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L'USANZA DEL CEPPO IN FRIULI

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L'USANZA DEL CEPPO IN FRIULI

di ADRIANA DE PASCAL

CHE COS'È IL CEPPO

L'usanza del ceppo di Natale era largamente diffusa in tutta Europa. Pare però che anticamente sia stata maggiormente nota in Inghilterra (<<yule-clog»), in Francia ,(«trefoir») e presso gli Slavi meridionali, perché le descrizioni più parti­

colareggiate di essa ci vengono da questi paesi. L'unico paese europeo che non la conosce è la Russia.

Il ceppo costituisce (o meglio costituiva) il centro materiale e spirituale delle feste natalizie; materiale perché proprio intorno ad esso, collocato sul foco­

lare, si riuniva in intimità tutta la famiglia; spirituale perché esso ha finito per racchiudere in sé il significato stesso del Natale: arde perché è nato Gesù Bambino, per riscaldarlo.

11 ceppo insomma è (o meglio era) il simbolo del Natale. Insisto su questo

«era» perché oggi, come è destino di molte tradizioni popolari, l'usanza va scom­

parendo, anzi in mo.lti luoghi è ormai del tutto scomparsa. La ragione principale è che in poche case ormai esiste il focolare, e in molte anche la cucina econo­

mica è stata sostituita dall'impianto di riscaldamento centrale. Sta di fatto che io, prima di iniziare questa ricerca, del ceppo di Natale non avevo neppure sentito parlare. Ricordo soltanto di aver visto a Udine, in certe pasticcerie, dei dolci nata­

lizi f~tti a forma di tronco d'albero tagliato, ricoperti esternamente di cioccolato e con all'interno «pan di Spagna», disposto in cerchi concentrici di diversi colori, in modo da imitare la sezione trasversale di un ceppo.

Vediamo che cosa dice dell'usanza l'Ostermaan ('), nella sua interessante opera sulla vita del popolo friulano: «La vigilia di Natale si mette sul fuoco il ceppo: "zoc" o "nadalin". 11 ceppo si porta, in certe case, in forma solenne, e lo accompagnano i fanciulli con lumi accesi; in qualche sito il padrone di casa lo benedice con l'acqua santa. Durante la notte si ha cura di coprirlo ben bene con la cenere, essendovi la credenza che se l'indomani fosse spento morrebbe il padrone di casa. Si cena, presso il fuoco mangiando i dolci tradizionali - "co­

(I) VALENTINO OSTERMANN, La vita iII Friuli; Udine, IDEA, 1940 (II ed), pp.

81-2 e 45.

(2)

làz" (2), "mostazzòns" e), "mandolàt" - e bevendo il vino cotto ("vin brulè").

Alcune famiglie usano gettare sul fuoco alcune gocce di vino e qualche pezzo dei dolci che si mangiano; altri versano il vino sul ceppCJ. Le schegge e i carboni del ceppo si mettono in serbo per accenderli quando minaccia mal tempo, o quando nascono i bachi. Insieme a que11e schegge si bruciano foglie d'olivo be­

nedetto, e ginepro, ecc., e si ritiene che questo sia uno specifico potente contro le malie delle streghe. Col ceppo si collega la credenza che la vigilia di Natale bisogna mettere molta legna per far brace, perché S. Giuseppe viene a prendere il fuoco per scaldai'e il Bambino».

E sempre l'Osterman, a proposito della conservazione delle schegge e dei carboni del ceppo e del loro uso contro la grandine: «S'usa [ ... ] pigliare tre chicchi di grandine e gettarIi sul fuoco. Perché l'incantesimo riesca più efficace, è bene fare il fuoco di schegge e carbone del ceppo di Natale, o bruciavi in­

censo o ulivo benedetto o fiori colti la vigilia di S. Giovanni. Durante l'operazione bisogna poi, invocare la S.S. Trinità, recitare tre volte il Pater Noster, l'Ave Maria e il versetto "In principio erat Verbum", segnare nell'aria una croce ai quattro venti e dire le parole: "Verbum caro factum est, e per Evangelica dieta fugiat tempestas ista". Quando i chicchi saranno liquefatti, cesserà la grandine.

Questa è ·la forma più completa de11'incantesimo; altri, pare, si contentano di gettare qualche chicco nel fuoco».

In Un bell'articolo pubblicato in «Pagine Friulane» (4) l'Ostermann ci fa penetrare nell'intimità domestica di una famiglia friulana, riunita intorno al foco­

lare la sera della vigilia di Natale. I bambini, seduti su].]a panca dietro il fuoco, sono impazienti: «Papà, papà, cuand lino a çholi

C)

il Nadann». Subito dopo,

«Dug i fruz impìin une lùs paromp, e corin daùr del papà che al fàs scielzi ta legnareil plui grand zoc che l'ere doi fàs di boris (6), e compagnant in proces­

sion cun tang lusors, i,1 Nadalìn ven puartàt sul fogolar

C),

e metut par traviers

(2) Ciambelle: cfr. G. PERUSTNI ANTONINI, Mangiare e bere friulano; Milano, Franco Angeli Editore, p. 204.

(3) Specie di dolci che si mangiano, di consuetudine, la vigilia di Natale. Sono fatti con mandorle pelate, zucchero, chiare d'uovo (preferibilmente si usano uova di tacchina), spezie; si impasta bene il tutto e si fa cuocere (Cfr. G. PERUSINI ANTONINT, cit., p. 211).

(4) V. OSTERMANN, Nadal; «Pagine Friulane», I (1888), pp. 1-5.

(5) Riporto la grafia usata dall'OSTERMANN.

(6) «Bore» è u~ rocchio di faggio per ardere; significa anche: brace accesa, tizzo, e questo è il significato più comune.

(7) Cfr. Il Nuovo Pirona; Udine, Società filologica friulana, 1967 (II ed.), p. 328: «È il rialzo ·in muratura su cui si fa fuoco per cuocere le vivande; ma chiamasi così anche,la stanzetta appo­

sita dove, secondo i.l vecchio uso friulano, è costruito i,l focolare. Il locale, più o meno ri­

stretto e riparato, è separato dalla cucina, ma comunica con essa per tutto un lato. Consta per lo più d'ul'.a piccola fabbrica a tettuccio con finestre, che sporge dal corpo principale, di solito verso il cortile. D'inverno, dietro e ai lati del focolare, si dispongono delle panche 3 spalliera (<<bàncis») o dei seggioloni (<<ciac!rMns»), abbastoanza adi perché le persone che vi siedono possano agevolmente poggiare i piedi sul piano del fuoco e riscaldarsi alla fiammata.

Questi tipo di focolore era un tempo più che ora comune nelle case rustiche e anche in quelle signoriJi dalla bassa alla montagna, e non raro in città».

(3)

inveze dal çhaveda1{8), daùr dal Wc». Poi il capofamiglia benedice il ceppo con un segno di croce e raccomanda alla moglie: «Met un po' di cinise daùr da] Nada1ìi1, che noi vadi il fùc par daùr e no si consumi dut: tu sas che al devi dura dutis lis tre fiestis, se si ul che no vegnin disgracis in famee». Se il mattino dopo il ceppo sarà spento, infatti, morirà il padrone o la padrona di casa. Si preparano intanto «vin cuet» (vin brulè) , il «mandolat», i «mostazzòns»

e i «colàzdi sope cuI ueli» (9). Si cena infatti di magro «parcè che la vilie di Nadal ... a' zunin ance i uçei dal ajar». Fra poco si andrà a «Madìns» CO) e i bambini credono che «cui che rive prim a Madìns al çhate te pile de aghe sante tres listis di mandolat». Dopo «Madìns» si andrà «a mangià lis tripis al­

l'ostarie».

Intanto, intorno al fuoco si chiacchiera di vecchie usanze natalizie e si cantano canzoni di Natale. L'indomani si andrà a «messa grande» e i «predi disiran tre messis [ ... ] parcè che j'è la plui grande fieste da l'an, e par ches dòs messis che no disin Vinars sant e Sabide sante».

Da questi scritti dell'Ostermann possiamo ricavare le principali usanze e credenze de! popolo friulano riguardo al ceppo natalizio. E cioè:

1) il termine con cui il ceppo è indicato è «nadalin»; «zoc» è usato in senso più generico, il «nadalin» è invece proprio il «zoc di Nadà1»;

2) il ceppo viene posto sul fuoco la sera della vigilia di Natale, dopo essere stato scelto tra i ceppi più grossi della legnaia;

3) lo si porta al focolare in forma solenne: lo regge in mano il capofamiglia, seguono in corteo i bambini ·con lumi accesi; in qualche luogo il padrone di casa lo benedice con l'acqua santa oppure con un semplice segno di croce;

4) viene collocato sul focolare per traverso, al posto del «çhaveda1»; devear­

dere per tutte le tre feste, cioè da Natale all'Epifania;

5) se si spegne prima, ci saranno disgrazie in famiglia: morrà entro ·l'anno il padrone o la padrona di casa. Perché ciò non avvenga si copre il ceppo con la cenere, in modo che il fuoco non lo consumi tutto, e si mantengano le Qraci;

6) si crede che la vigilia di Natale si debba mettere molta legna ad ardere per far la brace, perché S. Giuseppe viene a prendere il fuoco per scaldare il Bambino;

7) si cena presso il focolare con cibi tradizionali;

8) alcune famiglie gettano ne! fuoco alcune gocce del vino che bevono e qual­

che pezzetto dei dolci che mangiano; altri versano il vino sul ceppo;

(8) È 1'alare, cioè un arnese di ferro battuto che si mette sul focolare a capo del fuoco, per sostenere la legna.

(9) I «colàz» sono ciambelle; «di sope» significa che vanno inzuppate nel vino; «ueli»

è l'olio.

(lO) Mattutino, ufficio ecclesiastico; però di solito il termine indica solo il Mattutino che si .recita la notte di Natale.

(4)

9) dopo cena la famiglia rimane riunita intorno al focolare (spesso ci sono anche anche alcuni amici) ad aspettare la mezzanotte e l'ora di andare a «Madins».

Si chiacchiera, si raccontano favole e vecchie usanze natalizie, si recitano poesie e filastrocche, si citano proverbi, si cantano canzoni di Natale;

1O) i carboni e le schegge del ceppo vengono conservati come cosa sacra: ver­

ranno accesi insieme a foglie di olivo benedetto e ginepro per allontanare il maltempo (soprattutto la grandine) e quando nascono i bachi da seta, per stornare i malefici. Jnfatti i resti del ceppo «sono uno specifico potente con­

tro le malie delle streghe».

Da una ricerca sulle. principali riviste friulane (<<Pagine friulane», «Bollet­

tino (poi Rivista) della Società filologica friulana», «Il stwlic furlan», «Ce fastu 7»,

«La panarie», «Sot la nape»), a cui posso aggiungere i numeri unici della Società filologica, ho potuto ricavare altre notizie riguardanti il ceppo, e che l'Ostermann non segnala. Alcune di esse sono molto interessanti.

NOMJ LOCALI DEL CEPPO

L'Ostermann, come abbiamo visto, chiama il ceppo natalizio «zoc» o «nada­

!in» indifferentemente. E questi sono i nomi più diffusi nel Friuli occidentale (Codroipo, Pordenone, Sedriano, Zoppola, Prata, Rivarotta, Pasiano, Valle della Livenza). A Cordenons si lisa di solito «nadalin», mentre «zoc» è termine im­

portato di recente e ancora poco usato. A Brugnera e Tamai si usa invece il termine «soc».

Nel Friuli centrale il termine più diffuso è «cioc» (Udine, Pasian di Prato), ma si trova anche «soc» (Osoppo), «nadalin» (Pasian di Prato), «ciocie» (Faedis, Povoletto, Selvuzzis di Pavia di Udine) e «zocie» (Mereto di Tomba).

Nella Bassa è diffuso abbastanza uniformemente «socia» {Aquileia).

Nel Friuli orientale: «zoc nadalin» (Gorizia) e «socia» (Gorizia).

Nella Carnia: «cioc» (Gracco di Rigolato, Socchieve). Da notare che in Carnia l'uso del ceppo non era molto diffuso rispetto al resto del Friuli.

In due regioni confinanti con il Friuli troviamo rispettivamente i termini

«zoch» (Bellunese) e «zoco» (Trevisano).

In tutta Jtali a nomi del ceppo derivano dal ,latino ClPPUS o dal basso latino SUCCUS.

In Francia Cl) termini che servono a designare il ceppo sono molto nu­

merosi. Il termine, 'per così dire ufficiale, come è l'italiano ceppo, è «buche», che secondo alcuni studiosi deriverebbe da «burere» (bruciare): in realtà è di etimologia incerta. Il termine dialettale più diffuso è «tréfoir», proprio della

(11) A. VAN GENNEP, Manuel de folklore français contemporain; Parigi, Picard, 1958, tomo I, voI. VII, pp. 3159-61.

(5)

Francia settentrionale e centrale. Qualcuno traduce: «tre fuochi», ma anch'esso è di etimologia incerta.

Nella Francia meridionale, soprattutto in Provenza, domina il termine «cacho­

-fio», che significa forse: «emettere del fuoco». «Tréfoir» e «cacho-fio» so­

no termini di formazione indigena come anche «souche» che sono segnalati in Guascogna e «grobe» (Còte-cl'Or, Saòne-et-

J

ura e Savoie).

Si usano anche alcuni termini di derivazione latina:' «tronc», «tronche» (da TRUNCUS); «ceppo» e «scheppe» (da CIPPUS), rispettivamente in Corsica e in Saòne-et-Loire; «tison» (da TTTIO) e <<legno» (da LIGNUM).

In Inghilterra i nomi del ceppo variano da una regione all'altra: «Yule­

-long, -clog, -brand,mock, stock, bloclo>.

In Germania il termine più diffuso è: «Weinachts-K10tz».

NATURA DEL LEGNO

L'Ostermann non accenna alla natura de! legno del ceppo. In molti luoghi, in effetti, non si bada ad essa, purché il ceppo sia bello grosso. Ma in molti altri ci sono indicazioni precise: il ceppo deve essere, di solito, di «moràr» (gel­

so) o di «roi» (quercia) o di «noglàr» (nocciolo) ( 2).

A Pordenone e a Sedriano il ceppo deve essere «branco seco de morèr» (13).

Anche nel Friuli orientale domina il «moràr» (Gorizia). A Mereto di Tomba la «zocie» è di «agàz» (acacia).

Vale dunque anche per il Friuli quanto dice il Van Gennep

e

4) e cioè che in Francia si esclude a priori il legno resinoso (pino, abete), perché brucia troppo in fretta, e si sceglie il legno duro che brucia lentamente e a lungo.

QUANDO V~NIVA COLLOCATO SUL FOCOLARE

È usanza generale irl Friuli collocare il ceppo sul fuoco il pomeriggio o la sera della vigilia di Natale. Ho trovato testimonianze in proposito sia per la Carnia, sia per il Friuli centrale, sia per la Bassa, sia per il Friuli occidentale.

A Udine eS) il «zoc» si metteva sul fuoco appena suonava l'Avemaria, per­

(12) Ricordo che il <woglan> è dal popolo considerato benedetto, perché si crede che suoi fiori, «giatùz» o «pindui», spuntino nella notte della vigilia di Natale.

(13) E. e R. APPI, Tradizioni popolari della zona di Pordenone; «Pordenone», numero unico, Società filologica friulana, 1970, P. 242.

(14) A. VAN GENEP, Manuel, cit., p. 3142.

(15) L. D'ORLANDI, Alcune usanze e credenze natalizie in Friuli; «Sot la nape» VII (1955), n. 6, pp. 15-6.

(6)

ché fosse ben acceso per mezzanotte e scaldasse il Bambino Gesù. Contempo­

raneamente si metteva sul fuoco anche la «brovada», pietanza natalizia friu­

lana di antichissima tradizione.

A Pasian di Prato

C

6) il «nadalin» si metteva sul fuoco a mezzanotte prima di élndare a «madins» e alla messa che seguiva.

Uniche eccezioni ho trovato nel Friuli orientale: a Lucinico (17) tutti an­

davano alla messa di mezzanotte, ma una persona per famiglia restava a casa e a meZZélnotte in punto metteva sul fuoco la «socia».

RITO DELL'ACCENSIONE E BENEDIZIONE DEL CEPPO

La scelta del ceppo, il suo trasporto dalla ,legnaia al focolare, la sua col­

locazione sul fuoco obbediscono a un rigido rituale. II concetto di fissità è indi­

spensabile all'idea di rito, in quanto «il rito è nato, in origine, da un gesto spontaneo che ha accompagnato l'esplosione di un desiderio, l'espressione di un bisogno, la paura di un pericolo; e che, una volta sperimentato efficace, si ripete fedelmente affinché l'effetto si produca ancora» CS).

Il ceppo deve essere il più grosso che si riesce a trovare o nella legnaia o nei campi: la ragione è che deve ardere a lungo. Talvolta viene scelto durante l'anno tra i più grossi e conservato per la solennità (Cordenons, Mereto di Tom­

ba). Qualche volta, ma raramente, il grosso ceppo è sostit~ito da molti grossi pez­

zi di legno (Cervignano). A Venzone l'usanza de,I ceppo non è molto radicata:

«si steve SLI; si faseve fOc per sciaI dà il "·bambin"»

C

9), cioè si accenna gene­

ricamente al far fuoco, senza nominare il ceppo.

Come già abbiamo visto nel1'Ostermann, il ceppo viene trasportato in casa in forma solenne con una specie di corteo. In «Il strolic furlan pal 1947» eD) ho trovato una interessante testimonianza: il corteo del ceppo è ravvivato da una specie di contrasto scherzoso tra coloro che sono fuori della porta e quelli che da dentro non vogliono aprire. Siamo a Mereto di Tomba. E la sera della vigilia di Natale. Mentre le donne di casa, la mamma e la nonna, stanno cucinando i

«fasui» e la «bisate in tocio», gli uomini e i ragazzi escono in cortile chiudendo ben bene la porta della cucina. Poi trascinano davanti al,la porta chiusa «une gran zocie di agàz mitude in bande di pueste l'unviar passàt» e:

(16) L. U'ORLANDI, idem, p. 15.

(17) E. e R. APPI, Tradizioni popolari a Lucinico; «Gorizia», numero unico, Società filologica friulana, 1969, p. 118.

(IS) N. TURCHI, Rito, in Enciclopedia Italiana XXIX, pp. 466-7.

(19) A. CICERI, Il ciclo dell'anno; «Venzone», numero unico, Società filologica friu­

lana, 1971, p. 506.

(20) P. SOMEDA DE MARCO, Vilie di Naddl; «lI strolic furlan pal 1947», Udine, So­

cietà filologica friulana, p. 46.

(7)

« - Tue, tue, tue - si bat 'te puarte.

Cui isal a chest'ore? ( 'e dis la none.

La zocie di Nadal.

Ce végnie a fa?

A scialdà i panisei par Gesù Bambin.

Ise sole?

No, 'e ven cu l'abondanze.

E ce nus puartie di bon?

Blave in granar

e in canevin (== piccola cantina; è il diminutivo di «eiànive» cantina)

pan e cicin (== ciccia, carne, termine del linguaggio infantile)

un brazolar

pal regac1in, (== un braccio di rigatino; «regadin" è un tessuto economico di cotone. a righe rosse, gialle o di altro colore, sopra un fondo

formac1i, vin

che è per lo piil turchino)

e infin c1ut ancie un persut.

E nuie altri?

Ma no ...

Propi nuie altri?

Ah, si, si, .[a pas in famee ...

E po' ...

La gracie di Dio.

E po' ..

E po' e po' ". un biel frutin! - Due 'e dan una grande ridade.

Alare che entri cun Dio».

Si spalanca la porta e la nonna benedice la «zocie» con un rametto di olivo in tinto nell'acqua santa, e poi il ceppo viene collocato sul focolare.

Da questo scritto del Someda De Marco ricaviamo che non sempre è il padrone di casa a benedire il ceppo: in questo caso è la persona plU anziana della famiglia. Anche qui però a trasportarlo, a collocarlo sul focòlare e ad·

accenderlo è sempre il padrone di casa. Non ho trovato in Friuli l'uso di farlo collocare dai figli «per risparmiare dal malaugurio il capo della f~miglia» e nemmeno quello di porre intorno al ceppo altri più piccoli, tanti quanti sono i figli accompagnato dalla credenza che «più a lungo arde il ceppo, più lunga sarà la vita dei figli» (21). Ho già accennato all'uso particolare che vigeva nel Goriziano e per il quale il ceppo veniva acceso da una persona qualsiasi della famiglia, l'unica rimasta a casa, mentre tutti gli altri erano alla messa di mez­

zanotte.

In molti paesi la scomparsa del focolare ha fatto scomparire anche ,l'uso del ceppo; in altri, più legati alla tradizione, l'uso si continua bruciando il ceppo

«tal spolert» (= cucina economica) invece che sul «fogolar».

(21) R. CORSO, Ceppo, in EnciclO'pedia Italiana IX,p. 759.

(8)

L'unico paese friulano in cui, nel porre il ceppo sul focolare e nell'accen­

derlo non si osserva alcun rito particolare, è Poffabro (22). È un paese delle Prealpi Carniche, frazione del comune di Frisanco, nella valle del torrente Col­

vera, che sbocca in pianura a Maniago. È una località appartata, lontana dalle grandi vie di comunicazione e quindi eminentemente conservativa. Le sue usan­

ze sono molto interessanti per i tratti arcaici che conservano.

L'uso della benedizione del ceppo è largamente attestato anche fuori del Friuli. Per esempio il Finamore

e

l) dice che nel Molise il ceppo veniva benedetto dal capo della casa con l'acqua santa e poi, diventato cosa sacra, serviva per bene­

dire la casa.

ASPERSIONE DEL CEPPO

Nell'Ostermann troviamo la notizia dell'usci· di versare sul «nadaEn» un po' del primo vino che si beve a cena e di mettervi a bruciare qualche pezzetto del miglior cibo che si mangia. L'Ostermann accenna anche all'uso di asper­

gere il ceppo con vino abbondante.

In Toschi ( 4) trovo che negli Abruzzi, a Lanciano, «quando il ceppo era acceso, di tutto quel che si mangiava e si beveva a cena si doveva gettare un po' sul fuoco: era la parte del Bambin Gesù», e coloro che aspergono il ceppo con vino bianco dicono di far ciò «per ricordare il sangue di Cristo». Il Toschi spiega che in questo caso è avvenuto per il ceppo quello che si riscontra per una grande quantità di tradizioni popolari: l'usanza pagana non è stata estir­

pata (infatti quella del ceppo è un'usanza antichissima di derivazione pagana), ma si è radicalmente trasformata ed è venuta ad assumere un significato pio e cristiano. E così si spiega un gesto che in origine non aveva affatto questo significato. Si tratta in sostanza di un 'offerta propiziatoria.

Trovo qualche notizia dell'uso di aspergere il ceppo con la «sgnape» (=

grappa) eS). Siamo ancora di fronte a una scenetta familiare: « -

ore di la (a madins) - a dìs el paron di cjase - . El Bambin al sta par nassi. Al varà fred;

duvin scjaldalu - al tire fur une biele taze di sgnape e al si plee sul zoc che l'art; due' quanc' si metin in zenoglòn; e fasìnt la cròs al dis lui, biel che 'l ti fas cola'la sgnape sul zoc: - Tal non dal Pari, dal Fi, la Spirtu sant! Bambin santi Bambin benedet,ti din ze che pudin par che tu tu nassis tal cjalt! Talcjalt! - . - Cussf sei! - a rispui ndin chei altris ... ».

(22) G. PERUSINI, Feste ed usi calendariali friulani: Pof/abro; «Sot la nape» II (1950), n. 6, pp. 18-22.

(23) G. FINAMORE, Credenze, usi e costumi abruzzesi; Palermo ,1890.

(24) P. TOSCHI, Il Folklore; Roma, Studium, 1951, p. 73.

P. TOSCHI, Invito al folklore italiano; Roma, Studium, 1963, p.230.

(25) D. ZORZUT, El zoc di Nadal; «II strolic furlan pal 1954», pp. 67-9.

(9)

L'usanza viene poi spiegata dallo Zorzut con una leggenda. A Betlemme vi­

veva un povero vecchio che non possedeva proprio nulla, se non un ceppo che conservava con ogni cura perché il padre, consegnandoglielo, gli aveva predetto che con esso avrebbe potuto conoscere il Redentore. E difatti ciò avviene, perché, quando una notte sente dire che è nato un bambino in una stalla ed è povero ed ha freddo, il vecchio gli va subito ad offrire l'unica sua ricchezza e cioè il ceppo, senza pensare che il padre gli aveva raccomandato di non darlo via per nessuna ragione. Egli poi, perché il ceppo bruciando faccia più caldo e riscal­

di il Bambino, lo bagna con una bottiglietta di «sgnape». «E cussi dopo d'in che volte ancem6 a di di vué, par racuardà el bon cùr di chel vicjut e el miracul dlal zoc, la vilie di N adàl prim di là a madins cu la femine e i fruz, el paron di cjase al binidìscu 13 sgnape 'I zoc che 'I art sul fogolar ... ».

QUANTO DEVE ARDERE

In alcuni luoghi il ceppo doveva ardere per tutta la notte di Natale: perclO la famiglia rimaneva riunita intorno al fuoco fino alla sua completa consuma­

zione (Valle e Rivalpo in Carnia, Cervignano nella Bassa Friulana, Pordenone e Sedriano nel Friuli occidentale).

A Cordenons (paese situato ai confini linguistici tra la parlata veneta e quella friulana), alla vigilia dell'Epifania si accendeva un ceppo che, dopo aver bruciato per la durata del Rosario, veniva spento e conservato per la notte del Natale successivo (26). La notte di Natale invece il «nadalin» epifanico ardeva fino all'estinzione e veniva continuamente attizzato dai familiari raccolti intorno al focolare. Ma la credenza più diffuso è che il ceppo debba ardere per tutte le tre feste, cioè fino all'Epifania, tempo in cui praticamente si chiude il ciclo nata­

lizio, o per lo meno fino a Capodanno.

A Gorizia la «socia» doveva durare dalla mezzanotte in punto di Natale fino all'Epifania.

Ad Aquileia, se la «socia» non era abbastanza grossa da durare tanto, si spegneva e si riaccendeva all'Epifania; poi si spegneva con l'acqua benedetta alla vigilia dell'Epifania

e

7).

Dovunque è diffusa la credenza che lasciare spegnere il ceppo porti disgrazia e dovunque lo si considera come cosa sacra, come una benedizione. O lo si lascia consumare interamente o lo si spegne con l'acqua santa. Una eccezione costituisce Poffabro

e

8) dove il ceppo dovrebbe ardere fino a Capodanno, ma non è consi­

derato segno di disgrazia il fatto che si spenga prima.

(26) M. CANCIAN GREGORUTTI e R. APPI, Folklore cordenonese; «Cordenons», Società filologica friulana, 1963, p, 191.

(27) A, CICERI, Tradizioni popolari, Piccola inchiesta nel territorio aquileiese; «Aqui­

leia», numero unico, Società filologica friulana, 1968, p, 129, (28) C. PERUSINI, Feste ed usi, ciL, p. 18.

157

(10)

A CHE COSA SERVE IL CEPPO NELLA CREDENZA POPOLARE Il Toschi

e

9) accenna ad una leggenda che immagina la Vergine entrare a mezzanotte nelle case della povera gente per scaldare il Bambino appena nato al fuoco del ceppo. Per questo, nella credenza popolare, si accende il ceppo e lo si lascia ardere mentre la famiglia è alla messa di mezzanotte. Ovunque questa cre­

denza è diffusa in Friuli. Un po' dappertutto, ma soprattutto nel Friuli occidentale, si crede anche che la Madonna asciughi al fuoco i pannicelli del Bambin Gesù.

A Pordenone le mamme raccomandavano: «Putèi, preghè che el foga s·ughi i paniséi al Signor Idio!» eD). Per tale motivo non si metteva niente attorno al fuoco, an­

che se vi fosse stata necessità di asciugare i panni dei neonati della famiglia.

1n tutte e due queste credenze che ho accennato c'è, nella mente de.] po­

polo, l'immagine del Bambino appena nato, povero, nella stalla, al freddo, e con gesto pio lo si vuole scaldare. Una sfumatura leggermente diversa ha la credenza a Valle di Rivalpo (Carnia), dove in cambio del fuoco si chiedono, quasi come com­

penso, al Bambino Gesù benefici per la famiglia. Qui al ceppo viene più chia­

ramente attribuito un carattere di offerta propiziatoria. Da notare che in que­

ste due borgate del Comune di Arta-Terme, nella valle del Chiarsò (o d'Inca­

rojo), l'uso del ceppo, altrove scomparso, si conserva ancora molto bene.

A Sacile e nella valle della Livenza in genere, oltre alle credenze già accen­

nate, si pensa che il ceppo serva a scaldare il Bambino Gesù mentre viene a portare i doni ai bambini buoni.

CHE COSA SI FA INTORNO AL CEPPO

Accanto al focolare, centro degli affetti domestici, si riuniva tutta la fa­

miglia e, in devota veglia, aspettava mezzanotte. Accanto al fuoco si cenava, di magro, perché, come dice l'Ostermann

e

1), «·la vilie di Nad31 [ ... ] a' zunin ance i uçei dal ajar». Dopo cena, aspettando mezzanotte o l'ora di «là a ma­

dins», si mangiava frutta anche secca, dolci tradizionali, si chiacchierava, si si descrivevano usanze natalizie d'altri tempi, si raccontavano leggende ,i vec­

chi sentenziavano citando proverbi, i bambini recitavano filastrocche o canti di Natale. Talvolta al canto si univano anche gli adulti.

In «Nadàl» di V. Ostermann

e

2) tutti i presenti cantano a turno, e par­

tecipano al canto i bambini gli amici, i.1 «t'amei» e la massàrie» e anche il pa­

drone di casa. Zuan, il «t'amei», canta:

(29) P. rOSCHI, I nvito,cit., p. 220.

(30) E. C R. APPI, Tradizioni popolari della zona di Pordenone, cit., p. 242.

(31) V. OSTERMANN, Naddl, cit., p. 2.

\02) V. OSTERMANN, idem, Pp. 1-5.

158

(11)

Stait atenz, stait a sintì Un'orazion di faus stupi.

Cuand che al nascè il nestri Signòr

r

evà une stele di grand splendòr , AI pareve che fos propri culì, Lusive la lune come un biel dì, Lusivin monz, e çhamps e praz, E rosis e violis in cuantitàt.

A jerin cuatri pastorei, che stavi n atenz

A pascolà i lor armenz.

AI svolà un agnul dal ciI, I pastorei volevin sçhiampà.

Fradis miei, no vebit paure,

r

o us dirai la buine venture No lu saveis? ... no lu saveis?

In une stale lu çhatareis TI biel Bambin nassut usgnot, Plen di fan, di fred, e crot.

Plen di frèd e dut glazzàt,

Il bo e l'asinel lu sçhaldin cuI flàt.

Chesq pastòrs ce vevinai non?

Martin, Macòr, Leonard, Simon.

Su tu Martin, cuI to violin Fàs la danze a chest Bambin.

Su tu Macòr cuI to violon Fàs la danze al nestri Paron, E tu Leonard cuI to sciulot Fàs la danze in cheste gnot.

E tu Simon stà chi cuI çhan Par che il lov noI fasi gran dan.

E che madame cun chel bie! vis Pareve un agnul dal Paradis;

E cheI veçhut cusì grisut L'è il custode d'un sì biel frut;

Ai çhantarin dug i ucei Tant chei zovinsche chei viei, Ai çhantarin dug dug dug Fintenemai il curucucug.

Poi canta Rose, la «massarie», e dice che così cantano al suo paese, in Carnia:

Sunin, sunin di violin L'è nassùt Gesù Bambin, L'è nassùt nestri Signòr

E 'I pàr une stele di gran splendòr,

159

(12)

E Iùs la lune come un biei dì, Montagnis e pràz,

Violis in gran cuantitat.

E si sint çhanta par dut E si sin t dug i ucei.

Tant i zovins che i viei.

Quatri pastors a stan atenz Pascoland i lar armenz Al ven dal di un agnul biel, AI semee lu Gabriel ...

Soi rivat culì a buinore;

Ah! mostraimi il biel Bambin.

Va Madone lu ves fat!

E cumò lu vedares In te stale plen di fred, Quasi muart einglazzat

Il bo e il mus lu sçhaldin cui flat.

Ce us parie pastorei?

AI semee un Gesù bei (<< bei» per comodo di rima) AI ven ca ançhe miò fradi

E 'I puartarà dal bon formadi, AI ven ca pùr miò cusin ch'al puartarà dal bon vin.

A son ca lis piorutis Cu lis lòr cestutis,

E plenis di coculis e di miluz Robis adatadis a dug i fruz.

Tignint a menz cheste orazion E je un'orazion che fas stupì çhantin, sivilin di sivilot Lis maraveis finissin usgnot.

Rose dice poi che la canzone cantata da Zuan al suo paese la cantano in modo diverso:

Lusive la lune Come un biel dì Cuand che Marie A parturì.

E monz e pràz Ducuant fiorive, A l'ere il cuc Cun dug i ucei.

A erin quatri pastoruz inocenz ch'a pascolavin i lòr armenz, Zuan, Macòr, Nard e Simon.

Savares o miei çhars fradis 160

(13)

ch'a le nassùt il Redentòr In une stalute

Lu çhatares ducuant glazzàt, Ducuant glazzàt

Il bo e il mus lu sçhaldin cuI fal.

Canta poi un amico di casa. Le sue canzoni sono in italiano e dice di averle sentite «da bande di Glemone»:

Mezzodì

La Madone partorì Gli angeli cantava La Madonna predicava, Al sol, alla luna, e il Bambin se cuna.

Aver la grazia di scampar Sopra tutti quanti i mali Sopra temporali, così sia.

In Betlemme è nato, A dir non vado in giù

A cantar le lodi del mio Gesù.

Gesù Bambino non nasce,

Senza nè pezze nè fuoco di scaldarlo, Maria lumina, Sant'Anna sospira Dio è venuto al mondo

Tuti voglio salvar.

L'è nato il Re dei Re L'è nato il Redentore, Fior d'ogni bellezza L'è nato il Creatore O venite o venite pastori A far dei grandi onori, Che questa è la vera luce Del ciel nostro splendore.

Arrivato il suo turno, «sior 'Sef», il padrone di casa, legge una poesia di Natale che «fo stampade nel secuI passat»e che egli crede «che sei che che han stambide Zuan e Rose». Si 'tratta di una canzone che continua con un dialogo tra i pastori, la Madonna e S. Giuseppe.

Atenz duquang, stait a sintì Un miò discors che fas 'stupì:

Quand che nassè nestri Signor Une stele aparì di grand splendor.

Par di viodile cun sedi ,culì:

E lus la lune come un biel dì;

Floris il mont, il ciamp e il prat

(14)

Di rosis e giacinz in quantitat.

E d'ogni sorte di zovins e viei Chiantin di gnot in sin j'ucei;

Quasi pareve floriss la blave E la ciale come d'istat 'chiantave.

Quatri pastors che a lung lì stevin, E pascolà iu armenz fazevin, Di ogni pastor jere il so non:

Blasut, Macor, Sef e Simon.

E mentri stevin a pascolà, E si metevin a fevela

Di une tal gnot che lor vedevin, E dal Messie che lor spietevin.

In chest discors cussì devot AI jere il pont de mieze gnot; . Colà dal ciI un agnul biel, E pareve che al fos il Gabriel.

E vicin ai pastors svolà, E ju puars volevin schiampa, . E chel agnul disè ai pastors:

Ce mai diso cunchest uestri discors?

Fermaisi, fradis, no veit paure, Ches us hai di dà une buine venture;

Ves di savè che al è nassut

Il Salvator dal mond, sicome un frut.

In une stale lu chiatares Vicin a Blet1em, se no 'I saves, Tremant di fred quasi glazzat;

Ma il bo e il mus lu schialdin cuI flato E vo pastors, no stait a chi,

Lailu a chiatà devant cu vegni dì:

Intant che i agnui a mil a mil

Chiantin la glorie, e svolin ju dal ciI.

Il pastor Blasut

viars chei altris cusì favele.

Oh vie! chiars fradis, ce stino a fa?

Clamin Macor che al vegni ca:

Macor, Macor, hastu vidiìt?

J

ò crod in ver che tu varas sintùt.

Gran maracee gran novitat L'agnul dal ciI nus ha puartat, Che il nestri Messie al sei nassut In une stale come un puar frut.

Il cur me 'l dave, disè Macor, 162

(15)

Sintind, viodint un tal splendor, Crodinsi, fradis, in un istant No stin cu lis mans schiassant.

Jò us prei, chiars fradis, che !in cumò A chiatà Crist nestri Signor Giò, Jò puartarai dei milus in un zeiut, E plendi vin lu butazzut.

Tu, Sef, puartaras un hon agnel, E tu, Macor, un bon formael, E tu Simion un bon chiandin Di squete e lat, e la cozze di vino E tu Zuanut, sta chi cuI chian A chiaHì, che il 16f no fasi dan;

E guviarne lis pioris cui agnei, E daras dal sal anchie ai vidiei.

Orsù mo, fradis, aIin vie Alegramentri in compagnie

E di flautin e sivilot cui sa tochià, Ulin duquang di cur chiantà Fa lin la la, fa !in la lela, Fa !in la la, fa !in la lela.

Il pastor Blasut

Tignit, chiars vo, leat chel chian, E stai t culchiapiel in man:

Simon, Se·f,e tu, Macor, Chialait culà, ce gran splendor!

Jò crod dal ciart che al sei alì Dal gran Idio' nassut cheI Fì:

Fasin anim, o ,chiars pastors, Lassin làdug i timors.

Jò prime m'inzenoglarai, E vo fares com' jò farai!

Arivaz che sarin cun Giò a la, Si metarin insieme a favelà.

Blasut e' Madone

Bundì, e bon an, chiare la me Siore, No 'sin vignuz culì a buin'ore.

E us prein cun umiltat,

Che nus mostrais il Frutche vo ves fato La Madone ripuint

Pastors miei chiars, vadelu chi Dal gran Idio il so gran Fi:

(16)

Oh fortunaz i miei chiars pastors!

Vo ses plui anchimò dei gràng signors.

Fàisi indevant, o pastoruz, E ognun bussi i sanz piduz, E laudàilu come nestri Signor,

Parcè che al è nassut per nestri amor.

Blasut

Preait, Siore, par no' trop sce1eraz, Chel nus perdoni i nestri pechiaz.

Us vin puartat un agnelut,

E dai uus e dai miluz in chest zejut.

Al è po <chì un miò fradi, Che us presente un bon formadi, Chièlit, Siore, cheste cozze di vin, E un pochie dIi squete in chestchiadin.

Daspò che a varin presentat Di bon cuur, chiolarìn comiat:

Restait, Siore, cun Già, che u!in là Lis nestris pioris a pascolà.

La Madone

Oh chiars pastors! (diseve Marie) Jò us ringrazi de cortesìe, E di ogni uestre caritat,

Che miò Fi po no us sarà ingrat.

San fase!

Sant Josef il bon vechiut

J

u ringraziZave da l'agnelut, Edal formadi e dal zejut, E de squete e dal botazzut.

Se!

O chiar Macor, tochie il to violin, Fai une danze a chest Bambin:

Lis maraveis di cheste gnot chiantìn, sunìn di sivilot.

Fa lin la la, fa lin la le1a, Fa !in la la, fa !in la le1a.

Blasut

Ce 'us par, fradis, di chest Frutuz?

Al parche al feveli cui siei lavruz, E di so Maricun chel biel vis,

(17)

Che par un agnul dal Paradis?

E di che1 biel vidi cussì grisut, Che al ha in custodie un sì biel frut?

Il gran Idio sei ringraziat, Di tante grazie che nus ha fat!

Oh ce biele furtune che avìn vut Di tochià e bussà un sì biel frut!

Unn duquang di cur çhiantà E di sivilot cui sa tochià:

Fa lin la la, fa lin la lela, Fa lin la la, fa lin la lela.

La Pastorele riferita dall'Ostermann prima nella versione di Zuan e poi in quella più completa di «siòr 'Sef», fresca e poetica nella sua ingenua sem­

plicità, fu raccolta dalla voce del popolo da Ermes di Co11oredo e pubblicata prima in Poesie di lingua friulana [...] ora per la prima volta date in luce (Udine, Murero, 1785) con il titolo Nella Natività di nostro Signore, e una se­

conda volta, in versione leggermente diversa, in Poesie scelte ed inedite in dia­

letto friulano [...] con aggiunte di Pietro Zorutti (Udine, Matiussi ,1828). La canzone passò a lungo fra gli studiosi come uno dei migliori componimenti del Colloredo.

Un tempo questa Pastorele era ampiamente diffusa in tutto il Friuli. G. D'A­

ronco nel suo saggio sui canti popolari friulani

C

3) ne riferisce 25 versioni rac­

colte in provincia di Udine e fa notare che, siccome le versioni più integre pro­

vengono dall'alto Udinese, il probabile centro di diffusione della canzone è ap­

punto questo.

La pastorale comunque si cantava o recitava anche in Carnia. In «La Pana­

rie» (34) trovo riferita una strofa della Pastorele: quella che comincia con «O dars miei fradis no stait a spaurisci ... »: vi si dice che si tratta di un'antica canzone natalizia carnica che narra di tre pastori sorpresi dall'angelo nel1a notte di Natale; la si cantava la sera di Natale nelle chiesette alpine.

Nel Pordenonese es) intorno al ceppo si cantava invece:

Oggi è nato; in una sta11a di Betlemme, fra un bue e un asinel10

è nato Cristo tutto be110, senza mac-chia e senza error:

oggi è nato il Salvator.

(33) G. D'ARONCO, Dodici canti popolari raccolti in provincia di Udine; Udine, Società filologica friulana, 1952, pp. 39-47 (Vedi ora anche, dello stesso, Poesie popolari religiose rac­

colte nel 1946; «Studi di letteratura popolare friulana» III, 1973, p. 77).

(34) Fine d'anno in montagna, «La Panarie» XI (1934), pp. 383-4.

(35) Usanze natalizie; «Sot la nape» XXII (1970), n. 4, p. 94

(18)

Sempre nel Pordenonese una preghiera a S. Giuseppe diceva cosÌ:

San Giuseppe vecchierel cassa veu te quel sestèl?

Una fassa e un panesel per fassare Gesù bel Gesù bel, Gesù d'amor, per fassar nostro Signor.

La Madona ha avuto un puto, San Giusepe l'ha perduto;

La Madona lo ha trovà San Giusepe lo ha basà, lo ha basà su quel aceto San Giusepe benedeto.

Benedeti quei pinini (= piedini) che i va su per i scalini

chi la sa e chi la dis i andarà in Paradiso A Sedriano SI recitava o si cantava:

Quant ch'al nasseva nostri Signor ancia i usiei i ciantava 'che nuot de dutis li sortis de zovi e biei.

J

erin quatro pastors che pascolavin i siè armints ...

- Fradi, fra di no sta veir paura l'è vignuda 'na bona ventura.

Al' è nassut il Bambin Gesù du là ch'al eis Iu savareis:

meteins i a ciamina ta la cità di Betleme.

Uh, che siors che san vignus a adorà il Bambin Gesù.

Ancora a Sedriano e dintorni si recitava:

Quant ch'al nasseva nostri Signour nassÌ una stela de gran spledour al pareva ch'al fuossi uchè lustri de luna come biel di A Gorizia, aspettando mezzanotte si cantava:

Nansi nansi, su chista puarta che l'è l'agnul e il pastor jà puartat na biela gnova l'è nassut il Salvator, Salvator e Redentor.

(19)

Siora siora, faisi onora fai si onora a la plui scleta, portait fur che bocaleta.

Ancia nò us prearìn plenis di cianivis di vin,

un salar di lins (= lenti) e fava, un ciaveli(?) pIen di buada!

. Se spietìn che vò vignis nus ciapa la fret tai pis, ju vin durs come sivilos!

Siora parona denus i siops!

O noIutis o coculutis di che roba pa li frutis, o scarpis o ben zavatis di che roba pa li fantatis o milus o ben coIàs

di che roba pai fantàs!

e

6).

Talvolta accanto al fuoco si organizzavano dei veri e propri giochi di so-·

cietà: il più diffuso era la tombola, a -cui partecipavano tutti indistintamente, an­

che i bambini. Molte famiglie si riunivano in una casa o in osteria e giocando aspettavano mezzanotte. A Gorizia il premio della «tombola granda», cioè del­

la tombola che riuniva tutti in osteria, era un «dindiàt» {= tacchino).

Intorno al ceppo ai giochi e alle chiacchiere si alternavano le preghiere:

si recitava il rosario e si cantavano le litanie.

Raffaele Corso sotto la voce: «ceppo» nell'Enciclopeia ltaliana

e

7) scrive:

«Frequente fra i popolani, l'uso, accennato anche da Dante (Par. XVII, 100) di trarre dalle favil1eche sprizzavano daI!'arso ciocco, quando è mosso ocol­

pito con le molle o altro arnese, gli auspici per sè, per i propri cari, per i frutti degli animali. Il numero delle faville che si sprigionano -dal legno indica il numerO degli anni che rimangono al capo famiglia, o il numero di vitelli, di capret,ti, ecc. che si avranno nella stagione propizia».

In molti luoghi d'Italia si osserva anche la forma e il colore delle fiamme, il divergere, il guizzare, il crepitio e il sibilo delle scintille, il fumo e perfino le ceneri. In Friuli non ho riscontrato questo uso di osservare le scintille del ceppo per trarre pronostici. I pronostici, caso mai, si traggono dai giorni che dura il ceppo: se arde a lungo annuncia abbondanza, prosperità, felicità familiare, al­

trimenti, come ho già detto, annuncia disgrazie. A Pordenone si diceva che «tanti giorni el durava e1 nadann tanti sachi de formento rivava» (38),

(36) Il ciclo 'dell'anno; «Gorizia», numero unico, ci t. , pp. 79-80.

(37) R CORSO, Ceppo, cit., p. 759.

(38) E. e R. APPI, Tradizioni popolari della zona di Pordenone, cit., p. 242.

(20)

Dal Toschi (39) trovo ricordata una bella usanza toscana legata al ceppo:

«In alcuni paesi de1l' Appennino toscano si suole ancora bendare i fanciulli, far­

li girare intorno al ceppo e picchiare con le molle sul ceppo ardente, mentre si recita una canzone chiamata l'A ve Maria del ceppo; essa ha la virtù di far pio­

vere sui ragazzi ogni specie di dolci». Si dice infatti ai ragazzi che le scintille si trasformeranno in confetti. Si tratta di una poetica variante della credenza che Gesù Bambino venga a portar~ doni ai bambini.

A un altro interessante uso riguardante il ceppo trovo cenno nel Finamore, a proposito dell'Abruzzo: «Sul ceppo si mettono de' soldi. Il più piccolo dei bimbi di casa, dopo recitato il sonetto se li prende».

CONSERVAZIONE DI RESTI E BRACI

li ceppo è dovunque considerato cosa sacra, perché è stato benedetto con l'acqua santa ed è stato bruciato per il Bambino Gesù. I suoi carboni si con­

servano come cosa benedetta, vengono collocati in luogo particolare e adope­

rati in diverse occasioni. Si crede che essi allontanino il cattivo tempo (40), i temporali e la grandine, e proteggano dai fulmini; si crede inoltre che allon­

tanino i malefici in genere e quindi proteggano gli animali dalle malattie. CosÌ, come protezione contro i fulmini, si ripongono in un angolo di finestrella del granaio, o sotto le travi del tetto (Povoletto, Faedis) (41).

I carboni e i pezzettini del ceppo rimasti incombusti si mettono sul fuoco quando c'è minaccia di grandine (Poffabro) .(42). Si mettono «ta stale e tal cjòt» (43) come protezione per gli animali (Aquileia). Si mettono «ta stale e par dut in cjase, in tun citut, in alc parcè no si dìspierdin,par benediziòn» (44) (Pa­

(39) P. TOSCHI, Il folklore, cit., p. 73.

(40) Per allontanare j.] maltempo il popolo aveva anche altri sistemi oltre ai carboni del ceppo.

In A. CICERI (Ciclo dell'anno; «Venzone», numero unico, cit., p. 500) trovo che a Ven·

zone si bruciava la roba vecchia della chiesa a Pasqua, e «che j disevi·n il fuc sant: duc' i corevin a cjoli il cjarbon sant» e lo tenevano come cosa benedetta come l'olivo deUa Domenica delle Palme. Con esso benedicevano il focolare, lo mettevano «sot la nape'> come protezione contr0 i fulmini e .le ,saette. Trovo traccia di questo uso in molte altre parti del Friuli {per es. nel Friuli orientale a Gorizia e Lucinico; nella Bassa ad Aquileia). In U. PELLIS, {Pagine inedite;

«Ce fastu? XXI [1945], n. 1-6, p. 20) trovo notizia dell'uso dei contadini di Dignano di bru­

ciare, quando minaccia maltempo, còme scongiuro, dei fascetti di erbe aromatiche che sono stati stesi in fila sulla strada al passaggio di una processione (forse quella del Corpus Domini) e poi accuratamente conservati.

(41) L. D'ORLANDI, Alcune manze, cit.,p. 15.

(42) G. PERUSINI, Feste ed usi calendariali, cit., p. 18. Cfr. anche quanto scrive V. OSTER­

MANN (La vita in Friuli, cit., p. 45).

(43) L. D'ORLANDI, Alcune usanze, cit., p. 15.

(44) Idem.

(21)

sian di Prato). «Si tegnin in ta stale sot di un traE, come une reliquie» (45) (Sel­

vuzzis, Pavia di Udine).

Un carbone del ceppo si appendeva sulla stalla «cu la flascute de l'aga santa», perché portasse fortuna e allontanasse i malefici (Aquileia) (46),. Se si vuole che gli anatroccoli non escano dal cortile di casa, si radunano nel mezzo di un cerchio di cenere del ceppo (Pordenone, Bassa Fri).llana) (47). Ricordiamo che il cerchio ha, nella credenza ,'.del popolo, una poten~~ magica.

A Pordenone e nei dintorni si conservava anche la brace del «nadalìn»,

«par el pan e vin e i temporai» (48). A Sacile il pezzo incombusto veniva -con­

servato, perché considerato benedetto dalla Vergine, fino all'anno seguente e ser­

viva per accendere il nuovo «zoc» (49).

In tutta Italia gli avanzi del ceppo sono conservati e utilizzati contro il mal tempo o le epidemie o le influenze malefiche di qualsiasi natura, materiale e spirituale. «L'uso più comune è di tenerli in casa, sotto il letto, come mezzi protettivi contro i tuoni, i lampi, le folgori. Le ceneri e i carboni sono sparsi nei campi a preservarli dalla grandine e dagli insetti, o posti sugli alberi per impedire che i fusti vadano in malora» (SO).

SIGNIFICATO E ORIGINE DELL'USANZA

Secondo l'Ostermann il ceppo ha origine antichissima, e ricorderebbe ceri­

monie e sacrifici che si usavano fare dalle genti arie tre giorni dopo i due sol­

stizi: a Natale (25 dicembre), cioè tre giorni dopo il solstizio d'inverno (22 di­

cembre) e a S. Giovanni (24 giugno), cioè tre giorni dopo il solstizio d'estate (21 giugno).

Il Vidossi (51), citando lo Schneeweiss, sostiene che l'uso appartiene al ciclo cultuale romano, e in particolare alle Calende. Da Roma si sarebbe diffuso nel­

le terre soggette all'Impero. A prova di questa tesi egli porta il fatto che la prima testimonianza dell'uso proviene dalla Spagna romanizzata, çirca a metà del sec. VI. In Roma l't).sanza era riferita al Capodanno; ma il Natale, sosti­

tuendosi .alla festa delle «(Ealendae» romane (cioè al Capodanno), spesso ne fa proprie anche le usanze, è il ceppo è una di q u e s t e . '

(45) Idem.

(46) A. CICERI, Tradizioni popolari, cit., p. 129.

(47) L. D'ORLANDI, Alcune usanze, cit., p. 15.

(48) E.e R. APPI, Tradizioni popolari della zona di Pordenone, cit., p. 242.

(49) R. APPI, Folklore sulla Livenza, «Sacile», numero unico, Società filologica friulana, 1966, p. 68.

(SO) R. CORSO, Ceppo, ci t. , p. 759.

(SI) G. VIDOSSI, Echi romani nel Natale cristiano; In: «Saggi e scritti minori di fol­

klore», Torino, Bottega di Erasmo, 1960, p. 263.

(22)

Certo è che il ceppo ci riporta a forme rituali precristiane, poiché molte superstizioni ad esso legate non hanno nulla di cristiano. La interpretazione in­

genua del popolo ora lo dice acceso per scaldare il Bambino Gesù e perché la Madonna asciughi i suoi pannolini: ma originariamente non era certo questo il significato del ceppo.

Scrive il Toschi (52): «È avvenuto per il ceppo quello che si riscontra per una grande quantità di tradizioni popolari; l'usanza pagana non è stata estir­

pata; ma si è radicalmente trasformata perchè è venuta ad assumere unsigni­

ficato cristiano». Di questa evoluzione sono chiare testimonianze, oltre alla cre­

denza già accennata la quale è comune a tutta Italia, queste altre ricordate dal Toschi: in Puglia si crede che il ceppo simboleggi la distruzione del peccato ori­

ginale, e man mano che si consuma il legno si annulli la colpa commessa da Adamo: in Abruzzo si mettono ad ardere accanto al ceppo altre tredici piccole legna in memoria di Cristo e dei dodici apostoli; molti cospargono il ceppo col vino e spiegano che l'offerta è fatta per ricordare il sangue di Cristo. La Chiesa, rendendosi conto che nell'usanza si mescolavano religione e sopravvi­

venze pagane, la combattè a lungo, cercando di estirparla. TI Toschi {53) lo di­

mostra facendo una accurata indagine delle prediche di S. Bernardino da Siena, nelle quali riesce a trovare molti punti i'n cui il.Santo si scaglia contro l'uso del ceppo, giudicandolo indegno di gente cristiana. Oltre a questa avversione della Chiesa, dalle prediche di S. Bernardino risulta anche che quello del ceppo era un uso molto diffuso già nel sec. XV, e da quanto dice il Santo si possono ricavare particolari interessanti dal punto di vista folkloristico.

Nella predicazione fiorentina del 1424 S. Bernardino dice:. «Per la nati­

vità di nostro Signore Gesù Cristo in molti luoghi si fa tanto onore al ceppo.

Dalli ben bere! Dalli mangiare! li maggiore della casa il pone suso e falli dare denari e [rasche! ». E ancora nella predicazione fiorentina del 1425: «Perchè è così in Natale rinnegata la fede o perchè so' convertite le feste di Dio in quel­

le del diavolo? Chè [... ] si vuoI mettere el ceppo nel fuoco e che sia l'uomo della casa quello che vel mette» (54). Da qui ricaviamo che anche nel sec. XV il ceppo doveva essere collocato sul fuoco dal capofamiglia, che si gettava sul ceppo ardente un po' di vino e di cibo e che su di esso talvolta si collocavano anche dei denari.

Usanze, tutte queste, che ancora oggI SI conservano. In Friuli non c'è l'uso di collocare sul ceppo del denaro, ma esso è presente in altre regioni italiane, per es. in Abruzzo (cfr. G. Finamore, Credenze, usi e costumi abruzzesi). S. Ber­

nardino dà anche notizie sulla conservazione dei carboni del ceppo e sul loro uso superstizioso, che pure si mantiene ancora oggi.

Un'altra prova della grande importanza e diffusione del ceppo in tempi pas­

(52) P. TOSCHl, Jnvilo, cit., p. 220.

(53) Idem, pp. 218·21.

(54) P. TOSCHI, I nvilo, cit., p. 219.

(23)

sati è il «confuoco», solenne cerimonia pubblica che si faceva a Genova e che, adeguandosi ai tempi, è durata fino a un secolo fa circa: «Anticamente a Geno­

va [ ...

1

il ceppo natalizio veniva offerto al Doge dalle genti delle montagne vi­

cine con una cerimonia pubblica movimentata e pittoresca, perchéiJ grande tronco sul quale il Doge versava vino e confetti (55), veniva poi acceso tra la gioia degli astanti, ciascuno dei quali si portava a casa l!n po' di quel fuoco»

C

6).

Per quanto riguarda il significato originario del ceppo gli studiosi hanno opinioni diverse. Comunque le teorie principali sono due: la teoria solare e la teoria della' purificazione.

La teoria solare istituisce un rapporto tra ceppo e sole. La festa della Nati­

vità di Cristo nel sec. IV d.C. in Roma fu fissata al 25 dicembre, che coincideva col «dies natalis solis vivinti» della religione mitraica. Il culto del sole può dun­

que aver influenzato i riti del Natale. Il 22 dicembre inoltre coincide con il sol­

stizio d'inverno: un uso pagano voleva che in questo giorno si accendesse il fuoco per il sole, come del resto si accendevano fuochi in corrispondenza del solstizio d'estate, rito le cui tracce sopravvivono ancora oggi nei fuochi di S. Giovanni (24 giugno). Per l'uomo primitivo è naturale accendere fuochi nel giorno più breve dell'anno, quasi per aiutare il sole a «rinascere»: per l'uomo primitivo infatti il sole «rinasce» con il solstizio d'inverno e continua a «crescere» fino al solstizio . d'estate, dopo il quale ricomincia a «morire»; e anche quando il sole comincia

a «morire» accende fuochi per aiutarlo a «vivere» ancora un po'.

l! rito dell 'accensione del fuoco ha dunque un significato propiziatorio, che si basa sul principio della magia omeopatica

e

7) per cui il simile produce il si­

mile, l'effetto rassomiglia alla causa. Così il popolo accendendo fuochi crede di richiamare il sole, la fonte prima di luce e calore. l riti di propiziazione in ge­

nere rispondono ad un bisogno vitale del gruppo umano: con essi infatti il grup­

po provvede direttamente ad assicurarsi e procacciarsi ciò che ha per lui impor­

tanza vitale, l'abbondanza, la prosperità, la salute. E qui, per quanto riguarda il fuoco, questo carattere è chiaro: l'uomo non può vivere senza il sole che con la sua luce e il suo calor~ fà crescere la vegetazione e quindi fornisce agli uo­

mini il necessario per nutrirsi.

Questa teoria ha il suo maggior sostenitore in Wilhelm Mannhardt, il quale ravvisa animisticamente nel ceppo un demone o genio della vegetazione e nella sua accensione un rito propiziatorio deI1a vegetazione stessa. Questa teoria del Mannhardt è incomprensibile al pensiero moderno, che non riesce a capire perché

(55) I confetti, come tutti i dolci composti da mandorle e zucchero o miele, hanno un si·

gnificato augurale e propiziatorio di felicità e fecondità.

(56) P. TOSCHI, Invito, cit., p. 218.

(57) Questo tipo di magia, detta anche imitativa, si basa sulla legge di similarità, mentre l'altro tipo di magia (magia contagiosa) è basata sulla legge di contiguità: le cose che siano state una volta a contatto continuano ad agire l'una sull',altra. a di,stanza, dopo che il contatto fisico sia cessato. (Cfr. J. G. FRAZER, Il ramo d'oro. cit., Torino, Einaudi, 1950, val. I, pp. 47-8).

(24)

il dio della vegetazione, un dio benefico, simboleggiato dal ceppo ,debba morire nel fuoco.

A questo proposito riferisco l'interessante spiegazione che dà il Frazer (58), parlando delle effigi arse nel fuoco: «La luce e il calore sono necessari ano svi­

luppo dei vegetali, e, per i principi della magia simpatica, sottoponendo il rappre­

sentante della vegetazione alla loro influenza, si ottiene' una provvista di queste neclessità per gli alberi e per i raccolti. I n altre parole, bruciando lo spirito della vegetazione in un fuoco che rappresenta il sole ,ci si asskura che, almeno per un certo tempo, la vegetazione avrà abbondanza di sole». Secondo il Vidossi è que­

sta la teoria che meglio si adatta all'uso italiano del ceppo.

La teoria della purificazione sostiene che il fuoco ha una forza puri­

ficatrice e delimina e distrugge tutto ciò che è male e impurità, sia in senso imper­

sonale, cioè corruzione dell'aria, infezioni, sia in forma personale, cioè streghe, demoni, mostri, esseri malefici di ogni genere, e lascia sussistere solo ciò che è perfettamente puro. Questa purificazione è necessaria all'inizio di ogni nuovo anno o ciclo stagionale, nel quale si deve entrare nella migliore disposizione pos­

sibile e quindi dopo aver eliminato ogni influenza dannosa. Tale teoria è so­

stenuta da Edward Westermarck e da Eugen Mogk.

Le due teorie postulano due concetti del fuoco completamente diversi: «Per l'una il fuoco, come il sole nella nostra latitudine, è una geniale forza creatrice che sostiene la crescita delle piante e lo sviluppo di tutto ciò che produce salute e felicità; per l'altra è una fiera forza di distruzione e consuma tutti gli elementi nocivi, tanto spirituali che materiali, e minaccia la vita di uomini, animali e piante. Secondo una teoria il fuoco è uno stimolante, secondo l'altra è un disin­

fettante: per un concetto la sua virtù è positiva, per l'altro è negativa» (59).

Ma le due teorie non sono inconciliabili. Il Frazer, infatti, in un primo tempo sostenne una teoria i'ntermedia tra le due, e cioè che originariamente il fuoco acceso nel solstizio d'inverno fosse inteso ad imitare la luce e il calore del sole, e che lt; qualità purificatrici e disinfettanti gli furono attribuite in se­

guito come derivate direttamente dalle qualità purificatrici e disinfettanti della luce solare: «La imitazione del sole in queste cerimonie era primaria e originale, la purificazione attribuita ad esse era secondaria e derivata» {(0). J.n un secondo tempo, però, il Frazer si orientò verso la teoria della purificazione.

Una teoria che si ricollega a quella della purificazione, ma con alcune sfu­

mature diverse è quella che vede nel ceppo un rito di eliminazione. Si è visto cioè nel ceppo che brucia il simbolo dell'anno vecchio che muore: il ceppo cioè, bruciando, elimina tutto ciò che appartiene all'anno vecchio. Scopo dei riti di

(58) ]. G, FRAZER, cit., val. TI, p. 387.

(59) ]. G. FRAZER, cit., val. Il, p. 372.

(60) Idem.

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