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Translatio iudicii tra giudice statuale ed arbitri? - Judicium

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(1)

L

UCA

B

IANCHI

(1) Translatio iudicii tra giudice statuale ed arbitri?

1. Con il provvedimento in esame stabilisce la Corte che, a seguito della pronuncia di incompetenza del giudice in favore dell’arbitro, risulta applicabile l’art. 50 c.p.c., per cui “si deve ritenere possibile la riassunzione dinanzi agli arbitri”.

Il richiamo a questa norma, prosegue la Corte, comporta che la disciplina della prescrizione del diritto fatto valere sia soggetta alle regole previste negli artt. 2943, 3 comma e 2945, 2 comma cod. civ., verificandosi allora la salvezza sia del c.d.

effetto interruttivo sia di quello sospensivo.

Si specifica inoltre che: a) la decisione di incompetenza cui riferire la predetta regola è sia quella della Corte di cassazione (“adita con riferimento ad una pronuncia affermativa della competenza dell’a.g.o. a dichiarare la competenza degli arbitri oppure a rigettare per ragioni di rito o di merito l’istanza di regolamento contro una pronuncia declinatoria”), sia quella del “giudice togato”, il quale dichiara “la propria incompetenza a beneficio di quella degli arbitri”; b) quanto alla concreta disciplina della translatio, il termine per la riassunzione è quello fissato dal giudice o, in mancanza, quello di cui all’art. 50; inoltre che l’atto da compiere entro questo termine è l’inizio della “procedura arbitrale nei modi di cui agli artt. 809 e 910 (sic) c.p.c.”.

Alla base di tali importanti e del tutto nuove affermazioni vengono peraltro dedicate solo poche righe di giustificazione: rileva dunque la Corte che l’esplicita esclusione della regola di cui all’art. 50 nel rapporto tra il giudice e l’arbitro di cui all’art. 819 ter, 2 comma “potrebbe essere intesa come totale”, ma in realtà così non è: l’ambito di tale esclusione infatti ”si correla ai «rapporti fra arbitrato e processo» e quindi riguarda solo il caso in cui sono gli arbitri ad escludere la loro competenza ed a riconoscere quella dell’a.g.o.”, non invece l’ipotesi opposta, in cui la declinatoria proviene dal giudice.

Insomma, stando a questa decisione, se il giudice, innanzi al quale sia proposta la

exceptio compromissi, riconosce l’esistenza della convenzione di arbitrato e quindi

afferma la competenza arbitrale, allora è operante il disposto di cui all’art. 50

(translatio e conseguente salvezza degli effetti della domanda giudiziale); nel caso

opposto, in cui l’arbitro neghi una valida convenzione e si dichiari incompetente, si

può invece senz’altro affermare che trova applicazione la regola di cui all’art. 819

ter, 2 comma e quindi che non risulta possibile il ricorso all’art. 50 (con

conseguente perdita degli effetti prodotti dalla prima iniziativa).

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2. Di tale decisione non risultano precedenti ed anzi la Corte in passato si è sempre mostrata contraria all’applicazione della regola della translatio tra il giudice e l’arbitro (

1

) e ciò, si noti, anche prima della pronuncia a sezioni unite n. 527 del 2000 (che ha impresso la c.d. svolta negoziale al giudizio arbitrale), quando cioè i rapporti tra il giudice e l’arbitro erano per più aspetti ricostruiti secondo le regole della competenza per territorio (

2

).

Del resto la prima osservazione che suscita la lettura del provvedimento in esame è che la lettera della legge non pare giustificare il principio affermato: il disposto dell’art. 819 ter, 2 comma indica che il rapporto tra il giudice e l’arbitro non è regolato tramite il richiamo ad una serie di norme che valgono invece nella relazione tra due giudici, tra cui l’art. 50: “Nei rapporti tra arbitrato e processo non si applicano regole corrispondenti agli articoli 44, 45, 48, 50 e 295”.

Questa formula è idonea a dare disciplina alle relazioni tra i due soggetti da entrambe le prospettive da cui ci si possa porre: sia cioè dal punto di vista dell’arbitro, sia dal punto di vista del giudice. I divieti e le limitazioni previsti (tra cui quello della translatio) valgono allo stesso modo per entrambi.

Nessuno ne ha mai dubitato (

3

).

Se poi si volesse proprio dare una interpretazione restrittiva del testo di legge, bisognerebbe probabilmente giungere ad una conclusione opposta rispetto a quella

(1) V. ad esempio Cass., 12 agosto 1997, n. 7521, in Riv. arb., 1998, 493, con nota D’ALESSANDRO.

A giustificazione del divieto della translatio menziona la Corte in questa decisione il proprio precedente orientamento (espresso in Cass., 27 maggio 1961, n. 1261 e Cass., 7 febbraio 1972, n. 241) che “negava ogni unitarietà di rapporto processuale tra i due giudizi; e ciò in considerazione dell’eterogeneità che caratterizza il procedimento arbitrale con il quale le parti danno attuazione alla deroga convenzionale alla competenza del giudice ordinario”. Vengono inoltre rammentate altre due pronunce (Cass., 8 luglio 1996, n. 6205 e Cass., 7 aprile 1997, n.

3001) che hanno enunciato il principio secondo cui la Corte (adita con il regolamento contro la pronuncia del giudice di merito che, riconoscendo la sussistenza della convenzione di arbitrato, si è dichiarato incompetente) “non è chiamata a individuare in via definitiva quale sia il giudice competente a conoscere la controversia, bensì ad accertare se la competenza appartenga al giudice adito ovvero non appartenga ad alcun giudice”. Viene insomma affermato che la decisione del giudice non sarebbe vincolante per l’arbitro (nemmeno se resa in sede di regolamento di regolamento di competenza): tale regola (rileva la sentenza 7521/1997) verrebbe a ribadire l’esclusione della applicabilità dell’art. 50, essendo la vincolatività della prima pronuncia necessaria ai fini della translatio.

Questa ultima argomentazione non sembra peraltro a perfetta tenuta: come ha rilevato di recente la stessa Corte (v.

Sez. Un., 22 febbraio 2007, n. 4109, in Foro it., 2007, 1009 ss.) la translatio (a seguito della declinatoria del giudice di merito) non comporta necessariamente il vincolo del secondo giudice a quanto deciso dal primo. In arg. v.

amplius infra le note 11 e 12.

(2) Sull’evoluzione nel pensiero della Corte a proposito del rapporto tra il giudice e l’arbitro v. BOCCAGNA, Appunti sulla nuova disciplina dei rapporti tra arbitrato e giurisdizione, in Studi in onore di Punzi, III, Torino, 2008, 313 ss.

(3) Nel senso che dall’art. 819 ter, 2 comma (con l’esclusione dell’applicazione dell’art. 50) si ricava un divieto a doppio senso, cioè il divieto della “trasmigrazione della causa dal giudice all’arbitro e viceversa” v. BOCCAGNA, Appunti sulla nuova disciplina, cit., 329; RUFFINI, Art. 819 ter in La nuova disciplina dell’arbitrato (a cura di Sergio Menchini), Padova, 2010, 373, che con la massima chiarezza osserva che il legislatore del 2006 “tronca in radice qualunque discussione sulla possibilità della translatio iudicii da processo giurisdizionale a processo arbitrale (e viceversa), espressamente prevedendo l’inapplicabilità ai rapporti tra arbitrato e processo dell’art. 50 c.p.c.”; VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2010, 23 (secondo cui, in ragione del disposto dell’art. 819 ter, 2 co., non “c’è spazio perché il processo trasmigri dal giudice ordinario agli arbitri e viceversa”); Bove, La giustizia privata, Padova, 2009, 35.

(3)

affermata dalla Corte: il primo comma dell’art. 819 ter disciplina infatti, tra l’altro, la exceptio compromissi e la pronuncia su di essa (indica il termine per la sua proposizione, le conseguenze della mancata proposizione, il rimedio esperibile contro la sentenza su di essa); il secondo comma poi esclude l’applicazione dell’art. 50: se si volesse intendere restrittivamente questo secondo comma, la logica indurrebbe a limitarne la portata alla decisione di cui al comma precedente, dunque a quella con cui il giudice si pronuncia sulla exceptio compromissi e non a quella dell’arbitro che ha ad oggetto l’esistenza della convenzione, la quale trova regolamentazione in un’altra norma (e cioè nell’art. 817) (

4

).

In definitiva mi sembra che non si possa dubitare del fatto che, con il disposto dell’art. 819 ter, 2 comma, il legislatore abbia voluto escludere la translatio sia tra il giudice e l’arbitro, sia tra l’arbitro ed il giudice: stante la vigente disciplina, la sentenza di quest’ultimo che rileva la sussistenza di un valido patto compromissorio pone fine al processo pendente ed esaurisce la litispendenza e la parte che intenda rivolgersi agli arbitri, dovrà proporre una nuova domanda giudiziale (

5

), la quale sarà produttiva di nuovi effetti sul piano sostanziale (

6

).

(4) Che si riferisce al caso in cui, a seguito della contestazione di parte, “gli arbitri decidono sulla propria competenza” (1 comma).

(5) Parallela è la soluzione adottata nell’ordinamento tedesco, essendosi ivi espressamente disposto (§ 1032, 1 comma) che in seguito all’accoglimento della exceptio compromissi il giudice deve respingere la domanda come inammissibile. E’ escluso insomma ogni rinvio agli arbitri.

Quanto agli effetti sostanziali già prodotti dalla domanda giudiziale, merita di essere ricordata la particolare considerazione riservata alla prescrizione dal § 204 BGB. Innanzitutto prevede questa norma che la proposizione della domanda giudiziale determina un effetto sospensivo (Hemmung), non interruttivo, sul decorso della prescrizione (v. il n. 1 del § 204). Questa regola è espressamente estesa alla domanda arbitrale (n. 11).

Quindi si specifica (2 comma) che questo effetto sospensivo termina sei mesi dopo il passaggio in giudicato della decisione o dopo il verificarsi di un evento estintivo del giudizio; e si ritiene per lo più che tale disciplina valga anche con riferimento alle pronunce di absolutio ab instantia (v. sul punto espressamente GROTHE, § 204, in Münchener Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch, Band 1, München, 2012, 2165, Rn 70; HENRICH, § 204, in BAMBERGER-ROTH, Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch, Band 1, München, 2007, 761, Rn 48). La tecnica utilizzata non è dunque quella della continuazione del processo a seguito di riassunzione, ma quella della nuova domanda, dando peraltro la possibilità della conservazione dell’effetto sostanziale già in essere.

(6) Nell’attuale sistema al divieto della translatio (a seguito dell’esclusione dell’applicazione dell’art. 50) si accompagna il venir meno degli effetti prodotti dalla prima domanda.

Allorquando invece il legislatore abbia adottato la tecnica della translatio, si verifica la salvezza degli effetti, anche se quest’ultima non sia espressamente disposta (sul punto v. SALETTI, La riassunzione del processo civile, Milano, 1981, spec. 192 s. ove si osserva che “sulla premessa della continuazione della causa … gli effetti sostanziali e processuali della domanda risalgono alla citazione proposta al giudice incompetente”; ORIANI, E’ possibile la

«translatio iudicii» nei rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale: divergenze e consonanze tra Corte di cassazione e Corte costituzionale, in Foro it., 2007, 1019, secondo cui la logica della riassunzione è quella della conservazione degli effetti della domanda giudiziale: “una volta ammessa la possibilità di riassumere il processo, non vi dovrebbe essere bisogno di una disposizione che preveda espressamente la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda giudiziale”; CONSOLO-DE CRISTOFARO, Evoluzioni processuali tra translatio iudicii e riduzione della proliferazione dei riti e dei ritualismi, in Corr. giur., 2007, 746, osservandosi che

“non è chi non veda che la translatio in tanto ha senso in quanto porti con sé l'identità del rapporto processuale dinanzi al giudice riassunto, con salvezza quindi ex se dei relativi effetti”; MURONI, La pendenza del processo arbitrale, Torino, 2008, 336, nota 289; in senso opposto si pone peraltro Corte cost., 12 marzo 2007, n. 77, in Foro

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Ciò significa ad esempio che della prima domanda si conserva l’effetto interruttivo della prescrizione; è dubbio invece che si abbia quello sospensivo (

7

).

Qualora poi la proposizione della domanda sia sottoposta ad un termine a pena di decadenza, dopo la pronuncia di inammissibilità per ragioni di competenza della prima via, è probabile che la seconda iniziativa innanzi all’altro organo risulti ormai preclusa (

8

).

Così descritte le ragioni in base alle quali non sembra accoglibile la soluzione proposta dalla decisione in commento, è ancora opportuno svolgere alcune considerazioni ulteriori relative alle conseguenze che dovrebbero verosimilmente derivare, qualora si seguisse invece la logica espressa dalla Corte.

In primo luogo essa esclude l’applicazione del secondo comma dell’art. 819 ter a fronte della dichiarazione di incompetenza del giudice; si conclude allora nel senso della valenza di questa norma nel caso opposto, quando cioè vengano in considerazione i rapporti tra l’arbitro ed il giudice: si verifica allora l’esclusione della translatio e della salvezza degli effetti della domanda. La soluzione proposta è insomma unilaterale e lascia aperti i problemi che derivano dalla incomunicabilità tra le due vie quando la pronuncia di incompetenza provenga dall’arbitro.

it., 2007, 1026, secondo cui la translatio di per sé non è sufficiente al fine della conservazione degli effetti già in essere).

E’ ancora opportuno aggiungere che alla salvezza degli effetti non è indispensabile la translatio, potendo la prima essere assicurata anche per altra via, connettendosi alla reiterazione della domanda alla quale il legislatore attribuisca effetto retroattivo (v. in arg. E.F. RICCI, Declinatoria di giurisdizione e (così detta) translatio iudicii, in Riv. dir. proc., 2008, 701). V. in arg. anche la nota precedente a proposito della tecnica utilizzata dal legislatore tedesco a proposito della prescrizione.

(7) Sull’interpretazione dell’art. 2945, 3 comma (in particolare a proposito della equiparazione tra absolutio ab instantia ed estinzione del processo ai fini dell’esclusione del verificarsi dell’effetto sospensivo della prescrizione) v. le diverse posizioni di ANDRIOLI, Sulla interruzione-sospensione della prescrizione del diritto controverso, in Riv.

dir. proc., 1964, 623 (nel senso della equiparazione) e di ORIANI, Processo di cognizione e interruzione della prescrizione, Napoli, 1977, 213 e di recente CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Torino, 2012, 121 (contrari alla equiparazione e quindi a favore del verificarsi dell’effetto sospensivo della prescrizione sino al passaggio in giudicato della pronuncia in rito). Con specifico riferimento al rapporto tra il giudice e l’arbitro v. sul punto G.F.RICCI, Rapporti tra arbitri e autorità giudiziaria, in AA.VV., Arbitrato (diretto da F. Carpi), Bologna, 2007, 507.

Sulla ulteriore problematica derivante dalla pronuncia di incompetenza del giudice a favore dell’arbitro ed alla conseguente necessità di effettuare una nuova trascrizione della domanda giudiziale (quella con cui si inizia il giudizio arbitrale) ai sensi degli artt. 2652 e 2653, v. ancora G.F. RICCI, op. cit., 508.

(8) E’ questa l’ipotesi considerata da Trib. Catania, 21 giugno 2012, in Riv. arb., 2012, 891 ss. con nota FORNACIARI, Conservazione degli effetti dell’atto introduttivo anche nei rapporti fra giudice e arbitro: sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 819-ter, comma 2, c.p.c.; ed in Foro it., 2012, 2512, con nota D’ALESSANDRO.

Precisamente il Tribunale di Catania si è occupato del caso dell’impugnazione della delibera societaria (che l’art.

2377, 6 comma cod. civ. prevede debba essere effettuata entro 90 giorni dalla delibera stessa, o dalla sua iscrizione o deposito) nell’ipotesi in cui il giudice abbia rilevato la sua incompetenza in favore dell’arbitro. Su tale pronuncia v.

infra in nota 18.

(5)

E’ possibile compiere un’ulteriore osservazione: dire che nella relazione tra giudice ed arbitro non si applica il disposto dell’art. 819 ter, 2 comma non comporta necessariamente che si debba da ciò dedurre l’applicazione dell’art. 50; o meglio, mi sembra che a tale conclusione si possa giungere con sicurezza, presupponendo che la relazione tra i due organi vada intesa in termini di competenza, di modo che, mancando esplicita norma contraria, si debba ricorrere alla disciplina generale di cui al primo libro del codice.

Prevalente peraltro (sia in dottrina che in giurisprudenza) è l’opinione opposta e le esclusioni di cui al secondo comma vengono spesso citate come l’evidente riprova (

9

).

Di tutto ciò non si dà conto nella decisione in commento.

Potrebbe allora venire il dubbio che questa (implicitamente) costituisca un primo passo verso un cambiamento di rotta nella giurisprudenza della suprema Corte, avviandosi essa verso una ricostruzione in termini di competenza del rapporto tra il giudice privato e quello pubblico (

10

).

Un profilo ulteriore merita di essere segnalato: la Corte oggi si è occupata in modo specifico del riferimento del secondo comma dell’art. 819 ter all’art. 50, ma la giustificazione che essa ha dato per aprire all’art. 50 mi sembra che possa estendersi anche alle altre esplicite esclusioni, venendo dunque meno anche quella riferentesi all’art. 44, norma che prevede il vincolo del secondo giudice alla decisione di incompetenza del primo (

11

).

(9) In dottrina v. ad es. LUISO, Rapporti fra arbitro e giudice, in AA.VV., La riforma della disciplina dell’arbitrato (a cura di E. Fazzalari), Milano, 2006, 124; BOVE, Ancora sui rapporti tra arbitro e giudice statale, in www.judicium. it , par. 1; RUFFINI, Art. 819 ter, in AA. VV., La nuova disciplina dell’arbitrato (a cura di S.

Menchini), Padova, 2010, 373. Sulla posizione della giurisprudenza (che da oltre un decennio è compatta nell’intendere l’exceptio compromissi come eccezione di merito) v. le indicazioni in BOCCAGNA, Appunti sulla nuova disciplina, cit., 316 ss.

Nel senso invece della ricostruzione del rapporto giudice-arbitro in termini di competenza v. BOCCAGNA, op. ult.

cit., 322 ss.

(10) Ricostruzione nel senso della competenza in termini ancora più convinti rispetto a quelli anteriori alla decisione n. 527 del 2000, dal momento che allora si escludeva l’applicazione della translatio (v. la nota 1 ).

(11) Può essere opportuno notare che (come già accennato in nota 1) non sembra sussistere una necessaria correlazione tra la translatio e l’efficacia vincolante per il secondo giudice della statuizione (di incompetenza) del primo. In realtà si potrebbe infatti supporre la prima in assenza di vincolo per il secondo organo: insomma la regola di cui all’art. 50 potrebbe sussistere anche in assenza di quella di cui all’art. 44 (certo ne deriverebbe nel caso la possibilità del conflitto negativo – v. anche la nota successiva sul punto). Allo stesso modo si potrebbe supporre il vincolo, pur in assenza della riassunzione.

L’apertura all’art. 50 non impone dunque che debba necessariamente seguire anche quella all’art. 44.

Quanto si è affermato nel testo (applicazione di entrambe le norme) viene invece semplicemente dedotto dalla logica della decisione della Corte: se si ritiene che l’art. 819 ter, 2 comma non riguardi i rapporti tra il giudice e l’arbitro (ma solo quelli tra l’arbitro ed il giudice), sembra corretto ritenere anche che le limitazioni in tale disposizione previste vadano escluse non solo nel riferimento all’art. 50, ma anche alle altre norme ivi menzionate, e quindi all’art. 44.

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Bisogna allora ritenere che si siano poste le basi per concludere che alla translatio si accompagni il vincolo dell’arbitro al dictum del giudice? (

12

).

E ancora, in base allo stesso ragionamento, potrebbe aprirsi la strada anche all’applicazione dell’art. 45: potrà allora l’arbitro, che si ritenga a sua volta incompetente, sollevare il regolamento di competenza d’ufficio? (

13

).

Giova comunque ribadire che nella logica della decisione in esame, tutto ciò dovrebbe valere solo nei rapporti giudice-arbitro, non in quelli arbitro-giudice, per cui a fronte della negazione da parte dell’arbitro della propria competenza oltre a non potersi avere la translatio (e la salvezza degli effetti della domanda), sarà escluso anche il vincolo per il giudice e la possibilità del regolamento di competenza d’ufficio.

La disciplina sarebbe insomma sui due versanti del tutto diversa.

Ma viene da chiedersi come si possa ammettere una portata vincolante della pronuncia del giudice per l’arbitro e non viceversa a fronte del chiaro disposto dell’art. 824 bis. E ancora, come già accennato, come si possa consentire la

(12) Motivo di insoddisfazione in relazione all’attuale disciplina dei rapporti tra il giudice e l’arbitro si riporta al fatto che il legislatore, se da un lato sembra avere accolto il c.d. sistema delle vie parallele (almeno quando per primo sia iniziato il giudizio innanzi al giudice: v. l’art. 819 ter, 1 comma, 1 periodo) consentendo la contemporanea pendenza dei due giudizi, dall’altro non ha però espressamente previsto l’espandersi dell’efficacia della decisione sulla competenza nell’altra sede: resta quindi il dubbio se l’arbitro sia vincolato alla decisione del giudice che abbia ritenuto la sussistenza della convenzione di arbitrato (e viceversa se il giudice sia vincolato al lodo che abbia negato la convenzione). Anzi l’esplicita esclusione della regola di cui all’art. 44 (esclusione disposta dall’art. 819 ter, 2 comma), insieme ad altri dati positivi (v. soprattutto il disposto dell’art. 817, 2 comma), può indurre a negare ogni vincolo, così aprendosi la via al conflitto negativo di competenza.

Ad evitare tale inconveniente (in assenza di meccanismi di soluzione del conflitto in apicibus, quali quelli di cui agli artt. 45 e 362) sarebbe invece opportuno che il legislatore intervenisse sul punto ed espressamente disponesse nel senso dell’efficacia extraprocessuale della pronuncia sulla competenza.

Da più parti si sono effettuati tentativi per giungere a tale risultato anche nell’attuale quadro normativo (v. ad es. in diverso senso LUISO, Rapporti fra arbitro e giudice, cit., 121 ss.; CONSOLO, Litispendenza e connessione fra arbitrato e giudizio ordinario (evoluzioni e problemi irrisolti), in Riv. arb., 1998, 674 ss.; BOVE, La giustizia privata, cit., 71 s. con il richiamo in via analogica all’art. 59, l. 69/2009 – v. infra la nota 19).

Ebbene, seguendo la logica della decisione in esame, si potrebbe arrivare ad ammettere nel rapporto giudice-arbitro l’applicazione della regola di cui all’art. 44 (accanto a quella di cui all’art. 50) e quindi a supporre un vincolo del secondo alla decisione del primo: si avrebbe insomma la riassunzione con relativo vincolo dell’arbitro alla decisione del giudice. Resterebbe peraltro ancora giustificare il parallelo vincolo del giudice al dictum dell’arbitro. La soluzione della Corte non può quindi ritenersi comunque pienamente soddisfacente.

(13) Si potrebbe forse anche aprire (una volta riconosciuta la possibilità della translatio a seguito della pronuncia declinatoria) all’applicazione delle regole sulla litispendenza di cui all’art. 39. V. sul punto, con specifico riferimento ai rapporti tra il giudice ordinario e quello amministrativo, CONSOLO-DE CRISTOFARO, loc. cit., ove si osserva che “una volta ammessa la salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta al giudice privo di giurisdizione … si apre la porta alla configurabilità di una litispendenza trans-giurisdizionale”; v. anche E.

F. RICCI, Declinatoria di giurisdizione, cit., 700 e MURONI, La pendenza del giudizio arbitrale, cit., 339, nota 296 in fine.

E’ chiaro peraltro che l’apertura alle regole di cui all’art. 39, 1 comma si pone in contrasto con il disposto dell’art.

819 ter, 1 comma, 1 periodo che (almeno in caso di prevenienza dell’iniziativa innanzi al giudice) opta per il sistema c.d. delle vie parallele, consentendo cioè la contemporanea pendenza del giudizio arbitrale e di quello innanzi al giudice. La conclusione non risulta quindi facilmente praticabile nell’attuale sistema. V. in arg. le osservazioni della MURONI, loc. ult. cit.

(7)

salvezza degli effetti sostanziali della domanda nel transito dal giudice all’arbitro, ma non viceversa, quando evidentemente identiche sono le esigenze di tutela della parte istante.

In definitiva le conseguenze che si dovrebbero accompagnare alla attuale decisione non sembrano facilmente accoglibili.

3. Svolte queste brevi notazioni sul contenuto del provvedimento in commento, torniamo alla considerazione dell’attuale quadro normativo, così come sopra descritto, in particolare con riferimento all’impossibilità della translatio ed alla conseguente perdita degli effetti prodotti dalla prima domanda in seguito alla pronuncia di difetto di competenza del giudice in favore dell’arbitro (e viceversa).

Se la vigenza di tale disciplina non sembra possa essere posta in dubbio, non va comunque sottaciuta l’insoddisfazione che essa provoca nell’interprete: il venir meno degli effetti già in essere può infatti determinare irreparabili pregiudizi per la parte istante, essendovi il rischio della perdita della stessa posizione sostanziale di cui essa è titolare.

Basti rammentare ancora l’ipotesi dell’iniziativa processuale sottoposta a termine di decadenza.

Si comprende allora come da più parti si sia prospettato il dubbio circa la legittimità costituzionale dell’art. 819 ter, 2 comma.

Dubbio di recente condiviso dalla giurisprudenza di merito con la rimessione della relativa questione alla Corte costituzionale (

14

).

La contrarietà a Costituzione sembra in effetti fondatamente sostenibile in base a due considerazioni.

In primo luogo va evidenziata la sostanziale fungibilità dell’operato del giudice e dell’arbitro, così come già da qualche tempo riconosciuta dalla Corte costituzionale (

15

), la quale ha rilevato che “l'arbitrato costituisce un procedimento previsto e disciplinato dal codice di procedura civile per l'applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto, ai fini della risoluzione di una controversia, con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria” e che dunque “sotto l'aspetto considerato il giudizio arbitrale non si differenzia da quello che si svolge innanzi agli organi statali della giurisdizione, anche per quanto riguarda la ricerca e l’interpretazione delle norme applicabili alla fattispecie”. In tale contesto va ancora considerato che il prodotto finale dell’operato del giudice e dell’arbitro, per esplicita indicazione positiva, è da considerarsi equivalente (v.

l’art. 824 bis).

(14) V. Trib. Catania cit. nella precedente nota 7.

(15) V. Corte cost., 22 novembre 2001, n. 376 (da cui sono tratte le parole riportate nel testo), la quale ha consentito che anche gli arbitri potessero sollevare la questione di legittimità costituzionale.

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In secondo luogo va rammentato il principio generale (

16

) per cui il processo deve tendere a decisioni di merito, che dicano chi ha ragione e chi torto, piuttosto che a mere pronunce in rito: come ha ancora evidenziato di recente la Corte (

17

) “le disposizioni processuali non sono fine a se stesse, ma funzionali alla migliore qualità della decisione di merito”. Conseguente è allora ritenere che all’intero sistema giurisdizionale sia assegnata “la funzione di assicurare la tutela, attraverso il giudizio dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi”, giungendosi invece alla vanificazione di tale tutela, quando la disciplina dei rapporti tra i vari organi decidenti “è tale per cui l’erronea individuazione del giudice munito di giurisdizione … può risolversi in un pregiudizio irreparabile della possibilità stessa di un esame nel merito della domanda di tutela giurisdizionale”.

Sulla base di tali ultimi principi il legislatore ha previsto la conservazione degli effetti sostanziali della domanda originaria quando il primo giudice adito abbia negato il proprio potere decisorio, oltre che per ragioni di competenza, anche per ragioni di giurisdizione (v. il recente art. 59, l. 69/2009).

Insomma in base a queste due premesse, riconosciute dalla stessa Corte costituzionale (assimilabilità dell’azione del giudice e dell’arbitro e necessità di fare salvi comunque gli effetti della domanda quando un giudice riconosca il potere decisorio di altro giudice), sembra di poter concludere nel senso della illegittimità dell’attuale disciplina positiva, che impedisce la conservazione degli effetti sostanziali della domanda in seguito alla pronuncia del giudice declinatoria della propria competenza in favore dell’arbitro (e viceversa) (

18

).

(16) Direttamente richiamantesi al pensiero di ANDRIOLI (Diritto processuale civile, I, Napoli, 1978, 28) secondo cui

“il processo mira a concludersi con pronunce di merito, mentre sono eccezionali i casi in cui la violazione di norme disciplinatrici del processo impone che questo si concluda mediante sentenze assolutrici dall’osservanza del giudizio”.

(17) Si riportano ora le parole di Corte cost., 12 marzo 2007, n. 77, cit., che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 l. 6 dicembre 1971, n. 1034 “nella parte in cui non prevede che gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione si conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione”.

(18) Il contrasto tra la lettera dell’art. 819 ter, 2 comma e gli artt. 24 e 111 Cost. viene per lo più colto in relazione all’impedimento della translatio e (di conseguenza) alla mancata salvezza degli effetti sostanziali già in essere. V.

BOCCAGNA, Appunti sulla nuova disciplina, cit., 330 s.; ACONE, Arbitrato e translatio iudicii: un parere eretico, in Sull’arbitrato. Studi offerti a Giovanni Verde, Napoli, 2010, 13 s., ove si osserva che, se il legislatore è libero di disciplinare il rapporto tra giudice ed arbitro nel modo ritenuto più opportuno, ad esso si impone tuttavia un limite invalicabile: “che la scelta non vanifichi o renda ingiustamente difficile la tutela giurisdizionale dei diritti”; il che comporta la prospettazione del dubbio di legittimità costituzionale dell’art. 819 ter, 2 co. nella parte in cui esclude l’applicazione degli artt. 44 e 50, “atteso l’evidente contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.”; ZIINO, La translatio iudicii tra arbitri e giudici ordinari (sulla parziale illegittimità costituzionale dell’art. 819-ter, secondo comma, c.p.c., in Sull’arbitrato. Studi offerti a Giovanni Verde, cit., spec. 925 s.

Rammentando la decisione della Corte cost. 376/2001, rileva VERDE, Ancora sulla pendenza del procedimento arbitrale, in Riv. arb., 2009, 223 che “anche agli arbitri dovrebbe estendersi la considerazione che si legge nella sentenza 77/2004 della Consulta”, in base alla quale è incompatibile con fondamentali valori costituzionali il principio della incomunicabilità dei giudici appartenenti a diversi ordini.

Ancora va rilevato che in dottrina (ORIANI, E’ possibile la «translatio iudicii» nei rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale: divergenze e consonanze tra Corte di cassazione e Corte costituzionale, cit., 1025) si è subito colta

(9)

Tale illegittimità può cogliersi ai sensi degli artt. 24 e 111 nonché dell’art. 3 Cost.

(

19

).

la “notevole efficacia espansiva” della decisione della Corte costituzionale 77/2007 (nel suo richiamo al generale principio per cui il processo deve servire per stabilire chi ha ragione e chi ha torto, con la conseguente necessità di dare rilievo a soluzioni che impediscano la conclusione in mero rito del processo), prospettandosi la rilevanza dei principi da essa posti anche rispetto al divieto della translatio di cui all’art. 819 ter, 2 co. Sul punto v. inoltre MURONI, La pendenza del giudizio arbitrale, cit., 337, la quale evidenzia come la decisione 77/2007, sebbene riferita ai rapporti tra il giudice ordinario e quello speciale, si riveli “fondamentale anche per vagliare la costituzionalità dell’art. 819-ter c.p.c.”.

Per il richiamo (anche) all’art. 3 alla base della censura di illegittimità costituzionale dell’art. 819 ter, 2 comma, v.

BOCCAGNA, Appunti, cit., 331, il quale (richiamandosi a Corte cost. 77/2007) rileva che “basta riconoscere l’equivalenza dei risultati cui l’uno e l’altro (cioè il giudice e l’arbitro) mettono capo, perché si pongano quelle medesime esigenze di tutela del litigante, che la Consulta ha voluto garantire consentendo la trasmigrazione della causa nei rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale”. Tale norma costituzionale è menzionata inoltre da ACONE, loc. ult. cit.

Per ampi svolgimenti sul tema trattato (in particolare nel richiamo alle pronunce delle Sezioni unite e della Corte costituzionale del 2007, citt. nonché al nuovo art. 59, l. 69/2009 ed alla decisione della Corte costituzionale 376/2001) v. Trib. Catania, 21 giugno 2012, cit., che rileva l’illegittimità dell’art. 819 ter, 2 co. nella parte in cui esclude l’applicazione dell’art. 50, in quanto in contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost.

Si sottolinea in tale pronuncia che, contro la prospettata conclusione, non varrebbe obiettare la natura privata dell’arbitrato: è infatti “arduo rinvenire la ratio” di un sistema che nel passaggio da giudice a giudice consente la salvezza degli effetti già prodotti ed invece nel passaggio da arbitro a giudice la esclude.

Nel senso del testo, cioè dell’incostituzionalità della norma in esame con specifico riferimento (più che al divieto della translatio) alla mancata salvezza degli effetti prodotti dalla prima domanda v. FORNACIARI, op. cit., 895:

partendo dalla menzionata posizione espressa da Corte cost. 376/2001 e rilevando che il principio della conservazione degli effetti prodotti dall’atto introduttivo è stato esteso al passaggio da una giurisdizione all’altra, conclude l’A. che “l’incostituzionalità della norma … rappresenta in effetti una conseguenza pressoché obbligata”;

v. sul punto anche i rilievi della MURONI, op. cit., 339, nota 296.

In senso contrario (per l’esclusione della incostituzionalità dell’art. 819 ter, 2 comma) v. invece GASPERINI, Su una proposta di applicazione analogica dell’art. 59 l. 69/2009 ai rapporti tra giudici e arbitri, in Sull’arbitrato. Studi offerti a Giovanni Verde, cit., 390 s.

(19) Va ancora considerato che da parte di alcuno si è prospettata l’applicabilità (in via analogica) dell’art. 59, l.

69/2009 nei rapporti tra il giudice e l’arbitro.

Tale norma (pur nei vari dubbi interpretativi che suscita) pone la regola (dopo la decisione che riconosce il difetto di giurisdizione) della salvezza degli effetti prodotti dalla prima domanda in seguito alla nuova iniziativa innanzi al secondo giudice, prevedendo inoltre il vincolo di quest’ultimo alla pronuncia del primo.

Si è sostenuta in particolare (in forza dell’art. 59, cit.) l’abrogazione implicita del disposto dell’art. 819 ter, 2 comma nel suo riferimento agli artt. 44 e 50: risulterebbe allora già possibile la conservazione degli effetti della prima domanda, nonchè il vincolo del secondo giudice alla decisione sulla competenza compiuta dal primo.

Sarebbe allora inutile sia l’intervento della Corte costituzionale, sia quello successivo del legislatore.

V. BOVE, La giustizia privata, cit., 71 ss., che in base all’idea che i rapporti tra i due organi (giudice-arbitro) “sono in fondo rapporti di giurisdizione”, consente in via analogica il ricorso alla disciplina di cui all’art. 59, cit. Tale A.

peraltro limita l’utilizzo della norma richiamata al profilo dell’efficacia della decisione resa sulla sussistenza del potere decisorio, prospettando il vincolo dell’arbitro alla statuizione del giudice relativa alla sussistenza della convenzione di arbitrato e viceversa; VERDE, Ancora sulla pendenza del procedimento arbitrale, cit., 224 s.

prospetta (dubitativamente) la possibilità di utilizzare l’art. 59, cit. “o per ritenere implicitamente abrogato l’art.

819-ter, comma 2 per la parte in cui fa riferimento all’art. 50 ovvero per fare comunque salvi gli effetti dell’originaria domanda giudiziaria”.

In senso invece espressamente contrario al ricorso all’art. 59, cit. v. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, Padova, 2012, I, 203 e 206, nota 160 (in quanto gli arbitri “non possono essere inquadrati nell’ordine giurisdizionale statale”); ACONE, op. cit., 14 s.; GASPERINI, op. cit., 383 ss.

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5. A questo punto, per cercare di cogliere i futuri sviluppi della vicenda, sembra opportuno riportare alla mente gli eventi che hanno preceduto l’introduzione dell’art. 59, cit., essendo evidenti le analogie con la situazione ora in esame.

L’applicabilità dell’art. 50 (e comunque del meccanismo della translatio) al solo caso della pronuncia di incompetenza e non a quella dichiarativa del difetto di giurisdizione, a lungo sostenuta dalla giurisprudenza, aveva suscitato ampie critiche in dottrina (

20

). Erano infine intervenute in merito due pronunce, una delle Sezioni unite e, a pochi giorni di distanza, una della Corte costituzionale (

21

).

La prima rilevava come già sussistessero nell’ordinamento ragioni sufficienti (

22

) per ritenere possibile la translatio anche a seguito della pronuncia che dichiara il difetto di giurisdizione (sia se proveniente dalla Corte di cassazione che dal giudice di merito); la seconda invece negava questa possibilità, limitava la portata dell’art.

50 alla decisione di incompetenza e dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art.

30 legge Tar, nella parte in cui escludeva la salvezza degli effetti prodotti dalla prima domanda, per il resto lasciando al legislatore il compito di disciplinare nei suoi vari aspetti il passaggio della causa da una sede all’altra.

Se quindi comune alle due pronunce era l’insoddisfazione per l’opinione tradizionale che affermava l’incomunicabilità tra le varie giurisdizioni, diversa si presentava la soluzione offerta: sostanziale salvezza dell’assetto normativo, estendendo la regola della translatio alla decisione sulla giurisdizione, nel primo caso; dichiarazione di illegittimità della normativa in essere (limitata alla esclusione del mantenersi degli effetti della prima domanda) e richiesta di intervento correttivo/integrativo del legislatore nel secondo, vincolato solo sotto il profilo della necessità di riconoscere la salvezza degli effetti della domanda.

Successivamente alle due pronunce il legislatore ha dettato una normativa, che, pur creando vari problemi interpretativi, pone il principio della conservazione degli effetti prodotti dalla prima iniziativa in seguito al nuovo atto della parte (entro tre mesi dal passaggio in giudicato dalla sentenza declinatoria) innanzi al giudice ritenuto dotato di giurisdizione (

23

).

Evocata brevemente questa vicenda, mi sembra si possano notare notevoli punti di contatto con quella ora in esame: la sussistenza di una diffusa posizione dottrinale contraria all’attuale assetto che impedisce la translatio tra il giudice e l’arbitro (e

(20) V. per tutti ORIANI, Ancora sulla «translatio iudicii» nei rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale, in Corr. giur., 2004, 1186 ss.; ID., Giudice ordinario, giudice speciale, «translatio iudicii», in Corr. giur., 2005, 1463 ss.

(21) Sez. Un., 22 febbraio 2007, n. 4109 e Corte cost., 12 marzo 2007, n. 77, citt.

(22) Il riferimento è compiuto soprattutto all’art. 382, 3 comma, che esclude il rinvio da parte della Corte solo quando, a seguito della riconosciuto difetto di giurisdizione del giudice adito, si nega la giurisdizione anche di ogni altro giudice.

(23) Da ultimo v. in arg. l’ampio saggio di GLENDI, Oggetto del processo e «translatio iurisdictionis», in Dir. prat.

trib., 2013, 69 ss.

(11)

comunque la salvezza degli effetti della prima iniziativa); la rimessione alla Corte costituzionale per la dichiarazione di illegittimità dell’art. 819 ter, secondo comma;

l’intervento della Corte di cassazione che (dopo tante pronunce di segno contrario) ritiene che (almeno parzialmente, cioè dal punto di vista del giudice) il sistema già consenta la realizzazione degli effetti auspicati.

Ciò detto, evidenti sono peraltro anche le ragioni di distinzione: a parte il fatto di trovarsi oggi innanzi ad una decisione delle Sezioni semplici e non delle Sezioni unite, il substrato normativo è diverso. Là non vi era un esplicito divieto ed anzi vi erano spunti all’interno del sistema da cui poter ricavare la possibilità della translatio (viene in evidenza soprattutto il già ricordato art. 382, 3 comma); qua c’è una norma espressamente contraria: l’art. 819 ter, 2 co., nel suo riferimento all’art.

50.

Poste queste premesse, non sembra troppo azzardato prevedere l’intervento della Corte costituzionale: se infatti essa ha ritenuto nel 2007 di emanare una pronuncia di illegittimità della normativa in essere in quanto impeditiva della conservazione degli effetti già prodottisi, altrettanto dovrebbe fare nella situazione odierna con riferimento all’art. 819 ter, 2 comma.

Raggiunto questo primo risultato, si tratta poi di individuare la concreta disciplina positiva: se estendere ai rapporti tra il giudice e l’arbitro la normativa attualmente in essere nei rapporti tra giudice e giudice oppure se seguire vie diverse (

24

). In particolare bisogna stabilire se alla salvezza degli effetti si debba giungere tramite lo strumento della translatio (con prosecuzione del giudizio già in essere), ovvero tramite la proposizione di una nuova domanda, disponendo la retroattività degli effetti ai tempi della prima iniziativa (

25

).

Si tratta ancora di regolare la forma ed i tempi del nuovo atto (

26

), l’efficacia della pronuncia di incompetenza, la possibilità di sollevare un regolamento per risolvere

(24) Il legislatore può percorrere la prima via, sostanzialmente ricorrendo alle regole di cui agli artt. 44 e 50; è peraltro opportuno che questa scelta sia manifestata con esplicita normativa, considerandosi che (come già in precedenza evidenziato) attualmente minoritaria è la ricostruzione dei rapporti tra il giudice e l’arbitro in termini di competenza .

(25) Sull’alternativa menzionata nel testo v. MURONI, La pendenza, cit., 339, nota 296.

Con specifico riferimento all’interpretazione dell’art. 59, cit. v. (nel primo senso) CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, 2, Torino, 2012, 60 ss. e (nel secondo) E.F. RICCI, Declinatoria di giurisdizione e (così detta) translatio iudicii, in Riv. dir. proc., 2008, 698 ss. e (in senso parzialmente diverso) La nuova disciplina della declinatoria di giurisdizione tra intuizioni felici e confusione di idee, in Riv. dir. proc., 2009, 1541 ss.

V. poi, critico su entrambe le posizioni, GLENDI, op. cit., 79 ss., il quale ritiene che con l’art. 59, l. 69/2009 il legislatore abbia seguito una terza strada, realizzando la c.d. “circolazione dell’azione in ambiti giurisdizionali diversi”, da un lato escludendo che “si sia di fronte ad un solo processo”, dall’altro affermando esservi “una sola domanda, inizialmente proposta davanti al giudice a quo e quindi pervenuta davanti al giudice ad quem” (p. 93).

(26) La decisione ora in esame prevede che la riassunzione innanzi agli arbitri si attui attraverso il compimento degli atti di cui agli artt. 809 e 810, quindi in pratica (nel termine di cui all’art. 50) attraverso “atto notificato per iscritto”

alla controparte con cui l’istante nomina il suo arbitro ed invita l’altra a fare altrettanto (art. 810, 1 comma). Ci si potrebbe chiedere peraltro se non vi sia anche la necessità di fare riferimento alla pronuncia di incompetenza del giudice ed alla precedente domanda giudiziale. Per fugare questi dubbi (nonché gli altri menzionati nel testo) in

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eventuali conflitti negativi, la sorte nella nuova sede di quanto intervenuto nella prima.

Tutti interrogativi cui il legislatore dovrebbe dare esplicita risposta.

ordine alle concrete modalità attraverso cui effettuare il passaggio tra il giudice e l’arbitro (e viceversa) si ritiene dunque opportuno l’intervento del legislatore.

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