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Giuseppe De Rita. Evoluzione delle comunità e dei territori: il motore dello sviluppo italiano

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Giuseppe De Rita

Evoluzione delle comunità

e dei territori: il motore

dello sviluppo italiano

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Quaderni - Centro Documentazione e Studi Comuni Italiani

Direttore: Lucio D’Ubaldo

A cura di: Alessio Ditta e Nicola Lori

Progetto grafico: Pasquale Cimaroli, Claudia Pacelli cpalquadrato.it

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De Rita e la carta delle autonomie

Pompei fu seppellita da una colata di lava, per sempre. Quel disastro non ha cancellato però la forza di edificare città e aprire nuovi sentie- ri di progresso, inventando soluzioni geniali. Il federalismo appare oggi sepolto, anch’esso, ma potrebbe tornare in avvenire, se perderà finalmente la combinazione autolesiva di bu- rocratismo e sperequazione. Purtroppo non ri- mane granché di un dibattito che giunse, negli anni più intensi, a punte di esaltazione, anche un po’ sorprendenti.

Era difficile, infatti, che tutto quadrasse, dalla riduzione dei trasferimenti erariali alla mino- re pressione tributaria locale, con in mezzo la crescita qualitativa e quantitativa dei servizi erogati dai Sindaci. In questo orizzonte di fidu- cia creativa, la certezza di uno Stato più leg- gero ed efficiente andava di pari passo con la previsione di un vero decentramento di spesa, naturalmente indirizzato a nuove opportunità di crescita e di benessere. Per ottenere il mi- racolo bisognava applicare altre regole alla fi- nanza, in specie alla finanza locale, attingendo magari a un prontuario della felicità collettiva.

Oggi, sepolto il federalismo, ritorna l’anam- nesi del potere accentrato con l’urgenza, più forte di prima, di giocare ex novo la carta delle

autonomie. All’ingegneria istituzionale, com- prensiva di ogni dettame organizzativo e finan- ziario, con quell’asfissia di procedure allegate al troppo magniloquente federalismo, occorre sostituire la flessibile architettura delle au- tonomie. Tanto più flessibile come sistema, questa architettura, quanto più aderente alla dinamica delle comunità, ai loro bisogni e alle loro vocazioni, alla responsabile capacità di autogoverno, che permea il modello italiano delle cento città.

Ora, chi ha osservato lo sviluppo del nostro Pa- ese attraverso questa lente d’ingrandimento, è stato indubbiamente il Censis. A guidarne l’opera, con indagini sempre accurate e va- lutazioni di grande fascino, risponde al nome di Giuseppe De Rita. La sua notorietà non ha bisogno di rifarsi il trucco, trovando ampio riscontro nei più disparati ambienti e setto- ri della società italiana. De Rita per altro ha raccolto in un volume corposo (Dappertutto e rasoterra. Cinquant’anni di storia della società italiana, Milano, 2017) tutte le considerazione generali scritte ogni anno come introduzione al Rapporto Censis. Quindi, abbiamo adesso a disposizione un viaggio interpretativo che at- traversa mezzo secolo di storia italiana attra- verso idee, suggestioni e proposte.

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Siamo stati onorati, dunque, di iscrivere la te- stimonianza del fondatore del Censis nel no- vero delle conferenze del Centro Studi e Docu- mentazione dei Comuni italiani. La sua “Lectio magistralis”, tenuta il 21 giugno scorso al Pic- colo Auditorium Aldo Moro di via Campo Mar- zio, suggerisce l’amore di un affresco che mo- stra la vividezza di un’Italia policentrica, contro lo scialbore di raffigurazioni uniformi e inco- lori, lontane dallo spirito della nazione. Con il visto dell’’autore, il testo viene qui presentato con l’auspicio di un’ampia divulgazione. Siamo sicuri, per parte nostra, che raccoglierà l’ap- prezzamento dei lettori.

Lucio D’Ubaldo Roma, ottobre 2018

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Abbiamo perso la rotta, viviamo di quo- tidianità, ogni giorno possiamo aspet- tarci qualcosa di diverso ma la direzio- ne della nostra evoluzione sociale non sappiamo qual è.

La rotta l’abbiamo persa negli ultimi 10-15 anni poiché abbiamo abbando- nato una linea di lungo periodo della nostra storia e ci siamo affannati quo- tidianamente sulla cronaca, su quello che avveniva giorno per giorno.

Oggi abbiamo una politica che non è le- gata al disegno, all’avventura o alla fan- tasia di un leader più o meno collettivo, viviamo una politica che è legata alla cronaca quotidiana, se succede qualche cosa in giro per l’Italia sappiamo che poi ci si monta sopra una polemica, ne nascono delle dichiarazioni che spesso non hanno poi un riscontro di dialogo.

Che cosa è successo e perché non abbia- mo il gusto di far politica che non sia di- chiarare quotidianamente qualcosa che va in cronaca o che viene dalla cronaca?

Assistiamo ad uno strano fenomeno, non respiriamo più a pieni polmoni, è come se avessimo un enfisema con una conseguente capacità di fiato sem- pre più debole.

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Non c’è più nella società italiana e pro- babilmente non c’è neppure nella mia chimica interna la voglia di respirare a pieni polmoni che c’era allora, era la voglia di lavorare con gli altri e vivere per gli altri, andando avanti insieme.

Noi che abbiamo fatto l’esperienza cul- turale e politica degli anni ’50 ’60 ‘70 fino al 2000 abbiamo conosciuto quella speciale cultura del dopoguerra, dove tutto veniva affidato al respiro di tutti.

Pensate alla ricostruzione del dopo- guerra, non l’hanno fatta mica l’IRI, la Gescal o l’INA-Casa, la ricostruzione l’hanno fatta milioni di persone con una legge particolare sui danni di guerra.

Se avevate la casa o l’azienda abbat- tuta potevate ricostruire e poi portare la nota spese al genio civile, tutti lo fa- cemmo.

Nell’immediato dopoguerra il gover- no non solo fece la legge per i danni di guerra, realizzò anche la legge sulla ri- forma agraria, grazie alla quale la terra venne data ai tanti contadini e non più ai pochi proprietari. Contava il milione che veniva portato a Roma dalla Col- diretti di allora e inoltre si lavorò nel

‘50 alla legge sulla cassa del Mezzo- giorno per dare il senso che si proce- deva tutti insieme verso uno sviluppo.

C’erano documenti che andavano dal piano Vanoni al rapporto Saraceno, e che davano il senso di un futuro in cui stavamo pianificando tutti insieme. Se ci guardavamo all’esterno non aveva- mo più il senso di potenza di un Impero coloniale ma il senso della capacità di

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aiutare gli altri, abbiamo avuto un’e- sperienza di distribuzione di soldi per la cooperazione internazionale che non si è più ripetuta negli anni, oggi ci sono pochi finanziamenti e forse non c’è ne- anche più il capitolo di bilancio della cooperazione internazionale.

Avevamo una cultura, la mia tecnico- politico/tecnico-economica, che era segnata dalla parola sviluppo, si matu- rava tutti insieme e questo è stato l’e- vento fondamentale di crescita, di una nuova capacità di stare al mondo.

Io dico sempre che nel ‘63 non avrei cre- ato il Censis, non avrei rischiato di fare l’imprenditore nel settore della ricerca sociale (mi sarei adattato probabilmen- te a fare il professore di sociologia) se non avessi sentito che venivo trascinato da un’onda lunga. E se guardo al mio lavoro negli anni ’50 ’60 ‘70 ricordo ad esempio il caso di Prato dove ragionavo con il sindaco e il vicesindaco o il presi- dente della Cassa di Risparmio, sentivo quest’onda collettiva che a sua volta di- ventava anche l’orgoglio di essere pra- tesi, l’orgoglio di essere il primo com- prensorio tessile d’Europa.

C’era questo senso forte di crescita e mi sono domandato se qualcuno lo avesse percepito, devo dire che l’unico ad es- sersene accorto è stato un Papa, Paolo VI, che nella sua enciclica Popolorum Progressio dice una frase straordinaria:

“Tutto quello che l’uomo fa per aumen- tare il suo livello di vita e di prestigio è partecipazione alla creazione del so- vrannaturale”. Che un uomo possa par- tecipare alla creazione addirittura dal

soprannaturale significava che in Paolo VI e in coloro che avevano scritto l’enci- clica c’era questa dimensione e stava- mo tutti crescendo e tutti verso gli altri.

Il termine Populorum Progressio si- gnifica che questo era uno sviluppo di popoli, di moltitudini, era una crescita pluralistica non era certo lo sviluppo gestito da una società di consulenza e da una banca d’affari e non a caso Pa- olo VI trovò il termine “progressio” in un testo di San Tommaso, credo anche pensando al salmo 93: “Vanno con vi- gore sempre crescente gli uomini fino a comparire innanzi a Dio in Sion”. Sono i popoli che vanno avanti, crescono, si aprono a grandi obiettivi.

Pensate che Paolo VI ebbe delle diffi- coltà nel far passare quella logica, Pa- dre Lebret che aveva esteso la prima bozza dell’enciclica, disse al pontefice che la frase in cui si afferma che l’uo- mo partecipa alla creazione probabil- mente non sarebbe piaciuta al Santo Uffizio, confessando di averla tratta da un libro di Teilhard de Chardin, testo messo all’indice. Ma il Pontefice non modificò il testo restò come Lebret l’a- veva scritto.

Io ho dato vita al Censis e ho assistito ad una numerosa crescita delle realtà locali, negli anni ‘70 ’80 sono sorti cen- tinaia di distretti industriali, nel ’59 ab- biamo scoperto l’economia sommersa in luoghi come ad esempio Prato, Va- lenza Po o Jesi.

Intorno alla fine degli anni ‘80 qualcuno sosteneva che i distretti industriali era-

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no circa 82-83, ciò significava che una comunità locale fatta di migliaia di per- sone diventava protagonista, era dentro un mondo che andava avanti, che crede- va nel futuro e nel rapporto con gli altri.

Negli stessi anni scoppia in Italia il fe- nomeno del volontariato, oggi è una realtà consolidata, ma negli anni ’50 al massimo concepivamo i boy-scout. Gli anni ‘50 ‘60 ‘70 ‘80 ci hanno in sintesi permesso di respirare a pieni polmoni, abbiamo creato l’opportunità di quasi 6-7 milioni di occasioni lavorative con l’economia sommersa in cui abbiamo fatto il 35-40% in più di PIL.

Quando nel ‘77 si propose di mettere un 35% in più di PIL, dovuto all’economia

sommersa, il mio amico Ugo La Mal- fa divenne paonazzo, e non se ne fece nulla. Dieci anni dopo ci volle la deter- minazione di Craxi per “rifare i conti”

ed affermarci come la quarta potenza industriale del mondo e partecipare al G5 e G6, ci impose come un grande pa- ese, a sviluppo diffuso e collettivo.

Io sono un vedovo di quel grande pae- se, che ho studiato, esplicitato, canta- to; perché non ritrovo nella situazione attuale quella capacità di forza, quella voglia di fare che c’era allora e bisogna spiegarsi il perché e tentare a reagire all’attuale desolazione. Io che ho 86 anni posso rinunciare a rilanciare un respiro forte, ma i giovani d’oggi non possono vivere in una situazione di regressività,

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sapendo che la propria madre, il padre, il fratello o il portiere dello stabile, tut- to il sistema vive con l’enfisema. E non respirando a pieni i polmoni e non os- sigenando il proprio sangue per andare avanti si vivacchia. Noi siamo un paese enfisematico, un paese ciò che in qual- che modo ha ridotto le sue capacità.

Perché un paese che viveva respiran- do ampio diventa un paese rattrappito?

Per vizi propri o perché tutto il mondo è andato in una determinata direzione?

Naturalmente uno come me che ha vissuto tutta la vita guardando la so- cietà italiana tende a vedere le ragioni interne di questo rattrappimento, però ci sono anche ragioni esterne.

Tutto il mondo va verso un meccani- smo di rifiuto del respiro ampio, soffer- mandosi a leggere i giornali americani si trova un Presidente degli Stati Uniti d’America che dice: “American first”.

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I bambini messicani piangono, la lotta ai talebani, i dazi ai cinesi, sono solo alcuni degli esempi che vedono un Presidente avere un atteggiamento di rifiuto, rompe con tutti per mettere l’A- merica al primo posto.

Assistiamo ad una logica che è il con- trario del ciclo precedente, quello dell’apertura dello sviluppo, del deve- lopment, del punto Quarto di Truman, il successore di Roosvelt alla fine della guerra. Un ometto piccolino che fece scattare in tutte le università, e in tutte le banche questa idea che bisognava inve- stire sul futuro. Oggi invece abbiamo un Presidente americano che chiude ogni forma di dialogo umano e economico.

Viviamo un clima in cui la parola svilup- po è ancora usata, ma solo come fonda- le del controllo del debito e del deficit, indicatori di meccanismi un po’ gretti.

Viviamo purtroppo un clima di “fiato corto” e di diffidenza, addirittura con governanti tedeschi che vogliono re- spingere i migranti e farli tornare in Italia, qualora varcassero i confini della Germania. Secondo Bordin di Radio Ra- dicale assisteremo in Italia a due flussi migratori, il primo dall’Africa e il secon- do dalla Germania.

Si sta affermando una specie di egoi- smo delle nazioni con un meccanismo di difesa a oltranza della propria di- mensione, siamo passati dal Popolo- rum Progressio a Erasmo da Rotter- dam, quando in contrasto con Lutero su questioni di fede affermava: “Tutto ciò che l’uomo fa per difendere sé stes- so viene da Dio” è esattamente il con- trario dell’enciclica di Paolo VI in cui si asseriva che tutto quello che l’uomo fa per sé stesso serve alla creazione del nuovo, dell’universale.

La nostra società ha assorbito ne- gli anni un delicato passaggio di fase:

dall’entusiasmo per lo sviluppo alla paura di una crisi, dal 2000 in poi, pri- ma avevamo fatto esperienza di una ricchezza continuata e dell’81 possia- mo constatare che le imprese italiane sono passate da cinquecentomila a un milione, in dieci anni i numeri sono raddoppiati.

Un paese che negli anni ’70 ha dupli- cato il numero delle sua aziende indu- striali e che negli anni ’80 ha sfondato sul Made in Italy, sull’agroalimentare e sull’enogastronomia, ad un certo pun- to non ha più creduto nella sua capaci- tà di produrre.

Perché ci siamo rinsecchiti dentro?

Per due motivi, uno semplice ma non banale e l’altro più profondo. Anzitut- to abbiamo reagito alla crisi degli anni 2010 - 2015 con un meccanismo di au- todifesa, facendo perno e dal 2010 al 2017 noi abbiamo avuto una reazione riscoprendo la sobrietà, quello “sche- letro contadino” che è in noi da secoli.

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Il secondo punto è che abbiamo rite- nuto non necessaria la relazione e c’è addirittura la cultura del rapporto in- terpersonale. La relazione è diventata faticosa perché fatta di dialogo, con- fronto e compromesso. E si può in fon- do capire come il movimento che oggi ha la maggioranza parlamentare è nato sul “vaffa”, lo slogan della rottura della relazione.

E qui, per concludere passo a ragio- nare di enti locali. I vari processi degli ultimi cinquanta anni hanno coinvol- to anche la figura del sindaco: il ciclo di espansione e impegno collettivo lo sviluppo la dimensione locale in pri- ma linea, l’attuale processo di rinser- ramento fa sì che i sindaci debbano pensare sostanzialmente alla propria singola comunità. Attraverso il mio la- voro ho visitato e lavorato in centina- ia di comuni italiani, ma se oggi provo a proporre una ricerca non riesco a

“venderla”, perché il sindaco o chi per lui non ha voglia di scommettere, di progettare, di far rigiocare in avanti la propria comunità.

A volte si vuole solo sopravvivere e spesso lo si fa con meccanismi dispera- ti (i B&B ad esempio) che certo rappre- sentano una decadenza della qualità, dell’offerta turistica ma intanto funzio- nano. Leggevo sui quotidiani che esiste un B&B in uno dei locali del Duomo di Bolzano, evidentemente l’arrangia- mento continuato arriva anche a livello di comunità molto ricche. Io ho sempre esaltato la capacità di adattamento del- la cultura italiana, ma oggi assistiamo a un continuismo declinato al ribasso.

Io sono convinto per quello che sarà il mio prossimo futuro che bisogna reagire, trovando il modo giusto, non dicendo semplicemente no alle venti- lazioni del potere e della politica, ma riscoprendo la realtà locale e la sua arma sottile, cioè la relazione.

È la relazione, la complessità della re- lazione a dover essere riscoperta, l’En- te locale non vive di una politica fatta di dichiarazioni, e di proclami.

Uno dei termini su cui il Censis ha avu- to maggiore successo è stata la paro- la “mucillagine”, fu scelta perché in quel periodo il Mare Adriatico ne era pieno. La mucillagine è un insieme di elementi vegetali, che non si mettono insieme, che restano distanti, fermen- tando in una forma degenerata, puzzo- lente e inquinante.

Un Ente locale non è mucillagine, non può essere un insieme di dichiarazioni parallele che non si mettono d’accor- do o si confrontano; la comunità locale deve tornare ad essere il luogo della relazione, del dialogo, del confronto.

Se io avessi dieci anni in più da spende- re tornerei in giro nelle singole comu- nità locali per sottolineare l’importanza della complessità attraverso il valore della relazione, è quello che manca al mondo occidentale ed è un tipo di cul- tura moderna, che può partire solo a livello locale.

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Finito di stampare nel mese di ottobre 2018

da Revelox

Viale Charles Lenormant, 112/114 00119 Ostia Antica (Roma)

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