. Non si ferma né si addormenta né si dà per vinto. Persino ora, mentre cerca di inse- gnare a questo ostinato animale come mangiare lo stesso veleno di cui è costruita la sua personale, sgangherata scala per il paradiso, il fuoco pulsa e brucia come se il Diavolo avesse imbastito una festa lì dentro e tutti gli invitati avessero ai piedi scarpe da ballo ferrate con chiodi incandescen- ti. Regan ricorda a se stessa di fare attenzione.

Questo elefante in particolare ha la reputazione di essere cattivissimo; una svista da parte sua e rischierebbe di finire spiaccicata contro il muro e il nastro trasportatore. Non ancora, cara, vecchia signora Morte. Non ancora.

– Ehi, – segna, di nuovo. – Devi prenderlo così. Così. Vedi? – La mano le trema mentre brandisce il pennello, le setole che brillano del

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familiare verde-grillo-schiacciato. Non può far- ci niente; i tremiti sono solo l’ennesima sorpresa che la morte porta con sé. – Lo intingi nella ver- nice, mescoli ben bene, e riempi ognuno di quei numerini tutt’intorno. Poi ti metti il pennello in bocca, gli fai la punta, e ricominci daccapo.

Prima finisci la tua parte, prima torni al fienile.

Capito?

Nessuna risposta da Topsy. Se ne sta lì e on- deggia lenta al ritmo di osanna che Regan non riesce a sentire, lo sguardo fisso che buca la pa- rete di mattoni della fabbrica di fronte. È come provare a convincere la statua di un capo tribù indiano a giocare una partita a carte. A tratti, una di quelle orecchie grandi e grosse che sembra bucato appena steso scaccia via un tafano.

Regan è stanca. Ha la gola secca e la voce roca.

I polsi le fanno male per avere segnato istruzioni a sedici altri elefanti spacciati, scarti comprati al prezzo della carne da macello da circhi girova- ghi dozzinali e puzzolenti, dove la sorpresa più grande era anzitutto il fatto che fossero riusci- ti a tenere in vita un elefante così a lungo. Le fanno pena, odia l’azienda talmente tanto che il

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suo odio è come un proiettile che brucia appena sotto lo sterno (o forse è solo un altro tumore che mette radici), e l’unica gioia che le rimane nella vita ormai è immaginare quanto i soldi in più che sta facendo con quest’ultimo lavoro aiute- ranno Rae e Eve, anche se Mamma dovesse tirare la cuoia con lei. Regan non è per niente fiera di quello che sta facendo, e lo è ancora meno di quello che farà dopo, ma è malata e frustrata e si è rotta le palle di essere ignorata e intimidita e messa da parte. È stanca di essere invisibile.

Allunga la mano, afferra la punta di una di quelle buffe orecchie e la torce, come se fosse a catechismo e avesse fra le unghie la pelle di una suora. È un metodo infallibile per attirare l’atten- zione di qualcuno, che te la voglia dare o meno.

– ehi! – urla. – mi ascolti per favore?

il cambiamento in Topsy è come un trucco di magia. Le orecchie si allargano. La proboscide si attorciglia nella posa del mocassino acquati- co, un manrovescio a S lanciato abbastanza in alto da scuotere la lampadina appesa al soffitto in uno swing tremante. Piccoli occhi rossi scin- tillano giù verso di lei, affilati e selvaggi e pieni

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di aritmetica di morte. Del resto, Topsy è finita qui proprio perché aveva schiacciato la testa di un tizio che la punzecchiava come se fosse una zecca. Non c’è bisogno di un interprete per capi- re cosa sta pensando: Vale la pena sprecare tempo ed energie per agguantare e staccare via di netto la testa a quella scimmia urlante? Mi farebbe sentire meglio se solo la facessi… smettere? Per sempre? Mi- gliorerebbe la mia giornata?

E Regan è maledettamente esausta, troppo ormai per avere più paura, della morte o di qual- siasi altra cosa. Alza gli occhi e incontra quello sguardo selvaggio nel modo più fermo che riesce.

– Avanti, – dice. – Cristo, fallo e basta. Mi fai solo un favore.

Topsy ci pensa; cazzo se ci pensa. C’è un lun- go, lungo momento in cui Regan è abbastanza sicura che nessuna delle due sa bene cosa sta per succedere. Poi, dopo un’era glaciale o sei, la proboscide si abbassa lentamente e gli occhi le si ammorbidiscono un po’ e qualcuno taglia la cor- rente elettrica che scorre nella postura di Topsy.

Si accascia, come se avesse addosso la stessa ma- ledetta stanchezza di Regan.

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Sei malata, segna verso di lei, dopo un secon- do. Stai morendo. Puzzi.

– Sì, sto morendo. Io e tutte le mie amiche che lavoravamo qui.

Veleno? Indica con la proboscide la vernice, il pennello, il tavolo, e tutto quel dannato macello.

Puzza di veleno.

– Eh già. Hanno messo voi a farlo ora perché resistete di più, visto che siete grandi e grosse. E il mio lavoro è insegnarti come.

Un’altra pausa si dipana attraverso la fabbrica fra di loro. Il mio lavoro è insegnarti come si muo- re, pensa Regan. Cazzo, ma non ti sembra la cosa più stupida mai sentita, insegnare a un animale come si muore? Sappiamo tutti come si muore. Ba- sta che smetti di vivere e bam, ce l’hai.

Topsy allunga la proboscide e prende il pen- nello.

* * *

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