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CHE COS È DAVVERO LA MARCIA DELLA LIBERAZIONE?

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Academic year: 2022

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CHE COS’ È DAVVERO LA MARCIA DELLA LIBERAZIONE?

In diverse parti d’Europa, dopo Berlino, Londra, si susseguono le manifestazioni di protesta contro le misure duramente restrittive cosiddette anti-Covid. A Marsiglia la muncipalità si schiera coi manifestanti, mentre a Madrid la polizia ha brutalmente disperso la manifestazione contro la decisione del governo cittadino di mettere in quarantena tutte le periferie popolari. Degno di nota che la protesta di Madrid sia stata organizzata dalla gioventù rivoluzionaria che ha urlato slogan contro i “provvedimenti fascisti”.

Questa redazione è solidale con queste lotte.

In questa situazione, mentre cresce la campagna di terrorismo sanitario, si svolgerà a Roma il 10 ottobre (ore14:00 P.zza San Giovanni) la Marcia della Liberazione. Posta la contestazione dello stato d’emergenza permanente, il Comitato promotore vuole tuttavia una mobilitazione che ponga al centro

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“il Lavoro, il Reddito, la Sovranità e la Democrazia”. Già da queste quattro parole d’ordine si capisce che non sarà una manifestazione “no mask”.

Anzitutto quindi i diritti sociali, la fine del neoliberismo e lo sganciamento dall’Unione europea. E’ in questo quadro che sono importanti la difesa delle libertà individuali, del

costituzionale diritto alla libertà di scelta terapeutica, il rifiuto dei trattamenti sanitari obbligatori, la contestazione del regime di censura dell’informazione.

Allo scopo di fare chiarezza e di prendere le distanze dai cosiddetti “Gilet Arancioni” di Pappalardo e dalla manifestazione romana del 5 settembre a Piazza Bocca della verità (manipolata brutalmente da Forza Nuova), il Comitato Promotore della Marcia della Liberazione ha diffuso il seguente comunicato:

UNITA’ PER COSA? CON CHI?

Il 10 ottobre, data della giornata della Marcia della Liberazione, si avvicina.

L’iniziativa è nata dalla comune volontà di cittadini,

lavoratori, categorie professionali e organizzazioni politiche patriottiche, di far confluire in un unico fiume i tanti

rivoli della protesta sociale. Solo un risveglio consapevole e determinato della maggioranza del popolo può evitare la

catastrofe del nostro Paese, prigioniero non solo della gabbia d’acciaio dell’Unione europea ma pure di uno Stato d’emergenza che continua a perdurare e a paralizzare il tessuto economico, psicologico e sociale.

Nessuno come noi ha lavorato in questi mesi per favorire la più ampia unità popolare contro le classi dirigenti

neoliberiste. Vogliamo sì l’unità ma l’unità per noi non è un’ammucchiata senza né capo né coda.

Non abbiamo nulla a che fare con chi disconosce lo spirito e i valori della Costituzione, tra cui i principi sacri della

sovranità popolare, della democrazia, dell’uguaglianza, della

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dignità e della giustizia sociale, della fratellanza e cooperazione tra i popoli.

Non vogliamo quindi confonderci con forze antidemocratiche che vorrebbero sostituire l’attuale dittatura neoliberista con un’altra, e neanche con picareschi arruffapopolo dalla oscure finalità. No, non lo faremo.

La Marcia della Liberazione ha una piattaforma, ha degli

obbiettivi, essa è aperta a chiunque li condivida con spirito sincero, quale che sia la sua appartenenza politica, partitica o associativa.

Vi aspettiamo dunque il 10 ottobre a Piazza san Giovanni a Roma.

Facciamo tutti assieme un altro passo verso l’attuazione della Costituzione e verso la liberazione.

Il Comitato organizzatore della Marcia della Liberazione 23 settembre 2020

Fonte: www.marciadellaliberazione.it

PERCHE’ IL PD NON HA PERSO di

Leonardo Mazzei

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«Il voto dà respiro al governo», questo il titolone del Corriere della Sera di ieri. Una sintesi ineccepibile dell’ennesimo paradosso italiano. Le forze di governo tracollano in voti rispetto alle precedenti elezioni regionali, ma siccome l’attesa era per una disfatta ancor più grande, il generale arretramento diventa una vittoria.

In realtà questo paradosso ne contiene altri due. Il primo è che, salvo la Liguria, i due principali alleati di governo erano invece avversari nelle regioni. Il secondo è che l’illusione ottica del grande successo governativo è esattamente il frutto della stupidità degli avversari, quelli che prevedevano la famosa “spallata”, il “cappotto” del sei a zero ed altre amenità.

Simbolo di questa inarrestabile avanzata delle truppe salvinian-meloniane avrebbe dovuto essere la Toscana. Chi scrive aveva segnalato per tempo quanto fosse improbabile un simile scenario. (Tra parentesi: le quattro previsioni finali lì avanzate si sono realizzate al gran completo, peccato che

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la Snai non quoti certe cose…).

Alcuni dati

Non intendiamo qui perderci nei mille dati da decifrare di ogni elezione, ma qualche numero può essere utile. In termini di regioni “conquistate”, al posto del sei a zero salviniano c’è stato un tre a tre che in realtà non era difficile prevedere. Della Toscana si è detto, ma scontato (e alla grande) era il risultato in Campania, mentre più incerto appariva quello in Puglia. Ma se si comprendono le nobili ragioni del successo di De Luca e delle sue 15 (quindici) liste campane (nulla a che fare col clientelismo, ci mancherebbe!), non sarà difficile capire quelle del De Luca light pugliese, al secolo Michele Emiliano, anche lui accompagnato da 15 liste. Una pittoresca carrellata di simboli cui conviene dare uno sguardo, giusto per rendersi conto dov’è finita la politica italiana. Tra questi simboli ne segnaliamo alla rinfusa alcuni: I Liberali, Dc Puglia, Sud Indipendente, Partito del Sud, Partito Pensiero e Azione, Pensionati e invalidi giovani insieme, Partito animalista, Sinistra Alternativa. Che dire, viva il Carnevale!

Se il 3 a 3 è la sintesi di quanto avvenuto, vediamo invece i risultati dei due maggiori partiti di governo. Data la peculiarità di ogni elezione (in specie quelle nelle regioni) il raffronto deve essere fatto in primo luogo con le regionali precedenti, quelle del 2015. Lo so, cinque anni sono tanti, ma se facessimo il confronto con le ultime elezioni generali (le europee del 2019) il dato sarebbe meno impietoso per il Pd, ma ben più disastroso per M5S. Dunque il senso generale per le forze di governo, prese nel loro insieme, non cambierebbe.

Vediamo adesso i numeri. Rispetto al 2015 il Pd ha perso il 2,6% sia in Puglia che in Campania (e fin qui ci può stare), il 4,2% in Veneto ed il 5,7% in Liguria (e qui comincia a farsi seria), il 10% nelle Marche e addirittura l’11,2% in Toscana. Certo, queste variazioni risentono pure delle diverse

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alleanze di volta in volta realizzate. Ad esempio, in Toscana il candidato presidente Giani ha ottenuto grosso modo gli stessi voti del suo predecessore Rossi cinque anni fa, dato che i consensi persi dal Pd sono stati recuperati dalle liste alleate. Va notato però come il calo del partito di Zingaretti sia generalizzato. Il che qualcosa vorrà dire. Ovviamente nel 2015 eravamo ancora in piena era renziana, anche se già quel voto fece intravedere un discreto appannamento dell’iniziale boom del Bomba fiorentino. Tradotto sul piano nazionale, il dato piddino di domenica scorsa ci parla di un risultato in linea con i recenti sondaggi. Un partito appena un po’ sopra il 20%, il cui “successo” brilla più che altro per le defaillance degli altri. Zingaretti può dunque tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo, ma cantare vittoria è davvero un po’ troppo.

Passiamo ora ai Cinque Stelle, per i quali – viste le sistematiche debacle nel voto locale – il raffronto con il 2015 è ancor più obbligato. Per i pentastellati il tracollo è stato talmente omogeneo da non lasciare adito a dubbi (non che ce ne fossero…) sul loro disastroso trend. Un sostanziale dimezzamento dei voti che non ha bisogno di particolari commenti. Queste comunque le percentuali del loro calo:

Campania -7,1%, Puglia -7,3%, Toscana -8,0%, Veneto -9,2%, Marche -10,3%, Liguria -14,5%.

Fin qui i dati. Ma se i numeri ci dicono molto, politicamente non sempre ci chiariscono tutto. Arriviamo così all’arcano del paradosso segnalato all’inizio. Al motivo per cui il Pd viene considerato il vincitore delle elezioni, ma soprattutto alle ragioni della mancata sconfitta di questo partito-sistema.

Perché il Pd canta vittoria

Quando temi una rovinosa sconfitta, il pareggio può sembrare una decisiva vittoria. Questa metafora calcistica non è priva di senso. Del resto, passando dal campo di calcio a quello di battaglia, se fermi l’offensiva avversaria avrai posto le

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condizioni della possibile controffensiva. Nel concreto dell’odierna politica italiana le cose sono certamente più complesse. Non basterà lo scampato pericolo delle urne per evitare di rompersi le ossa nella gestione di una crisi rovinosa e senza precedenti. Tuttavia, in una politica che naviga a vista, per il Pd le cose sono messe assai meglio oggi che una settimana fa.

Palesemente il governo si è messo al riparo di ogni pericolo, la destra avrà da leccarsi le ferite e da regolare qualche conto interno (presumibilmente anche dentro alla Lega) ed i Cinque Stelle saranno alleati ancor più servili di prima. In quanto a Leu ed alla immaginifica “Italia Viva” di Renzi, il

“non pervenuto” delle urne non potrà che semplificare ulteriormente la gerarchia interna della maggioranza governativa.

Vi sembra poco? Visto quel che attende il Paese, il risultato di domenica potrebbe rivelarsi per Zingaretti la classica vittoria di Pirro. Ma intanto a Piddinia han preso tempo. Il che, nella situazione data, poco non è.

Perché è andata così

Chi scrive non è stato affatto sorpreso dal voto di domenica.

Neppure da quello referendario, dato che non si cancella un potentissimo sentimento antiparlamentare, contraddittoriamente radicatosi nel Paese da almeno trent’anni, con una campagna elettorale breve ed asfittica, per giunta sul tema più facile per gli illusionisti della “lotta alla casta”. Avevo previsto un 70-30 e così è stato.

Quel che invece mi ha stupito, e non poco, è stata semmai l’elevata partecipazione al voto. Elevata, s’intende, non in generale ma in confronto alla tendenza degli ultimi vent’anni.

Un dato, questo, da salutare positivamente.

Nessuna sorpresa nemmeno per l’esito delle regionali. Oltre a quanto già scritto sulla forza del potere e delle clientele –

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in certi casi (fortunatamente non sempre) è proprio vero che il potere logora… chi non ce l’ha – bisogna qui capire gli altri due fondamentali punti di forza che hanno salvato il Pd ed il governo Conte.

A mio modesto avviso, questi decisivi elementi corrispondono alla forza di due narrazioni dominanti: quella sull’Europa e quella sull’epidemia. Narrazioni la cui forza dipende dal semplice fatto che, tra coloro che hanno accesso ai media, nessuno le contesta.

La prima narrazione ci parla di un’Europa che – anche grazie al governo italiano, pensate un po’! – sarebbe diventata buona, non più promotrice di tagli ed austerità, bensì portatrice di doni. Noi sappiamo bene come tutto ciò sia falso, come il Recovery Fund altro non sia che un super-Mes mascherato. E sappiamo come quei fondi saranno soprattutto nuovi debiti da ripagare ad un’oligarchia eurista che, proprio in virtù di cotanta generosità, ci stringerà ancor meglio il cappio al collo.

Sì, noi lo sappiamo. E come noi lo sanno ormai milioni di cittadini. Che sono però una minoranza, anche perché chi potrebbe farlo con ben altri mezzi non contesta affatto la favola diffusa a reti unificate dai media. L’hanno forse contestata i candidati della Lega o di Fratelli d’Italia nella campagna elettorale delle settimane scorse? Assolutamente no.

E, già che ci siamo, qualcuno saprebbe dirmi un argomento forte contro il Pd usato da costoro? Io, in mezzo a tanto chiacchericcio su ciò che non conta, di argomenti forti non ne ho sentiti. Del resto, i formidabili governatori della Lega nordista non solo vogliono i soldi del Recovery Fund (dunque del super-Mes), ma pure quelli del Mes ufficiale… Poi ti chiedi del perché il Pd non ha perso.

L’altra narrazione che ha dato i suoi frutti è quella sull’epidemia. Il governo Conte – certo non unico al mondo, questo va riconosciuto – ha fatto dell’emergenzialismo la

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carta vincente per restare in sella. Come strumento di governo la paura funziona alla perfezione. Andiamo verso un milione e mezzo di disoccupati in più? Che volete che sia rispetto al terribile virus!

Con un tasso di letalità ormai pari a quello di una normale influenza, oggi il Covid 19, anche secondo i (discutibili) d a t i u f f i c i a l i , p r o v o c a 1 0 / 1 5 v i t t i m e a l g i o r n o . Sfortunatamente in Italia, ogni 24 ore, muoiono (dati Iss) 140 persone per infezioni ospedaliere. Ma pur essendo dieci volte di più questi ultimi non contano, mica fanno arricchire gli amici Mark Zuckerberg e Jeff Bezos! Mica sono utili a prorogare lo stato d’emergenza all’infinito!

Poche sere fa mi è capitato – cosa in realtà rarissima – di vedere un telegiornale (il Tg1). Inopinatamente, ad un certo punto è arrivata la domanda che non ti aspetti: e se avessero avuto ragione gli svedesi ad evitare ogni forma di confinamento? La risposta contenuta nel servizio da Stoccolma è stata interessante assai: la curva del contagio oggi darebbe effettivamente ragione al governo svedese, ma è troppo presto per arrivare a conclusioni definitive. Così ha detto l’inviato.

Troppo presto? Ma non sono stati proprio i media mainstream, nella scorsa primavera, a crocifiggere gli svedesi come popolo di delinquenti dediti al soddisfatto sterminio dei propri simili, specie se anziani e malati? Fra l’altro, provenendo dal mondo di Piddinia City, questa accusa è politicamente piuttosto bizzarra, dato che a Stoccolma non governano i criminali “populisti”, bensì una coalizione di centrosinistra composta da socialdemocratici e verdi.

Cito il caso svedese, perché esso ci mostra come la strada del lockdown duro (all’italiana) non fosse per niente obbligata.

Così come non sarebbero oggi obbligate le scelte demenziali sulla scuola, sullo smart working, sulla chiusura degli uffici, sul distanziamento asociale in genere. Ma anche in

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questo caso, come sull’Europa, chi avrebbe la possibilità di farlo con una certa efficacia si guarda bene dal contestare il racconto ufficiale, quello secondo cui il governo italiano è stato (ed è) il più bravo al mondo nel contrastare l’epidemia.

Tesi piuttosto ardita in un Paese che è al sesto posto per numero di vittime, pur essendo solo al ventesimo come numero di casi. Ma tant’è.

Ora, data la potenza di fuoco del terrorismo virale, alcuni nostri amici ritengono che contestare questa narrazione sia se non sbagliato, comunque inutile. Penso che a sbagliare – e alla grande – siano invece loro. Visto che il fattore P (paura) è un così buon alleato per il governo e per gli interessi dei potenti, perché costoro dovrebbero rinunciarci a cuor leggero? Crediamo forse alla loro buona fede? Suvvia, non scherziamo.

Conclusione

Giunti a questo punto la conclusione è semplice assai. Se si capisce il motivo per cui il Pd non ha perso, non sarà difficile comprendere quali siano le armi da usare contro il governo dei servi di Bruxelles e Berlino.

A l t e m p o s t e s s o , s e s i c o m p r e n d e l a s o s t a n z i a l e intercambiabilità politica tra i due poli di centrodestra e di centrosinistra che tendono a ricostituirsi – con M5S sempre più interno a quest’ultimo – non sarà difficile capire l’assoluta urgenza della costruzione di un Terzo Polo, che per e s s e r e c r e d i b i l e n o n p o t r à c h e p r o p o r s i c o m e p o l o dell’Italexit.

E’ in questo quadro che le due narrazioni su Europa ed epidemia vanno contestate e, se possibile, vinte. Chi scrive è convinto che esse verranno comunque smentite dai fatti, ma i fatti richiedono tempo e noi troppo tempo per salvare il Paese dalla catastrofe non lo abbiamo.

La lotta sarà dura, ma non impossibile. La Marcia della

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Liberazione del 10 ottobre ci darà delle prime, preziosissime, indicazioni. Tutti a Roma quel giorno, per battere un colpo prima che sia troppo tardi. Per batterlo sapendo che sarà solo il primo.

DAVVERO SIAMO MESSI MALE? di Piemme

Nel nostro mondo la vittoria del SÌ ha gettato nello sconforto diversi amici e compagni.

Avevano creduto che la rimonta del NO avrebbe potuto addirittura sfociare in una vittoria.

Lo sconforto è comprensibile, ma non è giustificato.

Il NO ha ottenuto un rotondo 30% — vi sembra poco? Non è affatto poco anche visto il contesto di panico pandemico e di

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terrorismo biopolitico.

La contestazione dell’ordine di cose presente, pur in una forma che in altri tempi avremmo definito “qualunquistica”, attraversa anche il campo del SÌ.

Del resto è simmetricamente vero il contrario: anche nel campo del NO c’è una zona grigia di voto conservatore, liberista ed eurista.

In assenza di un forte polo antagonista, patriottico e democratico, la battaglia referendaria è stata infatti monopolizzata dalle due cosche sistemiche di centro-destra e centro-sinistra.

Per questo (anche se suonerà retorico), affermo che invece di lasciarsi prendere dallo scoramento c’è da intensificare l’attività per dare vita al “terzo polo”, alternativo ai rinascenti centro-sinistra e centro-destra.

Ora più che mai, dopo il suicidio dei 5 stelle. Scomparso il M5s, il campo dell’opposizione sociale e politica non è scomparso, è solo sguarnito, privo di adeguata rappresentanza.

Si tratta di un campo ampio, che la crisi sistemica tenderà anzi ad allargare.

Se siamo dunque messi male non è perché non abbiamo spazio politico.

Siamo messi male perché non siamo ancora riusciti a costruire né un fronte unito delle forze antagoniste e patriottiche, né un partito forte e strutturato.

Le due cose sono connesse e interdipendenti.

Solo un potente partito può essere il soggetto capace di aggregare un fronte ampio, ma un simile partito non sorgerà se i suoi nuclei fondanti non agiranno come elementi di agglutinazione politica e di saldatura tra i diversi settori sociali duramente colpiti dalla crisi sistemica.

Due e solo due, a me pare, sono i fattori che, rebus sic stantibus, possono determinare un salto verso il terzo polo ed aprire quindi una fase nuova: la Marcia della Liberazione e il nascente Partito dell’Italexit con Paragone.

Se la Marcia sarà un successo, non solo essa darà coraggio a

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tanti cittadini, richiamanadoli alla lotta, darà una spinta propulsiva al costituendo Partito dell’Italexit.

MARCIA DELLA LIBERAZIONE:

MENO 21

MARCIA DELLA LIBERAZIONE

LAVORO, REDDITO, SOVRANITA’, DEMOCRAZIA

10 ottobre 2020, h. 14:00 Piazza San Giovanni – Roma Intervento di Moreno Pasquinelli – Liberiamo l’Italia www.marciadellaliberazione.it

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Adesioni

Promotori e Comitato organizzatore

per aderire: segreteria@marciadellaliberazione.it

Vogliamo la fine del neoliberismo, un modello economico e di pensiero che sfrutta molti per arricchire pochi.

Vogliamo più Stato e meno mercato e vogliamo che venga, finalmente, applicata la Costituzione del 1948.

Per questo marceremo insieme, per una profonda svolta, contro un governo schiavo dell’Unione europea e della grande finanza.

Il 10 ottobre i mille rivoli sparsi si uniranno per diventare un fiume in piena, inarrestabile!

I. MONETA SOVRANA IN UNO STATO SOVRANO II. LAVORO E REDDITO MINIMO PER TUTTI

III. DIFESA DELLE PMI E DEL TESSUTO PRODUTTIVO NAZIONALE IV. PORRE UN FRENO ALLE MULTINAZIONALI

V. TASSE EQUE CON UN 2020 TAX FREE VI. MORATORIA SUL DEBITO PUBBLICO

VII. LIBERTA’ DI SCELTA TERAPEUTICA, NO ALLA DITTATURA DIGITALE, STOP AL 5G

VIII. NAZIONALIZZAZIONE DELLE BANCHE E DELLE AZIENDE STRATEGICHE

IX. PIU’ INVESTIMENTI PUBBLICI NELLA SANITA’ E NELLA SCUOLA X. FINE ALLO STATO D’EMERGENZA, RIPRISTINO DELLA DEMOCRAZIA E DELLA LIBERTÀ

MARCIA DELLA LIBERAZIONE:

MENO 24

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MARCIA DELLA LIBERAZIONE

LAVORO, REDDITO, SOVRANITA’, DEMOCRAZIA

10 ottobre 2020, h. 14:00 Piazza San Giovanni – Roma

L’ Appello di Daniela Di Marco (Liberiamo l’Italia – Foligno)

www.marciadellaliberazione.it Adesioni

Promotori e Comitato organizzatore

per aderire: segreteria@marciadellaliberazione.it

Vogliamo la fine del neoliberismo, un modello economico e di pensiero che sfrutta molti per arricchire pochi.

Vogliamo più Stato e meno mercato e vogliamo che venga, finalmente, applicata la Costituzione del 1948.

Per questo marceremo insieme, per una profonda svolta, contro un governo schiavo dell’Unione europea e della grande finanza.

Il 10 ottobre i mille rivoli sparsi si uniranno per diventare un fiume in piena, inarrestabile!

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I. MONETA SOVRANA IN UNO STATO SOVRANO II. LAVORO E REDDITO MINIMO PER TUTTI

III. DIFESA DELLE PMI E DEL TESSUTO PRODUTTIVO NAZIONALE IV. PORRE UN FRENO ALLE MULTINAZIONALI

V. TASSE EQUE CON UN 2020 TAX FREE VI. MORATORIA SUL DEBITO PUBBLICO

VII. LIBERTA’ DI SCELTA TERAPEUTICA, NO ALLA DITTATURA DIGITALE, STOP AL 5G

VIII. NAZIONALIZZAZIONE DELLE BANCHE E DELLE AZIENDE STRATEGICHE

IX. PIU’ INVESTIMENTI PUBBLICI NELLA SANITA’ E NELLA SCUOLA X. FINE ALLO STATO D’EMERGENZA, RIPRISTINO DELLA DEMOCRAZIA E DELLA LIBERTÀ

CONTRO L’ATLANTISMO, SENZA SE

E SENZA MA di Moreno

Pasquinelli

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Essendo convinto che occorre un Partito dell’Italexit, ovvero di un partito che faccia dell’uscita dall’Unione europea e dall’euro la sua propria specifica missione, ho sostenuto e sostengo l’avventura lanciata a fine luglio da Gianluigi Paragone.

Era chiaro che si sarebbe trattato di un partito sui generis, composto da militanti provenienti dai più diversi percorsi politici e dai più diversi orientamenti ideologici, uniti tuttavia non solo dal rigetto del neoliberismo globalista, ma dai principi di sovranità nazionale, giustizia sociale e democrazia scolpiti nella Costituzione del ‘48.

Evidente che un simile partito sarebbe stato, per sua natura, proteiforme, poiché, in base alla sua missione, avrebbe potuto e dovuto catturare consensi da tutti i ceti e le classi sociali ostili all’Europa neoliberista.

Era dunque prevedibile che chi avesse messo al primo posto la propria fede ideologica e politica e considerato l’Italexit come una subordinata, non avrebbe aderito a questo partito.

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Che questa impresa abbia potuto prendere slancio con l’ingresso in campo del noto giornalista anti-Ue e senatore Gianluigi Paragone — posto che il terreno era stato arato e concimato da un almeno un decennio, non solo dai gruppi sovranisti e da intellettuali indipendenti, ma pure da M5S e Lega salviniana —, è non solo comprensibile, ma razionale.

Viviamo non solo nella debordiana “società dello spettacolo”, viviamo non solo sotto l’egemonia postmodernista della morte delle “grandi narrazioni”, viviamo sotto la tirannia della comunicazione di massa, viviamo nel tempo politico dei populismi.

Affinché la ragione possa aprirsi una breccia nel fronte nemico, affinché un’idea possa farsi largo, non basta che essa sia giusta, occorre che s’incarni in un simbolo, per la precisione in un uomo-simbolo. Rebus sic stantibus, Paragone è oggi quest’uomo-simbolo.

Non possiamo dunque che ringraziare Paragone per questa sua discesa in campo, con l’auspicio che si concluda, come quella di Farage, in un successo. E ove accadesse, sarebbe un successo di portata storica.

L’uscita dell’Italia dalla Ue non cambierebbe radicalmente solo il corso degli eventi nel nostro Paese, travolgerebbe tutta l’Europa e avrebbe ripercussioni globali. Se si chiede ai singoli militanti la consapevolezza della enorme posta in palio, a maggior ragione ne dev’essere consapevole l’uomo- simbolo a capo dell’impresa.

A lui occorrono grande coraggio, lunga esperienza politica, lucidità, visione, saggezza e sensibilità umana. Qualità che difficilmente possiamo trovare tutte concentrate in un singolo, per quanto talentuoso esso sia. Per questo, al netto del “momento populista”, non può funzionare un grande partito con “l’uomo solo al comando”.

Il partito è in gestazione, sta solo adesso formando i suoi

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gruppi dirigenti, sta cercando di strutturare una catena di comando mettendo le persone giuste al posto giusto. Le difficoltà sono enormi, è inevitabile che si commettano degli errori. Gli errori possono essere di diverse specie, politici o organizzativi, piccoli o grandi. E sono tanto più grandi se a commetterli è proprio il leader.

Quello che compie Paragone quando dice di essere “atlantista”

è un errore politico molto grave.

In un’intervista di qualche giorno fa alla domanda: “Ha rivangato l’amicizia e le simpatie politiche con Farage a livello occidentale. Altre alleanze in Occidente? Magari, non so, un Putin…”, Gianluigi Pragone ha così risposto:

«Certi scenari geopolitici implicano fondamentali chiari e netti. Le mie posizioni sono assolutamente filoamericane. La Russia è un pezzo della cultura europea e non ho paura ad ammetterlo e ad apprezzarlo. Alcune sfaccettature culturali russe, come la letteratura, sono chiaramente più affini a noi italiani di un Kerouac. Però va riconosciuto che gli Stati Uniti d’America, a prescindere dall’orientamento politico del governo di turno abbiano sempre riconosciuto un ruolo, talvolta centrale, all’Italia e alla sua cultura. Non sono mai stato particolarmente affascinato dalle sfide cinesi piuttosto che russe. Sono interlocutori importanti però il posizionamento deve esser chiaro. Insomma, un filo-atlantismo chiaro per rivendicare la centralità dell’Italia nel Mediteranneo, mettendola nel solco di una tradizione che è sempre stata riconosciuta strategicamente dagli USA. Mentre la Cina, ad esempio, vorrebbe utilizzare l’Italia e lo farebbe con un atteggiamento di non reciprocità, gli USA hanno sempre capito e apprezzato il ruolo del Bel Paese, senza metterle il guinzaglio». [sottolineatura nostra]

Sono affermazioni pesanti, per la precisione ideologicamente pesanti, che hanno sollevato da più parti mugugni e sconcerto,

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che stanno allontanando tanti cittadini sbigottiti, sia di sinistra che di destra. Affermazioni prescrittive che danneggiano il Partito dell’Italexit in quanto, invece di distinguerlo, lo accodano a tutto il resto del circolo politico di sinistra e destra.

Qui non si dice che, nella prospettiva dell’Italexit, sarebbe auspicabile che Trump resti alla presidenza degli Stati Uniti.

Passi.

Qui siamo in presenza di una scelta di campo non solo geopolitica ma ideologica. Il cosiddetto atlantismo altro non è che un sottoprodotto dell’americanismo, quell’ideologia tossica per cui gli U.S.A. non solo avrebbero raccolto l’eredità della civiltà europea, ma sarebbero il moderno faro di di una superiore civiltà, destinata quindi alla supremazia mondiale. Una civiltà non solo capitalista, ma liberista e imperialista nella sua stessa essenza.

N o n è a c c e t t a b i l e s o r v o l a r e s u g l i o r r e n d i c r i m i n i imperialistici compiuti dagli Stati Uniti, ad ogni latitudine, a partire dall’attacco nucleare al Giappone. Non è possibile dimenticare i fiumi di sangue versati da interi popoli e nazioni sotto il giogo americano. Né è ammissibile dimenticare quanti e quali sacrifici e supplizi abbiano sostenuto quegli eroici popoli, a partire da quello vietnamita per finire con quello iracheno, nel tentativo di liberarsi dall’occupazione militare a stelle e striscie.

Se non è accettabile dimenticare, men che meno lo è condonare gli inenarrabili crimini a stelle e striscie in virtù di un presunto rispetto che la Casa Bianca avrebbe avuto per l’Italia. Non si possono dire simile storiche bugie.

Dopo la seconda guerra mondiale il nostro Paese, non solo via NATO, ha dovuto accettare una posizione brutalmente subalterna, considerata una provincia suddita dell’impero americano. E ogni volta che l’Italia ha cercato di svincolarsi

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di trovare una sua propria strada, gli è stato impedito, non solo con la pressione politica e diplomatica, ma a suon di crimini di stato, di bombe e attentati sanguinosi. Non è un segreto che la stessa catastrofe venuta con “mani pulite”, ovvero la liquidazione di un’intera classe dirigente colpevole di troppa esuberanza, abbia avuto il lasciapassare di Washington.

Che nella situazione drammatica in cui siamo si debba combattere anzitutto la nuova colonizzazione euro-tedesca, che l’uscita dalla NATO sia oggi una subordinata, questo è giusto.

Della NATO e delle basi americane sparse per il Paese ne parleremo quando almeno saremo usciti dall’Unione europea.

Ma non c’è dubbio che quando avremo conquistato questo primo pezzo di sovranità, non potremo che portarla fino in fondo, liberandoci da ogni altro tipo di sudditanza geopolitica.

Quello che si deve dire è non solo che siamo per un Paese pienamente sovrano, è che siamo per un diverso ordine mondiale policentrico o multipolare, segnato da un equilibrio tra le diverse potenze che rispetti l’autodeterminazione dei popoli.

Ed è ovvio che dentro questo nuovo equilibrio gli USA avranno un posto decisivo, decisivo ma non di predominio. Com’è ovvio che l’Italia nuova non accetterà né nuovi colonialismi né di essere considerata provincia dell’impero, quale esso sia.

Del resto non è forse vero che il Patto di Varsavia e l’Unione sovietica sono scomparsi? Contro chi la NATO punta i suoi micidiali missili? Contro la Russia, che invece dovremmo avere come grande nazione amica. E chi se non la NATO, dopo il 1991, ha provocato la Russia allargando la NATO ed Est circondando la Russia? Chi se non la NATO ha sostenuto la “rivoluzione colorata” e filo-nazista in Ucraina?

Saremmo dei ben strani sovranisti, dei sovranisti straccioni se, oltre a rifiutare l’ideocrazia suprematista americana, non dicessimo che la NATO è un blocco militare che ci danneggia, se non dicessimo che la nostra futura politica estera si

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svolgerà all’insegna della neutralità, della pace e della fratellanza tra i popoli.

Non si tratta solo di mera strategia geopolitica, si tratta di avere dei principi, si tratta di immaginare il mondo che sorgerà dopo questa turbolenta fase di transizione, e quindi la missione storica dell’Italia nuova e del posto centrale che necessariamente dovrà occupare.

Si tratta, in tutta evidenza, di questioni complesse ma imprescindibili, che il Partito dell’Italexit dovrà trovare il modo di affrontare e risolvere, proprio perchè si assegna una missione tanto ambiziosa.

MA GUARDA UN PO’: SONO

DEBITI… di Leonardo Mazzei

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Ma guarda un po’, sono debiti…

Questa la sensazionale scoperta dell’impagabile Federico Fubini, che sulle pagine del Corriere del 7 settembre scopre l’acqua calda sul Super-Mes, pardon NextGenEu.

Alla vigilia della stesura degli autunnali documenti di bilancio – Nota di aggiornamento del DEF e Legge di Bilancio, cui si aggiunge quest’anno la bozza del Recovery Plan per attingere al fondo di cui sopra – il problema del governo sembra quello di come nascondere ciò che tutti sanno: che la cosiddetta “solidarietà europea” è fatta di prestiti, cioè di nuovi e giganteschi debiti per l’Italia.

Una verità che mette in crisi la narrazione dominante, quella che da mesi si sforza di far credere che i soldi europei siano

“aiuti”, mentre si tratta invece di un nuovo e più pesante guinzaglio. Una catena talmente forte da far perdere all’Italia quel poco di sovranità rimasta.

Passata un’estate in cui si sono descritti i fondi predisposti

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dall’Unione Europea quasi come soldi da prendere gratis dal generoso tavolo di Bruxelles, arriva ora la verità autunnale.

Le cose stanno come abbiamo sempre detto – del resto ad un prestito corrisponde sempre un debito – ma quanto scritto da Fubini la dice lunga sui batticuore del governo italiano.

Leggiamo:

«Non sarà necessario per l’Italia presentare entro metà ottobre un piano già compiuto sui 209 miliardi di Next Generation EU, anche perché troppi dettagli restano da precisare a Bruxelles. Il più importante è apparentemente di natura tecnica, ma può avere profonde implicazioni finanziarie e politiche. La parte prevalente di «NextGenEU», il Recovery fund, non sarà infatti in trasferimenti diretti di bilancio ma in prestiti. A tassi quasi zero, rimborsabili in trent’anni e oltre, ma pur sempre prestiti. Per l’Italia questa parte vale circa 125 miliardi di euro nei prossimi anni. Il governo italiano ha dunque rivolto una domanda alla Commissione europea di recente: come vanno trattati sul piano contabile quei prestiti? Se andassero semplicemente aggiunti al calcolo del debito pubblico – uniti ai 28 miliardi del fondo europeo Sure per il lavoro – si arriva a 152 miliardi di oneri in più. È il 9% del prodotto interno lordo, che può diventare 11% nel caso si sommi anche il prestito sanitario del Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Il governo vuole dunque sapere se quelle somme vanno iscritte nella normale contabilità del debito pubblico – facendolo salire molto di più, quando già quest’anno sarà attorno al 160% del Pil – o possono essere trattate a parte».

Capite che cavalli di razza abbiamo a Palazzo Chigi e dintorni? Dopo decenni in cui si è drammatizzato il più piccolo zerovirgola di debito in più, adesso il problema non è più il debito – che in quanto targato Europa si è anzi accettato di far crescere a dismisura – bensì la sua formale

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contabilizzazione.

Ma il debito resta debito comunque lo si contabilizzi. Se la situazione non fosse drammatica ci sarebbe da ridere.

Con l’accordo di luglio, l’oligarchia eurista guidata da Berlino ha lanciato all’Italia (ma anche alla Spagna) la nuova parola d’ordine: indebitatevi, basta che lo facciate con noi!

Ovviamente con tutte le conseguenze del caso. Sapevano che sarebbe arrivato il signorsì, che anzi Conte e soci si sarebbero pure vantati del gran risultato…

Sulla disonestà intellettuale dei governanti italiani, e del giornalistume che li sorregge, possiamo tranquillamente fermarci qui.

Ma c’era un’alternativa a questo disastro? Sì, c’era: il debito non andava aumentato, andava invece monetizzato come hanno fatto tutti gli Stati più importanti.

Piccolo particolare, poiché la Bce mai e poi mai avrebbe accettato la monetizzazione, né l’accetterà in futuro, l’unica strada percorribile era ed è quella della riconquista della sovranità monetaria, dell’uscita dall’euro e dall’Ue, di un’Italexit che prima avverrà e meglio sarà.

NUOVA DIREZIONE: INVERSIONE

AD U di Moreno Pasquinelli

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«E allora ho subito afferrato il manigoldo per il colletto e che cosa è saltato fuori? Che quel dannato non aveva colletto».

Pëtr Dem’janovič Uspenskij. La strana vita di Ivan Osokin

I compagni di Nuova Direzione sono tornati sul luogo del delitto – La questione dell’Italexit – sferrando un secondo e più virulento attacco contro il Partito annunciato da Gianluigi Paragone. Se l’hanno fatto, evidentemente, è perché, essi stessi, hanno ritenuto il primo non troppo convincente.

Ahinoi, il secondo aggrava gli errori del primo.

Dobbiamo, a premessa, rispondere ad alcuni amici che ritengono il dialogo con Nuovo Direzione una perdita di tempo.

Dissentiamo con questo modo di vedere le cose e per due ragioni. La prima è che per noi il confronto teorico, anche quando polemico, è non solo necessario ma indispensabile.

Anzitutto perché una tesi non può pretendere di essere valida e predittiva se non regge alla critica (e ciò riguarda non solo le tesi altrui ma pure le nostre); in secondo luogo

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perché consideriamo Nuova Direzione il reparto migliore di ciò che resta della sinistra rivoluzionaria che fu.

Tornando a Nuova Direzione. Qui vogliamo solo segnalare che il gruppo, nell’ultimo anno, ha compiuto una inversione ad U.

Anzi, una giravolta.

Solo un anno fa, appena caduto il governo giallo-verde, Nuova Direzione diffondeva un comunicato (che dicemmo di condividere pienamente) con un titolo programmatico: “Un terzo polo alternativo al Pd e alla Lega”.

L’articolo così si concludeva:

«Per non morire né piddini né leghisti è necessario lavorare alla costruzione di un terzo polo alternativo al Pd ed alla Lega. Un vero polo del cambiamento. Un polo che avremmo potuto costruire in dialettica con il M5S se non avesse compiuto la scellerata scelta di questi giorni. Un polo che si ponga l’obiettivo di unificare un blocco sociale del cambiamento fondato soprattutto sulla classe numerosissima che oggi non ha una vera e propria rappresentanza, e cioè sui lavoratori. E poi su tutti i cittadini che si ribellano allo stato di cose presente: al declino culturale, civile, sociale, economico, ambientale e democratico. L’Italia non è grande paese sul piano territoriale e demografico, ma lo è sul piano culturale, sociale e, nonostante tutto, anche economico. La sua collocazione nel Mediterraneo è tale da consentirgli di essere ponte fra interessi e culture diverse:

fra est e ovest, fra sud e nord. Ma per essere ponte bisogna reggersi sui propri pilastri: la sovranità costituzionale, l’interesse nazionale e popolare, una struttura economica resa efficiente da un forte e rinnovato intervento pubblico.
Di questa discussione e lavoro Nuova Direzione si farà promotrice interloquendo con chi per il cambiamento ha o aveva optato per i 5S, a chi si è astenuto, a chi è sinceramente in cerca di nuove soluzioni e nuove direzioni

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senza settarismi e dogmatismi».

Sottolineiamo l’ultimo concetto: “nuove soluzioni e nuove direzioni senza settarismi e dogmatismi”.

Questa posizione a noi sembrò, non certo uguale, ma convergente con quella che esprimemmo solo due mesi prima quando per primi parlammo della necessità che nascesse un Partito dell’Italexit. Ne indicammo i cinque punti programmatici distintivi:

«(1) Disdettare i Trattati e gli accordi anti-nazionali da Mastricht in poi; (2) Uscire dalla gabbia della Ue; (3) Riguadagnare la sovranità politica e monetaria; (4) Ripristinare la democrazia; (5) Tornare alla Costituzione del 1948».

Chi abbia letto con attenzione la Piattaforma del nascente Partito Italexit con Paragone, non potrà non notare che esso ha fatto di questi cinque punti le sue fondamenta. Alla domanda: sono essi sufficienti per sostanziare un “terzo polo”

antagonista ai due blocchi sistemici? Chiunque abbia senso di realtà, non può che rispondere che sì, lo sono. Questo partito è anzi l’unico “terzo polo” possibile e auspicabile nel contesto dato.

Salta agli occhi la giravolta compiuta da Nuova Direzione.

Non pensiamo affatto che questa giravolta sia venuta fuori per caso, e nemmeno che essa possa spiegarsi come un cascame dell’aspra contesa interna che ha segnato la vita di Nuova Direzione negli ultimi mesi. La stroncatura del Partito Italexit con Paragone è l’effetto e non la causa, essendo quest’ultima, appunto, il ripensamento, non solo sulla prospettiva del “terzo polo”, bensì su tutta una serie di questioni connesse.

Avremo modo, tempo permettendo, di indicare con precisione

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queste questioni ed i gravi errori, di analisi e di sintesi, contenuti nel secondo comunicato di attacco al Partito Italexit con Paragone. Qui abbiamo voluto limitarci a segnalare questa giravolta.

Possiamo solo anticipare questo, che Nuova Direzione è come se avesse compiuto un doloroso movimento circolare: partiti da una critica durissima ai dogmi della vulgata marxista, mollati gli ormeggi e avviatisi in mare aperto, appena intraviste all’orizzonte le avvisaglie di tempesta, hanno fatto dietrofront, finendo per rigettare l’ancora nella rada che si e r a n o l a s c i a t i a l l e s p a l l e . I n b u o n a s o s t a n z a l a riproposizione dell’idea del piccolo gruppo comunista di propaganda che immagina di poter lavorare sui tempi lunghi della storia (“quando saremo tutti morti”, disse Keynes).

Spaventati dal mare burrascoso hanno scelto insomma la ritirata. Dalla promessa di una nuova direzione, al ritorno a quella vecchia.

Leggiamo, ad un certo punto, nel comunicato di Nuova Direzione:

“È chiaro che costruire dal nulla un movimento politico costa grande fatica e molto lavoro”.

Potrebbe apparire, quello di considerarsi capaci di far sorgere l’Essere dal Nulla, un atto di presunzione —Ex nihilo nihil fit, dal nulla non può venire nulla —, invece qui trapela il senso di disperazione di chi da per certa la propria sconfitta.

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[1] NUOVA DIREZIONE? (prima parte) di Moreno Pasquinelli [2] NUOVA DIREZIONE? (seconda parte) di Moreno Pasquinelli [3] QUALE PARITO CI SERVE? di Moreno Pasquinelli

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NUOVA DIREZIONE CONTRO PARAGONE

I compagni di Nuova Direzione, dopo il primo del 13 giugno, hanno diffuso un secondo comunicato di durissimo attacco al nascente Partito Italexit con Paragone.

Ripromettendoci di darne un giudizio ponderato riteniamo doveroso pubblicarlo, anche perché quanto scrive Nuova

Direzione pare sia una risposta alle nostre critiche. Per la precisione:

NUOVA DIREZIONE (prima parte) di Moreno Pasquinelli NUOVA DIREZIONE (seconda parte) di Moreno Pasquinelli

Sullo stesso tema: I “bottegai”, l’ultimo argine? Spunti per una politica oltre purismo e subalternità. Di Diego Melegari e Fabrizio Capoccetti. La risposta di Alessandro Visalli a

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Melegari e Capoccetti: Delle contraddizioni in seno al popolo:

Stato e potere.

* * * SULLA QUESTIONE DELL’ ITALEXIT Comunicato

1- Alcune note preliminari sulla situazione

Nuova Direzione è nata per fare lotta politica e culturale. La s u a d i m e n s i o n e n o n p e r m e t t e a l m o m e n t o d i d a r s i un’organizzazione politica strutturata in forma partito.

Siamo ormai abituati al nanismo di quelle organizzazioni della sinistra che si autodefiniscono ‘partito’ pur potendo contare su poche migliaia di attivisti, ma scendere al livello delle centinaia rischierebbe il ridicolo.

Un’associazione formata da un paio di centinaia di attivisti può e deve impegnarsi su due fronti: da un lato lo sforzo teorico (produrre analisi politica, economica e sociale e condurre discussione pubblica), dall’altro quello pratico (partecipare alle lotte sociali, con il duplice obiettivo di comprendere cosa si muove nella società e di promuovere il conflitto tramite il confronto e il dialogo nei luoghi di lavoro, l’adesione e il supporto alle istanze dei lavoratori, la spinta a formularne di nuove).

Cioè essere nelle lotte attuali, per le lotte da organizzare, formulando sintesi dalle lotte in corso.

Un approccio che nulla ha a che fare con l’attendismo o il ritiro nella torre eburnea.

L’associazione non ha mai promesso di partecipare a tornate elettorali per far eleggere i propri iscritti nelle amministrazioni pubbliche. Non ne abbiamo la forza e non è il nostro obiettivo primario.

Come si può desumere dalle Tesi Politiche ampie ed ambiziose che abbiamo prodotto, vogliamo promuovere un cambio di paradigma sistemico e lottare per contribuire nella misura del possibile a cambiare i rapporti di forza all’interno della

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società, perché i cambiamenti a livello istituzionale possano avvenire e non essere facilmente neutralizzati.

Altrettanto chiaro è il nostro posizionamento ideologico:

abbiamo sviluppato una durissima critica verso la sinistra che è sempre stata rivolta contro la sua adesione al liberalismo, questo senza mai assorbire elementi di destra, neppure

‘sociale’.

Per noi lo slogan ‘né di destra né di sinistra’ vuol dire lottare per il Socialismo e contro la sinistra liberale.

Ad esempio, la nostra critica all’Unione Europea è ed è sempre stata durissima. Tuttavia, su questo siamo stati sempre molto chiari: crediamo che l’uscita dall’Unione sia un mezzo e non un fine.

Può sembrare una distinzione capziosa, da intellettuali sulla torre, ma il succo è semplice: il modo di uscire ha valore per noi più della stessa uscita in sé.

Malgrado nel capitolo finale di “Il tramonto dell’Euro” (2012) Bagnai annunciasse la rottura finale per l’anno 2013, siamo ancora qui.

E la rottura non è stata provocata dai mercati, non da un governo ‘sbagliato’ come non da uno ‘giusto’.

Più prudentemente in “L’Italia può farcela”, due anni dopo, lo stesso autore poi andato con la Lega, dichiarava per i

“prossimi anni, se non mesi” la bancarotta italiana o l’uscita dall’Euro.

Il punto è che se mai ci sarà la rottura diventerà decisivo in quale direzione metteremo il Paese. Quindi quali alleanze geopolitiche, quale struttura dei rapporti sociali, quale dominio sarà istituito e verso chi; che forma di cooperazione, che forma di internazionalismo avremo la forza di imporre.

Sarà decisivo se prenderemo una nuova direzione o se sostituiremo il vincolo esterno con altre forme del solito vincolo interno che le nostre élite economiche, sociali e politiche da sempre impongono al resto del Paese.

Il punto politico che ND intende proporre era chiarissimo fin dalla rinuncia al progetto con Fassina e ‘Patria e Costituzione’: volevamo e vogliamo esprimere un chiaro “no”

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alla subalternità alla sinistra, un “no” al tenere il moccolo all’Unione europea per cambiarla da dentro, poi un “no” al populismo comunicazionista ed un “no” al prestarsi come spalla alla destra sovranista, infine un “no” alla politica dei due tempi e all’uscita come fine.

2- L’Italexit è la soluzione?

A porre la domanda in questo modo è una nuova forza politica che, appena annunciata, viene accreditata di qualche punto percentuale nel mercato elettorale.

La risposta potrebbe anche essere sì, ma la domanda è incompleta.

La questione non è infatti se l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea, sull’esempio britannico, sia la soluzione, ma di cosa lo sia.

Uno strano consenso si raggruppa infatti sotto questo slogan, aggregando un’area che va dalla sinistra euroscettica alla d e s t r a s o c i a l e , i n c l u d e n d o n o n p o c h i o r f a n i d e l l a semplificazione introdotta dal neopopulismo del Movimento Cinque Stelle e della retorica salviniana primo modello (quella ispirata dal duo Bagnai-Borghi).

Condivide un sentimento di ribellione e il senso del tradimento della promessa di benessere e promozione individuale che la svolta neoliberale degli anni ottanta e novanta portava con sé. Viene egemonizzato da quei ceti che sono stati illusi dalla rivoluzione neoliberale e sono cresciuti nella convinzione di poter raggiungere il benessere con le proprie sole forze. Ceti che oggi vedono come il gioco si praticasse con carte truccate.

Sembra a tratti lo slittamento del sentimento antistatalista inculcato in decenni di propaganda neoliberale a reti unificate verso lo pseudostato europeo, visto come camicia di forza alla liberazione dei desideri individuali e delle relative energie.

Ci sono dibattiti come quello sul Covid o le nuove reti di telecomunicazione che lo lasciano intravedere.

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Si tratta di un intreccio di forze eterogenee e di sentimenti reattivi che, secondo le speranze della novella forza politica fondata dal senatore Paragone, potrebbe trascinarla oltre la soglia di sbarramento, andando a replicare l’operazione riuscita per il rotto della cuffia a Leu nella legislatura in corso (ma fallita con PaP). La speranza è di entrare nel Parlamento con qualche deputato e senatore, e porre le basi di un processo di radicamento.

Restando ai due esempi citati ci sono poche somiglianze e molte differenze: entrambi i tentativi nel campo della sinistra erano sostanzialmente delle coalizioni di forze eterogenee con agende diverse, tenute insieme dal tentativo di fare una lista ed entrare in Parlamento, rinviando la creazione del soggetto politico ad una fase successiva; il programma era vago e non privo di contraddizioni. Il nascente partito, invece, raccoglie a sua volta forze eterogenee, ma immagina di partire dal soggetto politico per farne derivare la lista; inoltre cerca di replicare la parabola del Movimento 5 Stelle, fino alla scelta di intestare la comunicazione ad una società specializzata (facendo del suo titolare il comproprietario del marchio) e personalizzando tutto nella figura di Gianluigi Paragone.

Si ha quindi un uomo, una scelta, un partito di scopo. La scelta è uscire dall’Unione Europea. L’uomo è il senatore Gianluigi Paragone, comproprietario del marchio. Il Partito è

“Italexit”, allo stato con un Manifesto ma senza organi e statuto.

Nella narrativa proposta l’Unione Europea è individuata come il male assoluto e come un vincolo che dall’esterno impedisce all’Italia di essere, come potrebbe, forte, libera ed indipendente. Che ostacola il Paese ed il suo popolo, entrambi al singolare, nelle sfide che dovrà affrontare nel mondo m u l t i p o l a r e e d i f r o n t e a l l ’ a r r e t r a m e n t o d e l l a globalizzazione. Infine, che, impedendogli di esercitare la propria sovranità monetaria, lo costringe a privarsi delle politiche industriali, fiscali e del lavoro indispensabili per tornare a crescere.

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A questo livello di definizione non si potrebbe essere che d’accordo. Ma è proprio vero che l’Unione Europea nata a Maastricht (ma anche la Comunità Economica Europea che la precedeva) è un “vincolo esterno”?

Ed è proprio vero che il soggetto della liberazione è “il popolo” ed il suo oggetto “il paese”?

L’esperienza di chiunque si sia avvicinato alla tradizione marxista impone di mettere questa immagine organica in discussione.

Al cuore del sociale è la lotta, non l’unità.

La mossa da compiere è dissolvere le false rappresentazioni unitarie, espressione dell’egemonia data, per discriminare le posizioni soggettive create dai rapporti produttivi e dalle distribuzioni che ne derivano.

Non è la ‘globalizzazione sfrenata’ a provocare la crisi, ma ciò che la causa: il pieno dominio del capitalismo e dell’imperialismo occidentali. L’Unione Europea, il dominio dei “mercati”, la mobilità dei fattori e la stessa mondializzazione sono la proiezione di rapporti sociali e produttivi costituenti il funzionamento del Paese come esso è.

Esprimono relazioni di potere che non si limitano a interessare dall’esterno un corpo “sano”, ma determinano in profondità la posizione di ciascuno.

La questione non si dovrebbe porre, dunque, partendo dalla testa (ovvero dall’uscita dallo strumento), ma va posta sulle gambe: individuata a partire dalla messa in questione dei rapporti di produzione, della distribuzione dei prodotti sociali, dalla democratizzazione effettiva, dal superamento della competizione come principio di ordine e del capitalismo come suo motore primo.

Muovendo da queste questioni bisogna accumulare la forza non già per entrare nel Parlamento, bensì per creare le condizioni di forza tra le classi e le diverse forze sociali perché si rompano insieme strumento e mano che lo brandisce.

E’ chiaro che se si dovesse uscire dalla Ue per ricreare l’assetto degli anni cinquanta saremmo in presenza di un ambiguo progresso.

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Non è affatto stato il ‘connubio tra la piccola e media impresa con le banche pubbliche, la grande industria di Stato e la pubblica amministrazione (istruzione, trasporti, sanità, ecc.)’ a fare del terzo quarto del secolo scorso un’epoca di emancipazione ed avanzamento, ma sono stati la forza e la pressione del movimento dei lavoratori, dei giovani, dei tanti movimenti civili di rivendicazione del riconoscimento e dei diritti.

L’Italia ha avuto, in tutto il percorso che va dal dopoguerra agli anni ottanta, una fortissima crescita industriale ed economica, in parte sussidiata dallo Stato, ed ha costruito un modello di capitalismo misto che contiene in sé alcuni elementi di grande valore (come in questi anni l’esempio cinese mostra al mondo).

Ma è solo la lotta instancabile dei lavoratori per partecipare ai risultati di questa espansione di ricchezza, e non la concessione dall’alto di questa, ad aver consentito, se pure in parte, di superare l’effetto autoritario dell’unione di monopoli pubblici a privati e a farne un elemento di emancipazione.

Q u e s t o m o d e l l o d i c a p i t a l i s m o , c h e s e m b r a e s s e r e nell’immaginario trasfigurato della nuova formazione, era per sé enormemente distruttivo per l’ambiente e la natura; in se stesso foriero di costante crescita delle ineguaglianze;

fondato sulla svalutazione del lavoro non meno di quello neoliberale (che ne è la continuazione con altri mezzi).

Se pure è quindi fondamentale recuperare la sovranità monetaria, stimolare una rinascita industriale, garantirsi la sovranità alimentare, il lavoro per tutti, il diritto alla salute e la cooperazione internazionale su piede di parità, bisogna subito individuare quale è la discontinuità che si chiede.

Altrimenti si rischia nel migliore dei casi di essere facilmente neutralizzati, come è capitato al Movimento 5 Stelle, in altri di portare acqua al nemico, come è capitato a Leu.

C’è anche, ovviamente, il peggiore dei casi: portare retoriche

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ed immaginario verso la riproposizione di un capitalismo da anni cinquanta (e non sessanta).

Un sistema nel quale: la ricostruzione, almeno nel primo decennio, fu finalizzata a consolidare sotto altra forma, dopo la ‘guerra di liberazione’, il dominio degli stessi ceti e c l a s s i d i s e m p r e ( s o t t o l a r e g i a U s a ) ; a l l a l o t t a all’inflazione sotto il golden standard seguì la lotta all’inflazione, magari sotto la protezione del Piano Marshall;

al contenimento dei salari sotto il fascismo conseguì il contenimento ‘democratico’ sotto la Democrazia Cristiana; al vincolo ‘interno’ del regime altri vincoli non meno forti;

a l l e r e t o r i c h e s u l s u d d e l r e g i m e u n a p o l i t i c a d i industrializzazione del Nord, con eliminazione dei “doppioni”;

alla dittatura la crescita di un sistema clientelare di consenso, sussidiato nella misura necessaria a comprarlo.

Tornando alla domanda, quindi, di cosa l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea sia soluzione bisogna chiedersi se si tratta di superare la condizione di subalternità dei lavoratori tutti nella distribuzione e produzione imposta dal capitalismo contemporaneo che subordina tutto al proprio illimitato accrescimento, mercificando ogni relazione.

Oppure se l’uscita sia solo una soluzione al problema del rango e della posizione del capitale italiano nel contesto della competizione internazionale, e quindi alla difesa del proprio ruolo sub imperialista, magari più strettamente interconnesso con il centro statunitense e più ostile ai suoi sfidanti.

In sintesi, e per concludere con uno slogan: se la fuga dagli anni venti del XXI secolo deve ispirarsi agli anni cinquanta del XX, guerra fredda inclusa, noi non siamo della partita.

3- Due chiarimenti a proposito del “fare politica” e dello

“sporcarsi le mani”

C’è un profondo fraintendimento su cosa voglia dire ‘fare politica’. Taluni lo interpretano come presentarsi alle elezioni e/o aderire a un organismo già organizzato.

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È chiaro che costruire dal nulla un movimento politico costa grande fatica e molto lavoro. Entrare in un partito con un capo ed esserci (confondendo la partecipazione con la presenza), è da questo punto di vista molto più semplice.

L’attivismo viene scambiato con il tifo e la critica con l’esprimere opinioni sui social, attività che non influiscono sulla realtà.

In più rispecchiarsi in un leader visibile e potente trasmette un senso di appagamento e permette di coltivare la propria immagine autoreferenziale.

Tutto questo non è politica.

Altri invece intendono il “fare politica” come occupare posizioni di piccolo o grande potere, fruendo delle risorse pubbliche direttamente o indirettamente connesse con l’accesso alle istituzioni. Ci sono Partiti che si specializzano nel montare ‘Liste’ eterogenee solo per partecipare a questo gioco.

Da quando la sinistra radicale ha perso la possibilità di superare in modo indipendente gli sbarramenti elettorali, con il fallimento della lista della Sinistra Arcobaleno nelle politiche del 2008, e la nascita di SEL (la quale nella sua breve parabola dal 2009 al 2016 arriva fino a 35.000 iscritti e si presenta alle politiche del 2013 in alleanza al PD) è stato un continuo ricercare sigle e cartelli.

L’ attrattiva di questa tipologia di partiti consiste in sostanza nel nutrire le ambizioni di chi cerca un’occupazione politico-amministrativa.

Anche questo può dare la parvenza che si fa qualcosa, mentre gli altri non fanno niente.

Fra quelli che non fanno niente, ci sono le persone che fanno analisi (politica, economica, sociale), e svolgono attività sindacale, dialogando con soggetti e parti sociali.

Tutte funzioni considerate non funzionali alla politica perché inutili dal punto di vista elettorale.

Veniamo ora allo “sporcarsi le mani”. Questo termine deriva dal concetto di lavoro, perché in genere è lavorando che ci si sporca le mani, con la terra, col grasso.

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Il lavoro che sporca le mani è spesso disperato, perché l’esito è incerto e i risultati si vedono dopo molto tempo; è il lavoro che si fa là dove non si arriva ad incidere con gli slogan, là dove le condizioni materiali sono terribili.

Oggi il termine “sporcarsi le mani” viene viceversa scambiato con la disponibilità a toccare la merda pur di raggiungere gli obiettivi rapidamente, senza troppa fatica.

Viene spesso richiamata la fortunata immagine di Rino Formica sulla politica come “sangue e merda”. Dimenticando che il primo termine è “sangue”, la politica è forza, radicamento, determinazione e volontà, obiettivo fino al sacrificio di sé.

Rovesciare i termini, fuor di metafora, significa essere disponibili a fare alleanze di scopo con chi, una volta raggiunto il suo obiettivo, potrebbe trasformarsi nel carnefice della parte più debole. Ci si ‘sporca le mani’

perché si stipulano alleanze con il diavolo, sapendo che è tale.

La questione non è mantenersi “puri”, avere le mani pulite. Ha piuttosto a che fare con ciò che con queste mani vogliamo fare, con che ‘sangue’ abbiamo.

Per prendere una nuova direzione occorre fare molta attenzione ai lupi travestiti da agnelli, a coloro che vogliono tornare a prima degli anni della sollevazione popolare diffusa che prese avvio con le mobilitazioni operaie del 1963, quando il Paese era sotto il dominio statunitense, orientato alla domanda estera grazie ad una selvaggia compressione del lavoro, al controllo della moneta, alla deflazione provocata da manovre austeritarie.

Allora non avevamo ancora sottoscritto Trattati della Ue, ma la piccola e media impresa italiana esprimeva la stessa feroce determinazione a schiacciare i lavoratori.

Le mani dunque sporchiamocele pure, ma scegliamo anche a chi stringerle.

Se alleanze sono necessarie, bisogna che i patti siano chiari e bisogna partire dal ‘sangue’, non dalla ‘merda’.

4- Sulla classe di riferimento e sulle opzioni possibili

Abbiamo sempre pensato che fosse importante ridare

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partecipazione e voce a chi non ce l’ha, in particolare alle periferie sociali ed economiche, ai lavoratori subalterni, alle partite Iva forzate, ai dipendenti pubblici, ai giovani precari che non hanno famiglie facoltose alle spalle, ai Neet.

Altri questa voce ce l’hanno già. La classe imprenditoriale piagnona, grande e piccola, che denuncia la mancanza di aiuto da parte dello Stato e contemporaneamente la pigrizia dei lavoratori sfruttati con paghe da fame, non ha di questi problemi. Tramite le sue potenti associazioni riesce a pubblicare le proprie lagne sui giornali, e lo fa ogni giorno.

Senza voce non è neppure la classe giovanile intellettuale di sinistra, alla quale non mancano le testate on-line su cui scrivere le proprie analisi. Alla fine è sempre dare più voce a chi già ha voce, dare potere politico a queste categorie, non a quelle escluse.

Sono anni che esiste un’area socialista/comunista anticapitalista che porta avanti la critica all’Unione europea in quanto incarnazione della più becera economia di mercato, della distruzione del potere contrattuale del lavoro, dell’esaltazione del capitale, della competizione intra ed extra europea, di una visione bipolare del mondo, di totale assenza di democrazia sostanziale e sovranità popolare.

Per quest’area il tema dell’uscita dall’Unione europea è legato a doppia mandata a quello della necessità di dover cambiare il sistema, ribaltare il paradigma di mercato, andare a incidere sui rapporti di forza all’interno della società per rendere possibile e duraturo quel cambiamento. E questo comporta alla fine un profondo disaccordo con il mondo sovranista e la sua logica dei due tempi, con i finti CLN fuori del tempo e delle condizioni materiali.

Un mondo che punta in sostanza a costruire un fronte con il capitalismo nazionale, a ridare potere alle classi padronali e imprenditoriali che sono rimaste fuori dal grande gioco.

Segmenti di classe dominante spiazzati dal capitale europeo – che erroneamente identificano con un’intera nazione, “la Germania” – e per questo scontenti.

Nella guerra tra i capitali, che non è nazionale quanto di

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natura funzionale ed organizzativa, si trovano molte cose, ma non la sovranità popolare.

Quando si parla di popolo e volutamente si ignorano le classi, è perché si stanno facendo gli interessi di una a discapito di altre e queste non devono accorgersene, finché non sono ben incaprettate. Capiranno quando tenteranno di muoversi e il nodo alla gola si stringerà.

Seguire il dibattito di questi giorni, tra blocco o meno dei licenziamenti, polemiche sui lavoratori, velati annunci di sacrifici futuri, mirabolanti programmi di spesa rivolti ad aumentare la interconnessione gerarchica e selettiva, aiuta a vedere dove sono gli interessi.

5- Concludendo.

Noi non siamo della partita se tutta la mobilitazione s o v r a n i s t a s i r i d u c e a d i m e n t i c a r e i l ‘ s a n g u e ’ e compromettersi con la ‘merda’, e punta a ritornare al sogno subimperiale del capitale nazionale.

Magari nel contesto di una nuova guerra fredda che unisce la fobia del comunismo al razzismo occidentale.

Noi siamo nella partita, per quanto difficile, che punta a subordinare la logica del mercato (tutto, non solo finanziario) alle politiche realmente democratiche, rifuggendo dalle semplificazioni leaderistiche come dalle forme della democratura contemporanea.

Siamo per mettere il ‘sangue’ al centro della politica e per rovesciare i rapporti sociali esistenti, a partire dai luoghi della produzione.

Siamo per la piena affermazione di un nuovo mondo multipolare, contro ogni progetto neoimperiale.

* Fonte: La pagina facebook di Nuova Direzione

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E’ L’ORA CHE DRAGHI CI RACCONTI LA VERITA’ di Gianluigi Paragone

La processione di lecchini a favore di Mario Draghi anticipa quello che potrebbe accadere se, come vorrebbero in tanti, l’ex governatore della Bce salisse al Colle: bene, bravo, bis.

Tutti contenti, tutti entusiasti, tutti già draghiani. Anzi, è già partita la gara a chi era più filo Draghi prima degli altri. Da Zingaretti a Salvini, è una bizzarra òla.

Mi smarco, in coerenza rispetto a quello che ho sempre pensato sull’uomo. Mario Draghi ha parlato al meeting di Comunione e Liberazione con la lingua dell’establishment: non ha detto nulla ma siccome lo ha detto lui, il Messia, la parola diventa Verbo. Anche se ‘sto Verbo pare un turacciolo di sughero, buono per stare a galla in qualsiasi acqua. A leggerlo con atteggiamento distaccato, Draghi non ha detto nulla eppure

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quel che ha detto, in bocca a lui, distorce. Così poiché nessuno ha il coraggio di contestare alcunché – nemmeno in questo spazio temporale dove Mario Draghi non è coperto da alcuna immunità – proviamo a mettere in un sistema chiuso il sughero narrativo Draghiano e poniamoci delle domande.

Iniziamo dal “Debito” e dalla sua distinzione tra debito buono e debito cattivo. Signor Draghi, ma i derivati che sono stati piazzati nei bilanci dello Stato quando lei ricopriva incarichi importanti sono debito buono o sono debito cattivo?

Laddove non se lo ricordasse, può farsi aiutare dalla signora Maria Cannata, storica e silente dirigente che ha avuto in mano il debito pubblico italiano per 17 anni. Ma sono certo che nemmeno in quel caso la tossicità dei derivati (debito cattivo) troverà mai una parola di verità: evidentemente la scuola gesuita che ha allevato Draghi ha lasciato il suo segno.

Vado oltre. Signor Draghi, quando lei parla di etica, di morale, di futuro, ce la racconta una volta per sempre la svendita che faceste, sul Britannia prima e nei Palazzi dopo, di pezzi strategici e importanti di asset pubblici? Cosa vi ispirò? Se l’esigenza di fare cassa, manco ci riusciste perché l’affare l’hanno fatto gli altri; se regalare vantaggi a coloro che poi avrebbero dovuto costruirci una porta di servizio attraverso la quale entrare nell’euroclub, allora sì, ci siete riusciti e infatti ne paghiamo ancora le consegne.

Chi ha tradito l’Italia e gli italiani non può pensare di parlare dall’alto come se fosse un papa laico. Onestamente io di questo papato laico di SuperMario mi sono già rotto e la sola idea di pensarlo su al Colle mi spinge a non mollare la battaglia “italexit” un solo secondo. Non accetterò mai colui che disse che le riforme (neoliberiste) si fanno a prescindere dalla volontà dei popoli ; perchè questo significa – alla vigilia del referendum confermativo sulla riduzione del numero dei parlamentari – erodere la democrazia a vantaggio di quelle élite delle quali Mario Draghi è un campione.

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