• Non ci sono risultati.

- Capitolo I - Marco Emilio Scauro, Princeps senatus: analisi linguistico-storiografica dei frammenti dei de vita sua libri.

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "- Capitolo I - Marco Emilio Scauro, Princeps senatus: analisi linguistico-storiografica dei frammenti dei de vita sua libri."

Copied!
92
0
0

Testo completo

(1)

- Capitolo I -

Marco Emilio Scauro, Princeps senatus:

analisi linguistico-storiografica dei frammenti dei de vita sua libri.

____________________________________________________________

Dell’autobiografia di Marco Emilio Scauro sono pervenuti solo sette frammenti; a complicare il quadro e a rendere difficile ogni dimostrazione sicura, sta il fatto che queste poche sezioni sono anche piuttosto esigue, composte da qualche frase o appena da qualche parola tramandata dai grammatici. Tuttavia non è impossibile cercare, a partire da poche notizie certe, di fornire qualche riflessione interessante, sia per quanto riguarda il contenuto dell’opera, sia a proposito dello stile adottato dall’autore.

Come annunciato nellʼintroduzione a questo lavoro, per i frammenti di Scauro si è preferito procedere a una numerazione nuova rispetto a quella di Peter e della Chassignet, andando ad esaminare prima i frammenti che presentano un maggiore interesse grammaticale e linguistico, poi quelli di contenuto più spiccatamente storiografico. Il primo proviene dall’opera di Flavio Sosipatro Carisio, Ars grammatica1:

frammento 1 (2C, 2P1 e 2)

CHARIS., Ars grammatica I, p. 186 B: Vectigaliorum [...]. Vectigalium Messala De uectigalium Asiae constitutione, P. quoque Rutilius Rufus De uita sua libro IV, Scaurus libro III: Vectigalium se minus fructos.

Vectigaliorum […] Vectigalium riporta Messala nel de uectigalium Asiae constitutione, (e

così, ndt) anche P. Rutilio Rufo nel De uita sua e Scauro nel III libro: che hanno

(2)

Il grammatico elabora la sua Ars intorno al 360 d. C. L’opera è suddivisa in cinque libri, secondo un’organizzazione piuttosto complessa e scrupolosa: il primo libro è dedicato alla ές e al nome, con la definizione di genere, numero e caso. Il secondo e il terzo libro hanno carattere più maracatamente morfologico e si propongono di analizzare compiutamente tutte le parti del discorso; il quarto riguarda vitia et virtutes nell’uso della lingua, e si presenta come una trattazione sullo stile, sull’uso di figure retoriche, sul barbarismo e, in misura minore, sulla metrica. L’ultimo libro, di carattere evidentemente miscellaneo, comprende cataloghi relativi a questioni di vario ordine, come l’uso idiomatico della lingua e le differenze espressive fra sinonimi.

Il frammento sopra riportato proviene dunque dal primo libro, e Carisio lo riporta nel paragrafo intitolato de analogia, ut ait romanus. Dopo un’introduzione al problema, ecco che il grammatico procede con l’elencazione di vocaboli fino a creare un vero e proprio catalogo di analogie in uso nella lingua latina.

Per trarre da questo frammento più indicazioni possibili è necessario operare un’integrazione, inserendo anche la parte iniziale della voce Vectigaliorum che la Chassignet, nell’edizione recente dei frammenti, non ha incluso, in quanto non pertinente al problema dell’autobiografia del nostro personaggio. Questa integrazione precede immediatamente quello che abbiamo indicato come frammento 1:

frammento 1 - integrazione

Vectigaliorum Cicero ad Atticum; at enim in ratione consiliorum suorum, sed et de lege agraria vectigalium. At vero Varro de bibliothecis II vectigaliorum et Asinius Pollio vectigaliorum rei publicae esse habendam’.

Vectigaliorum scrive Cicerone ad Attico3; al contrario invece nello scritto de consiliis

suis e anche nel de lege agraria usa vectigalium. Invero Varrone nel secondo libro de bibliothecis scrive vectigaliorum, e anche Asinio Pollione: ‘bisogna aver cura delle

imposte dello Stato’.

Circa l’uscita in –ium naturalmente non c’è nessun problema ad identificarla come propria del genitivo plurale di vectigal, sostantivo neutro in –al. La desinenza –orum che invece troviamo in Cicerone, Varrone e Asinio Pollione rimanderebbe ad un’altra forma di nominativo, sempre neutro, vectigalium, assai poco attestato se non al genitivo plurale, appunto, e all’ablativo, vectigaliis.

(3)

A ben vedere, la desinenza del genitivo plurale dei temi in –o deriva da un arcaico

*-om, conservatosi nella più scura sillaba finale –um, propria di alcuni sostantivi della seconda

declinazione, come deus (deum), nummus (nummum), modus (modum) ecc...

La desinenza –orum, che ben conosciamo per il genitivo plurale della seconda declinazione, si sarebbe formata solo in un secondo tempo per analogia con i temi in –a; per questa ragione Carisio porta ad esempio il termine vectigaliorum come caso chiaro di analogia morfologica.

Il grammatico non fa intendere con le sue considerazioni, invero piuttosto sintetiche, che l’uso dell’una o dell’altra forma implicasse da parte dell’autore una presa di posizione stilistica: il fatto stesso che Cicerone utilizzi in maniera indifferente sia

vectigalium che vectigaliorum deve farci presumere che fra i due termini non fosse avvertita

una così rilevante diversità. Le citazioni dall’epistolario ad Attico, dal de lege agraria e dal de

consiliis suis sfortunatamente non ci aiutano a contestualizzare in maniera più precisa

l’utilizzo dell’una o dell’altra forma: infatti le prime due provengono da sezioni perdute dei due scritti ciceroniani, e la terza da un’opera che conosciamo solo grazie a frammenti e notizie disperse.4

Anche la citazione di Varrone proviene da un’opera non conservata, il De bibliothecis, che Carisio chiama in causa qui e altrove5, sempre con lo scopo esclusivo di chiarire alcuni

fenomeni grammaticali. Altrettanto dicasi per Asinio Pollione e Messala, le cui citazioni risultano entrambe di carattere frammentario.

In assenza di una collocazione precisa, non esistono gli elementi sostanziali per affermare che l’uso di una forma piuttosto che un’altra sia dovuto a esigenze contenutistiche.

Concludendo, Marco Emilio Scauro utilizza vectigalium, ma nella sensibilità dell’uditorio non sarà stata diversa la ricezione per due forme che, oltre ad apparire identiche, avevano anche lo stesso significato. Se Scauro avesse voluto in questa sede seguire uno stile “di maniera”, da “uomo d’altri tempi” quale Cicerone ce lo indica nel

Brutus6, non avrebbe certamente scelto l’unico caso in cui l’ambiguità della forma non

(4)

Nuovi spunti di riflessione sono dati dall’analisi del prossimo frammento7: frammento 2 (4 P 1 e 2 e C)

DIOMED. I p. 374 Keil: Possum tamen nonnulli ueterum et passiua declinatione figurarunt, potestur et possuntur [... ]. Scaurus De uita sua tertio poteratur etiam sicut possitur dicitat.

Tuttavia alcuni degli antichi utilizzarono possum e anche la coniugazione passiva,

potestur e possuntur [...]. Scauro, nel terzo libro del De vita sua ripete spesso poteratur

così come possitur.

Diomede Atanasio compone la sua opera circa un decennio dopo Carisio e segue uno schema di trattazione per molti versi analogo; tuttavia la sua Ars grammatica prevede non cinque libri ma tre, andando a collocarsi entro lo schema più tradizionale delle artes

tripartitae, diffuse nella latinità tardoimperiale. Il primo libro esamina diffusamente la

morfologia e la sintassi: i sostantivi, la loro diversa flessione, il genere e il numero, i composti; un paragrafo è dedicato anche alla concordanza dei verbi con i casi. Il secondo libro passa ad una sfera che può essere definita più che altro come “estetica del linguaggio”: vi si trovano ampi cenni di fonetica e di ortoepia, la descrizione dei vari tipi di sillabe, la definizione della grammatica come scienza; interessante e degno di nota il paragrafo dal titolo de latinitate, la cui forza normativa e prescrittiva appare evidentissima fin da questo assunto iniziale8: «Latinitas est incorrupte loquendi observatio secundum Romanam

linguam [...]. Natura verborum nominumque immutabilis est nec quicquamaut minus aut plus tradidit nobis quam quod accepit», cioè «Latinità è l’osservanza di un linguaggio impeccabile, secondo la lingua romana […] la natura dei verbi e dei nomi è immutabile e nessuno mai ci ha trasmesso né di più né di meno di quel che ha appreso».

Il terzo e ultimo libro dell’opera del grammatico va a completare il quadro con la trattazione della metrica e della scrittura in versi.

Naturalmente per cogliere pienamente il senso di quanto Diomede afferma quando parla di “linguaggio impeccabile” e di una lingua che si tramanda praticamente immutata, bisogna tenere presente la sua finalità educativa nei confronti di un popolo che ritiene in qualche modo imbarbarito; dal punto di vista del grammatico è necessario un ritorno alla lingua pura della classicità, sinonimo di latinità autentica. Ma la sua è una difesa dalla contaminazione linguistica che, inevitabilmente, imperversa nel suo tempo. La lingua si

(5)

evolve dunque parallelamente alle vicende politiche, al tempo di Diomede come nei secoli precedenti, quando Roma andava elaborando la sua produzione culturale; e nonostante le affermazioni decisamente prescrittive del secondo libro circa la corretta accentazione, la pronuncia, la purezza della lingua latina da preservare incolume dalla barbarie, evidentemente Diomede non può prescindere dall’effettiva plasticità della lingua, quella dei romani come qualunque altra: il primo libro della sua Ars, pur nel tentativo di classificare, deve in realtà spostarsi su un fronte del tutto descrittivo.

Il frammento 2 che andremo ad esaminare da vicino, fa parte proprio della sezione dedicata alla morfologia. Nel paragrafo in questione, de coniugationibus verborum, si trova una vasta descrizione della flessione verbale, comprese molte particolarità. Il verbo sum e i suoi composti sono classificati da Diomede fra i corrupta verba, definizione che tocca anche a

volo, fero, edo e relativi composti.

La sola menzione di corrupta verba rispetto a una regola stabilita ci rimanda all’ambito dell’eccezione, e nella trattazione di Diomede i corrupta verba sono quelli che hanno un comportamento particolare, non solo dal punto di vista morfologico ma anche per la sintassi. Sono insomma quei verbi che comunemente indichiamo come “atematici” o “irregolari”. A proposito dell’ausiliare sum afferma: «Sum verbum in primis corruptum est, non tantum propter ceterorum declinationem sed et ipsa positione, quoniam nullum in toto sermone tale est, nisi quae ex eo conposita sunt9», ovvero «Il verbo sum prima di tutti è

verbo corruptum, non solo in rapporto alla declinazione degli altri, ma per la stessa posizione, poiché nessun verbo in tutta la lingua è tale, se non i suoi composti».

Da questo punto in poi, sempre nell’intento di esaurire la descrizione del composto

possum, Diomede riporta un elenco di testimonianze, compreso il frammento 2, utili per la

ricostruzione dell’evoluzione linguistica. Anche in questo caso è necessario integrare il passo per ottenere il maggior numero possibile di informazioni. In questo caso, evidentemente , l’integrazione va a contenere parte di quello che abbiamo indicato come frammento 2:

frammento 2- integrazione

Item potestur apud Ennium reperimus, nec retrahi potestur imperiis, Scaurus De uita sua tertio poteratur etiam sicut possitur dicitat. Ex eodem etiam potis sit dicebant, item potis est pro potest ut apud eundem Ennium: quis potis ingentis oras evolvere belli, et Vergilius: At non Euandrum potis est vis ulla tenere.

(6)

Così in Ennio troviamo potestur ‘né può esser distolto dall’imperium’. Scauro, nel terzo libro De vita sua ripete spesso poteratur così come possitur. Dallo stesso verbo dicevano anche potis sit, così come potis est per potest, come si trova nello stesso Ennio: ‘chi può dispiegare i grandi scenari della guerra?’ e Virgilio ‘ma non vi è forza alcuna che possa trattenere Evandro’.

Diomede in un certo senso risolve la questione a priori, ritenendo probabilmente Ennio e tutti gli altri dei veteres, rappresentanti di un parlare che è altro rispetto alla norma conosciuta, e che quindi interessa per la classificazione e lo studio del linguaggio presente solo a livello di particolarità. Ma non bisogna correre il rischio di un appiattimento temporale che finirebbe con il disconoscere l’effettiva evoluzione della lingua e le scelte stilistiche che ne conseguono.

Potis sit e potis est sono chiaramente paralleli a possit e potest, e quaggiù risulta

evidente la formazione del composto da due elementi in principio distinti. Niente di strano dunque nel trovare queste forme in Ennio, il quale utilizza addirittura il solo elemento potis senza la voce dell’ausiliare sum; in questo caso est poteva evidentemente essere sottinteso senza ripercussioni sulla comprensibilità del testo. L’inserimento di potest non avrebbe creato problemi per la metrica quanto un potis est, ma Ennio sceglie di non utilizzare la forma composta, che pure doveva conoscere.

Non stupisce neppure trovare potis est in Virgilio; per quanto all’epoca potest fosse forma già assai diffusa, le esigenze stilistiche (e forse anche metriche) di un grande componimento epico superavano naturalmente quelle della lingua parlata. Non che si possa quindi classificare Virgilio fra i veteres per una sua peculiare collocazione cronologica; certamente è un vetus per quel che riguarda alcuni tratti della lingua, ma si tratta di una lingua estremamente studiata e calibrata, dove anche un particolare apparentemente insignificante costruisce il suo bravo effetto di stile.

Ennio utilizza anche potestur come corrispettivo passivo di potest, a conferma del fatto che il verbo, in un modo o nell’altro, è già avvertito come un’ unica forma, tanto che se ne usa il passivo; lo associa ad un’altra forma passiva, l’infinito presente retrahi da retraho; la traduzione verosimilmente sarà “esser distolto”, “esser trascinato via”. Questa costruzione risulta alquanto pesante, dal momento che il solo infinito avrebbe già espresso il valore passivo dell’azione; tuttavia non ci troviamo affatto davanti a una delle invenzioni stilistiche di Ennio anzi, questo tipo di costruzione con doppio passivo aveva una certa diffusione10.

(7)

Evidentemente poteratur e possitur, utilizzati da Scauro come corrispettive forme passive di poterat e possit riprendono da un filone espressivo ben documentato, per quanto esiguo; la forma passiva è poi andata via via perdendosi, praticamente fino a scomparire del tutto dalla consuetudine d’uso e fermandosi nell’ambito dell’eccezione, se un grammatico del IV sec. d.C. ritiene di dover inserire le sue attestazioni fra le anomalie. Tuttavia quali fossero i campi di utilizzo e come queste forme si siano perdute, lasciando spazio alla sola diatesi attiva, non è problema facilmente risolvibile. Rimane anche da chiarire, per la nostra ricerca, se Scauro, facendo uso di questa forma in un’epoca che non può dirsi ancora “classica” ma non è più certamente “arcaica”, si attenga ad una prassi più o meno comune o vada invece intenzionalmente a riesumare qualche residuo di un linguaggio ormai lontano, nel tentativo magari di rendere altisonante la sua autodifesa. Una risposta, sebbene incompleta, a queste questioni, può esser data attraverso l’analisi di altre attestazioni del passivo di possum.

Particolare interesse hanno in questo frangente le forme utilizzate da Catone al capitolo 154 del De agri cultura, grazie alle quali acquisiamo indicazioni preziose:

«Vinum emptoribus sine molestia quo modo admetiaris. Labrum culleare illae rei facito: id habeat ad summum ansas IIII, uti transferri possitur, id imum pertundito: ea fistulam subdito, uti opturarier recte possit, et ad summum, qua fini culleum capiet, pertundito [...]11»

«In che modo misurerai il vino ai compratori senza impiccio. Sia fatto a questo scopo un recipiente della capacità di un culleo: abbia esso in cima quattro anse, così da poter essere trasportato; sia forato in basso: qui sia inserita una cannula, così da poter essere tappato correttamente, e in cima, dove finisce la misura del culleo, sia forato [...]»

L’opera De agri cultura di Catone ha una lunga storia di edizioni critiche. Per rimanere, com’è opportuno per la presente trattazione, nell’ambito degli ultimi centotrenta anni, troviamo inizialmente l’edizione del Keil12 che riporta per il nostro passo una versione

sostanzialmente analoga a quella sopra proposta, salvo il fatto che laddove Mazzarino accetta opturarier recte, notazione interamente tràdita dal codice Marciano del Poliziano, Keil riteneva invece di dover preferire opturari, presente in molti codici. Limitatamente a questo passo, aveva già intrapreso la stessa via di interpretazione che sarà di Mazzarino anche Goetz, nel suo lavoro del 1937, e altrettanto farà Goujard per l’edizione Les Belles

(8)

Lettres del 1975: in entrambe troviamo sempre opturarier recte. Se si accetta questa tradizione

ci troviamo davanti ad un infinito arcaico in -ier che non desta preoccupazioni.

Al di là delle diverse interpretazioni del testo e delle motivazioni che possono aver spinto i filologi a scegliere, come sempre, fra recensioni più conservative e altre invece integrative, è doveroso tenere presente la qualità della lingua utilizzata da Catone, una lingua ancora in ricerca, almeno per quel che riguarda la prosa scritta. Altrettanto doveroso è ricordare la particolare genesi di questo testo, il quale con ogni probabilità non ricevette l’ultima revisione da parte dell’autore. È quindi da prendere in considerazione l’ipotesi di un’opera che non riproduce totalmente e definitivamente le intenzioni espressive dell’autore; ne offre certamente un’idea molto consistente, ma è bene non dimenticare che la composizione doveva ancora subire un rimaneggiamento finale.

Nella seconda riga troviamo l’espressione transferri possitur: nuovamente il passivo di

possum costruito con l’infinito, anch’esso passivo. Quello che però interessa per le nostre

considerazioni è il confronto diretto con la forma riportata alla terza riga, proprio quell’opturarier possit che è costato qualche fatica di trasmissione nei secoli. Nel medesimo paragrafo, a distanza veramente ravvicinata, lo stesso concetto di possibilità che ricade sull’oggetto viene espresso in due modi: prima con un infinito passivo, transferri, costruito con possitur, e dopo con un’espressione leggermente diversa, che esprime però un concetto grammaticalmente analogo: un infinito in –ier , come abbiamo già detto decisamente arcaico e secondo alcuni di origine osca, accompagnato da possit, in diatesi attiva. Sembrerebbe di cogliere in questo passo quasi un momento di transizione, una fase in cui per l’autore e per il lettore è congruo l’utilizzo dell’una come dell’altra forma. Per quanto lo stile di quest’opera catoniana sia paratattico, e la composizione sia da considerarsi incompleta, non è impensabile che l’autore, già in fase di prima stesura, abbia evitato una ripetizione laddove la lingua lo consentiva. Qualunque sia stata la motivazione di questa scelta, Catone ci offre l’importante testimonianza di quella che sembra una chiara contemporaneità d’uso. Ma l’utilizzo del passivo di possum, sebbene con una frequenza che non possiamo quantificare con esattezza, non si ferma alla metà del II sec. a.C. Infatti poteratur si trova

anche in un frammento di Celio Antipatro13:

«cum iure sine periculo bellum geri poteratur»

(9)

Celio è uno storico, ed è rilevante per la presente ricerca in quanto scrive la sua opera dopo la metà del II sec. a.C., in un periodo non troppo lontano dalla composizione dell’autobiografia di Scauro.

Celio Antipatro redige una Historia, pervenutaci solo in frammenti, che aveva la particolarità di essere monografica, riguardando esclusivamente la seconda guerra punica. La monografia diventerà via via un genere consolidato nella letteratura posteriore, ma in questo momento siamo ancora in una fase embrionale. Non si può dire che l’opera di Celio fosse di perfetta attualità; tratta comunque un argomento che doveva apparire tutt’altro che lontano per i lettori. C’è da ritenere che il linguaggio utilizzato non dovesse essere, sia nei fatti che nell’intenzione dell’autore, particolarmente arcaizzante.

Un’altra attestazione interessante della voce poteratur proviene dalle orazioni di Caio Gracco; in realtà si tratta di una notazione estremamente frammentaria, attribuita dalla Malcovati14 ad un’ orazione contro P. Popillio Lenate, il console del 132 che aveva esiliato i

compagni di fazione di Tiberio Gracco. La scarsità dei frammenti pervenuti ci impedisce di ricostruire il contenuto dell’orazione, ma sappiamo dal racconto di Gellio che, in quella occasione, Caio tenne almeno due discorsi: uno dai rostrie uno nei conciliabula.

L’esame attento dello stile retorico assunto da Caio Gracco è argomento che va oltre la presente ricerca e richiederebbe una trattazione più vasta di quella possibile in questa sede; tuttavia vale la pena di avanzare alcune osservazioni, strettamente pertinenti a questa rassegna di citazioni. Se è innegabile che il minore dei Gracchi, così come il maggiore, avesse avuto una raffinata educazione dal punto di vista della filosofia e della retorica, e se è opinione altrettanto accettabile che fosse un abile parlatore, non solo per le lodi che ne fa Cicerone, ma anche per l’evidenza della sua capacità politica, è facile concludere che i suoi discorsi fossero estremamente calibrati per ottenere il fine prefisso; calibrare un discorso, in età repubblicana, significa naturalmente aggiustare il proprio stile retorico anche nella forma e nelle scelte di registro, non solo nei contenuti. Non c’è modo di ritenere che Caio Gracco scegliesse per le sue orazioni termini che andassero troppo oltre la prassi del linguaggio corrente, e meno che mai termini volutamente arcaizzanti o completamente al di fuori dell’uso comune, sia che il discorso fosse pronunciato dai rostri, sia che si tenesse nei conciliabula.

Esisteva evidentemente una contemporaneità d’uso delle due diatesi di possum, contemporaneità che, come abbiamo visto, resiste fino all’età di Celio Antipatro e dei Gracchi e un poco oltre, almeno per ciò che riguarda le consuetudini dell’oratoria, giungendo finalmente agli anni di composizione dell’autobiografia di Scauro. Certamente la decontestualizzazione della notizia di Diomede riduce fortemente l’orizzonte della

(10)

riflessione linguistica; ci è perfino impossibile confermare se, nel caso di Scauro, poteratur e

possitur fossero costruiti con l’infinito passivo. Ma la rassegna di testimonianze sopra

riportata fa pensare ad un’evoluzione che riguarda un periodo di tempo relativamente lungo; ci troviamo davanti ad un lento processo che, iniziato prima dell’età di Ennio con la presenza di varie forme nelle due diatesi, giunge certamente fino alla fine del II sec. e va anche un poco oltre: troviamo un’attestazione ancora in Lucrezio e in Quadrigario, poi, per noi, il silenzio.

Nell’opera De rerum natura, libro III, v. 1010 troviamo15:

«quod tamen expleri nulla ratione potestur» «che tuttavia in alcun modo potrà essere colmato»

Nello storico Quadrigario, da un frammento tràdito da Nonio Marcello16, ancora:

«potestur pro potest [...] Quadrigarius Annali lib.III: ‘Adeo memorari vix potestur, ut omnes simul suum quisque negotium adorti essent’».

«potestur per potest [...]. Quadrigario, nel terzo libro degli Annali. ‘Così si può menzionare appena, come tutti insieme si fossero accinti ciascuno alla propria occupazione’».

Per Lucrezio, autore collocabile nella fase iniziale dell’età cosiddetta classica, bisogna tener presente da un lato l’esigenza metrica della composizione, dall’altro il suo proprio linguaggio; se è vero che Lucrezio fu un autentico artista della parola e della semantica, è vero anche che nella sua modalità espressiva sono ravvisabili tratti arcaici e aspetti ancora lontani dalla pulita struttura ciceroniana. Il genere naturalmente è quello poetico, e il registro sarà dunque lontano dalla prosa, dall’annalistica, e anche dal sermo cotidianus; d’altra parte si tratta di poesia didascalica, molto legata alla realtà immanente, alla società, alla cultura per cui produce: una sorta di poesia “di divulgazione”. Al di là del dibattito intorno alla datazione del de rerum natura, è sufficiente per la presente ricerca considerare che, essendo l’autore nato poco dopo il 100 a.C. e morto intorno al 50, la composizione possa risalire al più agli anni intorno al 75, più probabilmente a dopo; l’autobiografia di Scauro fu scritta negli anni immediatamente precedenti la morte del consolare: concedendo una finestra molto ampia, fra il 100 e il 90; a distanza di circa trent’anni dall’opera del consolare

(11)

abbiamo quindi ancora un’attestazione, ma davvero non è possibile dire con certezza se quello di Lucrezio sia arcaismo voluto, un capriccio stilistico o un’espressione ancora comune. Può darsi che l’espressione potestur fosse già ritenuta arcaica, e l’autore volesse farne un modesto uso a scopo poetico, come fa con il genitivo femminile in –ai, il genitivo plurale in -um e lʼinfinito in –ier; in tal caso potremmo pensare che questo passivo, praticamente d’uso comune fino all’età dei Gracchi, sia divenuto obsoleto proprio negli anni intorno alla stesura dell’opera di Scauro. Ma è altrettanto possibile, e forse più probabile, che Lucrezio abbia operato una scelta più che altro metrica, andando a collocare a fine verso la sequenza dattilo-spondeo che completa l’esametro, e facendo perciò uso di un’espressione forse vecchia, ma non particolarmente arcaica.

Ancor meno fortunato è il confronto con il frammento di Claudio Quadrigario; si tratta di un personaggio di cui in realtà si sa molto poco, volendosi attenere a dati sicuri. Secondo fonti antiche17 era aequalis Sisennae, ma contemporaneamente anche coetaneo di

Publio Rutilio Rufo e Valerio Anziate. La Chassignet, introducendo il suo lavoro di edizione dei frammenti dell’annalista tardorepubblicano, riferisce questi problemi di datazione e, basandosi sulle notizie ricavabili proprio da uno dei frammenti, propende per una contemporaneità con Sisenna, stabilendo così una collocazione nella prima metà del I secolo a.C.

Da ultimo è opportuno ricordare la presenza del passivo di possum nel linguaggio legale; l’espressione possitur si trova in un testo di legge riconducibile agli anni venti del secondo secolo prima della nostra era18. Tale legge viene identificata da alcuni studiosi come

lex Acilia de repetundis, del 123, da altri come lex iudiciaria del 122, opera di Caio Gracco.

Comunque un testo rilevante che offre un vasto esempio di terminologia legale. La lingua è tecnica, legata certamente a retaggi arcaici che garantiscono qui la specificità della materia trattata; non si può quindi escludere che possitur, anche in pieno I sec. a.C., facesse parte del gergo giuridico, così refrattario ai cambiamenti, legato alla tradizione e spesso pietrificato in strutture fisse. Certamente, la forma in questione si trova appunto nella parte conclusiva del testo di legge, laddove si trattano le questioni più squisitamente pratiche legate alla collocazione della tabula nel foro; quindi si potrebbe anche presumere che il linguaggio sia sì legale, ma formalmente meno tecnicistico di quanto non sia nel corpo vero e proprio, di questa come di altre leggi.

Infine, è ipotizzabile che il passivo di possum sia una forma da utilizzare non solo nel linguaggio strettamente legale ma un po’ in tutte le situazioni di vita politica: orazioni, discorsi, annalistica e, naturalmente, opere autobiografiche: non è possibile, come detto in precedenza, essere più precisi per quel che riguarda il caso specifico di Marco Emilio Scauro.

(12)

Comunque, attenendosi strettamente alle notizie che possediamo, non ci sono in questi passi tracce significative di uno stile particolarmente connotato,anzi, l’ autobiografia di Scauro sembrerebbe non spostarsi in maniera evidente dai binari dell’uso comune del suo tempo.

Dal punto di vista grammaticale, una notevole importanza ha il prossimo frammento, anch’esso proveniente dall’Ars grammatica di Diomede19:

frammento 3 (5 C e P1 e 2)

DIOMED., I, p. 377 K: Figor ambigue declinatur apud ueteres tempo perfecto. Reperimus enim fictus e fixus. Scaurus De uita sua: sagittis inquit confictus.

Presso gli antichi figor si declina al tempo perfetto in due modi. Infatti troviamo

fictus e fixus. Scauro nel De vita sua dice: ‘trafitto (confictus) da frecce’.

Diomede ancora una volta registra una particolarità, un fenomeno di doppia declinazione, classificato come pertinente ai veteres e al loro linguaggio desueto. Il grammatico affronta questo problema sempre nel primo libro della sua Ars, fra i problemi di morfologia; il frammento si trova verso la fine di un paragrafo intitolato de speciebus

temporis praeteriti perfecti (“sui tipi di tempo passato perfetto”), e l’affermazione è corredata

dalla solita rassegna di esempi immediatamente a seguire:

frammento 3 - integrazione

Varro ad Ciceronem tertio, fixum; et Cicero Academicorum tertio: † malcho in opera adfixa; et Vergilius: si mihi non animo fixum.

Varrone, nel terzo scritto a Cicerone, fisso (fixum); e Cicerone nel terzo dei libri degli Accademici: † malcho in opera adfixa20; e Virgilio: se non (avessi, ndt) fisso nel cuore

Dunque – come risulta evidente dal frammento 3 – abbiamo ancora un’indicazione,

veteres, che racchiude personalità vissute in periodi diversi e legate alla composizione di

opere lontane fra loro per stile e contenuti. Per proporre una riflessione rigorosa sarà necessario fare alcune precisazioni a partire dal verbo figo, tenendo presente che tutte le osservazioni grammaticali valgono anche per il composto configo.

(13)

Figo è un verbo dal tema in velare sonora [g]; le due diverse forme di participio

indicate da Diomede, mettendo in evidenza il tema verbale sono:

fig - tus = fictus con assordimento della velare tematica per la

presenza di [t]

fig - sus = fixus dove l’unione fra la velare e [s] è espressa dalla

consonante doppia

-x-È la desinenza -tus che, stando strettamente alle regole grammaticali, ci aspetteremmo di trovare per un verbo come figo, in quanto caratteristica del participio perfetto. La storia di questa terminazione affonda le radici in una forma di aggettivo verbale in *-to-, ben evidente e conservato nel greco antico, ma un po’ più nascosto nel latino (un esempio esauriente: datus e δοτός); funzione specifica dell’aggettivo verbale, e del participio perfetto latino, è indicare una qualità del soggetto espressa dal verbo: il suffisso *-to-risponde appunto a questa esigenza.

Naturalmente in latino i participi perfetti sono largamente attestati e rispecchiano generalmente la regola che abbiamo appena enunciato; alcuni cambiamenti fonetici possono aver luogo e far nascere forme apparentemente “anomale” dal punto di vista del vocalismo o del consonantismo: per esempio nel passaggio al participio si verifica un allungamento della vocale radicale (come per āctus da ăgo); oppure l’unione fra una dentale finale del tema e -t- del suffisso dà luogo a -sus e -ssus (come per risus da rideo e per passus da

pando). Proprio da quest’ultima considerazione risulta evidente come il latino preveda dei

participi in -sus che non sono in sostanza diversi da quelli in -tus, ma che appaiono tali per una trasformazione fonetica.

Tornando al nostro fixus dobbiamo concludere che la forma grammaticalmente più ovvia e rispettosa della genesi grammaticale sarebbe quella in -ct; tuttavia l’evoluzione linguistica ha dato luogo a una serie di participi analogici in -sus, del tutto simili a quelli che si formano dai temi in dentale, e legati a verbi che hanno il perfetto indicativo in -sĭ. Non è impossibile, anzi è probabile, che la forma analogica fosse preferita spesso per operare una distinzione con il participio perfetto del verbo fingo.

Esaminando la notizia di Diomede bisogna dunque fare attenzione al fatto che la doppia coniugazione di figo e dei suoi composti non è dovuta ad una qualche particolarità del tema verbale, ma ad una reale ambiguità di utilizzo causata da un fenomeno di analogia largamente documentato. La scelta di una forma piuttosto che un’altra deriva da esigenze stilistiche? Rispondere a questa domanda con lo scarso materiale a disposizione è difficile,

(14)

se non impossibile; ma anche in questo caso ci sono delle osservazioni da fare. A questo scopo il quadro di esempi riportati dal grammatico dovrà essere completato21, per avere un’

idea di quella che è stata l’evoluzione linguistica e delle eventuali opzioni stilistiche operate dal nostro autore.

Un particolare che salta agli occhi osservando le citazioni di Diomede è il fatto che Scauro sia l’unico autore fra quelli menzionati a non utilizzare la forma, per così dire, sigmatica. Insomma, se la rassegna di esempi dell’Ars grammatica fosse completa, mostrerebbe una situazione non proprio ambigua, ma piuttosto sbilanciata a favore delle forme con -x-. In realtà la forma fictus non è affatto un uso esclusivo di Scauro; Diomede può non aver incluso altri esempi nella sua rassegna per vari ordini di motivi, ma essenzialmente si può pensare che un elenco eccessivamente lungo non fosse di alcuna utilità per i suoi scopi.

Il grammatico parla semplicemente di un’ ambiguità di utilizzo, sempre presso gli antichi, senza fare valutazioni di sorta; in definitiva non sappiamo da Diomede se l’una forma fosse in qualche modo preferibile all’altra, se una delle due fosse più antica o se fossero da utilizzarsi in ambiti diversi della lingua. Comunque fra gli autori che scelgono la forma in -ct- c’è anche Varrone, il quale nel De re rustica così si esprime (3, 7, 4):

testo 1

«Sub ordines singulos tabulae fictae ut sint bipalmes, quo utantur vestibulo ac prodeant22»

«Sotto ogni fila (siano, ndt) fissate delle tavole che abbiano la larghezza di due palmi, che si possano usare come ingresso e dalle quali si affaccino23»

L’opera di Varrone da cui abbiamo estrapolato questo passo rientra nella letteratura didascalica latina, in quel genere cioè che si occupava della trattazione di argomenti tecnici legati al lavoro e al negotium nel senso più squisitamente romano del termine. Impossibile non pensare al già rammentato Catone, che con il saggio De agri cultura aveva dato una forte spinta all’evoluzione di questo tipo di prosa. Qui vediamo come questo genere di trattatistica avesse radici molto profonde nell’orizzonte culturale romano per stile, tematiche e approccio ai problemi; a distanza ormai di circa un secolo, in uno scenario letterario e sociale profondamente mutato, l’opera didascalica di Varrone riecheggia un felice ritorno al lavoro dei campi non solo come fuga da una vita contemporanea troppo caotica e immorale, ma anche come realizzazione piena dell’individuo e come purificazione dell’anima; rispetto a Catone ci sono comunque dei significativi passi in avanti, sia dal punto

(15)

di vista dei contenuti (nel senso soprattutto di una minore sentenziosità) sia dal punto di vista linguistico, con una maggiore fluidità sintattica e uno stile complessivamente più raffinato. La storia della letteratura latina ci ricorda che nello stesso anno in cui Varrone poneva mano al De re rustica (37 a.C.), Virgilio iniziava la stesura delle Georgiche; un’immagine suggestiva vedrebbe così il grande Reatino come ideale trait d’union fra Catone e Virgilio; ma questo, se può valere per le tematiche e il contesto scelto, non rispetta la forte differenza esistente fra la poesia e la prosa didascalica. Al più si può notare come due letterati contemporanei - per quanto uno molto più anziano - reagiscano alla piaga delle guerre civili.

Dunque troviamo nel passo citato del De re rustica un participio fictae, che è stato qui tradotto con “fissate”, e che sembrerebbe rispecchiare assolutamente la regola di formazione del participio dall’aggettivo verbale in *-to-. All’interno di un discorso tecnico, in cui si descrivono i principi per la costruzione di nidi per colombi, in un contesto dunque eminentemente pratico, Varrone usa la forma non analogica.

Un’altra forma in -ct-, al neutro plurale, si trova in Lucrezio (De rerum natura, 3, 1-4):

testo 2

1 O tenebris tantis tam clarum extollere lumen 2 qui primus potuisti inlustrans commoda vitae, 3 te sequor, o Graiae gentis decus, inque tuis nunc 4 ficta pedum pono pressis vestigia signis

1 Te che una luce così splendente per primo riuscisti a sollevare 2 dalle grandi tenebre, mostrando i piaceri della vita,

3 te seguo, onore del popolo greco,

4 e ora colloco i miei passi fissi nelle tue orme tracciate

Non pare utile ripetere qui quanto già accennato sulla lingua e lo stile di Lucrezio24.

Tuttavia è bene notare il contesto di questa citazione. Siamo all’inizio del terzo libro del poema De rerum natura; Lucrezio si abbandona ad un proemio in onore di Epicuro, inneggiando al filosofo “onore del popolo greco” e dichiarando l’ intenzione di ricalcarne il pensiero. Tutti e sei i libri di Lucrezio sono aperti da un proemio, e in quattro casi troviamo una dedica a Epicuro. Per quanto, come già ricordato, quella di Lucrezio sia scrittura didattica e abbia un fine eminentemente educativo, non si può per questo disconoscere l’importanza del passo da un punto di vista artistico: l’autore tesse l’elogio di quello che

(16)

ritiene il suo maestro e espone in versi il suo programma di pensiero; il registro che il lettore si troverà davanti sarà perciò alto e solenne. E di questa solennità ci offre una descrizione attenta e dettagliata E. J. Kenney nel suo ancora attuale commentario a Lucrezio25: secondo la sua interpretazione i primi versi del libro creano e soddisfano

un’aspettativa nel lettore grazie ad una ben strutturata sintassi che differisce l’enunciazione dell’apostrofe e inserisce una frase relativa (O...qui...te); in più il quadro è arricchito da un gioco di anticipazioni e enjambements (extollere... potuisti, tuis...signis) che, creando una raffinata struttura “a incastro”, generano la solennità e il pathos necessari al fine poetico.

Per quanto riguarda il verso 4 Kenney propone come traduzione: «I plant my own footsteps firmly in the prints that you have made», in italiano letteralmente: «Colloco i miei passi fermamente nelle orme che tu hai tracciato». L’opposizione fra ficta [...] pono [...]

vestigia e pressis [...] signis viene espressa, oltre che dalle due forme verbali plant e made, con

quel firmly, “fermamente”: il participio è reso con una forma avverbiale dunque.

Nella traduzione italiana proposta per il testo 2 si è preferito invece optare per l’aggettivo “fissi”, ritenendolo più letterale e opportuno per la presente riflessione; rimane poi all’immaginario del lettore cogliere la differenza fra “orme tracciate” e “passi fissi”.

Nel commentare questo verso Kenney sottolinea la necessità di questa opposizione di significato, per meglio comprendere la forza con cui Lucrezio vuole aderire all’epicureismo. In più il nostro participio ficta viene indicato dal commentatore come “forma originale (e corretta) di fixa”. Che sia forma originale è ben evidenziato da quanto detto sopra a proposito dell’aggettivo verbale26; quanto alla “correttezza”, dobbiamo

pensare ad una correttezza proporzionata allo stile: nella valutazione di Kenney Lucrezio non può evidentemente indulgere alle analogie, più adeguate alla lingua parlata, ma deve necessariamente ricercare la raffinatezza anche attraverso una scelta più rigorosa delle forme grammaticali.

Un’interpretazione più recente è offerta da P. Michael Brown27, il quale sceglie una

traduzione in prosa e segue in parte la visione di Kenney: «and ‘tis in the tracks planted by thee that I now firmly set my own footsteps», cioé «ed è nelle tracce fissate da te che io ora colloco fermamente i miei passi». Abbiamo una resa ancora diversa, meno letterale, dell’accostamento fra i signa di Epicuro e le vestigia di Lucrezio; ma abbiamo di nuovo questo avverbio, firmly, che ricorda la traduzione di Kenney; del resto anche Michael Brown sottolinea nel suo commentario come l’espressione ficta, il parallelismo tra ficta [...] pono [...]

vestigia e pressis [...] signis e l’allitterazione in p non facciano altro che rimandare alla fedeltà

con cui Lucrezio vuole seguire il maestro. Aggiunge però con precisione che ficta non deriva qui da fingo, ma da figo, ed è forma più antica per fixa.

(17)

Riassumendo, in base a quanto osservato finora, abbiamo dunque una forma fictus,

-a, -um, più antica e grammaticalmente più rigorosa, quella che si costruisce secondo un

processo ben evidente e che è raffrontabile con un corrispettivo nella lingua greca, secondo i procedimenti più diretti di ricostruzione linguistica: sono proprio i parallelismi sistematici e non occasionali a far pensare, come rilevava giustamente Kenney, a una ‘forma originale’ derivante da una lingua madre. La forma fixus, -a, -um, molto utilizzata in latino, è analogica dei verbi con perfetto in -si; sarebbe un errore considerarla grammaticalmente scorretta, quando forse è solo avvertita, in un preciso periodo storico, come pertinente a un linguaggio meno rifinito: dal momento che la lingua offriva la possibilità di scegliere fra due termini di identico significato, stava all’autore decidersi per l’uno o per l’altro, a seconda del gusto e della sensibilità stilistica.

Rimane da capire se Scauro avesse usato la forma in -ct- perché stilisticamente più adatta, o perché più antica, o anche per entrambi i motivi. Fixus ovviamente è una forma più “nuova”. Ma quanto più nuova? L’unico orizzonte che possiamo prendere in considerazione è quello della lingua letteraria, ma naturalmente il latino come lingua viva prevedeva innanzitutto la comunicazione orale; le ricerche storiche possono basarsi solo su quello che è rimasto, e si può appena immaginare quanto la lingua parlata fosse diversa dalle testimonianze scritte che possediamo. Comunque, pur costretti a lavorare entro un orizzonte limitato, con questa consapevolezza, le fonti letterarie offrono in ogni caso l’immagine dell’evoluzione che investiva in prima battuta la lingua parlata. L’autore più antico in cui ci imbattiamo come testimonianza dell’uso di fixus è Ennio28. I passi rilevanti

provengono rispettivamente dagli Annales e dai frammenti delle tragedie:

testo 3

«O Tite, si quid ego adiuero curamve levasso Quae nunc te coquit et versat in pectore fixa, Ecquid erit praemi?29»

«O Tito, se ti aiuterò in qualche modo e toglierò la preoccupazione che ora ti tormenta e si agita fissa nel tuo petto,

che cosa avrò in premio?»

testo 4

«Ipse summis saxis fixus asperis evisceratus

(18)

«Costui, trafitto con acute pietre appuntite, sventrato,

pendendo su un fianco, cospargendo le pietre di marciume, umore e sangue nero» Con Ennio ci troviamo davanti ad una lingua letteraria veramente in formazione. Il terzo secolo, che vede gli albori della produzione scritta attraverso personaggi come Livio Andronico e Nevio, si chiude significativamente proprio con Ennio, e se i primi due vengono ricordati nei secoli immediatamente successivi come i pionieri della letteratura di Roma, il terzo rimane, fino alla diffusione dell’Eneide, l’autore più studiato nelle scuole. La sua tecnica di composizione e il suo stile linguistico frammisto di arcaismo e innovazione fanno di Ennio un modello, più o meno amato, per molti letterati di età repubblicana. Questo spiega in parte quanto dovette essere ricercata la lingua di Ennio, pur non chiarendo se le forme fixa e fixus fossero sentite già nella sua epoca come antiche o, al contrario, di recente formazione. Certamente nel frammento del Thyestes si crea un’allitterazione in s e x, di grande efficacia musicale; quanto al passo degli Annales l’autore potrebbe aver ricercato un’assonanza con levasso del verso precedente. Comunque l’attestazione fixus c’è in Ennio, in un contesto di poesia storiografica e in una tragedia. Troviamo tracce anche in Plauto31,

altro autore di fondamentale importanza da un punto di vista linguistico. Dall’Asinaria32: testo 5

«CLEARETA: Fixus hic apud nos est animus tuus clavo Cupidinis» «CLEARETA: Il tuo cuore è fissato qui da noi con un chiodo di Cupido» Da Menaechmi33:

testo 6

«EROTIUM: Eccere, perii misera! Quam tu mihi nunc navem narras?

MENAECHMUS: “Ligneam, saepe tritam, saepe fixam, saepe excussam malleo» «EROZIA: Ah, povera me! Ora di che nave mi racconti?

MENECMO: Di una nave di legno, più volte spaccata, più volte rattoppata, più volte battuta con il martello»

(19)

testo 7

«STASIMUS: Ea<e>35 miserae etiam ad parietem sunt fixae clavis ferreis, ubi malos mores adfigi nimio fuerat aequius»

«STASIMO: Quelle disgraziate (leggi) sono anche affisse con chiodi di ferro al muro, dove sarebbe stato meglio inchiodare i cattivi costumi»

Una serie di attestazioni che fanno parte del vivace mondo espressivo della commedia, relative dunque a un sermo più vicino alla lingua parlata.

Tornando alle notizie ricavabili da Diomede, nel frammento 3-integrazione troviamo citati Varrone e Cicerone. I rapporti e gli scambi intellettuali fra questi due autori coevi sono ben noti e documentati, anche se non ci fu mai una vera e propria amicizia; c’è una reciprocità di dediche delle loro opere, e naturalmente ci sono degli epistolari, anche se l’unico accertato per tradizione diretta è quello di Cicerone.

Nel caso di Varrone tutto quel che si può ipotizzare è che, se si trattasse realmente di un’epistola, potesse prevedere un linguaggio e uno stile in qualche modo “correnti”, anche se non certamente colloquiali; le espressioni in essa contenute avrebbero potuto attingere a una gamma di registri piuttosto vasta, compresi i neologismi e le forme del sermo cotidianus, senza che questo rappresentasse in alcun modo una caduta di stile. Ma questa, più che una conclusione da trarre, è solo un’eventualità da tenere presente senza possibilità di verifica.

Oltre all’estrema povertà del frammento, non è possibile avventurarsi su una via di ricerca già battuta, per la mancanza di una moderna edizione complessiva dei frammenti di Varrone.

Migliore è la situazione per Cicerone, visto che gli Academica sono opera nota e studiata, anche per quel che riguarda le parti frammentarie. L’edizione degli Accademici da cui proviene il frammento (Academica posteriora, successiva agli Academica priora) fu casualmente dedicata proprio a Varrone, dopo una lunga esitazione da parte dell’autore.

Nella critica testuale di J. S. Reid36 malcho viene segnalato come probabile errore per

malleo, “martello”; anche opera dovrebbe essere visto come opere. La frase poteva

appartenere alla descrizione di una qualche illustrazione, visto che fixum si ritrova anche nel secondo libro degli Academica priora37, in un contesto del genere; Reid avanzò anche

un’ipotesi interpretativa per ricostruire il discorso di Diomede: riteneva possibile, ma non dimostrabile, che in realtà il solo fixum fosse attribuito dal grammatico al terzo libro degli Accademici, e che la frase malcho in opera adfixa, preceduta dalla lacuna, si riferisse invece al terzo libro de lingua latina, opera effettivamente indirizzata ad Ciceronem.

(20)

La presenza di fixum negli Academica priora era già stata sottolineata dal Keil38 il quale

però, a proposito di malcho, ipotizzava che sotto la lacuna testuale e il vocabolo corrotto si celasse invece il nome di un altro autore citato da Diomede.

Queste brevissime riflessioni rappresentano un sunto di quanto, nei decenni, si è ipotizzato circa le possibili attribuzioni del passo presente nel frammento 3-integrazione. Come risulta evidente la situazione è alquanto complessa e le vie da percorrere per giungere ad una spiegazione esauriente sono molte; non è compito di questa trattazione approfondire ulteriormente l’argomento. Per il nostro interesse è sufficiente rilevare (e questo è possibile) che sia Varrone, sia Cicerone utilizzarono la forma di participio fixus, anche se ci sono difficoltà di attribuzione circa il contesto. In ogni caso, pur con le dovute differenze di genere, ci troviamo al cospetto di letteratura in prosa, si tratti di epistole, di scritti grammaticali o di un trattato di filosofia.

All’ambito della poesia ci rimanda invece l’ultima citazione di Diomede, quella da Virgilio, più precisamente dal noto accorato dialogo fra Didone e la sorella Anna:

testo 8

«Si mihi non animo fixum immotumque sederet ne cui me vinclo vellem sociare iugali39»

«Se non mi stesse fisso e irremovibile nel cuore il non volermi unire in patto coniugale con nessuno»

In realtà non è questa l’unica attestazione in Virgilio. Diomede riporta solo questo esempio, probabilmente perché sufficiente per la sua trattazione, visto che si tratta di un passo che doveva essere assai conosciuto; ma sappiamo che Virgilio utilizza più volte il participio di figo e dei composti, sempre nella forma in -x-. Escludendo che, nel caso del testo 8, dovesse essere necessario distinguere con chiarezza figo da fingo per non stravolgere il significato, bisogna aggiungere che Virgilio ricorre più volte a questa forma analogica, declinata in vari modi, e esclusivamente nell’Eneide40; si trova anche il participio di configo,

sempre nell’Eneide e sempre, rigorosamente, nella forma in -x-. In realtà esistono in Virgilio anche poche attestazioni del participio di forma fictus, ma si capisce bene dal contesto come questo derivi senza ombra di dubbio da fingo:

testo 9

(21)

«messaggera tenace tanto di cose false e crudeli quanto della verità»

testo 10

«[...] non hic te carmine ficto / atque per ambages et longa exorsa tenebo42»

«[...] non ti tratterrò con un canto artefatto, con digressioni o discorsi prolissi »

testo 11

«Prosequitur pauitans et ficto pectore fatur43»

«Va avanti a raccontare, spaventato, e con cuore bugiardo dice»

Tre ulteriori testimonianze che mostrano con decisione come per Virgilio il participio di figo fosse fixus e, sostanzialmente, fictus stesse a indicare altro.

In base a quanto affermato in precedenza, le forme in -ct- sarebbero più antiche e formalmente più adatte a uno stile “alto”. Virgilio opta dunque in questi casi per un registro in qualche modo “basso”? Assolutamente no. È più ragionevole supporre che, nel momento in cui Virgilio compone, la forma in -x- fosse perfettamente integrata nella lingua latina, a tutti i livelli, nella poesia come nella prosa, ed è facile pensarlo se si tiene presente l’attestazione in Ennio. Se qualche decennio prima ci sono stati scrittori (e Scauro è uno di questi) che hanno utilizzato le forme originarie di participio, costoro lo hanno fatto sicuramente con l’intenzione di utilizzare un linguaggio avvertito in quel momento come più raffinato e adatto alla loro composizione, ma questo evidentemente non rende la forma analogica, in sé più “latina”, colloquiale o idiomatica.

Dunque, tornando all’inizio del nostro discorso sul frammento 3, bisogna interpretare il discorso di Diomede: siamo davvero davanti ad un caso di ambiguità nella declinazione se consideriamo in maniera compatta i ueteres di cui si fa menzione; ma seguendo lo sviluppo storico risulta evidente come ad una forma più vicina al cosiddetto indoeuropeo si affianchi, in un periodo non ben specificabile ma precedente ad Ennio, una forma più strettamente locale: la prima sopravvive e riemerge a tratti laddove il linguaggio vuole essere più ricercato; la seconda prende piede e si espande nei vari generi della letteratura.

Quanto all’intenzione di Scauro di rendere il più possibile raffinato o rigoroso il suo stile di composizione, questa sarebbe giustificata innanzitutto dall’argomento trattato. Dal momento che il grammatico non riporta la citazione precisa del frammento, non è possibile dire con certezza a quale dei libri De vita sua appartenesse in origine. È per questa ragione

(22)

che né la Chassignet, né gli altri editori inseriscono questo passo fra quelli di sicura collocazione. Ma qui Scauro sta quasi sicuramente raccontando un episodio di guerra, un fatto di sangue riferibile solo ad uno scontro bellico: la persona oggetto dell’azione è qualcuno “trafitto da frecce”; difficilmente un episodio di violenza urbana o privata potrebbe assumere questi toni.

È più probabile che Scauro stia descrivendo una delle sue campagne nel nord Italia, quando conduceva l’esercito, e che pertanto questo passo provenga dal terzo libro; ma le valutazioni circa la struttura dell’opera – per quanto possibile – saranno fatte in conclusione di questo lavoro. Al momento basta sottolineare come la ricerca di uno stile leggermente più curato possa andare di pari passo con la narrazione di eventi dal sapore epico.

Il frammento 4 proviene dal commento all’Eneide dello scrittore Servio, vissuto nel tardo IV secolo d.C.:

frammento 4 (6 C, 6 P 1 e 2)

SERV., ad Verg. Aen XII, 121: Scaurus de vita sua: ‘In agrum hostium veni, pilatim

exercitum duxi’, id est strictim et dense.

Pilatim è un avverbio formato dalla radice del participio pilatus, -a, -um, in unione con

la desinenza -tim, che nella lingua latina indica tipicamente un avverbio di modo. Prendendo come punto di partenza il verbo pilo, che significa letteralmente “impilare”, “compattare”, l’avverbio di modo corrispondente significherà naturalmente “in maniera compatta, serrata” e anche “in colonna”, traducendo con un’ obbligatoria perifrasi ciò che il latino riesce a rendere con un’unica parola. Su queste basi, una traduzione possibile é:

Scauro nel De vita sua: ‘Arrivai nel territorio dei nemici, condussi l’esercito

compatto’, cioè in maniera serrata e fitta.

Prima di riflettere sull’utilizzo dell’avverbio pilatim, è necessario soffermarsi attentamente sul testo di provenienza del frammento, il commentario serviano all’Eneide di Virgilio. Il verso di cui Servio si sta occupando è il 121 del libro XII. In questo libro, l’ultimo del poema, gli eserciti troiano e italico tornano a scontrarsi: sono le ultime fasi del racconto, quando Turno e Enea vorrebbero affrontarsi a duello e giocarsi così l’esito della guerra, ma un pretesto, suscitato dalla mano divina, fa scoppiare la battaglia decisiva. Il clima che

(23)

precede la battaglia è fortemente teso; l’ira del re dei Rutuli, proprio all’inizio del libro, è paragonata a quella di un leone che freme e ruggisce: siamo davanti a un nemico “importante” per i troiani, forte e di tutto rispetto.

Inutile il tentativo di Latino, della regina Amata e di Lavinia, di riportare Turno a più miti consigli; la sua ira, sentimento sempre fomentato dal volere divino e da un Fato avverso44, porta alla decisione non negoziabile dello scontro faccia a faccia con Enea. Inizia

la puntigliosa descrizione delle fasi che precedono il duello: i cavalli, l’esercito che comunque seguirà il suo comandante, i sentimenti complessi del re dei Rutuli.

Nel frattempo c’è attesa anche nel campo troiano, ma è un’attesa di diverso accento: Enea rassicura i suoi e spera di ottenere presto la pace. Si fa giorno su entrambe le schiere e sul campo di battaglia; da una parte e dall’altra i preparativi giungono al termine e si offrono i sacrifici dovuti. Poi finalmente, ai versi 121-245:

«Procedit legio Ausonidum pilataque plenis agmina se fundunt portis [...]»

«Avanza la legione degli Ausonidi , e le fitte schiere si riversano dalle porte riempite [...]»

Successivamente i contendenti prendono posto e piantano a terra i giavellotti. A questo punto, mentre le madri e gli anziani n città si dirigono verso i tetti e le torri per vedere il duello, in una sorta di τειχοσκοπία, Giunone parla alla ninfa Giuturna, sorella di Turno, per pianificare la ripresa delle ostilità .

Il contesto del racconto è fortemente caratterizzato nel senso di una certa tensione che pervade tutto il passo. Del resto Virgilio è un maestro della descrizione; le sue parole sono ben valutate, ed è sempre sorprendente la sua grande capacità di tratteggiare immagini di estrema potenza espressiva con pochissime parole.

Servio non può fare a meno di sottolineare quel pilata, neutro plurale, che, nella traduzione qui proposta, indica le schiere fitte, compatte, che si riversano dalle porte della città e si lanciano all’assalto. Il fatto che pilatim sia citato nel commento a un testo contenente pilata ci fa capire con sicurezza che il legame grammaticale fra le due forme, chiaro nella teoria, era effettivamente sentito e dato per scontato anche nell’uso linguistico antico. L’altro aspetto interessante è il contesto in cui si svolge l’azione: è il medesimo in Virgilio e in Scauro, quello dello scontro bellico; anzi, in particolar modo, siamo nel momento dell’avanzata delle schiere verso un nemico. Nell’Eneide l’immagine è ben

(24)

circostanziata; l’autore si lancia in un vero e proprio climax in cui gli eventi sembrano “gonfiare” ora per ora, per poi rimanere sospesi nel momento in cui i contendenti si trovano faccia a faccia, e precipitare nuovamente con l’intervento di Giunone. Dal momento in cui Turno si congeda da Latino e inizia la preparazione della battaglia , c’è un giustapporsi di scene, frequente nel poema, che porta fino a quella quiete irreale in attesa dello scontro. Per quel che riguarda il racconto di Scauro, naturalmente non sappiamo cosa precede e cosa segue il frammento 4; il susseguirsi incessante degli avvenimenti sarebbe manifestato solo da quel debole accostamento di due frasi, separate da una pausa e quasi ritmate nella loro costruzione. Dobbiamo supporre che lo scenario sia in qualche modo simile a quello dell’Eneide, in preludio a uno scontro vero e proprio.

Anche se le due opere sono profondamente differenti, potremmo trovarci davanti a una terminologia che, utilizzata nel contesto bellico, assume un significato del tutto peculiare: l’esercito schierato per la battaglia è fitto, serrato, pronto all’attacco; non è scompaginato, disperso, e nemmeno fiaccato o incerto nel modo di agire: nell’Eneide è una schiera che si riversa dalle porte, con un’immagine che ricorda un moto ondoso o un’esplosione; nell’autobiografia di Marco Emilio Scauro è, probabilmente, un esercito ben allestito, che si prepara al combattimento vero e proprio.

Questo scenario non lascerebbe dubbi interpretativi se non fosse che proprio quel

pilata al v. 121 dell’ultimo libro dell’Eneide, nell’età antica come ai giorni nostri, ha dato

origine a interpretazioni e traduzioni diverse. Da una parte c’è chi vorrebbe intravedere in questo aggettivo la descrizione dell’armamento delle schiere ausonie, che sarebbero dotate di pilum e quindi pilata; dall’altra chi invece ritiene più opportuno dare una traduzione generica, che si limiti a sottolineare la compattezza dell’esercito di Turno, senza fornire dati di alcun tipo sull’armamento46. Questa doppia opzione interpretativa veniva già riportata da

Servio nel suo commento; è perciò indispensabile a questo punto dare uno sguardo all’intero passo che riguarda il v. 121:

«[...] PILATAQUE PLENIS, hoc est pilis armata. Quidam hoc loco ‘pilata agmina’ non a genere hastarum positum adserunt: nam paulo post ‹130› dictum inferunt defigunt tellure hastas: sed ‘pilata’ densa, spissa, ut implere portas potuerint et postea se in loca apertiora diffundere. Alii ‘pilatum agmen’ dicunt quod in longitudine directum est, quale solet esse in portis procedit; vel certe ‘pilata’ fixa et stabilia, vel a pilo, quod figit, vel a pila structili, quae fixa est et manet: nam et Graeci res densas et artas πιλωτά dicunt. Ennius saturarum II, contemplor inde loco liquidas pilatasque aetheris oras, cum fixa et stabiles significaret, et quasi pilis fultas. Hostius belli

(25)

Histrici primo, percutit atque hastam pilans prae pondere frangit, ‘pilans’ id est figens; idem sententia praesto pectore pilata, id est fixa, stabilis. Asellio historiarum triarum quartum, signum accedebat, sive pilatim, sive passim iter facere volebat. Scauro de vita sua, in agrum hostium veni, pilatim exercitum duxi, id est strictim et dense. Nam ubi proprie de genere hastae loquitur, ait pila manu saevosque gerunt in bella dolones. Varro rerum humanarum duo genera agminum dicit, quadratum, quod immixtis etiam iumentis incedit, ut ubivis possit considere; pilatum alterum, quod sine iumentis incedit, sed inter se densum est, quo facilius per iniquiora loca transmittatur».

«[...] PILATAQUEPLENIS cioè armate di giavellotti. Alcuni asseriscono che qui pilata agmina

non sia stato collocato in riferimento al tipo di aste: infatti poco dopo portano come prova il verso ‹130›, ‘conficcano nella terra le aste’: pilata allora significa ‘dense’, ‘fitte’, tanto da riempire le porte e poi riversarsi in uno luogo un po’ più largo. Altri dicono che pilatum agmen è la schiera disposta in senso longitudinale, come quando avanza verso le porte; oppure in ogni caso pilata significa ‘fisse’ e ‘stabili’, forse in confronto con il giavellotto (pilum) che si conficca, forse dalle colonne da costruzione (pila) che stanno fisse e ferme: infatti i greci chiamano πιλωτά ciò che è compatto e serrato. Ennio, nel secondo libro delle Satire, dice: ‘Dunque contemplo in quel punto le regioni del cielo, liquide e dense, poiché ferme e stabili danno presagi, come se fossero sorrette da aste (pilis)’. Ostio, nel primo libro sulla guerra istrica, dice: ‘Colpisce e nel conficcare (pilans) l’asta questa si spezza a causa del peso’ quindi

pilans, cioè ‘conficcando’; ugualmente: ‘preservo nel cuore con ferma (pilata)

risoluzione’, nel senso di ‘fissa’, ‘stabile’. Asellione, nelle Storie: ‘Si avvicinava il quarto manipolo dei triarii, voleva percorrere il cammino sia in file serrate, sia andando in varie direzioni’. Scauro nell’autobiografia dice: ‘Arrivai nel territorio dei nemici, condussi l’esercito compatto’ cioè in maniera serrata e fitta. Infatti dove (Virgilio) vuole parlare precisamente del tipo di arma dice: ‘In mano i giavellotti (pila) , le picche crudeli portano in guerra’. Varrone, nel trattato sulle cose umane, dice che ci sono due tipi di schieramenti per la battaglia: quello quadrato, che avanza mescolato con i giumenti, così da potersi accampare in un qualsivoglia luogo; quello fitto, che avanza senza i giumenti, così da poter essere facilmente condotto per luoghi impervi».

(26)

Dunque abbiamo diverse interpretazioni, e le scelte operate da commentatori e traduttori, dall’antichità fino ai giorni nostri, si muovono sostanzialmente fra due opzioni possibili. Nel presente lavoro si è preferito scegliere la strada già seguita da Luca Canali47,

ma questo non comporta una precisa presa di posizione sull’argomento, almeno per quanto riguarda la traduzione del testo virgiliano; per affrontare questo particolare occorrerebbe staccarsi troppo dall’argomento in questione, e le osservazioni fatte finora servono unicamente a spiegare la scelta di traduzione del frammento 4. In questa sede interessa solamente il contesto generale, la fase di preparazione prima dello scontro, la tensione, l’atteggiamento dei contendenti, e naturalmente il significato che l’avverbio pilatim poteva assumere in un simile ambito narrativo. In tutta la nota di Servio, dal confronto con il greco ai vari esempi riportati, emerge chiaramente quanto, almeno per il commentatore, il campo semantico di pilata sia da considerarsi abbastanza “elastico”, originato sì da un punto ben preciso, ma facilmente plasmabile a seconda delle esigenze espressive. Questo è il motivo per cui troviamo significati che vanno da “giavellotti”, “aste”, a “fissa”, “stabile”, “conficcare”; anche il confronto con il greco πιλωτά porta a pensare ad una certa ampiezza di significato. Quindi esiste un nesso semantico profondo, e la differenza fra l’oggetto-giavellotto e il concetto di compattezza è colmata nel momento in cui un’operazione mentale obbliga a confrontare l’immagine di un arma fissa e piantata, con la disposizione di una schiera in cui gli elementi stiano serrati gli uni agli altri. Ciò non toglie che comunque, in sede di interpretazione, i significati da attribuire possano essere anche molto diversi, e quindi si rende necessaria un’analisi attenta del contesto: solo così si potrà avere qualche lume su quale sia l’accezione più opportuna.

Ora, se questo è possibile per quel che riguarda l’Eneide, a proposito di Scauro è proprio il contesto quello che ci manca. L’avverbio pilatim, in linea teorica, avrebbe potuto avere anche, nell’intenzione dell’autore, un significato molto preciso: «giunsi nel campo del nemico e condussi un esercito armato di giavellotti». È questo il senso che si deve dare alla frase del console, traendo così dal testo anche una notizia tecnica, seppur minima? Molto probabilmente no. Già dal frammento 4 si vede chiaramente come è lo stesso Servio a offrire una via d’uscita possibile: Scauro è collocato decisamente fra vari esempi in cui pilatus e le sue derivazioni sono visti nel loro significato di “fissi”, “stabili”, “compatti”; il commentatore si prende anche la briga di sottolineare che pilatim è da intendere come sinonimo di strictim et dense; non dobbiamo infine dimenticare che Servio poteva avere a disposizione proprio quel contesto che a noi manca; il commentatore di Virgilio probabilmente conosceva l’autobiografia di Scauro, o per lo meno doveva averla vista o conoscere delle testimonianze indirette più ricche di quelle che possediamo noi, ed era

(27)

quindi a conoscenza, almeno per sommi capi, del contesto narrativo da cui estrapolò la citazione. Parlava quindi con una cognizione di causa che per noi è un elemento prezioso. In sostanza, per quanto sia plausibile e interessante immaginare un console che, nel racconto della sua vita, dia ai lettori anche qualche ragguaglio tecnico, dobbiamo fidarci inevitabilmente dell’interpretazione di Servio.

Non volendosi basare sulla sola fiducia che riponiamo nella fonte, qualche valutazione utile può essere fatta a partire dalla citazione di Varrone, nella parte conclusiva del commento. Siamo davanti ad un autore che Servio cita molto, e non solo per l’autorevolezza e la stima di cui ebbe a godere come intellettuale presso i contemporanei e i posteri. L’opera Antiquitates rerum humanarum et divinarum48, da cui è tratto questo passo,

dovette rappresentare almeno per un po’ di tempo una sorta di enciclopedia della cultura romana; tuttavia l’ineluttabile processo storico che determina la conservazione o meno di un testo ha fatto sì che, di questo trattato piuttosto corposo, ci arrivassero solo dei frammenti, pochi in rapporto a quella che doveva essere l’effettiva estensione dell’opera.

Il passo in questione viene attribuito al libro XXV, l’ultimo della prima sezione, dedicata alle res humanae; il titolo era probabilmente de bello et pace, o qualcosa di analogo, stando a una notizia di Gellio49. Dal lavoro di Semi si desume piuttosto facilmente che le

tematiche affrontate riguardavano tecniche di combattimento e di schieramento, ma anche procedure e usi di vario tipo collegati all’esercizio della politica e della pratica militare. Il confronto con il frammento di Scauro è quindi doppiamente opportuno: da una parte abbiamo una discreta vicinanza dei due personaggi sul piano cronologico, dall’altra una sostanziale identità dell’argomento trattato.

L’agmen pilatum di Varrone, dunque, è una delle tipologie di schieramento che il comandante può scegliere relativamente alla condizione del campo, all’offensiva da svolgere e all’assetto più opportuno, e si può comprendere l’importanza di questi dati tecnici, dato che spesso e volentieri è stato proprio l’allestimento delle schiere a decretare il successo o la sconfitta dell’esercito, non solo quello romano. Basti pensare a quanto accade proprio in questa epoca a Quinto Lutazio Catulo, tacciato di inettitudine perché il suo esercito, fuggendo davanti all’avanzata dei Germani, non avrebbe dimostrato la compattezza necessaria per fronteggiare e respingere il nemico. Di contro, la preparazione tecnica di Mario aveva fatto sì che l’opinione pubblica credesse ad un suo provvidenziale intervento nella battaglia di Vercelli; ma l’analisi storica più recente non può ignorare la testimonianza contrastante dello stesso Catulo, secondo cui una scelta sbagliata di Mario, proprio per quanto riguarda la disposizione sul campo, avrebbe rischiato di compromettere tragicamente l’intero combattimento50. Al di là di queste considerazioni, è bene tenere

Riferimenti

Documenti correlati

Alessandro Pagnini 395 Viva la Signora Maria Selvaggia è l’onore e la gloria della nostra Toscana. Alessandro

Da quando ho scoperto il posto, grazie al racconto dell’amico Davi- de che era sull’elicottero che scoprì l’aereo, ci ritorno spesso, per- ché il posto è magnifi co sia per

Il tema per la partecipazione al Progetto “conCittadini”, dell’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna, benché dai toni accesi, costituisce lo spunto

3. Impiego tale somma M in una banca che si impegna a restituirmi un certo importo fra 2 anni ed un secondo importo triplo del primo fra 7 anni. Tale banca applica un tasso

L’antinomia nasce dal fatto che «quando parliamo, usiamo il linguag- gio così e così, in certe sue espressioni determinate, e nello stesso tempo lo usiamo nella sua totalità

Fermo restando che Marco Emilio Scauro è il primo autore a cui possa essere attribuita unʼopera De vita sua e che Publio Rutilio Rufo certamente seguì le

Perchè la frase abbia un senso, le parole devono avere un certo ordine1. Riordina le parole e scrivi le frasi

Tuttavia, da un altro punto di vista, il fatto di avere un robot  che  vive  in  un  ambiente  rappresenta  un  contributo  notevole  al  concetto  di