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IL “TRASFERIMENTO” IN ARBITRATO: L’INIZIO DI UN’INVERSIONE DI TENDENZA? - Judicium

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Vincenzo Vigoriti Ordinario nell’Università

Avvocato

IL “TRASFERIMENTO” IN ARBITRATO: L’INIZIO DI UN’INVERSIONE DI TENDENZA? *

I – In occasione di incontri all’estero sul processo civile o sull’arbitrato capita di sentirsi chiedere per quali ragioni il processo italiano sia ridotto in una condizione che non ha uguali negli altri Paesi avanzati, e neppure in quelli presuntivamente in via di sviluppo.

Le domande sono sempre le stesse, e riguardano la durata delle cause nei vari gradi, la qualità della giurisprudenza di merito e di quella di legittimità, l’indipendenza e il valore della magistratura. Sono domande generiche, di cortesia, non motivate da un vero interesse per la nostra esperienza poco attraente per tutti. Gli studiosi stranieri sono poi regolarmente scoraggiati dai tecnicismi, e dai problemi di trasposizione dell’apparato concettuale. Il che è particolarmente vero quando il dialogo è con giuristi di common law. Si capisce e non sorprende.

Colpisce invece la situazione inversa, e precisamente

* Note del 29 settembre 2014 redatte per un’audizione presso la Commissione Giustizia del Senato, concernente la conversione in legge del Decreto n. 132/14.

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l’assenza di ogni curiosità degli studiosi italiani per le esperienze maturate all’estero. Con qualche eccezione, interessa molto poco o nulla specie quello che succede nei Paesi di common law, su cui circolano notiziole di carattere meramente informativo, raccattate e sfoggiate qua e là senza alcun approfondimento.

E’ un vero peccato perché dall’Unione europea, da tutti, viene un’indicazione precisa, sintetizzabile nell’assunto che non c’è crisi della giustizia che possa risolversi solo con interventi endoprocessuali, perché ovunque la struttura e le scansioni procedurali sono più che sufficientemente elaborate. Certamente, l’opera di razionalizzazione e adeguamento è in progress, ma è convincimento diffuso che, dopo gli interventi degli anni ’90, l’esigenza di fondo sia soddisfatta.

Adesso, ma in verità da tempo, il messaggio che viene dall’esperienza comparativa è quello che il processo si difende e si aiuta favorendo l’ADR, con il coinvolgimento degli avvocati, o dei laici in genere, nella decisione o composizione delle controversie. Il contrario delle nostre scelte passate, tutte sostanzialmente orientate a favore di ritocchi interni (quasi 20 negli ultimi anni, in totale confusione), mentre gli altri si impegnavano per l’elaborazione di alternative all’accesso alla giustizia statale, con la conseguenza che la nostra situazione è

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peggiorata e il divario è aumentato. Vero che anche in Italia si è pensato ad utilizzare i laici, con sezioni stralcio o giudici onorari vari, fatti tuttavia oggetto di critiche esagerate, e di fatto emarginati. Senza consapevolezza che, nel mondo, la grande maggioranza delle controversie è decisa proprio da laici.

Il Decreto n. 132/14 chiede la disponibilità degli avvocati a collaborare alla definizione dell’arretrato e a negoziare il contenzioso, con impegno e spirito di servizio. Nessuna riforma è possibile senza gli avvocati, o addirittura contro, ma al contempo, gli avvocati non possono regolarmente opporsi a tutto, e pretendere accesso alla giurisdizione statale sempre e comunque, senza troppi oneri, e con celere risposta. Semplicemente impossibile.

L’alternativa va cercata e potrà rivelarsi efficace solo se potrà valersi della collaborazione della classe forense, la prima vittima della presente situazione. Il Decreto è perfettibile, e ragionevolmente, in un prima fase, non c’è da aspettarsi un successo eclatante. Ma questo è il cammino da intraprendere.

II – Il Decreto, al capo I, si dice destinato all’eliminazione dell’arretrato, termine che non ricompare nell’articolato, dove si parla di cause civili “pendenti”.

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Cosa si debba intendere per “arretrato”, e quando una controversia da semplicemente “pendente” precipita nell’arretrato non è precisato. Qualcuno ha detto che, una causa va in arretrato non appena varca l’ingresso del Palazzo di Giustizia, ma a parte i motti non si vede l’utilità di restringere alle sole cause introdotte da un considerevole numero di anni i pochi (per il momento) vantaggi della disciplina promozionale.

A regime, la disposizione dovrebbe valere per qualunque controversia, purché già pendente e non ancora arrivata a conclusioni. In certi casi, un autentico regalo per le parti con l’istruttoria fatta a spese dello Stato (giudici, cancellieri, ecc.) impossibilitato però a completare l’opera.

III – L’art. 1 si volge all’arbitrato come strumento di composizione rapida delle controversie , in tal modo facendo intendere che dell’istituto apprezza soprattutto l’elemento durata.

E’ una visione parziale, perché nell’arbitrato c’è molto di più di questo, e precisamente c’è un modo diverso, alternativo, di giudicare. E’ riduttivo considerare il giudizio privato come succedaneo di quello pubblico, utile solo allorché questo secondo non funziona. Come dimostra il fatto che l’arbitrato prospera anche – quasi, soprattutto – laddove il processo civile funziona

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5 benissimo.

L’arbitrato rituale, a cui il Decreto si riferisce, rientra nell’ambito della giurisdizione (Cass. Sez. Un. Civ., ord. 25 ottobre 2013, n. 24153), e la relativa attività deve essere svolta

“in modo” giurisdizionale. L’essenza del quale sta nell’equilibrio e nella ragionevolezza, in ogni momento dall’inizio alla fine.

IV – L’art. 1 (1) prevede che il trasferimento dalle Corti all’arbitrato sia possibile solo in presenza di un’istanza congiunta delle parti. Dunque, delega ai privati su base volontaristica, come previsto per tutte le convenzioni arbitrali, con esclusione del c.d.

arbitrato obbligatorio, già censurato in ogni possibile sede.

L’incontro delle volontà avrà luogo evidentemente quando entrambe le parti hanno un forte interesse alla definizione della lite in tempi brevi, indipendentemente da quanto già occorso, che sarà ipotesi non troppo frequente, essendo ovvio che, nei singoli casi, a qualcuno la durata non dispiace affatto.

Però ci sono altre situazioni che possono favorire la delega ad arbitri: un G.I. svogliato, uno poco attento, uno privo delle conoscenze tecniche e/o linguistiche necessarie a percepire il contenuto della controversia, e via dicendo. Tutti elementi che, al di là della durata, possono indurre a scegliere l’arbitrato, e quindi

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individuare un giudicante affidabile per tutte le parti.

Il beneficio del trasferimento non può essere però limitato alla sola minor durata dell’alternativa (da cui deriverà l’impossibilità di dolersi, in caso di rifiuto, dell’eccessiva durata), e occorre pensare a misure promozionali tali da rendere conveniente l’arbitrato per tutte le parti. Il legislatore dovrà essere generoso, consentendo iniziative che in qualche modo consentono di ripensare scelte che l’inutile giacenza nelle Corti fa sentire, anni dopo, come esagerate e punitive. Non una revisio, ma almeno un allineamento alle regole del rito arbitrale1.

V – L’art. 1 (2) si occupa della scelta degli arbitri. Qui è il proprium dell’alternativa e su questo si giocherà gran parte della riforma. Se c’è accordo fra le parti, magari già in occasione dell’istanza congiunta, sulla persona dell’arbitro (singolo o collegio) non ci saranno problemi, a patto che si tratti di un avvocato in possesso dei requisiti richiesti. Nel caso di assoluta

1 Non soccorre (così anche Briguglio) l’esperienza americana del c.d. Court annexed arbitration. E’ un istituto pensato per accorciare la durata e ridurre i costi del processo ed ha carattere obbligatorio (mandatory), nel senso che le parti non possono sottrarsi all’incombenza, se disposta dalla Corte, ma che non sono vincolate dall’esito (non- binding).

Un terzo, imparziale nominato dal giudice, esprime un’opinione sui profili giuridici e propone una certa soluzione, allo stato degli atti (su una simile esperienza nello jus commune scrisse Vittorio Denti). Se l’award non è condiviso, il processo prosegue. E’

sorprendente, per noi, che la grande maggioranza di questi lodi sia accettata e che il processo si estingua.

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esigenza di nominare come arbitro un soggetto con diversa professionalità, le parti potranno agevolmente procedere fuori dallo schema del Decreto.

In caso di disaccordo, la nomina è demandata al Presidente del Consiglio dell’Ordine (quindi non al COA), con disposizione che deroga all’art. 810 c.p.c. Non è certo un sacrificio insopportabile, dovendosi convenire che la relativa esperienza non sia stata esaltante.

Il compito è più delicato di quello finora assegnato al magistrato, soprattutto per l’appartenenza del soggetto onerato alla stessa corporazione dei candidati, da cui ripete l’investitura attuale, e forse futura.

Sarà importante stabilire criteri più o meno automatici di distribuzione degli incarichi, da applicare con i necessari correttivi. Dunque, si sceglierà all’interno del gruppo dei professionisti che si dicono competenti in una determinata materia - nelle sedi meno affollate: tutti su tutto - tenendo conto delle esigenze delle parti, della natura del caso, del numero e dell’importanza dei precedenti incarichi.

Sarà importante prestare attenzione ai molti inevitabili legami fra i professionisti – difensori e arbitri – per evitare sospetti di qualunque tipo.

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La deroga di cui al Decreto riguarda solo la nomina, e il Presidente del Tribunale resta titolare dei poteri di controllo di cui agli artt. 811 e 813bis c.p.c.

VI – L’art. 1 (5) dispone sul problema del compenso agli avvocati chiamati a svolgere l’attività di arbitro. Qui occorre equilibrio dovendosi, da un lato, porre limiti a pretese retributive che potrebbero essere quantificate alla fine del procedimento, con le solite amare sorprese e l’immancabile contenzioso. Dall’altro, non si possono pretendere dagli avvocati prestazioni gratuite con i rischi che simili corvée implicano.

Sostanzialmente fino al 2012, chi svolgeva l’attività di arbitro (rituale o irrituale) aveva diritto agli onorari previsti dalle Tariffe forensi. Si applicavano a vasto raggio, anche ad ingegneri e architetti, in forza di specifici rinvii.

Col D.M. n. 140/2012, sono caduti i vincoli tariffari e il compenso degli arbitri è stato lasciato all’autonomia privata. In difetto di accordo preventivo, e in caso di contestazione, agli arbitri restava solo l’azione in giudizio (art. 814 c.p.c.). L’attività di arbitro era considerata di natura stragiudiziale, in linea con la giurisprudenza dell’epoca (2002-2014).

Col D.M. n. 55/2014, c’è stato un ulteriore mutamento. L’art. 10

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dispone che nei procedimenti arbitrali, rituali ed irrituali, agli arbitri sono dovuti i compensi previsti sulla base dei parametri numerici di cui alla tabella allegata, la n. 26, specifica per questo tipo di procedimenti. In difetto di accordo, gli avvocati arbitri devono essere compensati in base ai parametri di cui alla Tabella n. 2, che riguarda i giudizi ordinari e sommari di cognizione innanzi al Tribunale. “Di regola”, si dice, a significare perfetta ammissibilità di liquidazioni inferiori.

La norma in commento anticipa che il Ministero della Giustizia potrà fissare diversi e più ridotti parametri per il compenso degli arbitri, in questo tipo di procedimenti. Si vedrà, con la speranza di quantificazioni ragionevoli e non punitive, dato che non è l’avvocato-arbitro il responsabile dell’arretrato.

Rileva la norma che, in questo tipo di arbitrati, cancella la solidarietà passiva delle parti in punto di compensi agli arbitri prevista dall’art. 814, I c., c.p.c.

La ratio è chiara: si vuole evitare che chi ha agito (o reagito), pagato il contributo unificato, sostenuto le spese dell’istruttoria, che si è trovato invischiato nella palude dell’arretrato, risultato finalmente vincitore debba subire l’ulteriore beffa di doversi far carico del compenso dell’arbitro a causa dell’inadempimento di chi già l’ha costretta al martirio del

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processo. Salvo altre iniziative, per improbabili rivalse nei confronti del soccombente.

Ora, se esiste un contratto fra parti ed arbitro, non c’è alcun motivo di negare la solidarietà fra le parti in punto di compenso all’arbitro. L’autonomia negoziale prevale sulla norma introdotta dal decreto legge, da ritenere deroga eccezionale limitata alla specifica ipotesi che l’ha occasionata.

Poi, se l’arbitro ritiene di dover compensare in tutto o in parte gli oneri del procedimento fra le parti, potrà benissimo individuare in quale percentuale ciascun compromittente risponderà nei confronti suoi e di controparte, fermo restando che non potrà imporre ad uno l’intero onere delle spese, e all’altro l’onere (anche parziale) del compenso agli arbitri.

Se invece non esiste spazio per la compensazione, e il soccombente, pur avendone la possibilità, non intende sostenere l’onere, all’arbitro non resterà che agire in giudizio. Valendosi del procedimento dell’art. 814 c.p.c., oppure in via ingiuntiva, previo visto di congruità della quantificazione effettuata, assentito dal COA, oppure in via ordinaria.

Un autore (Briguglio), moderatamente favorevole al Decreto, ha scritto che “nessun pianga” se l’innovazione dovesse fallire. Meglio attivarsi per evitare l’ennesimo disastro: “nessun

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