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Prestazioni occasionali le nuove regole dopo il DL 50/2017

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Prestazioni occasionali le nuove regole dopo il DL 50/2017

di Massimo Pipino

Pubblicato il 16 ottobre 2017

le nuove prestazioni occasionali: esame di alcune delle situazioni da approfondire tra le quali la definizione di occasionalità, il superamento del limite di 5.000 euro, la disciplina in caso di infortunio sul lavoro, la comunicazione successiva e non preventiva, prestazione a cavallo di due giornate…

Prestazioni occasionali le nuove regole: anche se è passato poco più di qualche mese dall’approvazione definitiva dell’articolo 54-bis della Legge n.

96/2017 (titolata “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 24 aprile 2017, n.

50, recante disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo”) può essere opportuno sviluppare qualche riflessione in merito alle norme che sono in esso contenute relativamente alle prestazioni lavorative rese con carattere di occasionalità.

Il lavoro di esame delle disposizioni normative in parola può ragionevolmente avere inizio a partire da una accurata esegesi della Circolare n. 107 dell’INPS del 5 luglio u.s. (il cui titolo è

“Lavoro occasionale. Articolo 54 bis del decreto legge 24 aprile 2017, n. 50, introdotto dalla Legge di conversione 21 Giugno 2017, n. 96. Libretto Famiglia e Contratto di Prestazione Occasionale”) e con lo studio del successivo messaggio INPS n. 2887 del 12 luglio, oltre all’esame della Risoluzione n. 81/E dell’Agenzia delle Entrate datata 3 luglio u.s. con cui sono stati definiti i codici relativi alle causali dei versamenti da impiegare utilizzando il Modello F24, interventi che rappresentano gli unici chiarimenti amministrativi destinati a tutti coloro che intendono avvalersi delle stesse: la medesima piattaforma informatica, operativa dal 10 luglio è ancora work in progress.

Fatta questa breve doverosa premessa, si ritiene possa essere opportuno provvedere all’esame di alcune questioni che hanno suscitato perplessità tra i commentatori, seguendo attentamente il percorso suggerito dai vari commi del testo legislativo.

Che cosa si deve intendere per prestazioni occasionali

Il primo problema che si presenta nel lavoro di interpretazione dell’articolo 54-bis della Legge n.

96/2017 è rappresentato dal disposto del comma 1 che sembrava aver finalmente risolto la

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questione relativa alle corrette modalità di identificazione dei contratti di lavoro occasionale, ancorandole a due distinti parametri l’uno di natura temporale e l’altro di natura economica:

“1. Entro i limiti e con le modalità di cui al presente articolo è ammessa la possibilità di acquisire prestazioni di lavoro occasionali, intendendosi per tali le attività lavorative che danno luogo, nel corso di un anno civile:

a) per ciascun prestatore, con riferimento alla totalità degli utilizzatori, a compensi di importo complessivamente non superiore a 5.000 euro;

b) per ciascun utilizzatore, con riferimento alla totalità dei prestatori, a compensi di importo complessivamente non superiore a 5.000 euro;

c) per le prestazioni complessivamente rese da ogni prestatore in favore del medesimo utilizzatore, a compensi di importo non superiore a 2.500 euro”.

Con il primo il legislatore fa riferimento all’anno civile (ovvero a partire dall’1 gennaio sino al 31 del mese di dicembre) ed ha il pregio di non aver riproposto, come in passato era accaduto per un certo periodo in riferimento ai voucher, la distinzione tra l’anno solare e l’anno civile.

Il secondo, invece, si affida ad alcuni valori economici: 5.000 euro complessivi netti per ogni utilizzatore a prescindere da quello che risulta essere il numero dei prestatori, con la possibilità di sforamento del tetto per un massimo del 25% se a prestare l’attività sono lavoratori cosiddetti “svantaggiati” (così come vengono definiti dall’articolo e dall’articolo 13 del Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276: “qualsiasi persona appartenente a una categoria che abbia difficoltà a entrare, senza assistenza, nel mercato del lavoro ai sensi dell’articolo 2, lettera f) del regolamento (CE) n. 2204/2002”.

Ai sensi dell’articolo 2 del Decreto Legislativo n. 276/2003 sono da considerarsi “lavoratori svantaggiati”:

i giovani con meno di 25 anni o che abbiano completato il ciclo formativo da più di due anni, ma non abbiano ancora ottenuto il primo impiego retribuito regolarmente; i lavoratori extracomunitari che si spostino all’interno degli Stati membri della Comunità europea alla ricerca di una occupazione; i lavoratori, appartenenti alla minoranza etnica di uno Stato membro, che debbano migliorare le loro conoscenze linguistiche, la loro formazione professionale o la loro esperienza lavorativa per incrementare la possibilità di ottenere una occupazione stabile; i lavoratori che desiderino intraprendere o riprendere una attività lavorativa e che non abbiano lavorato per almeno due anni, in particolare quei soggetti che abbiano dovuto abbandonare l’attività lavorativa per difficoltà nel conciliare la vita lavorativa e la vita familiare; i lavoratori adulti che vivano soli con uno o più figli a carico; i lavoratori che siano privi di un titolo di studio, di livello secondario o equivalente, o che abbiano compiuto 50 anni e siano privi di un posto di lavoro o in procinto di perderlo; i lavoratori riconosciuti affetti, al momento o in passato, da una dipendenza ai sensi della legislazione nazionale; i lavoratori che, dopo essere stati sottoposti a una pena detentiva, non abbiano ancora ottenuto il primo impiego retribuito regolarmente: le lavoratrici residenti in una area geografica del livello NUTS II, nella quale il tasso medio di disoccupazione superi il 100% della media comunitaria da almeno due anni civili e nella quale la disoccupazione femminile abbia superato il 150% del tasso di disoccupazione maschile dell’area considerata per almeno due dei tre anni civili precedenti; i

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disoccupati di lunga durata senza lavoro per 12 dei 16 mesi precedenti o per 6 degli 8 mesi precedenti nel caso di persone di meno di 25 anni d’età; gli invalidi fisici, psichici e sensoriali; gli ex degenti di istituti psichiatrici; i soggetti in trattamento psichiatrico; i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare; i condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione previste dagli articoli 47, 47-bis, 47-ter e 48 della Legge 26 luglio 1975, n. 354, come modificati dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663.

Per ognuno dei prestatori presso ogni utilizzatore il tetto viene fissato a 2.500 euro netti per ogni prestatore, con un tetto massimo di 5.000 euro sempre netti nel caso in cui il lavoro venga svolto presso più utilizzatori.

Senonché il comma 13 (“Il contratto di prestazione occasionale è il contratto mediante il quale un utilizzatore, di cui ai commi 6, lettera b), e 7, acquisisce, con modalità semplificate, prestazioni di lavoro occasionali o saltuarie di ridotta entità, entro i limiti di importo di cui al comma 1, alle condizioni e con le modalità di cui ai commi 14 e seguenti”), riferendosi a

“Presto” (che è il contratto accessibile agli utilizzatori che non sono qualificabili come “Famiglia”) parla di prestazioni a carattere occasionale o saltuario di ridotta entità: ciò porta a rendere più complessa e difficilmente qualificabile la definizione, soprattutto nella logica di un possibile contenzioso amministrativo o giudiziale.

Secondo quello che è l’avviso di chi scrive, una soluzione che può essere definita “di buon senso”, per ovviare all’imprecisione della normativa e finalizzata a definire quali siano le caratteristiche di occasionalità o la saltuarietà della prestazione lavorativa può essere reperita, indirettamente, nel comma 3 (secondo cui “Il prestatore ha diritto al riposo giornaliero, alle pause e ai riposi settimanali secondo quanto previsto agli articoli 7, 8 e 9 del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66. Ai fini della tutela della salute e della sicurezza del prestatore, si applica l’articolo 3, comma 8, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81”) in cui il Legislatore afferma che il prestatore ha diritto al riposo giornaliero, alle pause ed al riposo settimanale con la conseguenza che la violazione delle norme richiamate viene punita con le sanzioni previste dall’articolo 18-bis del Decreto Legislativo n. 66/2003 (in realtà, la pausa di almeno 10 minuti dopo 6 ore di lavoro consecutive non è, direttamente, sanzionata).

Da quanto appena esposto deriva che, se la norma prevede la fruizione del riposo settimanale significa, stando al tenore letterale dell’articolo 9 del decreto appena citato, che è possibile, all’interno del numero massimo delle 280 ore annue previste prestare l’attività in maniera anche continuativa, nel rispetto di quelle che sono le pause e del riposo giornaliero (11 ore tra una prestazione e l’altra) per 14 giorni, comprensivi di 2 giorni di riposo di 24 ore consecutive.

Nessun dubbio, poi, in merito al fatto che il prestatore occasionale si inserisca, a pieno titolo, in quella che è l’organizzazione produttiva dell’utilizzatore, non essendosi voluto riprere la formulazione di “accessorio” che qualche dubbio, in passato, aveva causato.

Il richiamo alla normativa sui riposi tipica del lavoro subordinato fa si che la stessa si applichi anche a prestazioni occasionali di natura autonoma (possibili, come nel caso degli insegnanti):

va segnalato che questa è la prima volta che accade nel nostro ordinamento lavoristico.

Esame delle conseguenze dello sforamento del limite dei 5.000 euro

Quali possono essere le conseguenze del superamento del limite massimo di 5.000 euro per

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l’utilizzatore con più prestatori che sono rimasti sotto il tetto massimo loro consentito pari a 2.500 euro (ad esempio, un utilizzatore che raggiunge gli 8.000 euro con 8 lavoratori che, nell’anno civile, percepiscono ciascuno 1.000 euro di compenso)?

Il Legislatore non ha previsto al comma 20 alcuna sanzione (“In caso di superamento, da parte di un utilizzatore diverso da una pubblica amministrazione, del limite di importo di cui al comma 1, lettera c), o comunque del limite di durata della prestazione pari a 280 ore nell’arco dello stesso anno civile, il relativo rapporto si trasforma in un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato; nel settore agricolo, il suddetto limite di durata è pari al rapporto tra il limite di importo di cui al comma 1, lettera c), e la retribuzione oraria individuata ai sensi del comma 16.

In caso di violazione dell’obbligo di comunicazione di cui al comma 17 ovvero di uno dei divieti di cui al comma 14, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma da euro 500 a euro 2.500 per ogni prestazione lavorativa giornaliera per cui risulta accertata la violazione. Non si applica la procedura di diffida di cui all’articolo 13 del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124”): di conseguenza, si può ritenere che tale comportamento, non in regola con il dettato normativo, possa essere bloccato unicamente attraverso l’inserimento di un errore bloccante nella piattaforma informatica (cosa che, peraltro, è possibile).

Un’altra questione che è da chiarire è quella contenuta nel comma 4 (“I compensi percepiti dal prestatore sono esenti da imposizione fiscale, non incidono sul suo stato di disoccupato e sono computabili ai fini della determinazione del reddito necessario per il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno”): i compensi percepiti in riferimento a prestazioni a carattere occasionale sono da ritenere essere esenti da imposizione fiscale e valgono “in positivo”

soltanto per i lavoratori extra comunitari ai fini del reddito che deve essere raggiunto per l’ottenimento od il rinnovo della concessione del permesso di soggiorno. Qui, si pone il problema se tali somme siano cumulabili con quelle ottenute, nel corso del 2017, con i vecchi voucher, previsti dall’articolo 48 del Decreto Legislativo n. 81/2015. Si ritiene che la risposta debba essere negativa in quanto si tratta di due disposizioni che sono contenute in norme diverse e nell’ambito dell’articolo 54-bis non c’è alcun richiamo all’unicità dei compensi ai fini del calcolo dell’IRPEF. Il comma 5 (“Non possono essere acquisite prestazioni di lavoro occasionali da soggetti con i quali l’utilizzatore abbia in corso o abbia cessato da meno di sei mesi un rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione coordinata e continuativa”), si occupa dei divieti di

“occupazione occasionale”: l’utilizzatore non pu ricorrere a prestazioni rese da soggetti con i quali “abbia in corso o abbia cessato da meno di 6 mesi un rapporto di lavoro subordinato o una collaborazione coordinata e continuativa”. La norma, condivisibile o meno, è chiara ed esclude, nel rispetto dei limiti temporali previsti (che non riguardano, peraltro, le imprese collegate o controllate o facenti capo, anche per interposta persona, allo stesso datore), anche i lavoratori intermittenti e quelli con contratto a termine, pur se tale rapporto si è regolarmente risolto alla scadenza.

Cosa succede se il datore utilizza lavoratori per i quali sussiste il divieto?

A mio avviso, essendo la prestazione occasionale vietata e, quindi, essendo non valida la stessa comunicazione inviata alla piattaforma informatica, gli ispettori del lavoro non potranno che ricondurre il tutto a rapporto di lavoro subordinato con tutte le sanzioni correlate (comunicazione telematica ai servizi per l’impiego, lettera di assunzione, LUL…), ivi compresa quella per “lavoro nero”.

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Se ad essere utilizzati sono lavoratori in forza, le prestazioni effettuate non potranno essere ricondotte ad “occasionali”, ma saranno imputate (con la relativa contribuzione) agli istituti legali e contrattuali previsti (ad esempio, lavoro straordinario o lavoro supplementare in caso di rapporto a tempo parziale).

Con il successivo comma 8 (“Sono computati in misura pari al 75 per cento del loro importo, ai fini del comma 1, lettera b), i compensi per prestazioni di lavoro occasionali rese dai seguenti soggetti: a) titolari di pensione di vecchiaia o di invalidità; b) giovani con meno di venticinque anni di età, se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado ovvero a un ciclo di studi presso l’università; c) persone disoccupate, ai sensi dell’articolo 19 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150; d) percettori di prestazioni integrative del salario, di reddito di inclusione (REI) ovvero di altre prestazioni di sostegno del reddito. In tal caso l’INPS provvede a sottrarre dalla contribuzione figurativa relativa alle prestazioni integrative del salario o di sostegno del reddito gli accrediti contributivi derivanti dalle prestazioni occasionali di cui al presente articolo”) il Legislatore provvede a chiarire che per i datori che utilizzano una serie di soggetti, che vengono definiti “svantaggiati”, ai fini del raggiungimento del tetto massimo di 5.000 euro il compenso corrisposto fino a tale limite è da intendersi pari al 75%: ciò significa che, utilizzando tutti lavoratori “svantaggiati”

(pensionati di vecchiaia o di invalidità, studenti “under 25” regolarmente iscritti ad un Istituto scolastico o all’Università, disoccupati disponibili per un’occupazione, percettori di trattamenti integrativi salariali, di reddito di inclusione sociale e di altre forme di sostegno del reddito) il tetto può arrivare a 6.250 euro.

È assolutamente indispensabile che il limite reddituale sia gestito dalla piattaforma informatica in quanto l’utilizzatore può ben ignorare la permanenza del lavoratore in un determinato “status” (studente che ha concluso il ciclo di studi, cassa integrato che è tornato al lavoro, disoccupato che ha trovato una occupazione sia pure a tempo parziale, reddito di inclusione o altre forme di sostegno del reddito che sono cessati). Sarà poi necessario un chiarimento relativamente alla definizione di “pensionato di vecchiaia” per verificare se nella categoria rientrano anche i lavoratori che hanno cessato la propria attività usufruendo, ad esempio, dell’APE sociale. In linea di massima il buon senso propenderebbe per il si, ma il tenore letterale della norma sull’anticipo pensionistico sembra indirizzare verso una risposta contraria in quanto l’APE è una sorta di prestito che deve essere restituito (nella “sociale” gli oneri sono a carico della Finanza pubblica) al raggiungimento della pensione di vecchiaia che si verifica, attualmente, al compimento dei 66 anni e 7 mesi. Con il comma 8, inoltre, il legislatore non dà alcun chiarimento esplicito su di un altro problema che, invece, era stato affrontato con i vecchi voucher, ovvero se esiste un limite alla cumulabilità tra i compensi per prestazioni occasionali e le erogazioni derivanti, ad esempio, da integrazioni salariali.

L’INPS è, forse, tenuta a detrarre dalle integrazioni salariali i compensi erogati per i giorni di lavoro risultanti nella piattaforma informatica? Non essendo stato detto nulla con la circolare n. 107, si dovrebbe ritenere che la soluzione sia soltanto quella che è stata espressamente prevista dal Legislatore: l’Istituto provvede a detrarre dalla contribuzione figurativa relativa alle integrazioni salariali (ma anche a quelle di sostegno del reddito) gli accrediti contributivi che risultano essere derivanti dalle prestazioni occasionali. Per completezza di informazione, è però opportuno ricordare che la circolare INPS n. 115 del 19 luglio 2017, con la quale sono stati forniti chiarimenti in ordine alla fruizione della DIS-COLL, ha

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affermato (punto 2.9 d) che il soggetto che ne usufruisce ha la facoltà di prestare attività attraverso le prestazioni occasionali nei limiti massimi di 5.000 euro nel corso dell’anno civile, che il compenso è cumulabile con l’indennità e che non sussiste alcun obbligo di comunicazione nei confronti dell’Istituto. Con il comma 12 (“Attraverso la piattaforma informatica INPS ovvero avvalendosi dei servizi di contact center messi a disposizione dall’INPS, l’utilizzatore di cui al comma 6, lettera a), entro il giorno 3 del mese successivo allo svolgimento della prestazione, comunica i dati identificativi del prestatore, il compenso pattuito, il luogo di svolgimento e la durata della prestazione, nonché ogni altra informazione necessaria ai fini della gestione del rapporto. Il prestatore riceve contestuale notifica attraverso comunicazione di short message service (SMS) o di posta elettronica”) vengono disciplinate le modalità di comunicazione relativamente alle prestazioni rese in ambito familiare: esse sono “ex post” con un termine legale massimo fissato al giorno 3 del mese successivo a quello nel quale sono avvenute le attività lavorative, al fine di consentire all’INPS di pagare i compensi il giorno 15. Il sistema informatico invia copia della comunicazione al lavoratore interessato via SMS o posta elettronica.

Due questioni che riguardano direttamente il lavoratore e l’eventuale infortunio sul lavoro

La prima delle cennate questioni riguarda la comunicazione successiva e non preventiva come avviene per le altre utilizzazioni della posizione del prestatore. Tale adempimento è alquanto debole, poiché, se la persona fisica che rappresenta la famiglia non fa la comunicazione o la fa in misura “ridotta” (rispetto alle ore che devono essere effettivamente lavorate), non gli resta che ricorrere all’intervento dell’Ispettorato territoriale del Lavoro (con tutti i problemi che sussistono per accertare la veridicità di un lavoro svolto in ambito domestico) e chiedere, attraverso una richiesta di conciliazione, il pagamento del compenso.

Per quel che riguarda, invece, un eventuale infortunio sul lavoro, si attende che l’INAIL emani i necessari chiarimenti, in quanto, nel caso di specie, ci dovrebbe essere l’intervento assicurativo in presenza di un rapporto occasionale non ancora denunciato e per il quale il premio assicurativo viene versato ex post. Con il comma 14 il legislatore (“È vietato il ricorso al contratto di prestazione occasionale: a) da parte degli utilizzatori che hanno alle proprie dipendenze più di cinque lavoratori subordinati a tempo indeterminato; b) da parte delle imprese del settore agricolo, salvo che per le attività lavorative rese dai soggetti di cui al comma 8 purché non iscritti nell’anno precedente negli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli;

c) da parte delle imprese dell’edilizia e di settori affini, delle imprese esercenti l’attività di escavazione o lavorazione di materiale lapideo, delle imprese del settore delle miniere, cave e torbiere; d) nell’ambito dell’esecuzione di appalti di opere o servizi”) si è preoccupato di definire i limiti dimensionali degli utilizzatori e di indicare, chiaramente, i settori ove è vietato il ricorso alle prestazioni occasionali ai quali, a prescindere dal settore, vanno aggiunti gli appalti di opere e servizi.

Questioni da risolvere

Dopo i chiarimenti che sono stati diramati da parte dell’INPS con il messaggio n. 2887 del 12 luglio 2017, sono rientrati nella base di calcolo tutti quei lavoratori con contratto a tempo indeterminato in forza (quelli a tempo parziale sono computati “pro-quota”), gli intermittenti a tempo indeterminato (con il calcolo dei giorni lavorati nel semestre precedente, secondo la

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previsione contenuta nell’articolo 18 del Decreto Legislativo n.81/2015), i lavoranti a domicilio ed i dirigenti (ma non quelli, che sono la maggioranza, con contratto a termine), secondo le indicazioni che sono state fornite con la circolare n. 107, mentre non vi rientrano gli apprendisti (la precisazione è avvenuta con il messaggio n. 2887) e, anche se la precisazione è minimale, gli assunti provenienti dai lavori socialmente utili o di pubblica utilità (ai sensi dell’articolo 7 del Decreto Legislativo n. 81/2000).

La norma non prevede quali siano le modalità di computo ma la circolare n. 107, in modo molto opinabile in quanto non “fotografa” la realtà effettiva, afferma che occorre effettuare la media, mese per mese (comprensiva delle soste e dei periodi stagionali), dei lavoratori a tempo indeterminato in forza nei periodo compreso tra l’ottavo ed il terzo mese antecedente l’utilizzazione, valorizzando l’elemento “forza aziendale” nella dichiarazione Uniemens, con arrotondamento mensile per eccesso o per difetto, arrotondamento che, per altro, non riguarda il risultato finale (messaggio n. 2887). Il dato, recita la circolare, in questa fase di avvio deve essere autocertificato dall’utilizzatore, mentre, a regime l’INPS effettuerà un controllo preventivo automatizzato.

Per le imprese di nuovissima costituzione il dato deve essere calcolato in relazione ai mesi di attività. È chiaro che questo è il chiarimento amministrativo dell’Istituto e questo va seguito:

tuttavia deve essere osservato che, per tale modalità di calcolo (diversa, per esempio, da quella in uso per i requisiti dimensionali della CIGS già del vecchio articolo 1, comma 1, della Legge n.

223/1991) il dato ottenuto rischia di non essere rispondente alla realtà in quanto si finisce per far rientrare nell’ambito di applicazione aziende che sarebbero da escludere in forza dei limiti dimensionali raggiunti nel momento in cui si procede con “PrestO”: il discorso appena effettuato vale anche nel caso contrario di imprese che erano sopra i limiti e che, per effetto di dimissioni, sono scesi sotto la soglia dei 5 dipendenti.

I limiti dimensionali riguardano anche il settore agricolo, che dovrebbe ricomprendere anche il settore dell’agriturismo, se “veramente” (dato sempre da verificare) tale attività risulta essere accessoria rispetto a quella, principale, di natura agricola. Non essendo stata prevista alcuna esclusione, nel limite rientrano anche gli impiegati che ricoprono mansioni amministrative nell’ambito dell’azienda agricola e non soltanto i veri e propri operai agricoli a tempo indeterminato. A differenza della vecchia normativa sui voucher è “scomparso” ogni riferimento ai 7.000 euro di reddito aziendale ed alle attività di carattere stagionale: elemento da cui discende la constatazione secondo cui i “soggetti svantaggiati” possono essere utilizzati in attività che non hanno tale caratteristica come, ad esempio, quella di “stalla”.

Il comma 17 (“L’utilizzatore di cui al comma 6, lettera b), è tenuto a trasmettere almeno un’ora prima dell’inizio della prestazione, attraverso la piattaforma informatica INPS ovvero avvalendosi dei servizi di contact center messi a disposizione dall’INPS, una dichiarazione contenente, tra l’altro, le seguenti informazioni: a) i dati anagrafici e identificativi del prestatore;

b) il luogo di svolgimento della prestazione; c) l’oggetto della prestazione; d) la data e l’ora di inizio e di termine della prestazione ovvero, se imprenditore agricolo, la durata della prestazione con riferimento a un arco temporale non superiore a tre giorni; e) il compenso pattuito per la prestazione, in misura non inferiore a 36 euro, per prestazioni di durata non superiore a quattro ore continuative nell’arco della giornata, fatto salvo quanto stabilito per il settore agricolo ai sensi del comma 16. Il prestatore riceve contestuale notifica della dichiarazione attraverso comunicazione di short message service (SMS) o di posta elettronica”) approfondisce la

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trattazione dell’argomento legato ai contenuti della comunicazione che deve essere inviata alla piattaforma informatica almeno 60 minuti prima dell’inizio della prestazione: al punto e) si afferma che il compenso pattuito deve essere in misura non inferiore a 36 euro per prestazioni per prestazioni di durata non superiore a 4 ore continuative nell’arco della giornata: gli stessi chiarimenti intervenuti con l’INPS confermano la prima lettura secondo la quale ogni prestazione deve assicurare almeno 36 euro, oltre alla contribuzione correlata, pur se la stessa dovesse essere inferiore alle 4 ore. Non è possibile “coprire” il compenso attraverso una prestazione

“spezzata” (ad esempio, 2 ore al mattino e 2 ore al pomeriggio).

Altro problema: cosa succede se una prestazione continuativa si svolge “a cavallo” di 2 giornate (ad esempio, cosa possibile nei pubblici esercizi nel fine settimana, dalle 22 alle ore 2 del giorno successivo)?

Stando a quello che parrebbe essere il tenore letterale della norma, che parla di “4 ore continuative nell’arco della giornata”, si dovrebbero fare 2 comunicazioni di 4 ore per ciascun giorno (con un compenso di 72 euro complessivi oltre alla contribuzione) ma, seguendo tale interpretazione si andrebbe ad urtare con i principi del buon senso. Con il comma 20 (“In caso di superamento, da parte di un utilizzatore diverso da una pubblica amministrazione, del limite di importo di cui al comma 1, lettera c), o comunque del limite di durata della prestazione pari a 280 ore nell’arco dello stesso anno civile, il relativo rapporto si trasforma in un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato; nel settore agricolo, il suddetto limite di durata è pari al rapporto tra il limite di importo di cui al comma 1, lettera c), e la retribuzione oraria individuata ai sensi del comma 16. In caso di violazione dell’obbligo di comunicazione di cui al comma 17 ovvero di uno dei divieti di cui al comma 14, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma da euro 500 a euro 2.500 per ogni prestazione lavorativa giornaliera per cui risulta accertata la violazione. Non si applica la procedura di diffida di cui all’articolo 13 del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124”) si approccia la trattazione dell’apparato sanzionatorio ove essendo data come imminente l’emanazione di una circolare da parte dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, non si ritiene opportuno effettuare alcuna riflessione, per quel che concerne il raccordo tra la c.d. “maxi-sanzione per lavoro nero” e la sanzione specifica relativa alla mancata comunicazione alla piattaforma informatica. Il Legislatore afferma che, in caso di superamento del limite di 2.500 euro presso lo stesso utilizzatore o (quindi, valutato in alternativa) al superamento delle 280 ore annue (esse sono state calcolate su un compenso di 9 euro netti) il rapporto si trasforma a tempo indeterminato: nel settore agricolo che presenta valori diversi a seconda dell’area di retribuzione (9,65, 8,80 e 6,56 euro, determinati dal messaggio n. 2887), il limite di durata viene stabilito dal rapporto tra 2.500 euro e la retribuzione di area (esso è, rispettivamente, di 259, 284 e 381 ore).

La norma ha, correttamente, posto in evidenza la peculiarità del settore agricolo ma si è tralasciato di trattare il caso del lavoro domestico ove il compenso netto è di 8 euro ed ove il tetto delle 280 ore (non rideterminato) si raggiunge con 2.240 euro: nel caso in cui la disposizione dovesse rimanere così come attualmente è (nel senso se non ci saranno auspicabili interventi normativi) il datore di lavoro domestico che dovesse tenere presente, in perfetta buona fede, il limite dei 2.500 rischierebbe di vedersi trasformato il rapporto in contratto a tempo pieno ed indeterminato. Tutto questo appare un paradosso in un settore, quello domestico, ove la normalità è rappresentata dal lavoro svolto “ad ore” e dove il recesso è “ad nutum”, cosa possibile, secondo la Cassazione, pure in presenza di uno stato di gravidanza

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(Suprema Corte di Cassazione, sentenza n. 17433/2015), pur se, per chi lo applica, l’articolo 24, comma 3, del CCNL per i lavoratori domestici lo vieti, fatta salva la giusta causa, nel periodo della gravidanza e fino al termine dell’astensione obbligatoria.

La trasformazione a tempo pieno ed indeterminato riguarda, quindi, tutti gli utilizzatori ad eccezione della Pubblica Amministrazione ove alla trasformazione di autorità del rapporto a tempo pieno ed indeterminato osta la previsione dell’articolo 97 della Costituzione. Ovviamente, nei confronti del dirigente responsabile scatta la responsabilità di natura erariale (se sussiste un danno economico) e disciplinare.

Un’ulteriore considerazione sulla “condanna” alla trasformazione in capo agli utilizzatori: sotto l’aspetto comparativo la sanzione appare più pesante di quella irrogabile a chi ha in forza

“lavoratori in nero”. In quest’ultimo caso, ferme restando tutte le sanzioni previste, si è ammessi alla diffida (con pagamento della maxi-sanzione nella misura minima) se il datore di lavoro assicura agli stessi almeno un contratto a tempo determinato di 3 mesi.

Sempre restando all’esame dell’apparato sanzionatorio e fermo restando ciò che in tale ambito indicherà la circolare dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, si può, senza dubbio, affermare che nel caso in cui un utilizzatore abbia effettuato la revoca della comunicazione della prestazione che gli organi di vigilanza hanno accertato essere avvenuta, si avrà l’applicazione della maxi- sanzione e non di quella prevista al comma 20. La sanzione compresa tra 500 e 2.500 euro scatta allorquando il datore di lavoro non ha ottemperato o ha ottemperato in ritardo (il termine è 60 minuti prima dell’inizio della prestazione) alla comunicazione, con tutti gli elementi richiesti, alla piattaforma informatica: la stessa sanzione è applicabile nel caso in cui non si provveda ad ottemperare a quelli che sono i divieti che vengono individuati dal comma 14 (utilizzazione di prestatori da parte di un datore di lavoro con un organico superiore ai 5 dipendenti a tempo indeterminato, utilizzazione in agricoltura di soggetti “non svantaggiati” o, se “svantaggiati” iscritti negli elenchi anagrafici dell’anno precedente, o in settori non consentiti, ben identificati dalla circolare n. 107 in base ai relativi codici come l’edilizia e settori affini, i lapidei, le cave, le torbiere, e negli appalti di opere e servizi). La sanzione, riferita ad ogni violazione accertata, non è diffidabile: ciò significa che, in caso di pagamento in misura ridotta, entro 60 giorni dalla ricezione del verbale di accertamento, l’importo ammonterà a 833,33 euro.

16 ottobre 2017 Massimo Pipino

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Riferimenti

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