• Non ci sono risultati.

Seminario sulla teoria della traduzione Corso di laurea in Lingue e culture europee Facoltà di Lettere e Filosofia Anno accademico

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "Seminario sulla teoria della traduzione Corso di laurea in Lingue e culture europee Facoltà di Lettere e Filosofia Anno accademico"

Copied!
10
0
0

Testo completo

(1)

Università degli studi di Modena e Reggio Emilia

F a c o l t à d i L e t t e r e e F i l o s o f i a Largo S. Eufemia n. 19 - 41100 Modena

Seminario sulla teoria della traduzione

Corso di laurea in “Lingue e culture europee”

Facoltà di Lettere e Filosofia

Anno accademico 2004-5

(2)

Hans Honnacker (cur.)

Traduzione ed intercultura

Materiali di discussione

Nr. 5 (2006)

(3)

INDICE

Prefazione di Hans Honnacker p. 3

Franco Nasi (Università di Modena), Le maschere di Leopardi

e l’esperienza del tradurre p. 5

Emilio Mattioli (Università di Trieste), L’etica del tradurre p. 23 Gulliermo Carrascón (Università di Modena), L’errore di traduzione:

una prospettiva didattica p. 27

Maria Carreras i Goicoechea (Università di Bologna/SSLMIT di Forlì),

“La bomba al panzanio” di Stefano Benni: tradurre l’ironia p. 39 Laura Gavioli (Università di Modena), Tradurre parlando: alcuni esempi di

traduzione dialogica p. 50

Aleardo Tridimonti (Università di Modena), Tradurre l’identità – l’identità della traduzione. Lo scrittore e il suo doppio: il traduttore.

Palomar al museo dei formaggi di Italo Calvino p. 64

Demetrio Giordani (Università di Modena), Viaggiatori musulmani tra i due

mondi.Il tema del Mi‘râj nella letteratura medievale in Oriente e in Occidente p. 85 Luigi Ballerini (UCLA/University of Los Angeles California)

Pellegrino Artusi “tradotto” da Giuliano della Casa p. 96

Giuseppe Palumbo (Università di Modena), Il ruolo centrale della

traduzione specializzata nell’evoluzione degli studi sulla traduzione p. 101 Hans Honnacker (Università di Modena), La traduzione italiana di Sebastian

Haffner, «Geschichte eines Deutschen»: problemi e curiosità p. 110

Nota sugli autori p. 124

(4)

3

In memoria del poeta Mario Luzi PREFAZIONE

Il presente lavoro continua l’esperienza di un seminario organizzato dal sottoscritto presso l’ateneo modenese nell’anno accademico 2004-5 in seguito ad un analogo seminario tenutosi l’anno precedente: dieci relazioni, tenute da altrettanti docenti, sul tema “Traduzione ed intercultura”

durante l’intero arco del secondo semestre. Questo tema, particolarmente attuale e sentito in tempi di globalizzazione che sembra rispecchiare la felice intuizione di Martin Heidegger, che equiparò traduzione (Übersetzung) e traduzione (Übersetzung), concependo l’atto di tradurre come un

‘collocarsi oltre’ su un’altra sponda, in un altro ambito culturale.1

Anche in questa seconda esperienza, l’approccio del seminario è rimasto volutamente interdisciplinare: il seminario, dedicato sia alla prassi che alla teoria della traduzione, la cosiddetta traduttologia, si rivolgeva agli studenti che seguivano un corso di traduzione del secondo anno, quindi ancora poco esperti delle problematiche traduttologiche. Il seminario verteva su varie questioni che la teoria e la prassi della traduzione oggi pongono in ambito letterario e non, affrontate da docenti di diverse discipline, non solo di quelle linguistiche. Si trattava quindi di un seminario interdisciplinare che coinvolgeva, fra gli altri, i docenti di inglese, francese, spagnolo, arabo, tedesco e di filosofia. Principale obiettivo del seminario era fornire allo studente strumenti per una corretta riflessione sull’atto di tradurre e sull’interdipendenza tra il tipo di testo, la sua funzione linguistica o comunicativa e la forma di traduzione, offrendogli nel contempo strategie traduttive pratiche.

Anche quest’anno il successo riscosso presso gli studenti (circa 50 di loro hanno partecipato ad ogni incontro) ha premiato la scelta dell’approccio interdisciplinare. Da un questionario distribuito agli studenti nel corso del primo incontro e dalla valutazione finale del seminario, emergeva il forte interesse nonché il desideratum per un seminario che affrontasse da varie prospettive il ‘mare magnum’ che rappresenta oggigiorno la tematica della teoria e della prassi della traduzione.

Nell’intervento inaugurale del seminario,2 “Le maschere di Leopardi e l’esperienza del tradurre”, Franco Nasi parla dell’esperienza traduttiva di Giacomo Leopardi il cui pensiero originale, in questo campo specifico, nella critica viene spesso offuscato dai più noti poeti romantici e teorici tedeschi, quali Friedrich Hölderlin, Friedrich Schleiermacher e Wilhelm von Humboldt, per citarne solo alcuni. Nasi dimostra in che modo l’esperienza del tradurre abbia influito anche sulla poetologia e sulla prassi poetica dello stesso Leopardi che pubblicò poesie anticheggianti sotto pseudonimi antichi, dimostrando il “ruolo [non] ancillare e sussidiario [della traduzione] rispetto alla produzione poetica creativa nella storia della letteratura di una nazione”.

Nel suo intervento dal titolo “L’etica del tradurre”, Emilio Mattioli tocca un tema molto discusso ultimamente negli studi di traduttologia. Richiamandosi al pensiero del teorico francese Antoine Berman (L’épreuve de l’étranger, 1984), mette in guardia da ogni tentazione di una

1 M. Heidegger, Parmenides, in Gesamtausgabe, II. Abteilung: Vorlesungen 1923-1944, vol. 54, Frankfurt a.M., V. Klostermann, 19922, pp. 17-18, §1 b (v. anche la traduzione italiana: M. Heidegger, Parmenide, a cura di F.

Volpi, trad. di G. Gurisatti, Milano, Adelphi, 1999, pp. 47-48).

2 L’ordine dei contributi qui raccolti rispecchia l’ordine cronologico in cui sono state tenute le rispettive relazioni all’interno del seminario, con l’unica eccezione del mio contributo che sostituisce un intervento della collega Claudia Buffagni. La pubblicazione è dedicata al grande poeta (e traduttore) fiorentino, Mario Luzi, scomparso pochi giorni prima che cominciasse il seminario.

(5)

4

traduzione etnocentrica che “sotto l’apparenza della trasmissibilità, opera una negazione sistematica dell’estraneità dell’opera straniera”.

L’intervento di Gulliermo Carrascón, “L’errore di traduzione: una prospettiva didattica”

fornisce una panoramica esaustiva dei vari concetti e delle svariate tipologie dell’errore nella traduzione, presenti negli studi di traduttologia, adducendo numerosi esempi concreti, come ad esempio quello del titolo del Don Quijote di Cervantes nella traduzione italiana.

Maria Carreras i Goicoechea, nel suo intervento ““La bomba al panzanio” di Stefano Benni:

tradurre l’ironia”, si occupa di uno dei maggiori problemi di traduzione letteraria (ma non solo), cioè il tradurre testi da tratti altamente ironici, portando come esempio un articolo di giornale fortemente polemico di Stefano Benni, scritto in occasione dello scoppio della Seconda Guerra dell’Iraq nel marzo del 2003.

Laura Gavioli, presentando una conferenza dal titolo “Tradurre parlando: alcuni esempi di traduzione dialogica”, discute gli aspetti specifici della traduzione orale (l’“interpretazione”), in passato trascurata dalla traduttologia che predilegeva lo studio della traduzione scritta, riportando esempi empirici di interpretariato, evidenziandone i problemi peculiari.

Nel suo intervento “Tradurre l’identità – l’identità della traduzione. Lo scrittore e il suo doppio: il traduttore. Palomar al museo dei formaggi di Italo Calvino”, Aleardo Tridimonti affronta il tema della traduzione come mediazione tra due culture, esemplificandolo con il Palomar di Italo Calvino e mettendo in risalto il ruolo del traduttore come ‘secondo autore’.

L’intervento di Demetrio Giordani, “Viaggiatori musulmani tra i due mondi. Il tema del Mi‘râj nella letteratura medievale in Oriente e in Occidente”, tratta il tema del viaggio nelle opere della letteratura medievale araba e le loro traduzioni nelle lingue occidentali, in particolare in latino.

Ne emerge un affascinante viaggio da Il Libro Della Scala di Maometto alla Divina Commedia dantesca fino all’Orlando furioso ariostesco.

Luigi Ballerini, nella sua conferenza “Pellegrino Artusi “tradotto” da Giuliano della Casa”, parla dell’edizione einaudiana dell’Artusi del 2001, corredata dalle “traduzioni” delle ricette in pittura da parte del pittore emiliano Giuliano della Casa, mettendo in evidenza i cambiamenti dovuti a tale passaggio intersemiotico dalla letteratura alla pittura, e il loro gioco dialettico che ne scaturisce.

Giuseppe Palumbo affronta il tema “Il ruolo centrale della traduzione specializzata nell’evoluzione degli studi sulla traduzione”, sottolineando l’importanza della traduzione specializzata per lo sviluppo della traduttologia, oramai definitivamente “affrancatasi dal legame con gli studi letterari”.

Last but not least, il sottoscritto, presentando un intervento dal titolo “La traduzione italiana di Sebastian Haffner, Geschichte eines Deutschen: problemi e curiosità”, discute la traduzione italiana di un’autobiografia di un giornalista e saggista storico tedesco, Sebastian Haffner, la quale ha suscitato molto scalpore in Germania quando è stata pubblicata nel 2000. Ripercorrendo la storia editoriale del libro, l’autore mette in luce quanto sia importante per un traduttore la genesi di un testo letterario e non, al fine di poterlo tradurre adeguatamente.

Come l’anno scorso, vorrei infine ringraziare tutti i relatori per la loro squisita disponibilità che ha reso possibile lo svolgimento regolare del seminario. Un particolare ringraziamento va al collega e amico Franco Nasi per i suoi suggerimenti sempre pertinenti. Dulcis in fundo, vorrei esprimere la mia gratitudine a Giovanna Procacci per il suo prezioso e sempre competente appoggio, senza il quale la pubblicazione del presente volume non sarebbe stata possibile.

Modena, marzo 2006 Hans Honnacker

(6)

5

FRANCO NASI

Le maschere di Leopardi e l’esperienza del tradurre

Ero giovane, così, naturalmente, dovevo travestirmi

J. L. Borges

Le api saccheggiano i fiori qua e là, ma poi ne fanno il miele, che è tutto loro M. de Montaigne

Secondo Antoine Berman la traduttologia non è una teoria della traduzione intesa come

“sapere obiettivante e esteriore”, ma è “l’articolazione cosciente dell’esperienza della traduzione”, ovvero una “riflessione della traduzione su se stessa a partire dalla sua natura di esperienza”.1 Berman spiega che cosa intende per esperienza citando un passo di Heidegger tratto da Unterwegs zur Sprache:

Fare un’esperienza con quel che sia (…) vuol dire: lasciare che venga su di noi, che ci raggiunga, ci piombi sopra, ci rovesci e ci renda altro. In questa espressione, “fare” non significa, appunto, che noi siamo gli operatori dell’esperienza; fare vuol dire qui, come nella locuzione “fare una malattia”, passare attraverso, soffrire da cima a fondo, sopportare, accogliere ciò che ci raggiunge sottomettendoci a lui.

Il soggetto che “subisce” l’esperienza non è estraneo all’esperienza stessa, ma si trasforma con essa.

Meno sofferta, ma per certi versi simile, è l’esperienza del cibo. Mangiando qualcosa ci trasformiamo e ciò che mangiamo diventa parte di noi. Ogni esperienza con il cibo ci porta ad acquisire una conoscenza nuova, sia di ciò che mangiamo sia delle nostre risposte, fisiologiche o di gusto. Come il nostro corpo cambia continuamente, e con esso le nostre reazioni al cibo, così cambiano anche i modi in cui comprendiamo, in cui accogliamo in noi i testi letterari e li traduciamo. La similitudine del traduttore come cannibale “che divora il testo di partenza in un rituale il cui fine è la creazione di qualcosa di completamente nuovo”, introdotta dai traduttori brasiliani e ricordata da Susan Bassnett (1993),2 rientra nella stessa famiglia d’immagini che sottolineano come ogni elemento nel processo (non solo il testo, dunque, ma anche il traduttore, e di certo anche la percezione che abbiamo dell’autore e del testo originale) subisca una trasformazione.

L’esperienza della traduzione di un testo letterario, dunque, non può lasciarci come eravamo, così come non può lasciare inalterata la nostra riflessione sull’esperienza del tradurre, quella che Berman chiama, appunto, traduttologia. Al contrario, l’imposizione di una teoria dogmatica all’esperienza del tradurre, una teoria che muove dalla definizione di che cosa deve essere la traduzione, che cosa deve fare il traduttore, renderà ogni esperienza traduttiva una tautologia: non faremo esperienza dell’altro, ma reitereremo l’esperienza di un io sterile e chiuso in sé che guarda l’altro, qualunque esso sia, con le stesse lenti deformanti, imponendosi all’altro.

Le teorie sulla traduzione, così come i sistemi filosofici chiusi e definitivi, danno l’impressione di grande solidità e scientificità, ma mostrano spesso un’asettica indifferenza nei confronti dell’esperienza. Le riflessioni non sistematiche di chi passa faticosamente attraverso l’esperienza del tradurre sembrano invece vibranti di vita anche perché segnate da contraddizioni, incertezze, affermazioni e smentite, tutti segni di quella provvisorietà di cui è sostanziata l’esistenza (e la traduzione). I poeti che traducono i poeti e che sanno riflettere sulla loro esperienza di

1 Berman (2003), p. 16.

2 Bassnett (1993), p. 5.

(7)

6

traduzione offrono in questo senso materiali preziosissimi alla traduttologia. Anche la cultura di lingua italiana ha avuto i suoi Novalis e Hölderlin, basti pensare alle intense pagine di Foscolo sulle traduzioni omeriche dei primi dell’Ottocento o, nel Novecento, alle riflessioni di Giudici sulla sua versioni di Puškin3 o di Luzi su Mallarmé.4 Queste riflessioni sono ancor più interessanti quando mostrano come l’esperienza del tradurre trasformi anche lo stile e le poetiche di questi poeti.

Studiare le influenze del tradurre nella definizione delle poetiche costituisce un percorso ricco di sorprese, anche nel caso dei nostri maggiori da Leopardi a Pascoli a Caproni. Come scriveva Anceschi in un intervento sul “verri” del 1960:

Le traduzioni ci danno il tono, la misura, il diretto significato del modo di leggere di un secolo, di un movimento letterario, di una personalità: quel modo di leggere, quel gusto particolare che nel discorso critico esige di essere trasposto, sia pure per immagini, in un ériger en lois, qui può essere dato immediatamente nel modo con cui nel passaggio dal testo originale al testo tradotto si sottolineano certe ragioni formali, se ne trascurano, ignorano, dimenticano altre.5

Un caso esemplare che mostra la continua e sollecitante complementarità fra traduzione e creazione è il giovane Leopardi. Già De Sanctis, nelle sue fondamentali lezioni del 1876, a proposito della traduzione del quinto idillio di Mosco, aveva chiarito quanto la traduzione sia decisiva per il poeta di Recanati:

Questa non è una traduzione, è poesia originale, e direi profetica. Perché qui c’è già un primo indizio della maniera leopardiana: la base idillica della sua anima e del suo canto, la prima e tenue corda di quello che un giorno sarà una orchestra.6

L’interesse per la riflessione di Leopardi sulla traduzione è invece più recente, e non è privo di momenti particolarmente fecondi come gli studi di Emilio Bigi, Antonio Prete, Pino Fasano, o l’utile recente compendio di Simonetta Randino, solo per citarne alcuni. Le pagine come sempre illuminate dello Zibaldone, le note che frequentemente Leopardi premette alle traduzioni che intende pubblicare, le traduzioni stesse e le recensioni costituiscono un materiale prezioso per indagare a fondo l’esperienza e la riflessione di uno scrittore che non finisce mai di stupire per la sua singolarissima forza profetica.

Cercherò, qui di seguito, correndo un poco e trascurando molti testi importanti, di inoltrarmi per un piccolo tratto di questo intricato percorso, fatto di esperienze (I) e di riflessioni (II), che porta il giovanissimo Leopardi a cimentarsi nella invenzione/traduzione di alcuni frammenti per poi giungere alla stesura della sua prima canzone, all’Italia, nascondendosi spesso con una maschera, una specie di schermo, che gli permette di pubblicare le sue prime prove poetiche quasi senza esporsi (III). In questo percorso s’incontrano non solo curiose e ben architettate finzioni poetiche, ma anche momenti di originale e anticipatrice riflessione sulla traduttologia, a testimonianza di una continua e feconda hölderliniana “prova dell’estraneo”.7 Anche grazie a queste “prove di ascolto” e a queste sfide (ogni traduzione letteraria è una prova, una sfida) Leopardi giunge all’acquisizione e alla definizione del suo stile personalissimo, semplice e prezioso, così ben descritto nelle pagine dello Zibaldone, e modello della poesia italiana del Novecento.

I. Esperienze. Nel 1815 Giacomo Leopardi, diciassettenne, traduce dieci poesie attribuite a Mosco, autore greco del II sec. a.C. Nel Discorso sopra Mosco Leopardi nota che nello stile di Mosco è presente una caratteristica che diventerà uno dei capisaldi della poetica del poeta di Recanati:

La natura nelle poesie di Mosco non è coperta dagli ornamenti, non è offuscata dalle frasi poetiche, non è serva dell’arte. (…) Mosco è un poeta civilizzato ma non corrotto; è un pastore che è sortito

3 Giudici (1982), p. X.

4 Luzi in Buffoni (2004), p. 50.

5 Anceschi (1960), p. 637.

6 De Sanctis (1983), p. 36.

7 Vedi Berman (1997), pp. 207 sgg.

(8)

7

qualche volta dalla sua villa, ma che non ha contratto i vizi dei cittadini; è il Virgilio dei Greci, ma un Virgilio che inventa e non trascrive, e che inoltre canta in una lingua più delicata, e in un tempo che conserva alquanto dell’antica semplicità.8

Quello dell’“antica semplicità” e della contrapposizione ai modi artefatti della società è un tema che ritorna continuamente nelle pagine giovanili dello Zibaldone.9 Una scrittura antica nella sua semplicità non è frutto di un’intuizione libera e ingenua, ma piuttosto di una ricerca rigorosa e prolungata: “E lo vediamo nei fanciulli che per le prime volte si mettono a comporre: non iscrivono mica con semplicità e naturalezza (...): ma per contrario non ci si vede altro che esagerazione e affettazioni e ricercatezze” (Zib., 20).10 Scrivere in modo artefatto o secondo affettazione, in poesia, coincide spesso con l’appiattirsi del poeta alle regole e alle norme della poetica dominante di un certo periodo. Così il poeta anziché “inventare” “trascrive”, si adatta alla norma, segue fedelmente il modello in voga in quel momento, e trova in esso una omologante protezione.

I.1 Leopardi traduttore accoglie appieno lo stile “degli ornamenti” o della dizione poetica condivisa in alcune versioni giovanili. Emblematica è la sua traduzione del frammento 168B di Saffo, databile tra il 1814 e il 1816, e pubblicato a Recanati nel 1816 in un opuscoletto assieme ad altre sette versioni dal greco in occasione delle nozze Santacroce Torri:

Oscuro è il ciel: nell’onde La luna già s’asconde, E in seno al mar le Pleiadi Già discendendo van.

È mezzanotte, e l’ora Passa frattanto, e sola Qui sulle piume ancora Veglio ed attendo invan.11

Si capisce bene quanto questa prova sia poco più di un esercizio di stile se si confronta con una recente traduzione in prosa di Ferrari:

È tramontata la luna con le Pleiadi, la notte è al mezzo, il tempo trascorre, e io dormo sola.12 oppure con una in versi, quasi coeva, di Foscolo (1794):

Sparìr le Pleiadi Sparìo la luna, È a mezzo corso La notte bruna.

Già fugge rapida Ogni ora, e intanto, Sola in le piume, Io giaccio in pianto.13

È evidente che la scelta di una forma chiusa, in Leopardi come in Foscolo, caratterizzata da un sistema preciso del metro, degli accenti e delle rime, dà alle versioni una facile musicalità. La versione di Leopardi sembra, fra le due, quella meno sciolta. Introduce un’immagine (il mare in cui scompaiono la luna e le Pleiadi) non presente nell’originale; insieme alle zeppe (come “ancora”),

8 Leopardi (1988), I, p. 480.

9 Vedi Anceschi (1992).

10 Leopardi (1969), p. 14.

11 Leopardi (1988), I, p. 898.

12 Saffo (1987), p. 233.

13 Foscolo (1976), p. 251.

(9)

8

alle apocopi “mar” e “ciel”, così come quelle finali delle quartine (“van” e “invan”) sembrano artifici forzati, utili solo per far quadrare il cerchio della misura metrica assunta (quartine di settenari piani, con la sola eccezione di un settenario sdrucciolo, e gli ultimi versi tronchi). Lo si capisce anche semplicemente contando le parole (un criterio che non spiega molto ma che dà conto della capacità di restare più o meno aderente all’economia del dettato poetico dell’originale): le 17 del testo originale in greco di Saffo diventano 19 nella versione di Ferrari, 28 in Foscolo e 38 in Leopardi. Un altro luogo retorico consolidato è la metonimia delle piume per il letto. Sia Foscolo sia Leopardi l’adottano quasi fosse il solo modo codificato dalla poesia per riferirsi al luogo e quindi all’atto del dormire. Come è noto, la poesia è stata in molte occasioni della sua storia una lotta fra norme convenzionali e impulsi a dire in modi nuovi. Nel caso della versione di Saffo non credo che l’attività di Leopardi come traduttore sia di alcun rilievo critico, se non come una tessera per ricostruire il mosaico della sua biografia intellettuale: la lotta fra l’impulso al nuovo e l’adeguamento alla norma è qui vinta dalla seconda intenzione. Già De Sanctis aveva evidenziato le incertezze che caratterizzano questo volgarizzamento leopardiano: “‘Cielo oscuro’ e ‘notte negra’

sono fratelli carnali – scrive il critico napoletano – e il tramonto della luna e delle Pleiadi è descritto come se Saffo lo guardasse dalle piume, e “frattanto”, “ancora”, “invan” sono rimpinzamenti inutili di poeti tironi”; in Saffo vi è una “Divina semplicità, che ha la sua espressione e il suo motivo nell’ultimo verso, il sentimento della solitudine nel silenzio della notte… Semplicità non sentita qui, e guasta da ricami e da ripieni.”14

I.2 Altro discorso va fatto per la traduzione del quinto idillio di Mosco. Anche in questo caso, seguendo alcune indicazioni di metodo di Berman,15 si può lasciare da parte inizialmente il confronto con il testo originale, per concentrarsi sull’organicità del testo di arrivo e sulla comparazione con una versione quasi contemporanea della stessa composizione. Si tratta della traduzione di Luigi Rossi (1764-1824), apparsa per la prima volta nel 1795 e ripubblicata nel 1809, in un elegante volumetto dedicato (e mi sembra doveroso ricordarlo in questa sede) “al conte Giovanni Paradisi, presidente degli Studi di Reggio”. Nell’idillio quinto si parla delle diverse reazioni (di oblio, di paura, o di abbandono sognante) che l’io poetico prova di fronte al mare ora calmo ora in tempesta e alla terra calma o battuta dal vento:

Quando il vento lieve lieve Sferza il glauco ondoso letto, Il cor timido nel petto Sento scotersi e balzar.

Né conforto ormai riceve dalla terra in pria diletta:

Più la vista allor l’alletta Del tranquillo immenso mar.

Ma qualor bianco rimugge, E s’incurva il salso piano E rigonfio il flutto insano L’atre spume incalza al suol, Dal mar l’alma allor rifugge,

Lunge io scampo, e il guardo errante Alla terra, ed alle piante

Rimirar mi giova sol.

14 De Sanctis (1983), pp. 28-29.

15 Si veda Berman (2000).

(10)

9 La campagna a me diviene

Fida sede, e dove invita D’alto bosco ombra gradita, Mi sollecita il pensier.

Là, se ancora a romper viene Que’ silenzj un vento alpino, Parmi il fremito del pino Bel concento lusinghier.

Pescatore sventurato!

Cui la barca è casolare, D’esercizio è campo il mare, Preda incerta i pesci son.

Sotto un platano comato per me il sonno amo, e d’un rio, Che al villano un dolce obblio, Non terrore apporta, il suon.16

Il testo di Mosco è giunto a noi senza titolo. In francese, ricorda Leopardi, era stato tradotto malamente da M. Poinsinet de Sivry, che lo intitolò La paresse, titolo che il poeta recanatese avrebbe ripreso “se i termini italiani di pigrizia, infingardaggine, poltroneria, non mi fossero sembrati troppo grossolani per un Idillio di Mosco, che però amai meglio lasciar senza titolo”.17 Ecco la versione del 1815 di Leopardi:

Quando il ceruleo mar soavemente Increspa il vento, al pigro core io cedo:

La Musa non mi alletta, e al mar tranquillo, Più che alla Musa, amo sedere accanto.

Ma quando spuma il mar canuto, e l’onda Gorgoglia, e s’alza strepitosa, e cade, Il suol riguardo, e gli arbori, e dal mare Lungi men fuggo: allor sicura, e salda Parmi la terra, allor in selva oscura Seder m’è grato, mentre canta un pino Al soffiar di gran vento. Oh quanto è trista Del pescator la vita, a cui la barca

È casa, e campo il mare infido, e il pesce È preda incerta! Oh quanto dolcemente D’un platano chiomato io dormo all’ombra!

Quanto m’è grato il mormorar del rivo, Che mai nel campo il villanel disturba!18

Se dovessimo guardare soltanto alla regolarità e al virtuosismo delle soluzioni metriche, allora la versione di Rossi sarebbe senz’altro da preferire: quartine di ottonari piani con l’ultimo tronco e uno schema di rima (ABBC - ADDC) che si ripete ogni due quartine. Un intreccio minuziosamente costruito, di fronte al quale l’endecasillabo sciolto di Leopardi, reso ancor meno cadenzato dai numerosi enjambement, potrebbe apparire prosastico. Eppure, credo che all’orecchio di tutti noi, oggi, la versione di Leopardi suoni meno artefatta, assai più semplice, naturale; in una parola:

“poetica”. Questo giudizio non si basa su una comparazione fra testo originale e testo in traduzione, ma semplicemente sull’ascolto dei nuovi idilli di Mosco in italiano. Come dice Berman: “Solo la

16 Rossi (1809), p. 125.

17 Leopardi (1988), I, p. 476.

18 Ivi, p. 509.

Riferimenti

Documenti correlati

24/S Second-cycle degree in New Technologies for History and Cultural Heritage Studies – Demo-ethno-anthropological curriculum. 24/S Second-cycle degree in New Technologies

Il corso permette altresì l’accesso a corsi di laurea magistrale nei settori della comunicazione e dello spettacolo attivati presso la sede di Milano

24/S Second-cycle degree in New Technologies for History and Cultural Heritage Studies – Demo-ethno-anthropological curriculum. 24/S Second-cycle degree in New Technologies

5 First-cycle degree in Humanities – Modern curriculum 5 First-cycle degree in Humanities – Philosophical curriculum 11 First-cycle degree in Modern European Languages

5 First-cycle degree in Humanities – Modern curriculum 5 First-cycle degree in Humanities – Philosophical curriculum 11 First-cycle degree in Modern European Languages

24/S Laurea Magistrale in Nuove Tecnologie per la Storia e i Beni Culturali – curriculum archeologico. 24/S Laurea Magistrale in Nuove Tecnologie per la Storia e i Beni Culturali

PROFESSIONALE DEL CORSO DI STUDIO Il corso di Laurea magistrale è finalizzato alla formazione di laureati in possesso di approfonditi strumenti teorici e metodologici

5 First-cycle degree in Humanities – Modern curriculum 5 First-cycle degree in Humanities – Philosophical curriculum 11 First-cycle degree in Modern European Languages