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Appendice. I “disavanzi gemelli” nell’esperienza italiana recente

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Academic year: 2021

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ri rispetto a quella tedesca proprio in corrispondenza agli anni dello “Sme duro” (1987-1992), migliori in seguito alla svalutazione della lira nel 1992, e poi ripeggiori dal 1996 quando il cambio lira/deutsche mark si stabilizza con l’o- biettivo dell’adesione all’euro. Sebbene ci siano elementi di verità in ambedue le tesi, ritengo dunque quella “key- nesiana” molto più fondata (Bagnai e Alexander Monge- au Ospina, 2017; Tridico e Pariboni, 2017). 7 Ritorneremo sulle due tesi in fondo al quarto capitolo.

L’Italia è oggi smarrita, rancorosa secondo alcuni. La recente disfatta nelle elezioni legislative dei due più gran- di partiti della seconda Repubblica ne è la testimonianza.

La politica non sa offrire prospettive certe. Questo non deve sorprendere: quando un Paese rinuncia alla propria sovranità economica, come ha fatto l’Italia, la politica non può che subirne le conseguenze: essa è impotente, priva di progetti e spesso capace di attirare solo gli elementi meno qualificati, interessati solo a una sistemazione. L’e- lettorato si rivolge al populismo. La fine della sovranità economica è la fine della democrazia. Il gold standard, che ebbe a che fare con l’avvento del nazismo, e quindi l’euro non sono amici della democrazia.

Appendice. I “disavanzi gemelli” nell’esperienza italiana recente

Molti lettori già conoscono la relazione che lega i bi- lanci dei tre “settori” che costituiscono l’economia (estero, privato, pubblico). Prendete carta e penna, se

7. Nel menzionato dibattito la tesi “strutturalista” è rappresen- tata da Roland Pauli. Ringrazio Giuseppe Vandai per la segnal- azione di questo dibattito.

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volete. I bilanci dei tre settori sono in questa relazione (come ci si arriva rimando però al semplice post di Alberto Bagnai [2016b]):

X - M = (S - I) + (T - G)

dove X - M è il saldo del settore estero, ovvero la differenza fra esportazioni e importazioni (trascu- rando redditi e trasferimenti netti dall’estero); S - I è il saldo del settore privato, ovvero la differenza fra i suoi risparmi e i suoi investimenti; T - G è il saldo del settore pubblico, ovvero la differenza fra le entrate fiscali e la spesa pubblica. Se si suppone, per sempli- cità, che il settore privato sia in pareggio, ovvero che S - I = 0, il saldo del settore estero corrisponde con- tabilmente al saldo del settore pubblico, cioè X - M = T - G. Se, per esempio, il settore estero è in disavanzo (tecnicamente il saldo delle partite correnti è nega- tivo), anche il settore pubblico presenterà un saldo negativo. Questo è contabilmente vero, ma qual è la relazione di causazione, dal disavanzo pubblico a quello estero o viceversa? Questa è nota come discus- sione sulla twin deficit hypothesis – l’ipotesi dei disa- vanzi gemelli. Vi è un elemento di verità in ambedue le direzioni causative. Politiche di bilancio espansive sostengono la domanda aggregata e, ceteris paribus, possono causare disavanzi con l’estero (il vincolo estero discusso nelle Sei lezioni). Ma anche un cam- bio non competitivo può causare un disavanzo este- ro che, parimenti, si può ripercuotere negativamente sui conti pubblici.8 Sosteniamo qui che gli squilibri

8. Una perdita di competitività esterna colpisce il Pil sia per il calo del fatturato delle imprese esportatrici, che per l’aumento della

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italiani durante lo Sme e poi nell’euro siano ricondu- cibili a un tasso di cambio non competitivo. Semplifi- cando molto, potremmo distinguere tre periodi nella relativamente recente esperienza italiana.

Nel primo periodo, l’epoca del Sme (1979-1992), una lira in media sopravvalutata condusse alla perdita di competitività esterna. Ceteris paribus, le minori esportazioni e le maggiori importazioni non solo por- tarono a disavanzi e indebitamento con l’estero, ma minarono la domanda per la produzione nazionale.

Questo a sua volta portò a una diminuzione delle en- trate fiscali danneggiando i conti pubblici già guastati dagli elevati tassi di interesse (dovuti alla necessità di

“tenere il cambio”). I governi dell’epoca, tuttavia, evi- tarono manovre di bilancio restrittive col risultato di crescenti disavanzi esteri accompagnati da disavanzi pubblici. L’accumulo dei disavanzi esteri (tecnica- mente delle partite correnti) portò negli anni Ottanta a un crescente indebitamento con l’estero e, simme- tricamente, l’accumulo di disavanzi fiscali condusse a un crescente indebitamento pubblico (i due indebi- tamenti si combinarono nel senso che parte cospicua del crescente indebitamento pubblico venne progres- sivamente detenuto da stranieri). In sintesi, negli anni dello Sme accade quanto suggerito da Joseph Stiglitz, che Paesi con persistenti disavanzi di partite corren- ti sono costretti, se intendono sostenere la domanda

propensione a importare. Le entrate fiscali ne vengono a soffrire, e se il governo mantiene invariato il livello della spesa per di- fendere l’occupazione, questo porta a un maggiore disavanzo e debito del settore pubblico. Nel caso italiano degli anni Ottanta, i disavanzi pubblici sono stati accresciuti anche dalla maggiore spesa per interessi necessaria per attirare capitali dall’estero al fine di finanziare i saldi negativi delle partite correnti.

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aggregata, a disavanzi di bilancio in quanto «senza disavanzo fiscale, essi accetterebbero una maggiore disoccupazione» (Stiglitz 2010, p. 235, citato da Koste- letu 2013 p. 166). La vittima dell’auto-imposto vinco- lo estero è, in questi anni, il crescente debito pubblico (Graziani 2000, pp. 144-5).

Il secondo periodo (1992-1995) è quello, brevissimo, della “grande svalutazione” del 1992 quando, dopo l’uscita dallo Sme, il Paese recupera la competitività esterna. Il combinato disposto degli avanzi con l’e- stero e di manovre restrittive consentono il consegui- mento di avanzi primari del settore pubblico (avanzi al netto della spesa per interessi); indebitamento pub- blico ed estero diminuiscono in quota del Pil. Paolo Onofri (2001), uno dei sostenitori più autorevoli del- la necessità italiana di vincolarsi alla disciplina dei cambi fissi, spiega questo intermezzo sulla base della necessità di far “tirare il fiato” all’economia italiana (ibid., p. 114). Ma durò poco.

Il terzo periodo è quello della moneta unica. Seb- bene l’euro sia stato ufficialmente introdotto nel 1999, quando i tassi di cambio con i partner furono irrevo- cabilmente fissati, si può anticipare l’inizio effettivo del periodo della moneta unica già a metà degli anni Novanta, con la stabilizzazione del tasso di cambio e la determinazione nel perseguire politiche fiscali vol- te al rispetto almeno del parametro di Maastricht re- lativo al rapporto disavanzo pubblico Pil (il ben noto tre per cento). L’approcciarsi dell’ingresso nella mo- neta unica fa diminuire i tassi di interesse sul debito, favorendo l’aggiustamento fiscale. Quest’ultimo va tuttavia a detrimento della domanda aggregata e del-

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la crescita della produttività, la cui crescita si blocca proprio in questi anni. La stabilizzazione del cambio richiesta dai parametri di Maastricht comincia a sfa- vorire lentamente la competitività.

La stagnazione di domanda e produttività con- tinua successivamente, in seguito a politiche di bi- lancio restrittive volte a diminuire il rapporto debito pubblico/Pil. L’obiettivo viene agevolato dai tassi di interesse sul debito che si avvicinano a quelli tede- schi (almeno sino alla crisi); viene tuttavia sfavorito dalla lenta perdita di competitività esterna. In sintesi, nel terzo periodo le autorità di politica economica, a fronte della perdita di competitività esterna, rinuncia- no al sostegno della domanda aggregata attraverso la politica fiscale, che ha anzi segno restrittivo. In questi anni, la vittima dell’auto-imposto vincolo estero, a cui si aggiunge quello fiscale, è la produttività.

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