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“Il passaggio all’ IFRS 9: motivazioni, aspetti operativi e implicazioni per le banche”

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI ECONOMIA E MANAGEMENT

Corso di Laurea Magistrale in

Banca, Finanza Aziendale e Mercati Finanziari

“Il passaggio all’ IFRS 9: motivazioni,

aspetti operativi e implicazioni per le

banche”

Relatore

Candidata

Prof.ssa Paola Ferretti

Veronica Micheli

Matricola 484463

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“Il sapere non è sufficiente, dobbiamo applicare.

Il volere non è sufficiente, dobbiamo fare”

(Leonardo da Vinci)

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INDICE

INTRODUZIONE ... 7

Capitolo 1 La Vigilanza prudenziale ed il rischio di credito: caratteristiche per la determinazione del requisito patrimoniale ... 9

1.1 La necessità dell‟attività di vigilanza sul sistema bancario. L‟evoluzione della normativa e delle disposizioni per il calcolo dei capital ratio ... 9

1.2 Il rischio di credito: definizione ... 20

1.2.1 Le componenti del rischio di credito. Perdita attesa e perdita inattesa ... 23

1.3 Il calcolo del requisito patrimoniale a fronte del rischio di credito secondo Basilea III: Standardized Approach vs. Internal Risk Based (IRB) Approach ... 27

1.3.1 Lo SME – Supporting Factor come incentivo per supportare l‟economia ... 34

1.4 Towards Basel IV… and beyond? ... 38

Capitolo 2 I principi contabili internazionali: lo IAS 39. Struttura ed aspetti critici 43 Premessa ... 43

2.1 Le fasi del ciclo di vita di uno strumento finanziario secondo loIAS 39 ... 44

2.1.1 Classificazione ed iscrizione iniziale in bilancio ... 45

2.1.2 Valutazione successiva e riclassificazione ... 53

2.1.3 Irrecuperabilità, impairment e cancellazione dal bilancio ... 62

2.2 Incurred Loss Method e Loan Loss Provisions : la “manipolazione” nelle pratiche di management ... 70

2.3 Elementi di criticità dello IAS 39 e la “minaccia” della prociclicità ... 75

Capitolo 3 IFRS 9 e la necessità di cambiamento. La nuova disciplina ... 81

3.1 Processo regolamentare che ha portato alla riforma dello IAS 39... 81

3.2 Classificazione degli strumenti finanziari: “Business Model” Test e “Solely Payments of Principal and Interest” (SPPI) test ... 89

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3.3.1 Le motivazioni che hanno portato alla pubblicazione della seconda Exposure Draft

del 2012: “Classification and Measurement: Limited Amendments to IFRS 9” ... 99

3.4 Deterioramento della qualità del credito: il nuovo modello di impairment ... 102

3.4.1 Difficoltà e complessità operative dell‟ED/2009/12: “Financial Instruments: Amortised Cost and Impaiment". Documento Supplementare del Gennaio 2011. .... 107

3.4.2 Le modifiche apportate dall‟ED/2013/3 e la versione definitiva del modello d‟impairment ... 115

Capitolo 4 Il “DILEMMA” della calibrazione ... 119

4.1 Impatti sui processi bancari e sulle politiche creditizie degli intermediari ... 119

4.1.1 Focus sulle conseguenze sul capitale regolamentare ... 127

4.2 Coordinamento tra principi contabili internazionali e framework regolamentare: possibilità di sintesi? ... 131

CONCLUSIONI ... 137

BIBLIOGRAFIA ... 141

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INTRODUZIONE

L‟attività bancaria si sostanzia nei momenti essenziali della raccolta del risparmio presso il pubblico e l‟esercizio del credito e il rischio di credito ne rappresenta la componente principale. Ingenti sono stati gli investimenti da parte delle banche per sviluppare modelli e metodologie che quantifichino in modo appropriato il grado di rischio associato alle esposizioni creditizie e che consentano alla banca di utilizzare in modo più efficiente la propria capacità complessiva di assumere rischio.

Se si considera poi l‟importanza del ruolo delle aziende di credito nell‟economia reale di tutti i paesi avanzati, è semplice comprendere che lo stato di salute di una banca ha ripercussioni che vanno ben oltre l‟azienda in quanto tale, ma investe tutta l‟economia. Proprio per questo ruolo cruciale del sistema bancario, e per l‟importanza del credito nel circuito economico, il risk management dovrebbe essere in grado di costruire sistemi di valutazione e gestione dei rischi affinché un‟entità sia capace di resistere e contrastare gli shock negativi che impattano sull‟economia. Nell‟ambito della complessa attività di gestione quotidiana dei rischi, vari sono gli strumenti a disposizione per costruire presidi che consentano di arginare gli eventi sfavorevoli: oltre al capitale, che per definizione rappresenta il “buffer” dal quale attingere, le politiche di accantonamento, che vengono messe in atto a fronte degli squilibri fisiologici che caratterizzano l‟attività bancaria, assumono un ruolo importante nel processo di valutazione di impieghi incerti per ammontare e scadenza.

Il presente elaborato si propone un duplice obiettivo. In primo luogo, esso intende sviluppare una trattazione generale sulle tematiche attinenti al rischio di credito, illustrando i principali strumenti per comprenderne le dinamiche e il funzionamento in linea con l‟evoluzione normativa. Successivamente si propone di analizzare il processo di modifica dello IAS 39, culminato con l‟entrata in vigore del nuovo principio IFRS 9, cercando di comprenderne le motivazioni e gli impatti conseguenti all‟entrata prevista per il 1° Gennaio di quest‟anno, e in particolar modo analizzare come le banche vedranno modificati i loro ratios patrimoniali ai fini di vigilanza alla luce delle nuove disposizioni in tema di impairment sui crediti.

Il primo capitolo tratta il rischio di credito e, stante le peculiarità che caratterizzano l‟attività bancaria, gli interventi di vigilanza prudenziale sugli intermediari

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focalizzandosi sull‟evoluzione della normativa e delle disposizioni per il calcolo dei ratios di capitale.

Nel secondo capitolo viene introdotta la disciplina contabile ed in particolare viene analizzata la disciplina dello IAS 39, in riferimento alle fasi principali del ciclo di vita di uno strumento finanziario, dall‟iscrizione e classificazione iniziale in bilancio alla cancellazione in seguito ad irrecuperabilità. Si è cercato di comprendere il legame tra incurred loss method, caratteristico dello IAS 39, e loan loss provision evidenziando gli effetti delle politiche di manipolazione del bilancio da parte del management, tenendo conto anche di parte della letteratura economica che ha tentato di verificare empiricamente l‟effettiva esistenza e messa in atto di comportamenti di questo tipo, giungendo a conclusioni talvolta discordanti. Infine ci si è concentrati sulle criticità che, anche a seguito di sollecitazioni da parte di organismi internazionali, hanno spinto l‟International Accounting Standards Board ad avviare il processo di sostituzione. Il terzo capitolo, infatti, si apre con la descrizione del processo regolamentare di riforma che ha portato alla definizione dell‟IFRS 9, definendone le caratteristiche di novità rispetto allo IAS 39 e soffermandosi sul nuovo modello di impairment, rispetto al quale vengono riportati i tre interventi normativi fondamentali che hanno condotto alla versione definitiva. Su questo tema si riscontra la maggiore discontinuità rispetto alla normativa dello IAS 39. La logica adottata nella rilevazione delle perdite viene radicalmente modificata. L‟introduzione del concetto di expected loss prevede di incorporare nella valutazione anche fattori forward looking. In particolare è prevista una classificazione delle esposizioni in tre diversi stage; nello stage 2 confluiranno attività che, pur non essendo deteriorate, hanno subìto un incremento del rischio considerevole e su queste attività andranno effettuate delle svalutazioni che considerino i possibili eventi di default facendo riferimento all‟intera vita dello strumento.

In ultimo, nel capitolo quarto, si è cercato di comprendere gli impatti organizzativi e patrimoniali conseguenti all‟entrata in vigore dell‟IFRS 9, che coinciderà con la necessità, per le banche, di apportare profondi cambiamenti ai processi di risk management ed infine comprendere quali sono gli aspetti di convergenza tra principi contabili internazionali e normativa prudenziale che consentirebbero di mitigare gli effetti di entrambe le regolamentazioni in termini di costo e sovrapposizioni scaturenti dall‟utilizzo di elementi comuni, pur riconoscendo però aspetti discordanti dovuti ad obiettivi di applicazione differenti.

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Capitolo 1

La Vigilanza prudenziale ed il rischio di credito:

caratteristiche per la determinazione del requisito

patrimoniale

1.1 La necessità dell’attività di vigilanza sul sistema bancario.

L’evoluzione della normativa e delle disposizioni per il calcolo dei capital

ratio

Nell‟attuale contesto economico, gli istituti bancari potrebbero essere assimilati alle imprese che operano nel settore industriale o dei servizi, stante l‟attività che svolgono come soggetti privati.

Tuttavia, questa considerazione si rivela errata e ciò è confermato dalle peculiarità che contraddistinguono l‟attività bancaria dalle altre e dal ruolo che gli intermediari assumono all‟interno dell‟economia. Il loro ruolo è di fondamentale importanza poiché la natura ed i contenuti dell‟attività bancaria sono spiegati dalla necessità di coniugare, permettendone il trasferimento, le richieste di soggetti in surplus monetario con quelle di soggetti che presentano necessità di finanziamento con un maggior o minor grado di esigenza.

È chiaro, quindi, come tali soggetti agevolino nuovi investimenti contribuendo notevolmente allo sviluppo e alla crescita dell‟economia. La capacità di organizzare il circuito finanziario permette di identificare una delle funzioni dell‟intermediario bancario, quella di intermediazione creditizia, che ne definisce l‟attività caratteristica, ovvero quella della “raccolta del risparmio presso il pubblico congiunta all’esercizio

del credito1”. Le caratteristiche principali dell‟impresa bancaria riguardano da un lato

il costante operare con un grado di leverage elevato, che consiste nella detenzione di risorse proprie ad un livello, spesso, notevolmente inferiore al livello di impieghi

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detenutiti e dall‟altro ci si riferisce alla composizione del passivo, rappresentato dai depositi del pubblico dei risparmiatori. Sulla base, appunto, di come l‟intermediario compone il proprio bilancio, vista l‟esigenza di protezione del risparmio raccolto, costituzionalmente tutelato2, nonché l‟esigenza di salvaguardare la fiducia e l‟integrità del sistema bancario, stante l‟importanza del ruolo che ha nell‟economia, è necessario un intervento da parte dell‟ordinamento, che non consenta lo svolgimento dell‟attività bancaria in totale autonomia, ma che preveda, piuttosto, una regolamentazione ad hoc ed un controllo specifico su tali soggetti.

L‟intervento massiccio e scrupoloso dell‟Autorità è spiegato dalla volontà di assicurare stabilità del sistema finanziario a tutela dell‟intera economia; l‟intervento sulla singola entità, consentirebbe di evitare che la crisi di un operatore possa comportare perdite per i soggetti-risparmiatori e contestualmente causare ripercussioni a livello sistemico propagandosi sull‟intero comparto.

L‟attività di controllo viene denominata “vigilanza” e può assumere diverse configurazioni a seconda degli strumenti che vengono utilizzati per raggiungere e garantire la stabilità finanziaria e di come questi vengono implementati. L‟obiettivo degli strumenti di vigilanza “strutturale”, che ha caratterizzato il periodo antecedente gli anni ‟90 durante il quale le banche erano enti pubblici,era quello di incidere sulla struttura del sistema bancario per ottenere un‟impostazione predefinita ritenuta ottimale per il supervisor3. Con l‟avvento della Comunità Economica Europea, la definizione del progetto di Unione Bancaria Europea e la diffusione del principio dell‟Home Country Control, si è verificato il passaggio al cosiddetto modello di banca universale, aprendo le porte alla libera prestazione dell‟attività bancaria e dei servizi di investimento alle imprese bancarie europee negli altri Paesi dell‟Unione. Per effetto dei cambiamenti che hanno investito il comparto bancario e l‟elevato regime di concorrenza nel quale si sono trovati ad operare gli istituti, anche l‟Italia, da sempre più conservativa e meno incline ai cambiamenti, è stata costretta ad attivare un processo di privatizzazione che ha di fatto segnato la conclusione dell‟epoca della vigilanza strutturale, segnando il passaggio da un regime vincolistico a vere e proprie forme di controllo che esaltano la funzione del patrimonio e quindi ad una vigilanza che utilizza una differente strumentazione per raggiungere il medesimo obiettivo di stabilità. Si parla in questo caso di vigilanza

2 Si fa riferimento all‟articolo 42 della Costituzione.

3 L. Donato, R. Grasso, Gli strumenti della nuova vigilanza bancaria europea. Oltre il TUB, verso il

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“prudenziale”, che definisce quell‟attività di supervisione, assicurando che i singoli operatori del mercato, agiscano in condizioni di solvibilità, mantenendo un adeguato rapporto tra i rischi assunti e le dotazioni patrimoniali di cui dispongono, nonché gli assetti organizzativi ed i presidi di controllo interno.

L‟attività di vigilanza prudenziale tende piuttosto ad accertare che i modelli utilizzati dagli intermediari siano in linea con uno dei principi cardine, ovvero quello della “sana e prudente gestione dell‟intermediario”, lasciando quindi piena autonomia all‟iniziativa privata. L‟obiettivo di carattere macroeconomico viene raggiunto attraverso il conseguimento di tanti obiettivi a livello micro, assicurando che ogni intermediario sia solvibile e lo rimanga nel tempo garantendo una gestione sana e prudente ma non solo: le regole ed i controlli da parte dell‟autorità di vigilanza sono attenti anche a profili che riguardano temi quali l‟integrità dell‟attività bancaria e della trasparenza e correttezza delle relazioni con i clienti, presupposti imprescindibili per garantire la stabilità e la fiducia nel sistema finanziario4.

L‟attività di vigilanza, così come precedentemente intesa, sposta l‟attenzione sulla definizione di standard specifici che portino alla misurazione di livelli patrimoniali tali da giustificare l‟operato dei soggetti in termini di assunzione di rischio. È sulla base di questa considerazione, che l‟Autorità di vigilanza definisce un livello minimo di capitale, ritenuto accettabile, al di sotto del quale gli operatori non dovrebbero sconfinare, che rappresenta il principale strumento attraverso il quale valutare le condizioni economico-finanziarie dell‟intermediario.

In questo contesto, il principale contributo è stato ed è tutt‟oggi rappresentato dal Comitato di Basilea e dagli accordi che lo stesso, a partire dal 1988, ha progressivamente raggiunto e che hanno dato luogo alla creazione di un set comune di regole, a livello internazionale, con le quali definire livelli di capitale necessari nonché le metodologie da utilizzare e le valutazioni che l‟intermediario deve effettuare in ragione della propria attività svolta tenendo conto del grado di rischio assunto.

Sin dalla formalizzazione del primo accordo di Basilea, le regole e le raccomandazioni dettate dal Comitato, da riportare in Direttive comunitarie per fargli acquisire valenza giuridica, vertono sull‟introduzione di un coefficiente di patrimonializzazione risk-based in forza del quale le Banche devono rispettare una soglia minima di capitale pari ad un valore espresso in termini percentuali, modificato più volte nel tempo, del

4 Carmelo Barbagallo, Direttore Centrale per la Vigilanza Bancaria e Finanziaria Banca d‟Italia,

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complesso di attività ponderate in relazione al loro grado di rischio (cd. Risk Weighted Asset). Secondo la letteratura5, l‟introduzione di un coefficiente patrimoniale assolverebbe a due principali funzioni6: la prima è quella di concretizzare il concetto di “level playing field” all‟interno del sistema bancario e finanziario, attraverso la definizione di un vero e proprio framework di regole che costituiscano la base, affinché per gli intermediari sia possibile operare liberamente esercitando la propria attività ed evitando situazioni concorrenziali sfavorevoli garantendo allo stesso tempo la corretta assunzione dei rischi. La regolazione autonoma da parte di ogni singolo operatore circa la determinazione dell‟adeguatezza patrimoniale, lasciava una discrezionalità troppo elevata che non poteva più essere tollerata anche in considerazione della progressiva apertura del mercato bancario, sempre più interconnesso e con players che estendevano la propria attività anche al di fuori del contesto territoriale nazionale. È presente, infatti, negli accordi tra le Autorità di vigilanza, la spiegazione di come la fissazione di regole di patrimonializzazione a livello internazionale, assuma un ruolo fondamentale per evitare che una concorrenza “ al ribasso” nel definire la soglia di capitale, possa contribuire alla creazione di fenomeni di instabilità, cosi come si è manifestato durante la crisi avvenuta nel 2008.

Il secondo obiettivo riguarda la creazione di “buffers” in grado di assorbire le perdite inattese derivanti dall‟attività bancaria stessa e tali da rendere le imprese più solide anche in prospettiva del verificarsi di fasi del ciclo economico particolarmente avverse. Infine, l‟assenza di vincoli sull‟assunzione di rischi potrebbe alimentare fenomeni di moral hazard7 spingendo gli operatori a condurre politiche sempre più aggressive, in termini di capacità remunerativa, soprattutto in situazioni come quella attuale in cui i tassi sono prossimi allo zero, rivolgendosi a controparti più rischiose ma allo stesso tempo capaci di remunerare in misura più alta i soggetti finanziatori. In tal senso, quindi, l‟intervento con l‟imposizione di coefficienti patrimoniali, può anche essere interpretato come forma di tutela dell‟interesse pubblico.

Ripercorrendo le tappe principali dell‟evoluzione della normativa prudenziale, sulla base delle implicazioni precedentemente considerate, è imprescindibile fare riferimento

5 Comitato di Basilea, Accordo internazionale sulla valutazione del patrimonio e sui coefficienti

patrimoniali minimi, in Bollettino economico della Banca d‟Italia, Ottobre 1988.

JRS Revell, Rischio e solvibilità delle banche, edizione italiana a cura di S. Caliccia, Milano 1978.

6 C. Brescia Morra, Le forme della vigilanza. Manuale di diritto bancario e finanziario, a cura di F.

Capriglione, 2015.

7 C. Brescia Morra, Società per azioni bancaria: proprietà e gestione, Quaderni di Giurisprudenza

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al primo Accodo di Basilea avvenuto nel 1988, nell‟ambito del quale il regulator introduce una metodologia “standardizzata”, ed applicabile a livello internazionale, per il calcolo del coefficiente di solvibilità secondo la quale il rapporto tra patrimonio di vigilanza ed attività ponderate per il rischio (in seguito RWA) dovesse essere pari o maggiore all‟8%. Viene compiuto il primo passo che permette di stabilire una relazione tra capitale ed esposizione al rischio. Lo schema, inizialmente, prevedeva che gli intermediari dovessero calcolare esclusivamente il requisito patrimoniale per il rischio di credito di tutte le attività bancarie attraverso un sistema di ponderazioni predefinite dal regulator, comprese tra lo 0% ed il 100%, da assegnare a ciascuna categoria di rischio. Cosi come inizialmente impostato, lo schema di Basilea, recepito nel giro di pochi anni dalla sua emanazione, suscitò da subito numerose critiche e non vantò di un gran numero di consensi8: se da un lato aveva permesso un certo grado di standardizzazione del livello patrimoniale, tale da consentire un‟ omogeneizzazione della prassi prudenziale, dall‟altro tali livelli erano poco sensibili al tipo di attività detenute, in quanto lo schema di ponderazione fornito non riusciva a riflettere correttamente il grado di rischiosità e contestualmente la qualità della controparte, discriminando alcune categorie a favore di altre.

La rigidità delle regole e le incoerenze dei coefficienti sui requisiti patrimoniali, hanno inoltre dato luogo, nel corso degli anni, a fenomeni di “arbitraggio regolamentare”9, cioè di valutazioni di convenienza che gli intermediari hanno sfruttato per aggirare le regole in questione e ottenere riduzioni degli oneri connessi, che hanno potuto concretizzarsi a causa della discordanza tra gli interessi dei soggetti coinvolti: l‟interesse pubblico, proprio delle autorità, ad avere banche ben patrimonializzate, e l‟interesse privato, proprio degli intermediari, ad “economizzare” sulla dotazione di capitale mediante l‟utilizzo di strumenti di finanza innovativa, come le operazioni di cartolarizzazione e lo sviluppo degli stessi modelli di risk management.

Tuttavia gli arbitraggi regolamentari non sono privi di costi per il sistema economico, soprattutto perché possono ridurre la trasparenza delle attività bancarie, dal momento che alterano la rischiosità del sistema bancario e forniscono false informazioni al mercato sulla reale salute delle imprese che vi operano. Tutto ciò inoltre può aver determinato condizioni di disparità tra banche più grandi e più solide da un lato che

8 G. Forestieri, Corporate & Investment banking, Egea S.p.a 2015.

9 E. Scannella, La catena del valore dell‟intermediazione creditizia nell‟economia delle imprese bancarie.

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hanno potuto aggirare le regole di Basilea, e le banche più piccole dall‟altro che, non disponendo di risorse adeguate a tal fine, non hanno potuto far altro che seguire i principi dettati dalle autorità di vigilanza.

Fermo restando le considerazioni precedentemente fatte, inoltre, lo schema di Basilea cosi come formulato nella sua prima versione, fu criticato per il fatto di considerare esclusivamente il rischio di credito nel calcolo del requisito patrimoniale tralasciando le altre tipologie di rischio cui un intermediario è esposto nello svolgimento della propria attività caratteristica.

Tali limiti costituirono il punto di partenza per la revisione degli accordi iniziata già a partire nel 1996, anno in cui viene pubblicato un emendamento10 del Comitato che introduce la possibilità, per gli intermediari più evoluti, di utilizzare modelli interni per il calcolo del requisito patrimoniale ed inoltre viene introdotto un requisito patrimoniale a fronte del rischio di mercato.

È facile comprendere come questa revisione da parte del Comitato, che getta le basi per la formulazione del secondo accordo di Basilea, sia stata spinta dalle critiche che la comunità finanziaria aveva mosso nei confronti dell‟approccio standardizzato, ritenuto capace di disincentivare lo sviluppo di metriche e strumenti interni di misurazione; per la prima volta i modelli interni di misurazione del rischio vengono “accettati” dall‟autorità di vigilanza, che si “limita” ad effettuare attività di convalida, segnando un profondo cambiamento della regolamentazione prudenziale.

L‟emendamento del 1996 rimane in vigore per molto tempo, durante il quale sono stati effettuati ulteriori lavori di miglioramento, in dettaglio fino al 2004, anno in cui viene pubblicato il Nuovo Accordo sul Capitale, noto come il framework di “Basilea II”. Il nuovo framework, oltre ad intervenire per colmare le lacune di Basilea I, ha rappresentato un passo in avanti considerevole, soprattutto perché segna il passaggio ad un approccio maggiormente orientato al mercato. La spinta alla cultura di mercato è insita nell‟impianto di tutto il sistema: introduce nuove tipologie di requisiti patrimoniali a fronte di rischi come il rischio operativo e definisce in modo esaustivo anche il rischio di mercato, una disciplina relativa all‟attività di controllo prudenziale da parte dei supervisori ed una disciplina di mercato riguardo l‟attività di controllo che può essere svolta da operatori economici esterni che entrano in contatto con le banche. Tali ambiti di cui si compone e nei quali si articola l‟impianto regolamentare, sul quale si

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basa la definizione del capitale di vigilanza per le banche, sono noti come i tre pilastri (Pillar) di Basilea II11.

Il primo pilastro contiene tutte le disposizioni in materia di adeguatezza patrimoniale ed in esso sono contenute tutte le regole per la determinazione dei fabbisogni di capitale che obbligatoriamente tutti i soggetti vigilati devono detenere a fronte dei cosiddetti rischi di 1° Pilastro ovvero rischio di credito, mercato, controparte ed operativo.

In particolare, per la misurazione del rischio di credito, di cui si parlerà in modo più approfondito nel corso della trattazione, il Nuovo Accordo prevede un‟ importante novità: l‟introduzione di criteri di ponderazione basati sull‟utilizzo di rating esterni forniti da agenzie specializzate, oppure di rating interni adottati dalle banche più sofisticate nelle stime di affidabilità dei loro portafogli, con l‟obbligo di rispettare rigidi standard metodologici e di disclosure.

Il secondo pilastro si basa su una serie di principi guida nella previsione che le banche instaurino una relazione attiva con le Autorità di Vigilanza nazionali, che saranno chiamate ad esprimere un giudizio qualitativo sull‟adeguatezza dei sistemi di controllo dei rischi adottati da ciascuna banca, con la possibilità di effettuare interventi correttivi al verificarsi di situazioni di squilibrio. I fattori di rischio cui le autorità dovrebbero prestare particolare attenzione sono, oltre al grado di concentrazione del rischio di credito, che non è adeguatamente misurato nell‟ambito del primo pilastro , anche altri che sono o del tutto trascurati o di non immediata interpretazione sotto il profilo economico.

L‟ultimo pilastro contempla la necessità di rendere pubbliche informazioni dettagliate sui processi utilizzati dalle banche per gestire e controllare i rischi assunti, affinché il mercato sia in grado di valutare correttamente l‟effettivo profilo di rischio assunto dalla banca stessa. Questo pilastro enfatizza quindi il ruolo della disciplina di mercato e delle altre misure di vigilanza volte alla sicurezza e alla solidità delle banche e del sistema finanziario. Il nuovo Accordo definisce un livello minimo di informazioni che le banche devono fornire, sia per quanto riguarda gli aspetti quantitativi che quelli qualitativi, e un‟informativa supplementare, sugli aspetti peculiari relativi a specifiche istituzioni. Con l‟avvento della crisi del 2008, gli aspetti di carenza e vulnerabilità, che comunque caratterizzavano il framework regolamentare di Basilea II, unitamente alla portata del

11A. Resti, A. Sironi, La crisi finanziaria e Basilea III: origini, finalità e struttura del nuovo quadro

regolamentare, Cerefin Working Papers, n. 1, 2011.

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contagio dei sistemi finanziari, hanno sollecitato il Comitato ad intervenire in una logica di cambiamento, emanando un primo documento nel dicembre 2010, all‟interno del quale ne vengono riportate le cause: in primo luogo si è potuto riscontrare dai bilanci delle banche un eccessivo grado di indebitamento, accompagnato da un‟assenza di capitale regolamentare adeguato in termini quali-quantitativi, la mancanza di sufficienti buffers di liquidità, il mantenimento di comportamenti, anche in questo contesto, di arbitraggio regolamentare, il fenomeno della prociclicità ed infine l‟interconnessione tra gli intermediari con valenza sistemica che ha permesso alla crisi di propagarsi su scala internazionale. Sulla base di queste considerazioni, il BCBS, in risposta alle conseguenze disastrose in cui versava il contesto bancario internazionale, emana un complesso di regole che è meglio conosciuto come Basilea III. Il 27 giugno 2013 il Parlamento europeo emana ufficialmente il nuovo complesso normativo composto dal Regolamento 575/2013 (CRR) e dalla Direttiva 2013/36/UE (CRD IV) che rappresenta il quadro giuridico completo per la gestione dei rischi da parte degli intermediari creditizi e delle imprese di investimento. Nonostante l‟impostazione di base delle regole di Basilea rimanga immutata, tuttavia, sono numerose le novità introdotte come risposta alla crisi12. È possibile suddividere gli interventi di revisione in due grandi gruppi: da un lato interventi rivolti al rafforzamento patrimoniale e ad una migliore misurazione patrimoniale dei rischi e dall‟altro interventi che introducono misure di natura macro-prudenziale. Con Basilea III gli obiettivi di carattere macro-prudenziale di stabilità finanziaria vengono perseguiti con strumenti ad hoc, volti ad incidere in modo diretto sul sistema finanziario nel suo complesso, superando l‟approccio prettamente micro-prudenziale proposto da Basilea II.

Tuttavia, la prima versione del nuovo complesso di regole di Basilea III, è stata emanata nel 2010, in un contesto di pieno propagarsi della crisi pertanto, in un momento cosi delicato per il sistema finanziario, impegnato in un contesto di fortissimo stress, non è stato facile tollerare le nuove disposizioni che obbligavano, seppur attraverso un graduale phase-in, ad effettuare sforzi molto importanti in termini di ricapitalizzazione. Tra gli interventi di natura micro-prudenziale, il Comitato interviene sulla definizione di patrimonio di vigilanza e sul livello di patrimonializzazione necessaria che gli intermediari devono detenere a fronte dell‟esposizione ai rischi definendo sia la quantità che, in particolar modo, la qualità dei mezzi destinati a copertura delle potenziali

12 S. Mieli, L‟attuazione in Europa delle regole di Basilea 3, Audizione del Direttore centrale per la

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perdite. L‟esperienza maturata nel periodo della crisi aveva dimostrato, infatti, che il patrimonio di vigilanza, cosi come composto, non si era dimostrato adeguato e sufficientemente idoneo alla copertura delle perdite che gli intermediari hanno rilevato e che sono emerse dai loro bilanci.

Il nuovo framework riporta, pertanto, una nuova definizione, quella di fondi propri di cui definisce una precisa suddivisione: viene imposta una soglia minima, pari almeno al 4,5%, di Common Equity Tier 1 (CET1) che deve essere rappresentato esclusivamente da elementi di cui i soggetti vigilati possano disporre senza restrizioni nel momento in cui si verifica la perdita; viene definita una soglia aggiuntiva di capitale di classe 1, l‟Additional Tier 1 che comprende strumenti di capitale che formalmente non presentano le caratteristiche necessarie tali da poter confluire nel CET1. È previsto, al verificarsi di un evento attivatore (trigger event13) che riduca l‟importo del CET1 al di sotto della soglia definita del regulator pari al 5,125%, o superiore se determinata dall‟intermediario stesso e di cui deve dare informativa cosi come riportato nell‟art. 54 CRR, che gli strumenti di capitale dell‟AT1 possano essere convertiti in capitale primario di classe 1 al fine di consentire all‟intermediario di mantenere invariata la soglia di CET1 richiesta. La somma degli elementi sopra riportati, costituisce il primo aggregato di capitale, il Tier 1, per cui viene fissata la soglia pari a 5,5%, considerato il capitale “on going concern”, ovvero quel capitale in grado di assorbire le perdite e garantirne la copertura in condizioni fisiologiche dell‟intermediario, tale da assicurare la quotidiana e ordinaria operatività. Rispetto questo primo aggregato, ed in particolare in riferimento all‟AT1, l‟EBA è intervenuta con un ultimo aggiornamento del report dell‟ottobre 201614

, limitatamente al contesto europeo, laddove riporta il lavoro di continuo monitoraggio degli strumenti che gli intermediari fanno confluire all‟interno dell‟AT1, in ragione della maggiore discrezionalità nelle emissioni, tale da poter minare lo sforzo da parte delle Autorità di Vigilanza di contrastare gli effetti diluitivi sul capitale cosi come avvenuto prima della crisi. Il lavoro dell‟EBA è quello di verificare che le banche europee utilizzino i medesimi criteri per determinare l‟AT1, intervenendo anche attraverso proposte di modelli standardizzati delle emissioni riportandone i requisiti richiesti per raggiungere gli obiettivi per cui è preposto il capitale (“The

13 Relativamente questo aspetto, come verrà trattato nei capitoli successivi, sotto il profilo contabile, cosi

come disposto dall‟attuale IAS 39 in vigore, vi sono delle discrepanze rispetto al timing di rilevazione delle perdite che comporta problematiche in termini di accantonamento di capitale e di conseguenza riduce il grado di stabilità dell‟intermediario.

14 EBA, Report on the monitoring of Additional Tier 1 instruments of EU institutions, Second Update,

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objective of these templates is to cover the prudential provisions of the AT1 issuances. They contain essential and optional provisions concerning in particular flexibility of payments, permanence, and loss absorbency and are based on the most commonly observed loss absorption mechanisms. The use of these templates would bring a certain level of security to the issuing institutions as the templates are perceived to reflect the expectations of the supervisory community on the practical implementation of the provisions laid down in the Capital Requirements Regulation (CRR), the Regulatory Technical Standards (RTS) and Q&As, based on the experience gained with the observations of issuances already made in the EU market.”).

Proseguendo con gli elementi che costituiscono i fondi propri, si deve far riferimento al secondo aggregato, il Tier 2: l‟obiettivo del regulator con riguardo questa classe di capitale, definito capitale “on gone concern”, è quello di assicurare che l‟intermediario disponga di un‟eccedenza in grado di assorbire le perdite nel momento in cui la banca diventa formalmente insolvente. Altri interventi sotto il profilo micro-prudenziali sono stati mossi con riguardo alla leva finanziaria ed al rischio di liquidità. Per quanto riguarda il primo aspetto, il regulator è intervenuto introducendo un indicatore di leva finanziaria, il Leverage Ratio, dato dal rapporto tra T1 e il totale delle esposizioni e fissato ad oggi almeno pari al 3%, provvedendo quindi ad introdurre una misura che consenta di includere correttamente qualsiasi esposizione. L‟analisi ex-post relativa all‟efficacia del sistema di gestione del rischio basato sull‟impostazione di Basilea II, ha evidenziato come un complesso di misure regolato unicamente sugli RWA non sia stato in grado di condurre il sistema bancario ad un livello di capitalizzazione che lo rendesse robusto in situazioni di shock e di prolungata recessione: la prova di ciò, ed in particolare per effetto delle posizioni fuori bilancio, è data dal fatto che gli istituti finanziari avevano raggiunto un grado di leva finanziaria altissimo, pur mostrando robusti capital ratio.

Il Comitato ha iniziato a testare la disposizione all‟interno di un parallel run period iniziato nel 2013 e conclusosi nel 2017. Come riportato nel report del BCBS del febbraio 201715, viene stabilito che il Tier 1 sia calcolato secondo le stesse regole definite per il calcolo dei requisiti patrimoniali, tuttavia è da considerare che le esposizioni relative ad elementi che non sono eleggibili come Tier 1 Capital debbano

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essere dedotte dal totale delle esposizioni per rendere coerente il calcolo del ratio16. Il Parallel run period è uno strumento adottato dal Comitato per monitorare l‟efficacia e la corretta calibrazione del ratio, alle banche è stato richiesto di calcolare l‟indice con una frequenza trimestrale e ne ha previsto la piena applicazione a partire dal 2017, periodo di ricalibrazione e revisione in vista della stabile applicazione e dell‟inserimento all‟interno del Pillar 1 a partire dal 1° gennaio 2018. Concludendo la rassegna dei principali interventi da parte del Comitato, sotto il profilo macro-prudenziale, la crisi finanziaria ha riportato all‟attenzione anche il tema della prociclicità delle norme prudenziali, giungendo a conclusione che fosse necessario integrare le norme al fine di meglio contenere i rischi derivanti da un‟eccessiva dinamica del credito nei periodi di maggiore espansione economica, alla quale generalmente segue una contrazione della disponibilità quando il ciclo si inverte.

È pertanto questa la finalità perseguita dalle nuove disposizioni di Basilea III, di definire delle regole che contribuiscano a mitigare il quanto più possibile la prociclicità del settore finanziario, assicurando che gli intermediari accumulino capitale aggiuntivo, creando dei buffer, nei momenti di maggiore crescita, in grado di fronteggiare le fasi negative del ciclo senza interrompere il finanziamento all‟economia supportandone la crescita.

Le misure previste consistono nell‟introduzione di due buffer aggiuntivi, un Capital Conservation Buffer, una riserva obbligatoria di capitale classificato come CET1 volta a preservare il livello minimo di capitale, pari al 2,5% del totale degli RWA. Tale disposizione di fatto porta la richiesta di CET1 al 7%, prevedendo tuttavia la possibilità che in periodi di stress finanziario tale riserva possa essere erosa, attivando però un immediato processo di reintegrazione che in caso contrario, comporterebbe una serie di limitazioni alle distribuzioni di capitale; la seconda riserva prevista, il Countercyclical Buffer, discrezionalmente richiesta dalle autorità di vigilanza nei momenti in cui lo ritengano opportuno, è destinata a garantire che le banche accumulino risorse nelle fasi in cui la crescita del credito raggiunga livelli particolarmente elevati rispetto alla dinamica del prodotto interno lordo. Come precedentemente affermato, quindi, sebbene con delle modifiche importanti delle disposizioni , l‟impianto generale della regolamentazione è rimasta pressoché invariata, tant‟è che più che di sostituzione, si parla di un change, un rinnovamento di Basilea II.

16 Basel Committee on Banking Supervision, Basel III: A global Regulatory Framework for more

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1.2 Il rischio di credito: definizione

Dopo aver riportato l‟excursus normativo, che permette di comprendere le motivazioni che hanno condotto il regulator a definire degli standard quali-quantitativi di capitale rispetto alla rischiosità assunta dagli intermediari, successivamente ci si soffermerà sul rischio di credito, descrivendone le caratteristiche peculiari, le componenti chiave dell‟aggregato di rischio, riportandone le principali modifiche attivate dalle Autorità di vigilanza nel corso del tempo e cercando di comprendere le principali implicazioni sugli intermediari.

Il rischio di credito può essere definito come “la possibilità che una variazione inattesa

del merito creditizio di una controparte generi una corrispondente variazione inattesa del valore corrente della relativa esposizione creditizia”17.

Da questa definizione emergono alcuni concetti fondamentali e sui quali è utile porre l‟accento: in primo luogo, occorre precisare che qualora si consideri il caso estremo di default, che si concretizza in seguito all‟insolvenza del debitore, allora in quel caso ne verrà accertato lo stato da parte dell‟intermediario, ma una perdita di valore della posizione di credito, può materializzarsi anche in conseguenza al deterioramento del merito creditizio della controparte, dovuto a variazioni della situazione economico-finanziaria del debitore, che di conseguenza subisce un downgrating.

In aggiunta, è possibile osservare come il rischio di credito dipenda anche dalla forma tecnica utilizzata, essenzialmente per via delle diverse tutele previste a beneficio del creditore. Un discorso a parte, invece, deve essere condotto con riferimento alle garanzie eventualmente prestate. Chiaramente, si fa riferimento a previsioni contrattuali che riguardano la forma tecnica dell‟esposizione; tuttavia esse rappresentano una dimensione del rischio di credito influenzata anche da fattori esterni. Infatti, tale dimensione comprende sia aspetti contrattuali come la quantità e la qualità delle garanzie prestate, ma anche aspetti macroeconomici relativi all‟andamento del mercato delle stesse. Si tratta, in entrambi i casi, di dimensioni del rischio di credito non direttamente connesse alle qualità del creditore ma che contribuiscono in modo significativo ad accrescere la complessità della fattispecie oggetto di studio. Si è detto che il rischio di credito non è identificabile nel solo rischio di insolvenza: infatti è possibile osservare come, anche a parità di controparte, esso ricomprenda fattispecie

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ulteriori. E‟ evidente, a questo punto, che il rischio di credito sia un fenomeno caratterizzato da estrema complessità e che pertanto non possa essere agevolmente definito in termini generali. Una problematica ulteriore che contribuisce ad incrementare le difficoltà nella trattazione e nella definizione del problema è legata alla molteplicità delle forme tecniche: da questo punto di vista, infatti, è necessario sottolineare che il rischio di credito riguarda anche strumenti non quotati, dei quali non è possibile disporre dei prezzi di quotazione, con la conseguente impossibilità di condurre analisi basate sulle distribuzioni di probabilità dei rendimenti.

Affinché si possa qualificare come un vero e proprio rischio è necessario che si tratti di una variazione inattesa, che comporti quindi un peggioramento della qualità dell‟esposizione e sia correlata ad un evento aleatorio, in quanto l‟evoluzione attesa delle condizioni finanziarie dell‟affidato vengono costantemente monitorate dall‟intermediario e opportunamente valutate in sede di affidamento. L‟intermediario, nell‟ambito di quell‟attività di pricing che deve riflettere in modo adeguato il profilo di rischio di un impiego, valuterà ex ante l‟evoluzione attesa della controparte permettendole di definire una stima della probabilità di insolvenza che si riflette nel tasso attivo di remunerazione. In riferimento al rischio di credito non è sufficiente far riferimento alle sole posizioni iscritte in bilancio ma è necessario considerare anche gli strumenti derivati negoziati in mercati regolamentati e Over the Counter, nonché tutte le posizioni fuori bilancio ed i credit derivates18. Questi strumenti rappresentano elementi di rischio molto importanti per le organizzazioni in quanto sono solitamente contabilizzati al valore storico e non al valore corrente (fair value), che in genere presenta un‟elevata volatilità correlata ai parametri di mercato, e pertanto maggiormente sensibile alle variazioni di valore. Un altro motivo riguarda il fatto che queste esposizioni sono relative ad attività illiquide che difficilmente possono essere negoziate in un mercato secondario al valore corrente (mark to market); pertanto la loro valorizzazione dovrà spesso avvenire mediante valutazioni interne (mark to model). I rischi di natura creditizia possono assumere diversa denominazione e, sulla base delle cause che lo determinano e a seconda dell‟attività sottostante al rapporto tra le controparti, possono assumere la forma di19:

18Parlamento e Consiglio Europeo, Regolamento 575/2013, Giugno 2013 integrazione con Regolamento

Delegato (UE) 2016/709 della Commissione, Gennaio 2016.

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 rischio di insolvenza (o default): si manifesta come probabilità che la controparte affidata si manifesti incapace o non disponibile ad onorare i propri impegni. Tale probabilità viene misurata dal rating, ovvero un giudizio del merito creditizio da parte della stessa banca o di istituti specializzati;

 rischio di downgrating o di migrazione : tale accezione è collegata alla possibilità che si verifichi un declassamento che comporta un deterioramento del merito creditizio che, tuttavia, non comporta una perdita immediata per la banca, in quanto si manifesta attraverso un processo graduale;

 rischio di esposizione: fa riferimento all‟ammontare del debito che risulta a rischio nel momento in cui si manifesta l‟insolvenza;

 rischio di recupero: riguarda l‟ammontare di prestito in sofferenza che potrà essere effettivamente recuperato dalla banca attraverso le varie procedure di recupero crediti; è in tale ambito che si inquadra il concetto di Loss Given Default, cioè la perdita in caso di insolvenza;

 rischio di spread : fa riferimento ad un innalzamento dello spread, ovvero del premio per il rischio richiesto dal mercato dei capitali, a parità di rating e di probabilità di default;

 rischio di concentrazione : rischio che un portafoglio di crediti, eccessivamente orientato verso pochi grandi prestiti, o verso determinati settori industriali, risulti esposto a grandi oscillazioni di valore rispetto a quello atteso;

 rischio di regolamento : si manifesta come l‟incapacità temporanea della controparte di rimborsare il debito (ma non anche successiva);

 rischio Paese : si manifesta in presenza di portafogli caratterizzati da esposizioni nei confronti di soggetti residenti in paesi caratterizzati da elevati profili di rischio oppure che non risultano essere in grado di adempiere alle proprie obbligazioni per cause di natura politico – legislativa;

 rischio di controparte20

: questo rischio si riferisce alla situazione in cui la

controparte di una delle transazioni specificate nel Documento di Banca d‟Italia21

, divenga insolvente prima della scadenza dello stesso e renda dunque necessaria la sostituzione della posizione sul mercato a condizioni contrattuali differenti. Si rileva che la differenza sostanziale tra rischio di credito e rischio di

20

Banca d‟Italia, Documento per la consultazione, Applicazione in Italia del Regolamento (UE) 575/2013 e della Direttiva 2013/36/UE, Agosto 2013.

21

Banca d‟Italia, Circolare 285/2013: Disposizioni di vigilanza per le banche, 17° Aggiornamento 27 Settembre 2016.

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controparte risiede nel fatto che il rischio di credito è un rischio unilaterale mentre il rischio di controparte è un rischio multilaterale. Infatti, a differenza del rischio di credito generato da un finanziamento, dove la probabilità di perdita è unilaterale, in quanto essa è in capo al solo soggetto erogante, il rischio di controparte crea, di regola, un rischio di perdita di tipo bilaterale in quanto il valore di mercato della transazione può essere positivo o negativo per entrambe le controparti.

1.2.1 Le componenti del rischio di credito. Perdita attesa e perdita

inattesa

Il rischio connesso con un‟esposizione creditizia è espresso da determinati fattori e, a tal proposito, si individuano quattro drivers suscettibili di determinare l‟entità delle possibili perdite di valore future sul credito:

- la PD (Probability of Default) definita come la probabilità che la controparte si renda inadempiente nell‟arco di un dato orizzonte temporale e discende dal merito creditizio del debitore, cioè dalla sua capacità di reddito e da altri fattori rappresentativi delle condizioni economico-finanziarie, attuariali e prospettiche, della controparte affidata.; - la LGD (Loss Given Default), perdita sopportata da una banca su un‟esposizione creditizia se il debitore risulta insolvente, ossia il valore atteso del rapporto, espresso in termini percentuali, tra la perdita e l‟importo dell‟esposizione al momento del default. Tale componente non è nota ex ante, ma è possibile determinarla solo successivamente nel momento in cui si conclude l‟operazione di recupero del credito, tant‟è che può essere considerata come complemento ad uno del tasso di recupero atteso (RR –

Recovery Rate)22. Il tasso di recupero è influenzato dalle caratteristiche del

finanziamento (presenza/assenza di garanzie reali o personali), dalle caratteristiche della controparte, che si sostanziano nell‟individuazione del settore, il Paese nel quale opera e la valutazione dei principali indici economico-finanziari, da fattori interni della banca, relativamente le procedure ed i costi connessi al recupero del contenzioso ed infine da fattori esterni di carattere macro-economico. La LGD è una variabile chiave da

22

AIFIRM, 1°Paper definitivo – Commissione Banche Medio Piccole, 2013.

Banca d‟Italia, Circolare 274/2013: Istruzioni per la compilazione delle segnalazioni delle perdite storicamente registrate sulle posizioni in default, 1° aggiornamento 20 Dicembre 2016.

Comitato di Basilea per la Vigilanza Bancaria, Il trattamento del rischio di credito e di controparte in Basilea 3: domande frequenti, Novembre 2012.

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24

governare per qualsiasi intermediario bancario rileva per finalità contabili, regolamentari e gestionali e costituisce un importante strumento per la misurazione dell‟efficacia e dell‟efficienza del processo di recupero.

Dopo aver trattato queste prime componenti del rischio di credito, vi sono due aspetti importanti che occorre valutare in relazione al tasso di recupero e quindi al rischio ad esso connesso. Il primo aspetto da considerare è quello relativo alla natura idiosincratica o sistematica di questa componente di rischio ed il secondo aspetto riguarda l‟eventualità che esista una correlazione tra la variazione dei tassi di recupero e la variazione dei tassi di insolvenza. Il primo elemento, rispetto alle variazioni dei tassi di recupero, nel caso in cui risultino essere indipendenti tra loro, ci dice che il rischio di recupero ha natura idiosincratica o specifica, e l‟impatto di tale componente sul complessivo rischio di credito è da considerarsi marginale, laddove vengano attivate adeguate politiche di diversificazione. Risulta essere maggiormente significativo il secondo elemento che permette, inoltre, di evidenziare un legame tra le componenti PD ed LGD23: laddove esista una correlazione tra la variazione dei tassi di recupero e la variazione dei tassi di insolvenza, le due componenti risultano legate tra loro ed il rischio di recupero avrebbe un impatto molto più significativo sul complessivo rischio di credito. È possibile comprendere come aumenti del tasso di insolvenza comportino una diminuzione dei tassi di recupero, facendo contemporaneamente aumentare i livelli di PD e di LGD e di conseguenza anche il livello di rischio complessivo. In generale, l‟evidenza empirica dimostra quindi una relazione inversa tra tassi, dunque diretta tra PD ed LGD.

- l‟EAD (Exposure At Default) rappresenta l‟esposizione che l‟intermediario attende nel momento del default, la cui aleatorietà dipende dalla tipologia di esposizione, nonché dalla forma tecnica e dal tipo di prodotto connesso all‟esposizione stessa. Questa peculiarità conduce alla determinazione di due tipologie differenti di esposizioni: quelle a valore certo, note alla banca nel momento in cui viene concesso il fido, e quelle a valore incerto, il cui importo non è quantificabile dalla banca nell‟immediato ma solo successivamente, quando si verifica il default, tipico delle aperture in conto corrente. La stima dell‟EAD richiede la conoscenza di tre variabili rilevanti per determinare l‟esposizione e viene quantificata in relazione alla quota di fido utilizzata (DP – drawn

23 A.Resti, A.Sironi, Rischio e valore nelle banche. Misura, regolamentazione, gestione, Egea 2008

G. Di Fabio, Applicazione dei modelli di gestione del rischio di credito, Università Luiss Guido-Carli, , 2014.

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portion), di un fattore di conversione, cioè la percentuale di quota inutilizzata ma che si ritiene venga utilizzata dal debitore in corrispondenza dell‟insolvenza (CCF - credit conversion factor24) e della quota di fido non utilizzata (UP – undrown portion):

EAD = DP + UP ∙ CCF

Il fattore di conversione CCF è importante da valutare da parte dell‟istituto bancario, poiché , spesso, le controparti che incontrano difficoltà economiche tendono ad utilizzare ed impiegare tutto il fido concesso e vi è il rischio che l‟esposizione tenda ad aumentare in prossimità del default;

- M (Maturity) è l‟ultima componente del rischio di credito ed esprime la scadenza economica dell‟esposizione.

Tali componenti hanno natura strumentale per l‟intermediario, poiché consentono di arrivare a quantificare l‟ammontare di perdita in relazione ad una determinata controparte.

Poiché la reale componente di rischio si riferisce ad una variazione inattesa, rappresentata dalla possibilità che le valutazioni effettuate ex-ante si manifestino errate a posteriori, determinando uno scostamento tra perdita prevista e perdita effettivamente realizzata, è fondamentale distinguere tra perdite attese e perdite inattese.

Analiticamente per perdita attesa (EL – Expected Loss) s‟intende il valor medio della perdita che una banca attende di subire con riferimento ad un credito o portafoglio crediti, in un certo arco temporale25.

Proprio in quanto stimata a priori quindi, la perdita attesa non costituisce il vero rischio di un‟esposizione creditizia, ma si configura piuttosto come un elemento di costo per così dire “fisiologico”, incorporato già nelle aspettative dell‟investitore. In altri termini, essa consente di tener conto del rischio medio di insolvenza della controparte, che viene quantificato, nella determinazione del pricing, da uno spread che misura il premio rispetto ad un investimento privo di rischio. La stima della perdita attesa su un‟esposizione creditizia viene determinata come il prodotto delle componenti di cui sopra:

EL = PD * LGD * EAD

24 M.Araten, M.Jacobs, Loan equivalent for revolving credits and advised lines, RMA Journal, 2001. 25 A. Sironi, Le componenti del rischio di credito e A. Resti, Misurare e gestire il rischio di credito nelle

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26

di cui si parlerà nel paragrafo seguente per distinguere le due differenti metodologie di calcolo riconosciute a livello regolamentare.

Ai fini di un‟ efficace quantificazione del rischio di credito occorre tener conto anche della probabilità di uno scostamento tra la perdita attesa, livello stimato ex ante, e la perdita effettiva, livello rilevato ex post, cioè il grado di perdita inattesa26.

La perdita inattesa (UL - Unexpected Loss ) può considerarsi espressione della variabilità della distribuzione delle perdite intorno al loro valore medio (Expected Loss – EL)27

.

Rappresenta la vera componente di rischio per l‟intermediario che incide sul requisito di capitale economico della banca volto a fronteggiare la componente inattesa delle perdite ad un dato livello di confidenza (fissato al 99,9%) come mostrato in figura 1.

Figura 1. Distribuzione di probabilità delle perdite future

Fonte: A.Sironi, F.Saita, La gestione del capitale e creazione di valore nelle banche, 2002

La differenza tra perdite attese ed inattese è di fondamentale importanza sia nelle strategie di risk management sia per la determinazione del requisito di capitale ottimale che l‟intermediario deve detenere per assolvere ad obblighi regolamentari.

26 Prof. M. Aliano, Basilea III, i rischi bancari e le riforme in Italia, Università degli studi di Cagliari,

2017.

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27

Se si considera il banking book di un‟istituzione che presenta un elevato numero di impieghi differenti da un punto di vista sostanziale e con scadenze estremamente variegate, mentre la perdita attesa viene calcolata come somma delle perdite attese di ogni singolo impiego, che per natura non è diversificabile, al contrario la perdita inattesa può essere ridotta e gestita attraverso un‟attenta ed adeguata politica di diversificazione. Dal punto di vista regolamentare, le regole di Basilea prevedono che la perdita attesa, stimata ex-ante, sia coperta mediante l‟uso di provisions (rettifiche, accantonamenti) e se non sufficienti anche da capitale, mentre le perdite inattese devono trovare adeguata copertura nel patrimonio.

È infatti la ratio dei requisiti patrimoniali imposti da Basilea, quella di assicurare che gli intermediari dispongano di risorse sufficienti da assorbire le perdite inattese ed eventualmente gli shortfall di perdita attesa non coperti dagli accantonamenti in bilancio.

Su questo punto, di cui si parlerà più approfonditamente nei capitoli successivi, attualmente si sono dibattuti i maggiori esponenti dell‟economia e della finanza internazionale poiché, soprattutto con l‟avvento della crisi, si è rilevata una tendenza da parte degli intermediari a sottovalutare la correlazione tra queste due componenti di perdita e, incentivati da un principio contabile in contrasto con la logica del regulator, ad effettuare valutazioni non adeguate sulle esposizioni.

1.3 Il calcolo del requisito patrimoniale a fronte del rischio di credito

secondo Basilea III: Standardized Approach vs. Internal Risk Based

(IRB) Approach

Sin dal primo Accordo di Basilea è richiesto agli intermediari di effettuare il calcolo del requisito patrimoniale a fronte del rischio di credito, nonostante si siano susseguite modificazioni alle regolamentazioni che hanno portato alla definizione di due metodologie di calcolo.

Con il passaggio da Basilea I, che ha introdotto una metodologia standardizzata secondo cui venivano applicati coefficienti di ponderazioni forniti dall‟Autorità di vigilanza poco sensibili al livello di rischio delle attività, a Basilea II, si assiste ad un sostanziale

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cambiamento nelle disposizioni con riguardo alle metodologie di calcolo prevedendo una “rimodulazione” della precedente versione standardizzata.

Alle banche è richiesto di calcolare il requisito patrimoniale utilizzando alternativamente due opzioni:

- l‟utilizzo della metodologia standardizzata, applicando coefficienti di ponderazione diversificati sia in base alla tipologia di controparte o di esposizione, sia al diverso rating attribuito da agenzie di rating esterne specializzate (ECAI – External Credit

Assestment Institution) come Moody‟s, Standard & Poor, Cerved Group e Fisch

Ratings.

Una volta identificato e quantificato il valore delle esposizioni partendo dai dati di bilancio, vengono suddivise in classi omogenee, individuate da Banca d‟Italia, in relazione alle caratteristiche tecniche, nonché l‟orizzonte temporale di riferimento, e le cui ponderazioni sono riportate nel documento rilasciato da Standard & Poor‟s Rating Services come segue28:

- Rating a lungo termine per le esposizioni verso amministrazioni centrali e banche

centrali, intermediari vigilati, enti del settore pubblico, enti territoriali banche multilaterali di sviluppo imprese e altri soggetti

- Rating a breve termine per esposizioni verso intermediari vigilati e imprese

28

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- Rating per esposizioni verso Organismi collettivi di investimento del risparmio

(OICR)

- Rating a lungo termine per posizioni verso cartolarizzazioni

- Rating a breve termine per posizioni verso cartolarizzazioni

Aumentano pertanto le asset classes in cui è possibile inserire un‟esposizione ed allo stesso tempo, ogni classe, è segmentata sulla base del rating. L‟introduzione di questa variabile è una delle novità del secondo Accordo assieme all‟introduzione di strumenti quali i risk mitigants. I risk mitigants sono strumenti collaterali che, dato un certo rischio d‟impresa, riducono le perdite della banca in caso di insolvenza e consentono, cosi, di ridurre i requisiti patrimoniali. Il rating29 può essere definito, invece, come un punteggio attribuito alla controparte che ha lo scopo di esprimere un giudizio sintetico sul suo grado di affidabilità, sulla capacità di rimborso del prestito e sulla probabilità di default. In figura 2 si riportano i rating utilizzati dalle principali agenzie internazionali.

29

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Figura 2. Scala rating principali agenzie

Fonte: Market Insight, the fundamental analysis, 2017

- l‟altra metodologia, consentita esclusivamente con l‟emanazione di Basilea II e che ne costituisce una delle principali innovazioni, è quella che prevede la possibilità per gli intermediari di utilizzare sistemi di misurazione del rischio basato sui rating interni, allo scopo di ottenere un più preciso livello di affidabilità del cliente.

Coloro che utilizzano questi modelli pervengono alla misura del rischio attraverso la stima dei parametri necessari per il calcolo della EL e che fungono da input per la stima della perdita inattesa. Le banche possono utilizzare questi modelli solo previa autorizzazione ottenuta dall‟organo di vigilanza che li deve validare, ossia verificare preventivamente che il sistema di rating sia in linea con le disposizioni dimostrando di possedere i requisiti richiesti (use test). Sono previste due varianti della metodologia IRB: l‟ IRB Foundation, che prevede la possibilità per gli intermediari di stimare in modo autonomo esclusivamente il fattore di rischio legato alla PD, che riflette la classe di rating cui l‟esposizione è associata, mentre il valore degli altri parametri sono fissati

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31

dall‟Autorità; l‟ IRB Advanced, invece, prevede la possibilità di utilizzare stime interne anche per gli altri parametri di rischio. È chiaro quindi come le banche siano chiamate ad adottare un approccio simile a quello utilizzato dalla agenzie di rating specializzate, predisponendo di una struttura idonea per implementare tali modelli. Si parla di “sistemi di rating” per indicare, appunto, l‟insieme strutturato e documentato delle metodologie, dei processi organizzativi e di controllo, delle modalità di organizzazione delle basi dati, che permetta la raccolta delle informazioni rilevanti e la loro elaborazione per formulare valutazioni sintetiche del merito creditizio del soggetto affidato e della rischiosità delle singole operazioni creditizie. Il rating, quindi, assume un ruolo di fondamentale importanza poiché permette alla banca di determinare la quota di capitale da accantonare per ogni prestito che concede, ossia rappresenta uno dei fattori che determinano il costo del prestito e le conseguenti condizioni di rimborso. Assume particolare importanza in questo contesto la definizione di default. Il Comitato di Basilea, al fine di perseguire i principi di uniformità e di equità tra banche, ha fornito una descrizione precisa del concetto di default, per sviare qualsiasi dubbio creatosi a fronte della diversità normativa tra Paesi. L‟omogeneità di concetto trova utilità nella definizione di tutte le variabili di rischio.

Ci si imbatte in una situazione di default, secondo il Nuovo Accordo, quando si verifica almeno uno dei seguenti presupposti30:

- di “tipo soggettivo”: la banca ritiene improbabile che il debitore adempia del tutto alle sue obbligazioni (in questa categoria rientrano eventi quali il passaggio a perdita, la creazione di accantonamenti specifici, la ristrutturazione per crisi che comporti la remissione o il differimento del pagamento degli interessi o del rimborso del capitale o, ancora il fatto che la controparte abbia presentato istanza di fallimento o procedura analoga di protezione dei creditori)”;

- di “tipo oggettivo”, in base al quale i crediti scaduti da oltre 90 giorni, su qualunque obbligo di debito materiale, configurano il verificarsi del default.

Pertanto, una precisa definizione di default permette alla banca di comprendere meglio l‟andamento patologico del credito e di decidere in anticipo, in caso di situazioni anomale, sui dovuti provvedimenti, senza aspettare le conseguenze del default vero e proprio.

30 Consiglio e Parlamento Europeo, Regolamento 575/2013 relativo ai requisiti prudenziali per gli enti

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32

Anche l‟EBA è intervenuta a questo proposito emanando delle linee guida31

che specificano i requisiti per l'applicazione dell'articolo 178 del regolamento (UE) n. 575/2013 sulla definizione di inadempimento, conformemente al mandato conferitole cosi come disposto all'articolo 178, paragrafo 7, di tale regolamento. Le presenti linee guida si applicheranno a partire dal 1 ° gennaio 2021, pertanto le istituzioni dovrebbero incorporare i requisiti in esse contenuti nelle rispettive procedure interne e sistemi IT entro tale data. La definizione di default secondo tali orientamenti viene fornita tenendo conto dei quattro aspetti chiave della valutazione della condizione di default di un‟esposizione creditizia riportati nell‟articolo 178 del Regolamento:

- al fine di giungere ad un concetto comune e uniforme di “status di default“ al comma 1 vengono riportati due eventi al verificarsi dei quali l‟intermediario deve considerare intervenuto lo stato di default: l'ente giudica improbabile che, senza il ricorso ad azioni quale l'escussione delle garanzie, il debitore adempia integralmente alle sue obbligazioni creditizie verso l'ente stesso oppure il debitore è in arretrato da oltre 90 giorni (180 giorni in casi particolari) su una obbligazione creditizia rilevante;

- il comma 3 declina le circostanze che devono essere considerate come indicative di probabile inadempimento quali: il trattamento dell‟esposizione come incaglio o sofferenza ai fini contabili, il riconoscimento di un significativo deterioramento della qualità creditizia del debitore (tecnicamente si tratta di una migrazione ad una classe di rating inferiore), la cessione di un credito per cui si registra una minusvalenza in bilancio oppure, infine, situazioni in cui il debitore pone in essere azioni di ristrutturazione onerosa o una procedura di fallimento;

- al comma 5 vengono riportate le condizioni per ripristinare la posizione alla quale precedentemente è stato assegnato lo stato di default;

- infine al comma 4 si riportano le specifiche condizioni riguardo l‟utilizzo di dati esterni finalizzato alla valutazione e all‟identificazione dei casi di default.

Sulla base di quanto sopra, l‟EBA ha strutturato il documento in questione in 10 punti fondamentali dove riporta le condizioni necessarie affinché un intermediario possa valutare correttamente la condizione di default, tra cui: obblighi di conformità e comunicazione a carico dell‟intermediario, oggetto, ambito e definizioni specificando che “salvo diversa indicazione, i termini utilizzati e definiti nel regolamento (UE) n. 575/2013 e nella direttiva (UE) n. 36/2013 hanno lo stesso significato nei presenti

31 EBA, Guidelines on the application of the definition of default under Article 178 of Regulation (EU)

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