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Il sistema pensionistico italiano

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Academic year: 2022

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Il sistema pensionistico italiano

Febbraio 2020

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Pensioni

Position Paper PENSIONI

INDICE

1. La necessità di una regola generale p. 3 2. I processi di anticipazione dell’accesso alla pensione in

determinate fattispecie p. 11

3. Le forme di flessibilità all’accesso a pensione realizzate

in azienda p. 16

4. Il ruolo alla previdenza integrativa p. 20

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Pensioni

Questo documento contiene alcune considerazioni in tema di pensioni.

In Italia si discute molto di pensioni ma non si riflette mai abbastanza sulla previdenza sociale che è il quel ramo dell’ordinamento giuridico che, più di ogni altro, connota, in modo unico e identitario, l’Occidente europeo. Oggi la previdenza sociale, cioè quell’insieme di norme poste a protezione della sicurezza e del benessere dei cittadini, è sotto pressione ed è, quindi, in discussione la stessa tenuta del nostro welfare state. Le trasformazioni in atto nella società e nell’economia mettono, infatti, in dubbio l’equità complessiva del sistema previdenziale, in particolare l’equità fra generazioni, e, in ultima istanza, la stessa sostenibilità economica e finanziaria del modello con il quale la si vuole garantire.

Maggiore equità e maggiore trasparenza nella gestione e nel finanziamento del primo pilastro del welfare, quello pubblico, sono, dunque, principi ideali necessari per affrontare ogni discussione in tema di previdenza sociale e, quindi, ogni proposta di intervento sulle pensioni. Le considerazioni in tema di pensioni contenute in questo documento si richiamano a questi principi ideali e prospettano una possibile linea di intervento correttivo ispirata dalla necessità di salvaguardare l’impianto complessivo del nostro sistema di welfare. La previdenza sociale del nostro Paese è stata progettata, infatti, con grande visione ideale ma in un tempo ormai lontano e per un contesto sociale, demografico ed economico profondamente differente da quello odierno e, con grande probabilità, da quello futuro.

Se si vuole preservare, pur con i necessari adattamenti, il sistema di welfare, che connota in modo profondo la nostra società, è necessario tenere presente il quadro complessivo della previdenza sociale per intervenire sempre sulla base di visioni politiche organiche che tengano in considerazione la necessità di garantire la caratteristica essenziale di ogni sistema di sicurezza sociale che è la sua equità nella longevità. Questa operazione richiede un approccio olistico che tenga in conto tutti e tre i livelli di cui si compone il sistema del welfare: quello pubblico, che siamo soliti definire come welfare state in senso stretto, quello che è nato dentro la dialettica delle relazioni sindacali e della contrattazione collettiva (welfare contrattuale) e quello del terzo settore che poggia sul volontariato e che si completa con l’iniziativa assicurativa delle famiglie e dei singoli cittadini.

In particolare, questo esercizio di coordinamento è sollecitato dalle prospettive demografiche e dall’applicazione coerente dei principi costituzionali sui quali si fonda il nostro welfare state, chiamato ad essere sostenibile, funzionale alla crescita economica ed allo sviluppo della società e, soprattutto, coerente con l’esigenza di tutela delle diversificate situazioni di bisogno nell’arco di tutta la vita dei cittadini.

Le soluzioni proposte si riferiscono ad uno solo degli “ingranaggi” di questo sistema di welfare, ovvero il sistema pensionistico, ma tengono conto della necessaria organicità che un sistema deve avere. Esse devono essere affiancate da ragionamenti su una serie di

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altri temi, quali la scuola e l’istruzione, le politiche attive per il lavoro, gli ammortizzatori sociali, la sanità, l’assistenza per la non autosufficienza. Un complesso di temi da coordinare in una sequenza tale da soddisfare, con efficacia e equità, i bisogni delle persone, delle famiglie e della società. Solo in questo modo il welfare state può favorire la coesione sociale ma anche l’affermarsi di una società più dinamica ed inclusiva.

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1. La necessità di una regola generale

Se misurata in rapporto al PIL, in Italia la spesa per pensioni negli ultimi trent’anni ha registrato una crescita notevole: da valori attorno all’8% negli anni ’80, è cresciuta a circa il 12% nel 1990, per arrivare a valori vicini al 16% negli ultimi anni (Fig. 1).

Analizzando il trend della spesa per pensioni in rapporto al PIL, gran parte della crescita sperimentata tra gli anni ’80 e ’90 si è realizzata per l’operare dei fattori intrinseci al funzionamento di un sistema a ripartizione, nonché per scelte politiche non lungimiranti riguardanti le regole di determinazione delle prestazioni e per il progressivo peggioramento del rapporto tra individui attivi e pensionati.

A partire dalla metà degli anni ’90 e fino alla crisi del 2008, l’incidenza della spesa pensionistica sul PIL è rimasta sostanzialmente stabile, tra il 13 e il 14%. In questo periodo, nonostante abbiano continuato ad operare fattori demografici che hanno spinto la spesa verso l’alto, sono progressivamente entrati in vigore i significativi interventi operati nella prima metà degli anni ‘90, che hanno contenuto la dinamica sia del numero delle prestazioni che dell’importo medio delle prestazioni erogate.

Con la crisi si è avuta, in seguito, una nuova crescita di circa due punti percentuali in pochi anni, fino al 16% registrato nel 2013. Questo incremento del rapporto è dipeso non tanto da una accelerazione della dinamica del numeratore (la spesa per pensioni in valore

Fig. 1 – Spesa pubblica per pensioni in rapporto al PIL, 1990-2017 Fonte: elaborazioni su dati Istat.

10%

11%

12%

13%

14%

15%

16%

17%

18%

1990 1995 2000 2005 2010 2017

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nominale), ma dalla contrazione prima e stagnazione poi del denominatore (il PIL nominale), per effetto della lunga crisi economica. La riforma Fornero (Decreto-Legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito dalla Legge 22 dicembre 2011, n. 214) è riuscita, tuttavia, a contenere l’aumento riportando il rapporto spesa pensionistica su PIL al di sotto del 16% (15,4% nel 2017).

La spesa pensionistica italiana rapportata al PIL è alta anche rispetto agli altri Paesi europei: nel 2016, è risultata superiore di 3,5 punti percentuali rispetto alla media dell’Eurozona e di 2,8 punti percentuali rispetto alla media dell’Unione Europea.

Rapportando la spesa pensionistica al totale della spesa pubblica, si ha il senso di come essa assorba molte risorse, spiazzando le altre componenti del bilancio pubblico e riducendo, quindi, la possibilità di allocare risorse pubbliche su altri obiettivi. Infatti, la spesa per pensioni ha storicamente rappresentato una voce significativa del bilancio pubblico: già nel 1995, infatti, il 31,6% di spesa corrente primaria (ovvero al netto della spesa pubblica per investimenti e degli interessi sul debito pubblico) era destinato alle pensioni; nel 2017 il dato ha raggiunto il 34,2% (Fig. 2).

Fig. 2 – Spesa pubblica per pensioni in rapporto alla spesa corrente primaria, 1990-2017 Fonte: elaborazioni su dati Istat.

26%

28%

30%

32%

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36%

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40%

1995 2000 2005 2010 2017

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La spesa pensionistica nel nostro Paese rimarrà, peraltro, a livelli elevati. Le proiezioni ufficiali della Ragioneria Generale dello Stato, nello scenario base nazionale,1 indicano che la fase di crescita della spesa attualmente in corso (dovuta al combinato disposto delle misure in ambito previdenziale del D.L. 4/2019 e di una crescita reale del PIL molto debole) durerà fino al 2022. Seguirà una fase di lieve flessione fino al 2029 e, successivamente, il rapporto fra spesa per pensioni e PIL riprenderà ad aumentare fino a raggiungere valori oltre il 16% nel 2044, influenzato dalla transizione demografica e dall’invecchiamento della popolazione. Il rapporto scenderà rapidamente solo dal 2045 in poi, risentendo dell’applicazione generalizzata del calcolo contributivo: si porterà così al 15% tra il 2050 e il 2055 e arriverà vicino al 13 per cento nel 2070 (Fig. 3).

L’andamento del rapporto tra spesa e PIL negli anni non migliora se si considerano le ipotesi dello scenario dell’EPC-WGA,2 che anzi prevede livelli di spesa più alti rispetto allo scenario nazionale lungo tutto l’orizzonte temporale considerato (Fig. 3). Questa differenza, ampia soprattutto intorno al 2040/2045, è dovuta ad ipotesi demografiche e di crescita reale del PIL formulate in ambito europeo che sono meno favorevoli di quelle dello

1 Le previsioni dello scenario base nazionale sono effettuate con i modelli della Ragioneria Generale dello Stato (RGS) e per la parte demografica adottano le proiezioni elaborate da Istat.

2 L’EPC-WGA, ovvero il Working Group on Ageing del Comitato di Politica Economica del Consiglio Europeo, elabora le tendenze di medio lungo periodo dei sistemi pensionistici dei Paesi UE adottando per la componente demografica le proiezioni della popolazione messe a punto da Eurostat.

Fig. 3 – L’evoluzione nel medio-lungo periodo della spesa pensionistica in rapporto al PIL In blu scuro le previsioni dello scenario base nazionale, in azzurro le previsioni dell’EPC-WGA.

Fonte: RGS, Le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario – 2019.

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scenario base nazionale. Nello specifico, il tasso di crescita reale è stimato pari allo 0,9- 1% medio annuo nel corso dell’orizzonte previsivo, contro l’1,2% delle stime nazionali.

Il trend di lungo periodo risulta, quindi, complessivamente influenzato da tre variabili:

I. La demografia: le proiezioni scontano il peggioramento delle prospettive demografiche, secondo cui si assisterà alla diminuzione della popolazione residente, che sarà pari a 59 milioni nel 2045 e 54,1 milioni nel 2065, rispetto ai 60,6 milioni del 2017. Si prevede, inoltre, un progressivo invecchiamento della popolazione italiana nei prossimi decenni: nel 2050, la quota di over-65 sul totale della popolazione passerà al 33,8% (dal 22,6% del 2016) e, secondo l’OCSE (Rapporto Working Better with Age, 2019), il rapporto tra persone over-50 inattive o pensionate e lavoratori sarà di 1 a 1. La rapida crescita della spesa prevista per i prossimi venti anni sconta il pensionamento degli individui appartenenti alla generazione dei baby boomers.

II. La crescita economica e della produttività: l’ultimo scenario elaborato in sede europea (EPC-WGA) indica un tasso medio di crescita della produttività del lavoro pari a solo lo 0,7% annuo nel periodo 2017-2070.

Effetti DL 4/2019

Fig. 4 – Spesa pubblica per pensioni in rapporto al PIL sotto differenti ipotesi normative, 2006-2070 Scenario EPC-WGA

Fonte: Adattato dal Documento di Economia e Finanza 2019.

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III. Il quadro regolatorio: le regole relative ai requisiti pensionistici influenzano l’andamento della spesa pensionistica. Infatti, come mostra la Fig. 4, i diversi interventi normativi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno abbassato la curva di previsione della spesa pensionistica. Su questo ultimo punto, sono evidenti gli effetti positivi della riforma Fornero (D.L. 201/2011) in termini di contenimento della spesa, misurati dalla distanza tra la linea verde e quella viola nella Fig. 4. In mancanza delle passate riforme, a partire dal 2012 e fino al picco del 2040, la spesa rispetto al Pil sarebbe stata significativamente più elevata. L’aumento che, invece, si registra dal 2019 al 2026 è dovuto all’ultimo intervento in materia, ovvero l’introduzione di Quota 100.

Il primo merito della riforma Fornero è stato, dunque, quello di puntare sulla sostenibilità economica di medio-lungo termine del sistema pensionistico, determinando peraltro una

Tab. 1 – Previsioni per Italia, Germania, Francia e Spagna

Per ogni riga, in verde il dato migliore e in rosso il dato peggiore, a seconda dell’indicatore.

Fonte: Commissione Europea, 2018 Ageing Report, e OCSE, Pensions at a Glance 2019

Anno di riferimento ITA GER FRA SPA

2020 0,5% 1,4% 1,1% 0,8%

2040 0,5% 1,2% 1,7% 1,0%

2070 1,1% 1,3% 1,6% 1,9%

Tasso medio annuale di crescita

della produttività del lavoro 2016-70 1,0% 1,5% 1,3% 1,3%

Tasso di occupazione, 15-64 anni 2020 59,0% 75,1% 65,1% 63,0%

Tasso di disoccupazione, 15-74 anni 2020 10,6% 3,7% 9,2% 16,2%

2020 65,5% 38,2% 52,8% 71,8%

2040 49,5% 34,9% 47,9% 53,8%

2070 49,8% 33,2% 35,6% 45,0%

2020 15,6% 10,3% 15,0% 12,3%

2040 18,7% 12,0% 15,1% 13,9%

2070 13,9% 12,5% 11,8% 10,7%

Aliquote contributive totali per la previdenza obbligatoria (lavoratore dipendente con salario medio) *

2018 33,0% 18,6% 27,5% 28,3%

Spesa pensionistica in % PIL

* I contrib uti ob b ligatori in Germania e Italia finanziano anche gli assegni per invalidità e/o disab ilità, in Spagna coprono tutti gli strumenti di protezione sociale eccetto le indennità di disoccupazione.

Crescita potenziale del PIL reale

Tasso di sostituzione (lordo) per le pensioni di vecchiaia

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lenta ma continua convergenza della nostra spesa pensionistica complessiva verso i livelli degli altri Paesi UE (Tab. 1).

In secondo luogo, l’introduzione del metodo contributivo con la riforma del 2011 garantirà per le prossime generazioni tassi di sostituzione tra pensione e reddito da lavoro migliori che negli altri Paesi europei, rafforzando così la sostenibilità sociale del sistema previdenziale pubblico. A tassi di sostituzione così alti certamente concorrono anche le elevate aliquote contributive previdenziali, pari nel complesso al 33% dell’imponibile previdenziale nel nostro Paese (generalmente si tratta del 23,81% a carico del datore di lavoro e del 9,19% a carico del lavoratore), al top tra i maggiori Paesi europei (Tab. 1).

L’effetto principale della riforma è stato certamente l’allungamento graduale dell’età di pensione. Le imprese hanno accettato tale irrigidimento dei requisiti pensionistici per garantire la sostenibilità di lungo periodo del sistema pensionistico.

Ciò costituisce, infatti, un primo punto positivo da sottolineare: senza gli interventi operati a partire dal 2004 in poi, e nello specifico dopo la riforma Fornero, il nostro Paese avrebbe attualmente una spesa pensionistica superiore di oltre due punti percentuali rispetto ai livelli effettivi. Per questo, operazioni come “salvaguardie” non giustificate da situazioni di necessità oggettive o Quota 100 sono da evitare: tali eccezioni alla regola generale diminuiscono, infatti, la portata della normativa e vanificano i risultati raggiunti.

Poiché non si sono modificati i principali indicatori demografici e occupazionali, né cambierà in prospettiva la situazione italiana relativa agli altri principali Paesi europei (Tab. 1), non vi sono ragioni per apportare modifiche sostanziali alla legge Fornero.

Ciò non toglie che si possa immaginare una messa a punto di alcuni dei meccanismi introdotti dalla riforma del 2011. Il riferimento è, nello specifico, al meccanismo di adeguamento (indicizzazione) dei requisiti pensionistici alla speranza di vita, che si è rivelato tra i più rigidi nel confronto internazionale e ha finito per “ingessare” troppo il sistema. Sul punto è già intervenuta la Legge di Bilancio del 2018, che ha introdotto limature rispetto alle modalità di calcolo degli adeguamenti a partire dal 2021, ed il D.L.

4/2019, che ha sterilizzato il meccanismo fino al 2026 per le sole pensioni anticipate/di anzianità. Rispetto a questo meccanismo, dunque, è opportuno intervenire individuando una soluzione strutturale, sempre in una logica di sistematicità delle regole e sostenibilità finanziaria, attenuando il rigido rapporto di 1 a 1 tra l’allungamento della speranza di vita e l’allungamento della vita lavorativa.

La questione dell’equità e della sostenibilità del sistema pensionistico si pone anche con riferimento alla cd. “pensione di garanzia” per i giovani. L’intervento prospettato si delineerebbe come un’integrazione dell’assegno pensionistico a carico della fiscalità

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generale, a favore di coloro che rientrano a pieno nel sistema contributivo e che, presentando carriere lavorative discontinue, maturino un assegno pensionistico basso.

Questa integrazione aumenterebbe a seconda degli anni di anzianità maturata.

È, pertanto, certamente comprensibile e condivisibile la finalità di tutela dei futuri pensionati dai rischi che possono manifestarsi nel corso della vita lavorativa. Una finalità che tuttavia, secondo Confindustria, rientra tra quelle proprie degli strumenti di contrasto alla povertà e non può essere perseguita, quindi, con le risorse proprie del sistema pensionistico. In tal caso, infatti, l’intervento graverebbe sui futuri lavoratori e costituirebbe una evidente falla nel principio di equità intergenerazionale.

In un sistema pensionistico a ripartizione quale quello italiano, i lavoratori attivi versano contributi che sono utilizzati per pagare gli assegni pensionistici in essere. Dal punto di vista dei lavoratori, tale prelievo ha senso solo in quanto costituisce il fondamento di un patto con lo Stato, secondo cui quest’ultimo si impegna a pagare in futuro le loro pensioni raccogliendo, a sua volta, i contributi dai lavoratori futuri. Tale patto è credibile solo nella misura in cui l’andamento della produttività, della demografia e del mercato del lavoro permettano di tenere il sistema in equilibrio. Esso risulta, invece, scardinato da interventi spot che introducono distorsioni rispetto alle condizioni di equità attuariale.

Nel caso specifico, è opinione di Confindustria che il rischio di aumento delle pensioni esigue debba essere affrontato “alla radice”. In altre parole, in virtù di quel patto con i lavoratori, il soggetto pubblico, ben prima di immaginare – per domani – forme di assistenza a favore dei futuri pensionati, dovrebbe occuparsi di limitare – oggi – i rischi di carriere lavorative discontinue, e quindi il rischio di assegni pensionistici esigui. Un obiettivo raggiungibile solo concentrando gli sforzi sul miglioramento del quadro futuro dal punto di vista occupazionale, demografico ed economico e, quindi, su misure e strumenti più efficaci per favorire l’occupazione dei giovani ed un mercato del lavoro più inclusivo e dinamico. D'altronde, in un paese che non cresce e non crea opportunità di occupazione, un aumento del numero di pensioni esigue finisce per essere inevitabile, a prescindere da qualsivoglia strumento di sostegno pubblico messo in atto.

Affinché il sistema pensionistico sia equo e sostenibile, è necessario, dunque, considerare il sistema introdotto nel 2011 come una regola di carattere generale e non come un punto di riferimento dalle caratteristiche meramente indicative dal quale derogare. Ogni deroga, infatti, contribuisce al progressivo smantellamento del sistema.

Basti pensare che, proprio a causa delle deroghe attualmente presenti nel sistema, esiste una distanza rilevante tra l’età normale di pensionamento, cioè quella individuata dalla legge per la generalità dei lavoratori, e quella media effettiva beneficiando anche di

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eventuali anticipi pensionistici ed eccezioni. Tra quelli monitorati dall'OCSE (Rapporto Pensions at a glance 2019), al 2016, con riferimento agli uomini, l'Italia è il Paese in cui c'è più distanza tra l’età legale di pensionamento (66,6 anni) e quella media effettiva (62,1 anni): 4,4 anni di differenza. Per le donne (età legale 61,3; età effettiva 65,6), siamo superati solo dal Belgio (differenza di 5,3 anni contro una differenza per l'Italia di 3,7 anni).

Ciò fa ancora più specie se si pensa che siamo il Paese OCSE che al momento ha la più alta età legale di pensionamento (67 anni) e saremo nel futuro superati solo dalla Danimarca (in prospettiva, 71,3 anni gli italiani, 74 anni i danesi).

Altro discorso è individuare, opportunamente, alcune eccezioni alla regola che siano giustificate da criteri di natura oggettiva. Tali eccezioni devono assicurare, comunque, un equilibrio tra la necessità di consentire limitate ma utili possibilità ai lavoratori di accedere al pensionamento prima dei termini previsti e quella di salvaguardare l’equilibrio intertemporale del bilancio pubblico. Infatti, anche nel caso in cui si volessero introdurre nuove eccezioni alla regola sul pensionamento introdotta con la riforma Fornero, sarebbe, comunque, indispensabile garantire l’equilibrio complessivo e la sostenibilità del sistema previdenziale, nonché l’equità tra le generazioni.

Le eccezioni, tuttavia, non devono costituire un privilegio.

L’operazione “Porte Aperte” dell’INPS ha evidenziato le “particolari regole” applicate a 17 categorie di lavoratori, appartenenti sia alla gestione pubblica – militari, prefetti, magistrati, professori universitari, personale della carriera diplomatica, personale della carriera prefettizia e componenti delle autorità amministrative indipendenti – che alla gestione privata – dirigenti iscritti al fondo ex Inpdai, ferrovieri, telefonici, elettrici, commercianti, lavoratori del comparto volo, clero, sindacalisti, lavoratori dello spettacolo, personale addetto ai pubblici servizi di trasporto, sportivi professionisti.

Tali privilegi si trovano non solo nei trattamenti più elevati. I calcoli elaborati dall’Istituto indicano che in tutte queste categorie la gran parte dei trattamenti pensionistici è

“sbilanciata” rispetto al calcolo contributivo. Per quanto riguarda la misura degli assegni, nella maggioranza dei casi essi presentano una deviazione rispetto ai contributi versati per una quota che va dal 20 al 60 per cento del valore attuale. Inoltre, con riferimento alle singole categorie esaminate, qualora si utilizzasse il metodo contributivo come criterio di calcolo dell'assegno pensionistico, tra l’80% e il 90% degli assegni subirebbe una riduzione rispetto al valore attuale.

Confindustria ritiene che la riforma delle pensioni del 2011 sia e debba restare, in definitiva, il perno fondamentale del nostro sistema pensionistico. Ne va garantita e tutelata la tenuta complessiva in un’ottica di sostenibilità di medio-lungo periodo. La regola dovrebbe basarsi

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su un principio di natura contributiva: la pensione che si percepisce dovrebbe essere il risultato del risparmio contributivo accumulato durante la fase lavorativa della vita.

2. I processi di anticipazione dell’accesso alla pensione in determinate fattispecie

Ferma restando la regola di carattere generale che garantisce la tenuta complessiva del nostro sistema, Confindustria riconosce la necessità di introdurre elementi di flessibilità che tutelino particolari condizioni di lavoro e fattispecie aventi caratteristiche meritevoli di attenzione sociale.

Anche ai fini di garantire un’adeguata tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, va tenuto conto del fatto che l’invecchiamento della popolazione lavorativa – fenomeno accentuato dalla evoluzione tecnologica sugli scenari produttivi – chiede una riflessione anche sugli strumenti che possano consentire alle imprese di adeguare la propria organizzazione produttiva.

Il sistema previdenziale già oggi riconosce che esistono lavori che creano nel tempo diversità nelle condizioni di vita e di salute e nelle capacità di prosecuzione dell’attività lavorativa e cerca di garantirne le tutele nel rispetto della sostenibilità finanziaria.

Confindustria ritiene che nell’ambito del sistema previdenziale vadano tenute ben distinte due diversi ipotesi di eccezioni alle regole generali di base.

Da una parte, c’è la tipologia rappresentata da quelle categorie professionali che svolgono attività aventi particolari caratteristiche di pericolosità/gravosità. Confindustria ritiene che queste possano beneficiare di una riduzione dei requisiti di pensionamento solo in virtù di specifiche e rigorose valutazioni condotte sulla natura e sulla tipologia dell’attività lavorativa svolta.

Da un’altra parte, c’è la tipologia rappresentata da determinati gruppi di soggetti che beneficiano di trattamenti “di vantaggio” per situazioni contingenti legate agli andamenti economici dei settori, più che per la peculiarità “previdenziale” dell’attività lavorativa svolta.

Confindustria ritiene che questa seconda ipotesi di eccezioni alla regola debba essere ricondotta in altre differenti forme di tutela sociale, poiché diversamente si generano effetti

“previdenziali” aleatori, seppur di breve periodo ma, soprattutto, perché sovente si lede gravemente il principio cardine della previdenza che è l’equità, nelle generazioni e fra le generazioni.

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Confindustria, nell’evidenziare la necessità di un disegno complessivo coerente, equilibrato ed omogeneo, reputa importante che le eccezioni presenti nell’ordinamento previdenziale si limitino a particolari categorie di lavoratori meritevoli di beneficiare di una riduzione dei requisiti di pensionamento. Queste ultime, opportunamente riviste, andrebbero rese strutturali e riguardare unicamente i casi di:

• lavori gravosi;

• lavori usuranti;

• lavoratrici (cd. opzione donna).

Lavori gravosi e lavori usuranti

La Legge di bilancio per il 2017 (L. 232/2016) ha previsto, in via sperimentale, la possibilità, al compimento dei 63 anni, di richiedere l’anticipo pensionistico per una durata non superiore al periodo intercorrente tra la data di accesso al beneficio e il conseguimento dell'età anagrafica prevista per l'accesso al trattamento pensionistico di vecchiaia.

Tra le varie tipologie di soggetti che possono accedere all’Ape social ci sono anche quelli appartenenti a particolari categorie, i cd. lavoratori gravosi, per i quali è previsto “un impegno tale da rendere particolarmente difficoltoso e rischioso il loro svolgimento in modo continuativo”.

L’elenco viene ampliato dalla legge di bilancio 2018 (n. 205/17) che porta il numero delle categorie ascrivibili a 15 tipologie:

• Operai dell'industria estrattiva, dell'edilizia e della manutenzione degli edifici

• Conduttori di gru o di macchinari mobili per la perforazione nelle costruzioni

• Conciatori di pelli e di pellicce

• Conduttori di convogli ferroviari e personale viaggiante

• Conduttori di mezzi pesanti e camion

• Personale delle professioni sanitarie infermieristiche ed ostetriche ospedaliere con lavoro organizzato in turni

• Addetti all'assistenza personale di persone in condizioni di non autosufficienza

• Insegnanti della scuola dell'infanzia e educatori degli asili nido

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• Facchini, addetti allo spostamento merci e assimilati

• Personale non qualificato addetto ai servizi di pulizia

• Operatori ecologici e altri raccoglitori e separatori di rifiuti

• Operai dell'agricoltura, della zootecnia e della pesca

• Pescatori della pesca costiera, in acque interne, in alto mare, dipendenti o soci di cooperative

• Lavoratori del settore siderurgico di prima e seconda fusione e lavoratori del vetro addetti a lavori ad alte temperature non già ricompresi nella normativa del decreto legislativo n. 67 del 2011

• Marittimi imbarcati a bordo e personale viaggiante dei trasporti marini e in acque interne.

Similmente il D.Lgs. 67/2011 ha introdotto per alcune categorie di lavoratori cd. “usurati”

il diritto all’accesso al trattamento pensionistico anticipato (fermi restando il requisito di anzianità contributiva non inferiore a 35 anni ed il regime di decorrenza del pensionamento vigente al momento della maturazione dei requisiti agevolati).

La maggior parte delle categorie di lavoratori interessati è caratterizzata dal particolare sforzo fisico o dal contatto con sostanze o ambienti pericolosi per lo stato di salute del lavoratore.

Di seguito le attività considerate usuranti e valevoli per l’anticipo pensionistico:

• lavori in galleria, cava o miniera: mansioni svolte in sotterraneo con carattere di prevalenza e continuità;

• lavori nelle cave: mansioni svolte dagli addetti alle cave di materiale di pietra e ornamentale;

• lavori nelle gallerie: mansioni svolte dagli addetti al fronte di avanzamento con carattere di prevalenza e continuità;

• lavori in cassoni ad aria compressa,

• lavori svolti dai palombari,

• lavori ad alte temperature: mansioni che espongono ad alte temperature, quando non sia possibile adottare misure di prevenzione, quali, a titolo esemplificativo,

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quelle degli addetti alle fonderie di fusione, non comandata a distanza, dei refrattaristi, degli addetti ad operazioni di colata manuale;

• lavorazione del vetro cavo: mansioni dei soffiatori nell’industria del vetro cavo eseguito a mano e a soffio;

• lavori espletati in spazi ristretti, con carattere di prevalenza e continuità ed in particolare delle attività di costruzione, riparazione e manutenzione navale, le mansioni svolte continuativamente all’interno di spazi ristretti, quali intercapedini, pozzetti, doppi fondi, di bordo o di grandi blocchi strutture;

• lavori di asportazione dell’amianto: mansioni svolte con carattere di prevalenza e continuità.

Con riferimento alle fattispecie professionali analizzate caratterizzanti i lavori gravosi e usuranti, Confindustria ritiene che possano rappresentare ipotesi meritevoli di applicazione di un diverso requisito anagrafico di accesso al trattamento pensionistico, da rendere strutturali nel sistema previdenziale.

Tuttavia, alla luce dell’esperienza finora maturata, risulta necessario individuare un criterio di scelta più oggettivo possibile delle categorie di lavoratori destinatarie di una disposizione che preveda una diversa età di pensionamento.

Questo compito di individuare un criterio di scelta è stato affidato dalla legge di bilancio per il 2020 ad una commissione chiamata "Commissione tecnica sulla gravosità delle occupazioni" (già istituita con la Legge di bilancio per il 2018) che prevede la partecipazione, tra gli altri, del Ministero del Lavoro, del Ministero della Salute, dell'Istat, dell'INPS e dell'INAIL.

Anche in quella sede potrebbe risultare opportuno fare una riflessione sulle modalità di certificazione oggettiva del rischio legato alla specifica attività svolta e che, pertanto, in base a ciò, potrebbe essere considerata gravosa o usurante.

Al fine di realizzare un'azione sinergica di studio, valutazione e supporto nella scelta della strada più obiettiva da seguire, per valutare la sussistenza o meno dei requisiti di accesso alle tipologie di lavoro "gravoso o usurante", è certamente necessaria una maggiore partecipazione e collaborazione da parte di tutti i soggetti della pubblica amministrazione, in particolare dell'INAIL e dell'INPS, che sono in possesso di un gran numero di informazioni utili a definire le caratteristiche della tipologia di attività svolta e la rischiosità delle lavorazioni.

A tal fine può essere utile anche la realizzazione di un’infrastruttura informatica, accessibile simultaneamente da tutte le amministrazioni pubbliche coinvolte, permanente e

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aggiornata, per elaborare dati anche sulle variazioni professionali: ad es. una data-base integrato che consenta alle diverse amministrazioni pubbliche coinvolte l’accesso e l’uso simultaneo dei dati.

Ciò al fine di avere un quadro complessivo sufficientemente chiaro ed omogeneo.

Oltre Opzione donna

L’art. 16 del D.L. 4/2019 ha prorogato per il 2019 la possibilità per le donne di anticipare l’accesso a pensione solo se optino per un assegno interamente calcolato con il metodo contributivo.

Introdotta con la legge Maroni (art. 1, co. 9, L. 243/2004) in via sperimentale fino al 2015, poi prorogata negli anni successivi, e particolarmente presa in considerazione a seguito della riforma del 2011 del sistema pensionistico, consente alle lavoratrici dipendenti di accedere al pensionamento con il requisito di 58 anni di età e 35 anni di contributi entro il 31 dicembre 2018.

La facoltà è sostanzialmente a disposizione per le lavoratrici dipendenti nate entro il 31 dicembre 1960.

Per effetto del passaggio al sistema di calcolo totalmente contributivo, le lavoratrici che optano per il regime in questione tendenzialmente subiscono mediamente una decurtazione sull'assegno che oscilla intorno al 25-35% rispetto alle regole del sistema misto. Il taglio è tuttavia molto variabile a seconda dell'età della lavoratrice e delle caratteristiche di carriera, retribuzione ed anzianità contributiva maturata alla data di accesso al regime.

Confindustria ritiene che tale eccezione alle regole pensionistiche prevista per le donne sia giustificata in quanto intesa a tutelare le lavoratrici, i cui percorsi lavorativi sono caratterizzati da compiti di cura e da carichi familiari generalmente più impegnativi rispetto a quelli degli uomini. Peraltro, la scelta della lavoratrice per questa tipologia di pensionamento anticipato non comporta un aggravio di spesa per la finanza pubblica, in quanto l’opzione per il regime contributivo puro garantisce la tenuta del sistema pensionistico nel medio-lungo periodo.

Per di più, è opinione di Confindustria che, per la loro funzione di crescita dei figli, le lavoratrici possano essere sostenute in misura più favorevole rispetto a quanto già previsto.

Sul punto, la L. 335/1995 già concede alle lavoratrici madri una pensione anticipata di 4 mesi per ciascun figlio, fino al massimo di un anno. Confindustria propone che tali regole siano potenziate. L’agevolazione dell’accesso anticipato alla pensione per le madri

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lavoratrici può in questo modo diventare parte di quel programma di interventi strutturali di lungo periodo necessari per affrontare gli squilibri demografici del nostro paese, in cui la natalità declinante si somma all’invecchiamento della popolazione. Confindustria propone, in definitiva, il passaggio da un approccio che considera il lavoro di cura come questione privata ad uno in cui esso possa essere considerato nella sua valenza sociale, quale contributo all’intera società, e venga pertanto riconosciuto anche a fini pensionistici con un anticipo sui requisiti per l’accesso al pensionamento, che nel caso della maternità possa determinato sulla base del numero di figli. Ciò, chiaramente, non deve sostituire ma accompagnare soluzioni di sostegno durante la vita lavorativa, che agevolino la conciliazione vita-lavoro.

3. Le forme di flessibilità all’accesso a pensione realizzate in azienda

A giudizio di Confindustria il sistema della previdenza sociale e, soprattutto, la cultura previdenziale del nostro Paese potrebbero trarre grande giovamento dall’introduzione di un quadro regolatorio certo e stabile nel tempo che tenga conto della necessità di distinguere previdenza e assistenza.

Nessuna riforma previdenziale può essere per sempre ma nessun sistema di pensioni pubbliche può sopravvivere nell’incertezza che deriva dalla vulnerabilità della sua regola generale. La debole tenuta della regola generale si alimenta, infatti, della certezza che, con l’avvicendarsi dei Governi, trovino spazio nuove eccezioni e nuove categorie di

“pensionati privilegiati”. In questo quadro si alimentano aspettative che poi non sempre si riescono a soddisfare. Se ciò accade, si ledono i principi di equità nelle generazioni e fra le generazioni e si scoraggia l’affermarsi di una cultura previdenziale nei cittadini che, fra l’altro, non sono certo incoraggiati a costruirsi forme di previdenza integrative. Insomma, occorre legiferare sulle pensioni, con grande accortezza, nel quadro della previdenza sociale e nel rispetto di alcuni principi cardine che ci siamo sforzati di illustrare nel paragrafo precedente. La regola generale può ammettere, con costi a carico della fiscalità generale, solo tre eccezioni (gravosi, usuranti, opzione donna) mentre per l’imputazione dei costi delle altre eccezioni occorre seguire soluzioni differenti.

Distinguere la previdenza dall’assistenza non è la soluzione di tutti i problemi della previdenza sociale ma certo aiuterebbe a fare chiarezza sui fondamenti del nostro sistema previdenziale che è particolarmente complesso se si considerano i fondi della previdenza obbligatoria, quelli riguardanti le gestioni pubbliche che sono confluiti nell’INPS e i fondi che fanno capo alle gestioni private delle Casse Professionali. Diversi studi (cfr., da ultimo,

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Il bilancio del Sistema Previdenziale italiano, 7° Rapporto annuale, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, 2020) evidenziano come la riclassificazione della spesa sociale sulla base della distinzione fra assistenza e previdenza mostri indicatori assai differenti rispetto a quelli con cui solitamente siamo soliti confrontarci anche a livello internazionale. Senza entrare nel merito di questa delicata questione, vale però la pena di sottolineare che equità e trasparenza sono un binomio inscindibile per chi voglia, da un lato, perseguire la giustizia sociale e, dall’altro, orientarla con equità ai bisogni dei cittadini.

In questo quadro, Confindustria considera opportuno introdurre nell’ordinamento previdenziale due strumenti per consentire alle imprese un accesso al pensionamento flessibile per i propri dipendenti. Il primo strumento è noto come “staffetta generazionale”

e tende a favorire l’inserimento dei giovani e il trasferimento delle competenze, mentre il secondo si configura come uno strumento di carattere generale, mutualistico e volontario, funzionale alla soluzione delle crisi aziendali, al reinserimento professionale e, quindi, allo sviluppo di iniziative di politiche attive in collaborazione fra pubblico e privato.

Il primo strumento.

Accanto alle misure più specificamente ascrivibili al pensionamento dei lavoratori, Confindustria ritiene utile promuovere un percorso che consenta di dare opportunità di impiego ai giovani e di anticipare i trattamenti pensionistici per i lavoratori più anziani (anche nella modalità del part time): la cd. staffetta generazionale.

Si tratta di misure che devono comunque sempre tendere a trovare un bilanciamento tra la salvaguardia dell’equilibrio intertemporale del bilancio pubblico e le legittime esigenze aziendali di attuare il turn over, favorendo anche l’ingresso al lavoro dei giovani.

A quest’ultimo proposito è necessario realizzare un legame stretto di interdipendenza fra l’uscita dal mondo del lavoro e l’inserimento dei giovani che andrebbe opportunamente supportato da una adeguata e specifica regolamentazione contrattuale che esalti anche le finalità formative connesse alla “staffetta generazionale”.

L’effetto sostituzione, infatti, non può essere dato per scontato, come dimostra l’esperienza di Quota 100. Gli ultimi dati disponibili di fonte INPS, che fotografano la situazione al 21 novembre 2019, indicano un totale di oltre 200 mila domande di pensionamento anticipato, di cui 73 mila provenienti da lavoratori dipendenti privati, 63 mila da lavoratori dipendenti pubblici e circa 38 mila da commercianti e artigiani. Si deve peraltro, osservare che la gran parte di queste domande (oltre 150 mila) sono state presentate da uomini. Si consideri, per quanto riguarda, invece, l'effetto sostituzione, che Banca d’Italia nel suo Bollettino economico n. 1 del 2020 (p. 47) afferma: “Nostre valutazioni, in linea con le regolarità empiriche, indicano che le maggiori fuoriuscite dal mercato del lavoro connesse con le

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nuove forme di pensionamento anticipato (quota 100) verrebbero solo parzialmente compensate da assunzioni: l’impatto di queste misure sull’occupazione complessiva sarebbe nell’ordine di -0,4 punti percentuali”. In altre parole, secondo Banca d’Italia, Quota 100 ha avuto finora effetti negativi sul mercato del lavoro.

Confindustria, pertanto, propone che:

– i lavoratori che abbiano un’età inferiore a quella prevista per la pensione di vecchiaia di non più di 24 mesi ed abbiano maturato i requisiti minimi di contribuzione per la pensione di vecchiaia, possano accedere al trattamento di pensione anticipato nel caso in cui abbiano accettato di svolgere una prestazione di lavoro di durata non superiore alla metà dell'orario di lavoro praticato;

– il trattamento di pensionamento anticipato spetterebbe a condizione che si dia luogo ad un incremento dell'occupazione giovanile con contratto di lavoro a tempo indeterminato, in apprendistato o con un nuovo contratto di inserimento lavorativo che dovrebbe beneficiare di uno sgravio contributivo;

– limitatamente al predetto periodo di anticipazione, il trattamento di pensione potrebbe essere cumulabile con la retribuzione nel limite massimo della somma corrispondente al trattamento retributivo perso al momento della trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale;

– il periodo di lavoro svolto in part time non dovrebbe determinare una riduzione della misura della prestazione pensionistica piena.

Il secondo strumento.

Confindustria propone, inoltre, di avvalersi dei fondi interprofessionali per la formazione continua per la definizione di un modello di intervento che agevoli i processi di anticipazione dell’accesso a pensione.

Senza necessità di istituire ulteriori fondi bilaterali ai sensi del D.Lgs. 148/2015, occorrerebbe consentire ai fondi interprofessionali di istituire un’apposita gestione separata per agevolare i processi di anticipazione dell’accesso a pensione.

Tale gestione verrebbe alimentata da un’apposita contribuzione – distinta dallo 0,30%

attualmente percepito dai fondi interprofessionali per il finanziamento della formazione continua – che le imprese potrebbero decidere di versare o meno su base volontaria.

Di seguito le principali caratteristiche della proposta:

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1. autonomia rispetto ai fondi bilaterali ex art. 26 D.Lgs. 148/2015: la proposta si fonda sull’idea di sfruttare possibili sinergie tra il sistema della formazione continua e l’introduzione di misure di flessibilità nell’accesso a pensione lasciate alla volontarietà del datore di lavoro;

2. volontarietà della contribuzione: l’iniziativa è caratterizzata da una logica assicurativa. Il datore di lavoro resta libero di versare o meno il contributo alla gestione separata. Non si tratta, quindi, di una contribuzione obbligatoria bensì di un’opportunità che viene messa a disposizione delle imprese. Si evita così, peraltro, il determinarsi di un automatico aumento del (già elevato) costo del lavoro;

3. prestazioni: le risorse accantonate nel tempo dall’impresa confluiscono in una gestione dedicata del fondo interprofessionale e potranno essere utilizzate dall’impresa per una pluralità di prestazioni tutte connotate da una finalità previdenziale, quali a titolo di esempio:

a. integrazioni del trattamento di pensione anticipata AGO;

b. versamento – in sostituzione del lavoratore – della contribuzione volontaria all’AGO ovvero del pagamento del riscatto laurea e ricongiunzione AGO;

c. integrazione del trattamento di Naspi percepito dal lavoratore.

4. Premialità della contribuzione: La strutturazione dell’iniziativa come opportunità e non come obbligo richiede la definizione di un adeguato sistema di premialità che incentivi le imprese ad aderire alla logica assicurativa. Tale premialità trova giustificazione anche nell’elevato valore sociale di un’iniziativa in cui le imprese scelgono di mettere a disposizioni risorse aggiuntive (a quanto dovuto in ragione degli obblighi di legge) a favore dei propri dipendenti. Questi ultimi beneficerebbero – proprio a ragione di tale maggiore contribuzione a carattere volontario – di un più elevato livello di tutele previdenziali. Per questi motivi andrebbe garantito un sistema di incentivazione sotto il profilo fiscale e/o contributivo garantendo l’integrale esclusione da oneri fiscali e contributivi.

Si tenga presente che anche a prescindere dalla realizzazione di questa possibilità, si potrebbe comunque prevedere che, in caso di accordo tra datore di lavoro e lavoratore, si conceda al datore di lavoro di farsi carico degli oneri relativi al riscatto/ricongiunzione di eventuali periodi contributivi e/o alla contribuzione volontaria.

Al fine di agevolare tali iniziative, tese a rendere più flessibile l’accesso a pensione, Confindustria propone di introdurre una disposizione che consenta al datore di sostituirsi al lavoratore nel pagamento degli oneri correlati.

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In tal caso, ovviamente, la deducibilità fiscale che l’ordinamento concede a favore del lavoratore deve essere riconosciuta al datore di lavoro che è il soggetto che ha effettivamente sostenuto l’onere.

Di seguito le principali caratteristiche della proposta:

1. sottoscrizione di un accordo tra datore di lavoro e lavoratore all’atto della cessazione del rapporto di lavoro;

2. possibilità per il datore di lavoro di versare per conto del lavoratore le somme relative al riscatto/ricongiunzione di eventuali periodi contributivi e/o alla contribuzione volontaria. Ciò garantisce maggiore certezza per l’istituto previdenziale circa l’effettiva riscossione dei versamenti mediante il meccanismo del “sostituto di imposta”;

3. possibilità per il datore di lavoro di dedurre fiscalmente le somme versate in sostituzione del lavoratore.

4. Il ruolo della previdenza integrativa

Confindustria crede nella rilevanza che il pilastro della previdenza integrativa può acquisire nell’equilibrio complessivo del sistema previdenziale. Ciò premesso, Confindustria conferma la propria contrarietà alla creazione di un fondo pensione a capitalizzazione all’interno dell’INPS, proposto per offrire uno strumento di previdenza complementare ai lavoratori privi di un fondo di categoria e ottenere risorse da investire nell’economia reale del nostro Paese.

Confindustria ritiene, infatti, che tale progetto mal si concilierebbe con l’ordine complessivo e la trasparenza del sistema previdenziale, nel quale il soggetto pubblico ha il compito di raccogliere i contributi obbligatori per finanziare il sistema a ripartizione ed il pilastro privato (fondi pensione negoziali, fondi aperti e fondi assicurativi), parallelamente, raccoglie i contributi volontari e, gestendoli secondo criteri professionali, ottiene rendimenti che integrano gli assegni pensionistici pubblici.

Per di più, la creazione di un “fondo complementare pubblico” presuppone che l’INPS, già gravato da numerosi compiti di gestione degli strumenti di protezione sociale, abbia risorse, capacità e competenze per operare nei mercati finanziari, investire professionalmente i risparmi e massimizzare i rendimenti contenendo i rischi. Se l’obiettivo è quello di allargare la platea di lavoratori che hanno accesso alla previdenza

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complementare, la via maestra rimane quella dell’informazione e sensibilizzazione sull'educazione finanziaria e sull’importanza del risparmio previdenziale.

Lo sviluppo della previdenza integrativa in Italia è essenziale per garantire ai lavoratori l’integrazione dei redditi da pensione adeguati alle esigenze della vita post-lavorativa e, al contempo, grazie alle misure di flessibilizzazione adottate dalle Leggi di Bilancio 2017 e 2018 e dalla Legge sulla Concorrenza (L. 124/2017), per coprire i momenti intermedi di difficoltà lavorativa e sostenere il necessario ricambio generazionale nelle imprese italiane.

I dati e le analisi dell’Autorità di Vigilanza dei fondi pensione (COVIP) e dei principali operatori di mercato evidenziano che, oggi, le dinamiche di adesione alla previdenza complementare risultano ancora insufficienti rispetto a quello che sarebbe necessario per costruire un pilastro solido a supporto del primo sostegno pubblico.

I più recenti dati a disposizione evidenziano che gli iscritti al secondo pilastro sono 8,74 milioni, di cui:

– circa il 75% dei contribuenti attivi

– 3 milioni di iscritti ai fondi pensione negoziali

Il tasso di adesione (iscritti in % della forza lavoro) è mediamente pari al 30,2% e quindi la previdenza complementare oggi riguarda meno di 1/3 dei lavoratori potenzialmente aderenti e non riesce a raggiungere in modo generalizzato i lavoratori di tutti i settori produttivi e lascia scoperti soprattutto i dipendenti delle piccole e piccolissime imprese.

Le cause sono da ricondurre a vari fattori, tra cui, da un lato, le difficoltà legate alla crisi economica, alla crisi del mercato del lavoro, con l’intermittenza del reddito e le basse possibilità di risparmio, e dall’altro, la scarsa fiducia nei mercati finanziari e la scarsa conoscenza del sistema.

Per il rilancio delle adesioni alla previdenza complementare è auspicabile intervenire con soluzioni concrete attraverso, ad esempio, le seguenti misure:

a) Investire nella informazione e alfabetizzazione finanziaria per il rilancio delle adesioni

Manca in Italia una strategia nazionale dedicata all’educazione finanziaria e previdenziale, che è invece presente nella maggior parte dei Paesi industrializzati.

Secondo le rilevazioni disponibili, anche internazionali, gli italiani sono tra i meno preparati in materia di risparmio.

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Un aspetto centrale per il rilancio delle adesioni ai fondi pensione è costituito, quindi, dall’informazione e dall’alfabetizzazione previdenziale e finanziaria dei lavoratori e dei potenziali aderenti.

È auspicabile, pertanto, una Campagna informativa istituzionale, che consentirebbe di sensibilizzare la collettività sull’importanza del secondo pilastro e di rafforzare la conoscenza specifica dei prodotti previdenziali presenti sul mercato (Fondi Pensione Negoziali, Fondi Aperti, PIP), accrescendo la trasparenza e la comparabilità dei costi tra le diverse forme pensionistiche, tanto in fase di adesione quanto di trasferimento, al fine di consentire scelte più consapevoli da parte dei lavoratori.

Potrebbe altresì essere utile dare avvio ad un nuovo semestre di silenzio-assenso, che, sull’esempio di quanto avvenuto nel 2007, consentirebbe di favorire le adesioni ai fondi pensione, sia tra i nuovi assunti che tra gli occupati, nel rispetto del principio della volontarietà della scelta.

b) Revisione della disciplina fiscale

Va migliorata la disciplina fiscale del sistema, favorendo:

1. la riduzione del prelievo fiscale sostitutivo sui rendimenti degli investimenti nei fondi pensione (attualmente del 20%) e l’allineamento del nostro schema di tassazione della previdenza complementare di tipo ETT al modello europeo EET (Esenzione, Esenzione, Tassazione), il quale prevede l’esenzione dei contributi versati, l’esenzione dei rendimenti conseguiti dal fondo durante la fase di accumulo e la tassazione della prestazione erogata.

2. la revisione della disciplina di tassazione dei rendimenti realizzati dai fondi pensione, al fine di applicare il prelievo fiscale sul rendimento effettivamente realizzato (cioè al momento del disinvestimento), anziché sul maturato.

3. la revisione del criterio del pro-rata nella tassazione della prestazione (periodi K1, K2, K3), da sostituire con un meccanismo più snello che salvaguardi l’attuale trattamento di favore, senza penalizzare impropriamente la prestazione pensionistica in forma di rendita.

4. l’innalzamento del limite annuo dei contributi previdenziali versati ai fondi pensione che non concorrono alla formazione del reddito di lavoro dipendente, attualmente fissato nell’ammontare di 5.164 euro. Questo limite penalizza l’adesione dei dipendenti con le retribuzioni più alte.

5. il riconoscimento dell’esenzione da contribuzione previdenziale dei contributi versati alla previdenza complementare, in sostituzione dei premi di risultato

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detassabili. Esistono, infatti, forti incertezze sul regime previdenziale applicabile ai contributi versati ai fondi pensione in sostituzione dei premi di risultato agevolati (ossia i premi di risultato a cui si renderebbe applicabile l’imposta sostitutiva dell’IRPEF del 10%).

Le disposizioni contenute nell’art.16 del D.Lgs 252/2005 prevedono, infatti, che le quote destinate a previdenza complementare siano assoggettate a contribuzione previdenziale ordinaria, se a carico del lavoratore, ovvero al contributo di solidarietà pari al 10%, se a carico del datore.

Si ritiene che il Legislatore, con la Legge di Bilancio 2017, sancendo la non concorrenza alla formazione del reddito di lavoro dipendente della quota di contributi versati alla forme di previdenza complementare, in sostituzione dei premi di risultato, eccedente il limite ordinario di 5.164 euro, abbia voluto introdurre un’autonoma fattispecie di benefit a favore dei dipendenti. Di conseguenza, dovrebbero considerarsi integralmente esclusi dalla base imponibile, sia fiscale sia contributiva, i contributi aggiuntivi versati alla previdenza complementare.

Tale incertezza applicativa sta disincentivando l’inserimento della opzione per la previdenza complementare negli accordi sui premi di risultato agevolabili a scapito di una destinazione – la previdenza complementare, appunto – che al contrario andrebbe incentivata.

c) Revisione misure compensative e completamento della destinazione del TFR a previdenza complementare

Servono strumenti idonei a sostenere l'equilibrio finanziario delle piccole imprese che conferiscono il TFR dei propri dipendenti alla previdenza complementare.

È auspicabile un intervento teso a:

- migliorare le disposizioni in tema di misure compensative per le aziende (art. 10, D.Lgs.

252/2005);

- agevolare l’accesso al credito da parte delle PMI, in particolare proponendo strumenti efficaci di garanzia che agevolino l’accesso al credito sostitutivo del TFR, come uno specifico Fondo di garanzia finalizzato a compensare la perdita di liquidità per le PMI.

d) Incentivare asset allocation meno conservativa

I fondi pensione negoziali hanno finora concentrato i loro investimenti in classi liquide, privilegiando i titoli governativi e le grandi imprese quotate. I dati più recenti evidenziano

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che in termini di asset allocation, oltre il 66% delle risorse finanziarie risulta investito in titoli di debito, sia privati che pubblici, con larga prevalenza di questi ultimi, mentre l’esposizione azionaria si attesta su livelli poco significativi ( 24% circa).

Occorre pertanto spingere gli investitori previdenziali a valutare una revisione dell’asset allocation strategica e a orientarsi verso investimenti produttivi di lungo termine, favorendo in questo modo la crescita del sistema imprenditoriale italiano per generare un circolo virtuoso che possa contribuire alla ripresa dell’occupazione.

È auspicabile pertanto l’introduzione di ulteriori agevolazioni fiscali sui rendimenti degli investimenti di lungo periodo dei fondi pensione, rispetto a quelle già previste dalle Leggi di Bilancio 2017 e 2018, rafforzandone la misura e ampliandone l’applicazione ad una più ampia gamma di strumenti di investimento alternativi.

e) Al fine di rafforzare la dimensione patrimoniale dei fondi pensione, è utile riportare alla previdenza complementare il TFR cd. “inoptato” delle aziende con organico superiore ai 50 dipendenti, che, ai sensi della Legge di Bilancio 2006, è destinato al Fondo Tesoreria INPS per la previdenza complementare nella misura di circa 5 miliardi l’anno. La Corte dei Conti in più occasioni ha censurato il prelievo forzoso del TFR presso la Tesoreria INPS, in quanto destinato alle «SPESE CORRENTI».

f) Banca del tempo

Si propone di introdurre le opportune modifiche legislative (sotto il profilo giuslavoristico, contributivo e fiscale) volte a favorire “l’accantonamento” presso i Fondi pensione sui conti economici individuali, del controvalore economico delle giornate di ferie ulteriori alle quattro settimane obbligatorie per legge, dei permessi orari (PAR/ROL) e di eventuali somme ulteriori concordate tra azienda e lavoratore (cd. “Banca del tempo”).

Questa misura (già esistente in altri Stati Membri dell’UE) consentirebbe di “rafforzare” e

“coordinare” una linea di intervento complessiva volta a favorire l’uscita non traumatica dal mondo del lavoro dei lavoratori più anziani per un più efficace turn-over nelle aziende.

Tali risorse infatti potrebbero essere utilizzate, da un lato, nell’ipotesi di forme di pre- pensionamento che potrebbero, quindi, anche anticipare la fruizione della prestazione pensionistica erogata dall’INPS o da altro istituto pubblico; dall’altro, per incrementare il finanziamento dello “zainetto” previdenziale accantonato presso il fondo pensione, di cui poter fruire anche prima del pensionamento con l’utilizzo della rendita integrativa temporanea anticipata (R.I.T.A.).

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