“Del rapporto della teoria con la pratica nel diritto internazionale (considerato da un punto di vista
filantropico universale, cioè cosmopolitico).
(Contro Moses Mendelssohn)”
Parte II: I. Kant, Sopra il detto
comune, cit., pp. 280-281.
Lo “stato di natura” tra i popoli
La condizione di sopraffazione che vige tra gli individui si ripresenta secondo Kant tra le individualità degli Stati:
“La natura umana in nessun altro campo si dimostra così poco amabile come nei rapporti dei popoli tra loro.
Nessuno Stato è, rispetto agli altri, minimamente sicuro della sua indipendenza o dei suoi beni. La volontà di soggiogarsi a vicenda o di ingrandirsi a spese degli altri Stati è di ogni tempo: e gli armamenti per la difesa, che rendono spesso la pace anche più oppressiva e più funesta per il benessere interno che non la guerra, non possono mai essere abbandonati”
Il “diritto internazionale”
Uscire da questa condizione è possibile solo, analogamente a quanto accade tra gli individui, mediante l’istituzione di un diritto che renda stabile e sicura la convivenza dei consociati:
“Non vi è quindi altro mezzo possibile fuorché un diritto internazionale fondato su pubbliche leggi sostenute dalla forza, alle quali ogni Stato dovrebbe sottoporsi (ad analogia del diritto civile o pubblico, cui i singoli individui si sottopongono), poiché una pace universale durevole ottenuta mediante il cosiddetto equilibrio delle potenze europee è semplicemente una chimera, come quella casa di Swift, che era costruita secondo tutte le regole dell’equilibrio così perfettamente che, non appena un passero vi si posava, subito crollava”.
La posizione dello scettico
Kant immagina così l’obiezione di un possibile avversario:
“A tali leggi coattive gli Stati non si sottometteranno mai, e il progetto di una repubblica universale dei popoli, al cui imperio tutti gli Stati particolari dovrebbero liberamente sottoporsi per obbedire alle sue leggi, può nella teoria di un abate di Saint Pierre o di un Rousseau far buon effetto, ma non ha praticamente alcun valore. Tale progetto è stato in ogni tempo deriso anche da grandi uomini di Stato, e più ancora dai sovrani, come un’idea pedantesca e puerile che proviene dalla scuola”
Charles-Irénée Castel, abate di Saint-Pierre, Projet pour rendre la paix perpétuelle en Europe (1713);
J.J. Rousseau, Jugement sur le Projet de paix perpétuelle (1758) e Extrait du Projet de paix perpétuelle de M. l’abbé de Saint Pierre (1761)
Il peso dell’esperienza
Anche in questo caso emerge con particolare
forza il contrasto tra una pratica basata
sull’esperienza e quella kantiana, legata alla
teoria della ragion pratica. L’irrealizzabilità del
progetto, lamentata da coloro che si sono
sempre mossi in base a singole esperienze,
appare a Kant un atteggiamento rinunciatario e
comunque non degno di un essere libero e
razionale, il quale non può farsi condizionare
da ciò che è accaduto fino a questo momento.
La risposta
La controargomentazione di Kant è la seguente:
“Per parte mia ho invece fiducia nella teoria
risultante dal principio giuridico che indica
quale deve essere il rapporto tra gli uomini e gli
Stati e che raccomanda agli dei della terra questa
massima: di condursi sempre nei loro conflitti in
modo che una siffatta repubblica universale dei
popoli venga preparata e sia considerata
possibile (in praxi) e tale da poter esistere”.
Fiducia nella natura delle cose
Kant conclude così la sua argomentazione ed il saggio sul Detto comune:
“Al tempo stesso e inoltre (in subsidium) io ho fiducia nella natura delle cose, la quale costringe anche quelli che spontaneamente non vogliono (fata volentem ducunt, nolentem trahunt). In questo è anche compresa la natura umana e, per il rispetto che in essa è sempre vivo per il diritto e il dovere, non posso né voglio credere che essa sia così immersa nel male, che la ragione pratica, morale, dopo molti vani tentativi, non possa da ultimo trionfare e non debba renderla anche degna di essere amata.
Pertanto rimane vera anche dal punto di vista cosmopolitico l’affermazione: ciò che vale in teoria in virtù di certi principi della ragione, vale anche nella pratica”.