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Cap. 2: Il sistema finanziario industriale (1844-1913)

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Cap. 2: Il sistema finanziario industriale (1844-1913)

Sommario

Nel corso della seconda metà dell’Ottocento si radicò nella cultura economica europea una diversa percezione nello scambio dei beni: il vantaggio assoluto di una delle due parti – reso esplicito dalla condizione del prezzo del bene nel luogo e nel momento dello scambio originata per differenza con gli scambi precedenti – fu abbandonata in favore di quella del vantaggio comparato tra le parti. L’industrializzazione e l’aumento della capacità di produrre i beni destinati allo scambio rese evidente il vantaggio che si poteva ottenere per mezzo di accantonamenti delle quote di risparmio utili alla produzione del bene. Il sistema finanziario si rivolse così oltre che ai mercati mobiliari, alla funzione di sostegno alla produzione: divenne quindi un sistema finanziario industriale. Gli agenti di questo nuovo modo furono in primo luogo le nuove banche commerciali impegnate nella monetizzazione dell’attività produttiva.

Queste condizioni diedero luogo a specifiche tipologie di investimento in ragione dei contesti geografici e temporali. Due distinte zone si caratterizzarono in funzione della capacità del sistema nella produzione di beni e servizi e in conseguenza, della loro diversa capacità di produrre opportunità di risparmio e di investimenti; definiamo queste due aree come centro e periferia. Al centro troviamo, fino al 1870, la Gran Bretagna e la Francia; dopo la guerra franco-prussiana, alla Gran Bretagna, si affiancò la Germania; nel decennio seguente ad esse si aggiunse gli Stati Uniti. Si precisarono così nella seconda metà dell’Ottocento le modalità d’investimento dei privati e le politiche economiche dei governi, che, essendo tutte orientate ad ottenere la più ampia opportunità e continuità nell’accesso alle risorse, nella produzione e nell’incremento degli utili, finirono per dare luogo a conflitti interni alla società civile così come tra gli Stati.

1. Mercanti e industriali

1.1. I caratteri generali: i mercati del produttore

Dalla metà dell’Ottocento, le innovazioni tecnologiche applicate agli scambi commerciali e all’attività produttiva, nonché la diminuzione dei dazi, favorendo la riduzione dei costi di transazione, generarono nuove tipologie di scambi: quelli in cui il produttore richiedeva, oltre alla merce acquisita, anche la garanzia della costanza della fornitura in modo da poter svolgere con continuità attività economiche, che diventavano principalmente attività di produzione.

Grafico 1. Massimizzazione intertemporale dell’utilità

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L’accesso a costi contenuti ad innovazioni tecnologiche in grado di generare cambiamenti nei processi di produzione indusse i consumatori ad abbandonare un comportamento parsimonioso, ovvero ad amministrare il proprio patrimonio in modo da comprendere consumi futuri, per adottare un comportamento produttivistico, volto cioè a generare utili maggiori attraverso l’investimento dei risparmi in attività produttive.

Grafico 2. Curva di offerta di risparmio

Grafico 3. Risparmio e investimento in economia aperta

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Osservati dall’esterno, i mercati preindustriali e industriali appaiono quindi diversi da quelli precedenti per tre elementi fondamentali: in primo luogo, gli agenti dello scambio che prima erano principalmente dei mercanti divennero dei produttori di beni; in secondo luogo, gli oggetti dello scambio furono rivolti non più a garantire un tenore di vita, bensì ad incontrare il numero maggiore possibile delle preferenze dei consumatori; in terzo luogo, le modalità dello scambio passarono da essere caratterizzate da un tempo spezzato, caratteristico dell’epoca preindustriale ed esemplificato dalle fiere che, con cadenza annuale, erano principalmente rivolte al ripristino delle scorte consumate, a quello continuo della fornitura industriale, rivolto a generare beni da poter vendere continuamente a nuovi e crescenti consumatori.

Queste condizioni portarono a far si che i beni prodotti non valessero più per il loro valore intrinseco, ma venissero prezzati per il valore che qualcuno era in grado di ricavare da essi. Nella teoria economica questo processo di cambiamento è semplificato nell’evoluzione delle categorie dello scambio commerciale, che passano dalla forma di vantaggio relativo a quella di costo opportunità.

In questo modo, la modalità di scambio del sistema industriale, modificando i prezzi relativi di tutte le merci, generava una sequenza di transazioni fondate sul costo opportunità degli agenti di possedere, in ogni specifico momento, quelle merci che avrebbero potuto consentire un incremento di valore indipendentemente dal fatto che esse fossero disponibili sul mercato domestico o acquistabili sui mercati internazionali. Il tasso di cambio reale tra due mercati, quindi, determinava la domanda aggregata di produzione dei beni in un paese, sia nel breve che nel lungo periodo.

In questi mercati del consumatore, il mezzo di pagamento utilizzato negli scambi non poteva più essere solamente definito sul mercato monetario, ma andava definito anche sul mercato delle attività, cioè sui titoli di risparmio e di investimento. La differenza tra il valore nominale e il valore reale della moneta e dei titoli non poteva, quindi, più essere rappresentata unicamente da un prezzo nel tempo presente, ma doveva anche essere rappresentata da un prezzo nel tempo futuro. Tale prezzo non poteva che essere pari alla media dei suoi rendimenti, ovvero del tasso di interesse applicato nel mercato di riferimento.

La differenza fra i due periodi è evidente considerando come le variazioni nel valore del mercato monetario presenti nel sistema finanziario mercantile potevano unicamente dare luogo a fenomeni di deflazione o di alterazione del valore della moneta stessa, ma non di una sua svalutazione in quanto la sua natura di merce ne costituiva un limite naturale: essa non poteva valere, a fronte di scorte attive, né più, né meno, del metallo in essa coniato. Come tale la moneta-merce, coniata dallo Stato, veniva quotata in borsa così come qualunque altro bene reale e finanziario: questa pratica consentiva di mantenere il suo valore reale identico alla quantità di metallo contenuto.

Nei nuovi mercati del consumatore e nel sistema finanziario industriale, questa tipologia di moneta non era più in grado di misurare il valore generato

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dalle attese della produzione a tempo continuo. C’era la necessità, quindi, di uno strumento più flessibile per la misura del valore dei beni, capace di esprimere in ogni momento l’aspettativa che il consumatore attribuiva al bene scambiato, ovvero il suo prezzo, il quale diventava così pari alla moda delle preferenze. Si trattava, dunque, di una moneta generata dal mercato, in grado di rappresentare il reciproco dei prezzi.

Grafico 4. Derivazione della curva AA

Questo fece si che, nella seconda metà dell’Ottocento, l’offerta di moneta venisse gestita da enti capaci sia di dare tutela assicurativa alla stabilità tra valore nominale e valore reale, sia di acquisire ed elaborare le informazioni utili a stimare il merito di credito nell’impiego del risparmio disponibile per finanziare la spesa pubblica, il credito agli impianti e le spese di esercizio delle imprese, e i consumi delle famiglie.

La letteratura istituzionalista ha sottolineato come affinché un processo di cambiamento economico possa consolidarsi nel tempo, non basta che esso sia più funzionale del precedente. Esso deve essere anche sostenuto da una parte della popolazione in grado di attuare sanzioni verso coloro che svolgono azioni di free riding: solo in questo modo le nuove pratiche potranno entrare nella vita civile ed economica come norme. Queste considerazioni rendono evidente come l’opportunità nuova di produrre e investire poteva divenire regola solo dopo che la prassi mercantile fosse stata abbandonata.

L’attenzione politica dell’epoca si concentrò, quindi, proprio sul ceto mercantile, sia perché esso aveva la maggiore possibilità di ottenere risparmi in forma finanziaria, sia perché risultava essenziale, per la stabilità dell’intero sistema, convincere i mercanti a investire il proprio capitale in modo nuovo.

Risulta fondamentale, quindi, comprendere cosa abbia consentito al ceto mercantile di abbandonare la propria condizione di rendita, basata sulla rete di scambi in essere, per rivolgersi a finanziare e avviare attività manifatturiere, i cui profitti non potevano essere, almeno in un primo momento, altrettanto sicuri.

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Di norma, il costo di produrre un nuovo strumento di pagamento è tanto più basso quanto più alta sarà la sua capacità di soddisfare una rete tanto più estesa di agenti economici. La divisione del lavoro nelle comunità ha riservato alle banche questa funzione: gli agenti che, nel periodo che va dalla metà dell’Ottocento alla Prima guerra mondiale, assunsero quel ruolo furono definiti nel lessico coevo, in modo trasparente, mercanti-banchieri.

Il cambiamento fu consentito, in questo periodo, dalle nuove procedure nell’accumulazione di capitale e dalle regole dei pagamenti, ovvero dall’uso di contratti che prevedevano il pagamento in moneta bancaria. L’efficacia di tali contratti fu, infatti, la condizione che portò a impedire l’espropriazione della utilità presente a seguito di scelte rivolte ad utilità futura. Essa si ottenne con tre modalità: la riduzione delle quasi-rendite espropriabili; la richiesta di un pegno a garanzia del contratto; l’integrazione verticale di tutte le parti in un'unica struttura di governo.

Il rischio di esproprio degli investimenti fu contrastato, in ogni paese, mediante la diffusione delle forme societarie attraverso le quali furono organizzate le attività imprenditoriali. Tra di esse risultarono importanti sia quelle accomandita semplice, maggiormente diffuse in Francia, sia quelle di società anonime per azioni a responsabilità limitata, che nacquero e si svilupparono, a partire dall’Inghilterra, negli Stati in cui vi fu un maggiore livello di diffusione della moneta bancaria e del credito.

È comunque verosimile che la parte della “vecchia” comunità mercantile che non era disposta ad assumersi rischi di produzione – la comunità che dava, cioè, maggiore utilità marginale al risparmio presente rispetto al valore che sarebbe stato possibile ricavare in futuro a seguito dell’investimento – non era incline a far parte del “nuovo” sistema, quello industriale. In tal modo i mercanti finivano per frenare la diffusione del nuovo sistema, alzando i costi e i rischi per chi, invece, era più naturalmente incline ad assumersi rischi di produzione. Tuttavia, anche gli agenti economici avversi al rischio sono sempre disposti a pagare un premio assicurativo ritenuto equo al fine di annullare l’incertezza del fallimento e, quindi, poter procedere con l’investimento. Questa consapevolezza rese possibile definire forme di contratto assicurativo che, essendo accettate da un ampio numero di operatori, ridussero i costi medi dell’incertezza del sistema.

Grafico 5. Equilibrio nel mercato interno e Esportazioni (XX)

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Grafico 6. Variazioni dei vincoli di portafoglio e delle preferenze

E’ il processo di cambiamento nelle preferenze attivato da cambiamenti nel reddito e/o nelle aspettative di reddito degli agenti che determina in ultimo la diversa inclinazione della curva XX e fa si che la composizione della produzione destinata alla esportazione sia in un primo momento meno inclinata della DD poiché mano a mano che Y aumenta la domanda dei beni domestici aumenta meno della produzione stessa in quanto parte è risparmiata e parte è rivolta ai beni esteri. Posto però che la domanda aggregata debba essere uguale all’offerta, e che le partite correnti coincidenti con il punto di equilibrio debbano restare tali, cioè CA = X, per prevenire un eccesso di offerta dei beni domestici E deve aumentare in misura sufficientemente rapida lungo la DD da far si che la domanda di esportazioni cresca più rapidamente di quella di importazioni.

Ne segue che ogni cambiamenti di politica fiscale o di politica monetaria attuato dal potere centrale debba essere necessariamente coordinato con variazioni delle partite correnti del cambio e della produzione. Fu la

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consapevolezza di questa condizione che portò alla definizione dell’Atto di Peel, poi replicato in modo più o meno simile in tutte le economie industriali, con cui il potere sovrano imponeva per norma la condizione di equilibrio tra le esigenze dello Stato e quelle del Commercio. In termini moderni, quindi, lo Stato cercava il consenso sociale favorendo sia la tutela del valore della

“vecchia” utilità, quella del sistema mercantile che preferiva i saldi positivi sul valore patrimoniale, cioè sulle rendite, realizzato mediante il controllo della rete degli scambi; sia quella degli industriali, dei capitalisti, orientati ad una

“nuova” utilità, che preferiva ottenere saldi positivi per mezzo del controllo sul valore aggiunto nel processo di produzione.

In tutta la seconda metà dell’Ottocento il finanziamento fiduciario degli investimenti industriali, quindi, si fondò in primo luogo su una cultura del capitale di rischio ma, in secondo luogo, anche sulla possibilità di ridurre il costo delle transazioni in moneta grazie alla circolazione fiduciaria di una quota di biglietti. Riducendo, in tal modo, i costi di rischio di investimento, e creando contestualmente un mercato del consumatore, fu possibile incentivare all’impiego produttivo dei capitali anche quella parte dei risparmiatori che richiedevano di avere un’assicurazione sulle loro scelte. La pratica di offerta di moneta e credito si incrociò in modo diretto anche con la richiesta di un pegno, a cui si fece riferimento sia nel momento in cui si richiedeva la convertibilità dei biglietti, sia nel momento in cui si richiedeva che vi fosse, in ogni conio, una specifica quota di metallo fine così da poter utilizzare quella moneta come merce nel mercato internazionale.

È noto che per tutto l’Ottocento il mercato internazionale fu organizzato in un regime di gold standard e di libera circolazione dei capitali. Tuttavia, ciò non significa che non vi fossero, da un lato, modalità operative diverse, ovvero delle barriere non tariffarie tra mercati nazionali, che furono di fatto superate solo negli anni Ottanta del secolo; né, dall’altro, che la pratica con cui si era definita la circolazione dei mezzi di pagamento e dei capitali nel sistema finanziario mercantile fosse adeguata a consentire la continuità dei mercati dell’età industriale.

Affinché questo fosse possibile, un mercato interno doveva possedere due condizioni fondamentali: la prima era disporre di una quota congrua di mezzi di pagamento, tale da non portare a tensioni deflattive; la seconda era possedere un centro di raccordo tra la circolazione delle attività finanziare domestiche e quelle internazionali in grado di assicurare non solo la parità di cambio, ma anche le aspettative di rendimento legate al rischio di risparmio e di credito attuate in quella valuta nei confronti di quelle attuate nella valuta dei mercati in cui si scambiavano, con continuità, merci non perfettamente sostituibili.

In terzo luogo, si può ritenere che, al fine di garantire la diffusione di nuovi comportamenti economici da parte del vecchio ceto mercantile, le banche di emissione, a partire da quelle delle economie del centro del sistema, ovvero le economie inglese e francese, vennero indotte a unirsi, attraverso atti normativi e non con azioni di mercato, ad altri istituti finanziari, al fine di poter fare in modo che le tensioni che si realizzavano nel breve periodo sarebbero poi state risolte nel lungo periodo.

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Grazie alla combinazione dei tre fattori appena descritti la fiducia nel sistema aumentò: di riflesso si ridussero i rischi e molti operatori accettarono così il rischio di investire i propri risparmi. L’utilità che ne derivava era il frutto di un mercato organizzato non più secondo la logica dei vantaggi comparati della cultura mercantile, ma con quella dei costi-opportunità della cultura industriale.

Il perno di tali modalità è individuabile nella legge che definì la moneta bancaria utilizzata di fatto nei pagamenti e, di riflesso, l’attività operativa degli intermediari finanziari. Il Bank Charter Act del 1844, varato dal governo del Primo ministro Robert Peel, si pose due obiettivi. Il primo fu quello di contrastare l’inflazione, dando un valore certo alla moneta e permettendo al ceto mercantile di avere la certezza che un comportamento opportunistico di abbattimento del valore della moneta sarebbe stato punito dall’autorità. Il secondo, invece, fu quello di garantire la comunità industriale dal pericolo di deflazione: la carenza di moneta, infatti, avrebbe impedito ai consumatori l’accesso ai beni, dando luogo a una crisi economica. La legge di Peel regolava però la moneta attraverso l’introduzione di un limite certo, ovvero una rigida quota frazionaria riservata alla circolazione mercantile. La possibilità di esubero da tale quota era prevista, ma con la condizione che essa fosse attuata con un rapporto tra biglietti e riserve auree di 1:1.

I rischi di deflazione e inflazione, quindi, che si concretizzeranno in rapidissima sequenza nella crisi del 1847-1848, vennero necessariamente risolti attraverso un atto politico con cui il Ministro del Tesoro assunse su di sé la tutela del valore della moneta. Attraverso una lettera, il governo inglese affermava che se il limite coperto dalle riserve auree avesse superato la proporzione delle riserve stesse, la Banca avrebbe automaticamente potuto avvalersi del privilegio d’inconvertibilità senza incorrere nelle sanzioni penali previste dalla legge del 1844. Quello che è importante sottolineare è che, in quel contesto, bastò l’annuncio di tale condizione per interrompere la corsa agli sportelli e consentire il normale funzionamento dei mercati che, da quel momento, possiamo logicamente immaginare organizzati in modo industriale:

la disponibilità del mezzo di pagamento, necessario ad attivare l’azione del consumo, diventava più importante della stabilità del suo stesso valore.

La rigidità con cui la norma definiva il valore stabile delle rendite, ovvero definiva la loro misura, ha indotto, in seguito, a ritenere non efficace la norma stessa, ma non per questo a dettarne la fine: l’atto di Peel, così come il sistema che inaugurava, rimase infatti in vita fino alla Grande Guerra.

All’interno di questa cornice normativa si attuarono tre diverse tipologie di intermediazione finanziaria, che conobbero diverse modalità di funzionamento a seconda dell’area geografica di appartenenza. La prima è quella dei crediti mobiliari, simile alla finanza privata propria del periodo mercantile e per questo spesso indicata come vecchia banca, attiva fino agli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento. La seconda è, invece, quella della nuova banca commerciale, organizzata in società per azioni e vicina al mondo della produzione e del consumo. La terza, infine, è quella costituita dalle banche di deposito, dalle casse di risparmio e dalle casse popolari, le quali, rivolte alla

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tutela dei risparmi e all’educazione e alla promozione di un’idea di risparmio finanziario diversa da quella della tesaurizzazione, svolsero un ruolo fondamentale per la coesione dell’intero sistema. Esse, infatti, contribuirono alla formazione di quote di risparmio a basso rischio utilissime a comporre la quota di capitale necessaria a stabilizzare i corsi dei titoli finanziari che gli intermediari finanziari emettevano spesso più sulla base di aspettative di realizzazione che su un risparmio precedentemente accumulato.

1.2 Le modalità di funzionamento

In correlazione con il mutamento dei comportamenti degli agenti economici nei mercati preindustriale e industriale, che da mercanti operanti in un tempo spezzato divennero industriali che lavoravano in un tempo continuo, cambiarono anche le forme, i modi e gli obiettivi dell’intermediazione finanziaria.

La componente finanziaria nei sistemi industriali si specificò nella funzione di garantire, principalmente, la continuità della produzione. Questa comportò due modalità specifiche: in primo luogo era necessario avviare, ed in seguito mantenere in attività, il sistema di produzione ad un livello ottimale; in secondo luogo, era necessario garantire che la sua attività generasse in modo continuativo i beni a cui era rivolta.

Le strutture finanziarie del sistema industriale furono fondamentali nel realizzare, da una parte, la concentrazione del capitale, che per questo assunse natura di rischio e, dall’altra, nel raccogliere il capitale necessario per l’esercizio della produzione. Il livello del rischio insito nella concentrazione fu reso accettabile alle collettività attraverso l’introduzione del titolo azionario, che permetteva di frazionare il rischio tra più investitori.

Inoltre, l’esigenza e l’opportunità di produrre quel numero di beni che consentiva i costi medi più bassi, quindi quello che dava gli utili maggiori all’impresa, portò l’impresa stessa ad generare i titoli obbligazionari con cui finanziare la sua attività corrente. Possiamo quindi definire i primi come investimenti, che prendevano la forma di titoli azionari, mentre i secondi come prestiti, che assumevano invece la forma di titoli obbligazionari.

Il sistema finanziario industriale si fonda, quindi, sul concetto di risparmio e sul suo utilizzo produttivo, che inevitabilmente genera incertezza. Questa incertezza, attraverso la sua monetizzazione, diventa rischio. In questo modo il livello di rischio viene quantificato in un prezzo e organizzato in una regola di comportamento economico. Tale comportamento economico era una manifestazione della cultura di una determinata comunità.

Conseguentemente, ogni società che partecipava allo scambio economico nei decenni in cui si andava formando il sistema finanziario industriale, contribuì in maniera specifica e originale alla definizione della sue regole di comportamento, le quali mantenevano comunque come fondamento l’azione del risparmio e del suo investimento: azione che richiedeva un comportamento di fiducia verso sé stessi o verso gli altri.

Per assumere la forza e l’efficacia di regola, un comportamento economico

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deve per forza di cose essere quello maggiormente diffuso. Ciò comporta necessariamente il coinvolgimento di agenti economici già in attività, rappresentati in questo periodo storico dai mercanti, i quali diventano mercanti-banchieri disposti anche a finanziare l’attività industriale.

Tale disponibilità al finanziamento si incrocia con la preferenza al rischio specifica di ogni società ed è coerente con l’attività economica più diffusa in quella società, nonché con gli obiettivi politici che si vogliono raggiungere. È importante sottolineare che nell’Ottocento la dimensione economica delle società rese possibile l’utilizzo dei vantaggi economici per raggiungere, di volta in volta, obiettivi di natura politica e/o civile.

Il consolidamento della regola nazionale di comportamenti economici e finanziari, lo scambio internazionale dei beni e la consapevolezza del vantaggio nella divisione del lavoro, favorì l’organizzazione di diverse tipologie di intermediari finanziari, che si strutturarono in maniera simile all’interno delle diverse comunità nazionali.

Si è detto che l’origine del sistema finanziario industriale ha il suo fondamento sui costi-opportunità, che portano logicamente a pensare il sistema in una dimensione internazionale, organizzato secondo un comportamento liberale. Tuttavia, questo non è ciò che è storicamente accaduto. La ragione di ciò è da ricercare nel fatto che la componente di incertezza e di conseguente di rischio è insopprimibile nell’azione di risparmio e investimento, la quale, quindi, può avvenire solo all’interno di specifici contesti culturali e di produzione normativa. Questo fa si che i sistemi finanziari industriale, che si qualificano come capitalistici, abbiano assunto forme nazionali specifiche in ragione dell’avvicinarsi della cultura politica ed economica nazionale con le necessità del mercato internazionale. Tale relazione prende forma nei rapporti tra mercati domestici e mercato internazionale.

La dimensione economica del costo opportunità del capitale non deve portarci a ritenere che il sistema si regoli in funzione dei limiti delle risorse.

Un’osservazione più attenta mostra che il sistema non può escludere, insieme al conflitto sulle risorse, anche il conflitto sulla posizione per ottenere quelle risorse. Questo duplice conflitto determina un valore posizionale del bene scambiato, che genera un costo/prezzo di produzione e di vendita, i quali, però, non sono necessariamente coincidenti. Si determina, infatti, un evidente vantaggio nel produrre a un costo minimo e vendere a un costo medio. Le due realtà sociali in questa condizione sono qui definite come centro del sistema, quella che ha il costo minimo, e periferia del sistema, quella che ha costo medio.

I mercati domestici saranno qui indicati, dunque, per la loro natura nazionale, ma vanno pensati come realtà produttive e finanziarie. Questa dimensione posizionale ha una sua natura nello spazio e nel tempo.

Nello spazio, essa diventa centro e periferia, in cui il centro era quella realtà capace di darsi delle regole che consentiva di produrre al costo minimo e vendere al costo medio, laddove i costi di produzione erano costituiti dal

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valore relativo con cui i fattori produttivi partecipavano al processo produttivo. Questa consapevolezza rende manifesto come, nel corso del tempo, il contributo ottimale di ogni singolo fattore si sarebbe potuto esprimere solo secondo una funzione logistica. La scelta di ottimizzare la relazione tra queste funzioni per ottenere il costo minimo porta a essere consapevoli della possibilità di scomporre il tempo, che si è detto essere in origine continuo, in due componenti: quella breve e quella lunga, dove si intende per lungo periodo quello in cui si ottiene il cambiamento di almeno uno dei fattori della produzione.

Dalla seconda metà dell’Ottocento, il contesto economico-giuridico cui ciò venne ricondotto fu di due tipi. Il primo fu l’ordinamento liberale, a cui si associò una struttura del credito di tipo piramidale, che ebbe come sua principale fonte normativa il Parlamento e previde la responsabilità diretta delle aziende di credito e la loro piena libertà nelle procedure di gestione e contabilizzazione delle operazioni. Il secondo tipo fu l’ordinamento prescrittivo, a cui si associò una struttura finanziaria di tipo radiale, che assunse come principale fonte normativa il governo e previde che le modalità di esercizio delle aziende di credito fossero definite con atti amministrativi e verificate con procedure di controllo da parte di magistrature pubbliche.

Nell’ordinamento che abbiamo definito come liberale a forma piramidale, il cui caso più esemplificativo è quello inglese, le relazioni tra gli istituti di credito si costruivano in ragione del capitale versato, dell’area di esercizio e del fatturato. Le ditte bancarie interessate all’azione di emissione di moneta cartacea risultavano essere in questo modo legate tra loro in modo che le cambiali, o più generalmente le obbligazioni, accettate come pegno dell’emissione di biglietti venivano scontate ad un tasso progressivamente più alto via via che ci si allontanava dalla base della piramide, i mercati di scambio, fino al vertice costituito dalla Banca d’Inghilterra.

Quest’ultima era l’unica società privata a godere del privilegio di essere costituita in forma di società per azioni, condizione che le consentiva di disporre di congrue quote di riserva. Secondo questo sistema, i flussi furono indirizzati dalle aziende minori verso quelle maggiori, attuando un’implicita procedura di tipo assicurativo: l’azienda maggiore, più capitalizzata, assumendo titoli dalla minore, ne garantiva la liquidità e faceva sì che restassero sul mercato i titoli più solvibili. Ma così il sistema generava per estensione, mezzi di credito e di pagamento – banconote convertibili – più costosi del minimo possibile – per cui era soggetto sia ad azioni di free riding, sia alla sperimentazione di innovazioni.

Nell’ordinamento che abbiamo definito come prescrittivo a forma radiale, ad esempio quello strutturato in Francia, la fonte normativa principale fu il governo, che definì le modalità di esercizio delle aziende di credito attraverso atti normativi e verifiche di controllo operate da magistrature pubbliche.

Questo sistema accomunò sia agenti di cultura liberale, che vedevano nella piena responsabilità di mercato la principale via di modernizzazione del sistema economico nazionale, sia operatori più pragmatici, che ritenevano la scelta inflattiva inevitabile in quanto l’unica in grado di ricomprendere, nel

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tempo medio, l’eterogeneità degli usi e dei soggetti economici confluiti, conservando le loro condizioni di partenza, in una nuova e maggiore comunità nazionale.

2. La moneta legale e convertibile (1844-1870)

Nel corso della seconda metà dell’Ottocento si realizzò, come visto nel paragrafo precedente, il passaggio da un sistema finanziario mercantile ad un sistema finanziario di tipo industriale. Tale passaggio risulta essere sfumato e graduale, con uno sviluppo cronologico e di intensità che varia a seconda del paese preso in esame. La pietra angolare che permette di registrare e riportare il movimento tra i due sistemi è la tipologia di intermediario finanziario che si sviluppa e diviene predominante, nonché la trasformazione dei mezzi di pagamenti privilegiati per gli scambi commerciali e per il credito industriale.

In questo senso, è possibile riscontrare una netta discontinuità con l’età precedente in quanto, fin dagli anni Venti dell’Ottocento ma con maggior intensità durante la seconda metà del secolo, si assiste alla nascita di banche costituite in società per azioni, che rappresentano la vera novità dei sistemi bancari e finanziari mondiali tardo-ottocenteschi. Durante questo periodo, numerosi paesi cominciarono a porsi sul percorso di industrializzazione precedentemente tracciato dalla Gran Bretagna. La crescita economica che si realizzò su questa spinta, portò ad un precedentemente sconosciuto sviluppo della produttività industriale e ad aumento dei volumi, dei valori e dell’estensione geografica delle transazioni commerciali. Tale processo economico, per potersi esprimere con le potenzialità che divennero uno dei tratti distintivi della seconda metà dell’Ottocento, doveva essere accompagnato e sostenuto da un aumento della disponibilità dei mezzi monetari e creditizi, e da una più generale espansione del credito.

Le modalità attraverso le quali tali mezzi furono forniti rappresentano l’innovazione monetaria dell’Ottocento che ha portato, con tempi e modi diversi a seconda dei paesi in questione, ad una più diffusa concentrazione dei capitali, ad un maggiore drenaggio del risparmio verso l’investimento e, in generale, ad uno sviluppo senza precedenti del credito industriale attraverso la nascita e l’espansione del sistema finanziario di tipo industriale.

Particolarmente importanti per comprendere i percorsi della crescita industriale ottocentesca, appaiono i legami che si instaurano tra le diverse imprese industriali, i sistemi monetari e l’intermediazione finanziaria.

Tuttavia, anche se un determinato livello di sviluppo economico necessita di un certo tipo di interazioni tra banche e industrie, lo sviluppo di questi rapporti non si ripete mai esattamente nelle stesse forme all’interno dei vari paesi. La natura, le caratteristiche e le funzioni dei sistemi bancari dei diversi paesi europei seguirono percorsi eterogenei e originali, plasmandosi sui diversi contesti istituzionali all’interno dei quali si svilupparono; risentendo, quindi, delle specifiche condizioni storiche, geografiche e politiche delle varie nazioni. Un paese sulla via dell’industrializzazione, infatti, ha certamente bisogno di intermediari finanziari, i quali tuttavia acquisiranno caratteristiche

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adatte alla diversa maturità e tipologia dell’economia di un dato paese, seguendone ritmi e percorsi. Alcune caratteristiche sembrano in ogni caso comuni a tutti i sistemi bancari che nel corso della seconda metà dell’Ottocento costruiscono sistemi finanziari di tipo industriale. In primo luogo, in tutti i paesi il governo centrale svolge un’azione essenziale nell’indirizzare lo sviluppo del sistema bancario, avendo il potere legislativo necessario a garantire la qualità e la validità dell’unità monetaria.

Connesso a questo elemento si assiste, sull’onda del Bank Charter Act emanato nel 1844 dal governo inglese del Primo ministro Robert Peel, alla nascita di una banca di emissione forte, più o meno strettamente legata al governo e più o meno in posizione di monopolio nell’attività di emissione di moneta. Nel caso inglese, ad esempio, venne fissato un limite nel rapporto tra banconote e oro oltre il quale non era possibile andare. Tale limite era in realtà superabile, come mostra già il caso della crisi di liquidità del 1847 e delle lettere del Tesoro, con le quali il governo sollevava la Banca d’Inghilterra da ogni conseguente responsabilità giudiziaria. In ogni caso, il principio che era alla base del Bank Charter Act inglese venne tradotto e adottato nel corso della seconda metà dell’Ottocento dalle legislazioni bancarie di numerosi altri paesi: esso apparve, infatti, in Francia nel 1848; negli Stati Uniti nel 1860; in Italia nel 1874; in Germania nel 1875 e in Svezia nel 1897.

Un’ulteriore importante convergenza trans-nazionale si realizzò grazie alla nascita di una nuova tipologia di intermediario finanziario, destinato a rimpiazzare gradualmente le grandi banche private del passato: le banche costituite in società per azioni a responsabilità limitata. Eliminata, tra il 1858 e il 1868 in Gran Bretagna, Francia e Prussia, la richiesta d’approvazione preventiva da parte delle autorità per la costituzione di società di capitali a responsabilità limitata, esse cominciarono a imporsi soprattutto per via del vantaggio che avevano sulle banche private nella possibilità di raccogliere un capitale nettamente maggiore, potendo contare sui risparmi di un più alto numero di azionisti.

Se importanti furono i fattori comuni tra i diversi paesi, non è comunque possibile fare a meno di riscontrare anche delle difformità rilevanti. È, infatti, possibile rilevare nel panorama dei sistemi finanziari della seconda metà dell’Ottocento l’esistenza di due grandi insiemi, mutevoli nel tempo ma continuativamente comunicanti tra loro: questi due insiemi costituirono il centro e la periferia del sistema finanziario industriale. Il centro del sistema è caratterizzato dall’esistenza di una struttura economica dotata di una maggiore capacità finanziaria e di un assetto istituzionale coerente con questa capacità. La capacità finanziaria è rappresentata dalla disponibilità di un agente di aumentare la propria spesa senza ridurre i consumi. Si può prendere come esempio di tale comportamento la capacità di esportare capitali, così come la capacità di mantenere stabile il proprio sistema monetario.

Questo permette agli intermediari finanziari di avere un quadro economico e istituzionale fisso all’interno del quale poter operare le proprie scelte, che saranno diverse a seconda della tipologia industriale, economica, sociale, culturale e politica del paese in questione. Conseguentemente, gli

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intermediari finanziari si strutturarono in relazione, da un lato, alla capacità di esportare capitali e, dall’altro, alla stabilità monetaria dell’intero sistema finanziario.

La periferia del sistema è costituita da quei paesi che hanno una bilancia dei pagamenti non stabilmente in pareggio. Ciò avviene a seguito dei flussi di capitale in ingresso e della non continua capacità di acquisire saldi positivi sulle bilance commerciali. Le due condizioni determinano una tensione sulle riserve tale che la stabilità del cambio non poteva essere garantita.

L’oscillazione del cambio determinava così spazi speculativi, che dando luogo a rapidi guadagni o perdite, logorarono la capacità esecutiva dell’assetto istituzionale. Quindi, gli intermediari finanziari dei paesi della periferia si strutturarono, da un lato, in relazione alla loro capacità di catturare flussi di capitale in entrata e individuare i settori produttivi in cui è possibile una continuità di profitto; dall’altro, in rapporto alla debolezza complessiva dell’assetto istituzionale.

Le condizioni indicate, e i due insieme di paesi che ne scaturiscono, si articolano in due scansioni cronologiche. La prima, che va dagli anni Quaranta agli anni Settanta, comprende un centro composto da Gran Bretagna e Francia; e una periferia, composta dall’Europa meridionale, gli Stati Uniti, Russia e Africa settentrionale. La seconda, invece, che va dagli anni Settanta fino alla Prima guerra mondiale, comprende un centro, costituito da Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti; e una periferia, dove si collocano Francia, Russia, Europa meridionale, Asia e Africa settentrionale. In queste due fasi i processi di cambiamento nella composizione delle attività finanziarie attraversano quattro momenti, non necessariamente in successione tra loro: in primo luogo quello della monetizzazione, ovvero l’aumento dei mezzi di pagamento disponibili; in secondo luogo, quello della differenza tra le varie forme dei mezzi di pagamento; in terzo luogo, quello della determinazione del livello del loro prezzo, cioè il loro valore nominale; infine, il momento del rapporto tra il loro valore nominale e il loro valore reale nel tempo e nello spazio.

2.1 – Il centro: Gran Bretagna e Francia La Gran Bretagna

I fallimenti bancari rimasero un elemento costante nella storia finanziaria ottocentesca, inglese come europea, e l’intervento governativo mirava in particolar modo a prevenire, attraverso apposite riforme monetarie, il fenomeno che i contemporanei definivano sovraemissione. Dopo aver sperimentato, per un breve periodo nel corso degli anni Trenta, la cosiddetta regola di Palmer, che prendeva il suo nome da John Horsley Palmer, governatore della Banca d’Inghilterra tra il 1830 e il 1833, il governo Peel emanò il Bank Charter Act nel 1844, che costituisce un vero e proprio pilastro nella legislazione bancaria delle società occidentali. La legge fu pensata soprattutto per regolamentare un sistema bancario intrinsecamente debole, come dimostrano i numerosi fallimenti bancari avvenuti durante la crisi del 1836.

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Per quanto riguardava la costituzione di nuove banche in società per azioni, la legislazione del 1844, estesa a Scozia e Irlanda tra il 1845 e il 1846, aveva come obiettivo quello di permettere la formazione esclusivamente di quegli istituti bancari che potessero garantire un capitale sufficiente, prevedendo un percorso in due livelli, quindi non immediato, per ottenere la registrazione ufficiale da parte delle autorità. L’effetto reale del Bank Charter Act del 1844 fu quello di porre un freno alla nascita di nuove banche anonime – solamente 12 furono create tra il 1844 e il 1857 –, concedendo quindi una sorta di monopolio del settore alle banche già esistenti prima del 1844.

La crescita di questi istituti bancari si unì, tra gli anni Quaranta e Sessanta del secolo, alla nascita e allo sviluppo di un’altra tipologia di banche: le cosiddette overseas banks. Si trattava di istituti bancari con una dirigenza inglese e con la sede sociale solitamente ubicata a Londra, le quali tuttavia operavano esclusivamente nei territori dell’Impero britannico e all’estero, da cui il nome di Colonial and Foreign Banks, con il quale erano all’epoca conosciute. Le prime overseas banks furono fondate per svolgere attività finanziaria nelle colonie britanniche, ma a partire dagli anni ’60 esse cominciarono ad ampliare il proprio giro di affari anche all’America Latina e al Vicino Oriente. Nel 1860 esistevano 15 banche di questo tipo, con 132 filiali all’estero; mentre nel 1890 erano operative 30 overseas banks, per un totale di 739 filiali estere attive. I fondatori di queste banche anonime attive sui mercati esteri erano mercanti della City londinese con interessi economici nei medesimi mercati in cui andavano ad operare i nuovi istituti bancari, i quali offrivano servizi finanziari in aree geografiche spesso carenti di infrastrutture creditizie. In questo modo, oltre a favorire il commercio nelle zone coloniali, le overseas banks riuscirono anche a costruirsi una clientela formata dalle classi sociali più ricche delle comunità locali.

L’avvento delle nuove tipologie bancarie – le overseas banks e, in particolar modo, le banche anonime – non scalfì tuttavia il prestigio e il predominio delle grandi banche private almeno fino agli anni ’60 dell’Ottocento. Il credito internazionale, infatti, era ancora appannaggio esclusivo dei mercanti- banchieri come i Rothschild e i Baring, che continuarono a dominare il mercato almeno sino alla fine della Guerra di secessione americana nel 1865, sperimentando comunque nelle decadi successive un declino lento e certamente solo relativo alla crescita degli altri istituti creditizi.

Il Bank Charter Act fu seguito da una serie di leggi, varate negli anni tra il 1857 e 1862, che portarono ad una riformulazione del diritto societario inglese, introducendo la possibilità di costituire società per azioni a responsabilità limitata anche nel settore bancario. Il rischio insito in una stretta regolamentazione dell’emissione di carta moneta, legata al valore delle riserve auree bancarie, venne tuttavia alla luce già negli anni immediatamente successivi al 1844, in particolar modo con la crisi di liquidità del 1847. Questa, però, venne superata grazie alle cosiddette lettere del Tesoro, che sollevavano la Banca d’Inghilterra da qualsiasi conseguenza giuridica qualora essa avesse, in caso di necessità, come in effetti accadde proprio nel 1847, superato il limite che la legislazione imponeva alle sue emissioni di banconote. Si faceva, in questo modo, un ulteriore passo in avanti verso la regolamentazione

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governativa degli istituti bancari, in particolar modo per quanto riguardava l’emissione di cartamoneta e, in generale, le questioni monetarie.

L’evoluzione legislativa inglese tra il 1844 e il 1862, sia per quanto riguarda la materia strettamente monetaria sia da un punto di vista strettamente giuridico, unita ad una favorevole congiuntura economica che iniziò negli anni

’60 dell’Ottocento per concludersi alla metà degli anni ’70, portò alla crescita del numero di istituti bancari costituiti in società per azioni a responsabilità limitata, il cui picco venne raggiunto nel 1880 quando si contavano 128 banche di questo tipo. Tuttavia, per il periodo qui considerato, le banche in società per azioni non avevano un’estesa rete di filiali, con un giro di affari che, nelle province, rimanere geograficamente limitato. Il sistema bancario inglese, quindi, ancora fino al 1880, era caratterizzato dall’esistenza di numerose unit bank: solamente due istituti bancari – la London & County Bank e la National Provincial Bank of England – avevano cominciato a costruire una rete di filiali attive sul territorio.

La Francia

Il quadro dello sviluppo del sistema creditizio e finanziario francese è certamente uno dei più complessi e variegati della storia finanziaria mondiale perché i processi di monetizzazione e di tutela del valore dei mezzi di pagamento avvennero in maniera sfasata. Tali caratteristiche vanno probabilmente ricercate nelle condizioni istituzionali all’interno delle quali gli operatori finanziari si trovarono a dover operare dalla fine delle guerre napoleoniche in poi. In particolar modo, appare ricoprire un’importanza particolare la scarsa diffusione di mezzi di pagamento alternativi alla moneta metallica e alle cambiali, che fece della Francia un paese a bassissima diffusione di cartamoneta.

Ciononostante, se si osserva il rapporto tra crescita economica e ampiezza dell’uso delle banconote in Francia, ci si rende conto come la diffusione queste ultime aumenti nel periodo tra il 1845 e il 1910 – passando da 700 milioni a 16 miliardi di franchi – , periodo nel quale vi fu un rallentamento del tasso medio di crescita del reddito pro capite. Osservare solamente la diffusione dei moderni mezzi di pagamento non è un dato sufficiente per valutare la modernità di un sistema finanziario. Occorre, piuttosto, porre l’attenzione sul rapporto che si crea tra i mezzi di pagamento disponibili in un sistema economico; la presenza di vari e diversi tipi di intermediari; e le esigenze delle diverse economie, di cui gli intermediari sono una funzione.

Su queste basi si è costruita quella che molti studiosi considerano l’originalità del sistema creditizio francese, sorto come modello specifico nella seconda metà dell’Ottocento in concomitanza con la presa del potere di Napoleone III e la conseguente nascita del Secondo impero nel 1852. A partire da questo periodo, e almeno fino al 1880, lo scenario del credito francese fu dominato, con la chiara spinta istituzionale del governo di Napoleone III, dalla nascita e dallo sviluppo di grandi istituti di credito sorti sotto forma di società per azioni che, sul modello del più famoso di questi, il Crédit Mobilier, si comportarono, per quasi un trentennio, come grandi banche universali.

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Queste operavano attivamente nel settore del finanziamento industriale, anche mediante la creazione di nuove società industriali, e nel settore dell’investimento dei titoli, sia industriali che ferroviari, acquisendo in tal modo il controllo di imprese sia in Francia che all’estero.

Il momento di svolta, quindi, è da identificare con la metà dell’Ottocento. Al rivolgimento politico e alla rinascita imperiale sotto Napoleone III, vi fu una crescente, costante, sovrapposizione delle nuove istituzioni bancarie, le banche anonime, alle vecchie banche private dei mercanti-banchieri. Per un certo periodo di tempo, almeno fino alla fine del secolo, queste due tipologie di istituti finanziari convissero e si assistette, parallelamente, alla graduale crescita dell’una, della banca anonima, e, inversamente, al declino dell’altra, della banca privata.

Dopo la presa del potere da parte di Napoleone III nel dicembre del 1851, nel dicembre del 1852 vi fu la fondazione del Crédit Mobilier, che con un capitale di 60 milioni di franchi diveniva la seconda banca del paese dopo la Banca di Francia. L’istituto venne creato dai fratelli Emile e Isaac Pereire, di origine ebreo-portoghese, provenienti da Bordeaux. Durante gli anni ’40 dell’Ottocento, Emile Pereire aveva lavorato per Rothschild alla Chemin de Fer du Nord, per poi mettersi in proprio insieme al fratello Isaac dopo la rivoluzione del 1848. L’istituto dei fratelli Pereire si poneva l’ambizioso obiettivo di allocare le risorse disponibili concedendo finanziamenti alle imprese industriali, di trasporto e di utilità pubblica, come ad esempio quelle per la costruzione di dighe e canali. Per fare questo, venivano emesse delle obbligazioni con lo scopo di raccogliere capitali da investire nelle imprese. In questo modo, l’istituto dei Pereire cominciò ad acquistare i titoli delle più importanti industrie manifatturiere e ferroviarie, creando contemporaneamente diverse imprese, sia in Francia che all’estero. Uno dei settori in cui il Crédit Mobiliere fu più attivo fu certamente quello ferroviario, in particolar modo in Austria e Spagna.

L’esperimento, però, cominciò ad entrare in crisi giù durante gli anni ’60 dell’Ottocento. In questo periodo il Crédit Mobilier venne investito da una grave crisi di illiquidità, che emerse come conseguenza di una vasta e rapida estensione delle attività finanziarie nel settore industriale. La crisi definitiva arrivò nel biennio 1866-1867, quando una controllata della banca dei Pereire, la società di costruzioni marsigliese Compagnie Immobiliére, andò incontro al fallimento, trascinando con sé l’intero sistema finanziario costruito intorno al Crédit Mobilier, che crollò definitivamente nel 1870.

Le altre grandi banche che sorsero in questo periodo si dimostrarono più stabili e, soprattutto, più vicine al modello delle banche in società per azioni inglesi. Si ricordano, tra queste, la Société Générale de Crédit Industriel et Commercial (Cic), fondata per iniziativa di Armand Donon nel 1859 con un capitale di 60 milioni di franchi; e il Crédit Lyonnais, costituito nel luglio del 1863 da Henri Germain con l’appoggio dei più importanti imprenditori lionesi, in maggioranza mercanti di sete, e con una importante partecipazione di finanzieri ginevrini. Infine, è d’obbligo citare il caso delle nuove banche d’affari, come la Banque de Paris et des Pays-Bas (Paribas), fondata nel 1863, che si posizionò tra le più importanti banche del paese specializzandosi

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nell’investimento d’impresa e che avrà un ruolo di non secondaria importanza nell’ultimo trentennio del secolo.

Queste nuove banche non riuscirono ad ottenere il predominio del mercato finanziario almeno fino agli anni Settanta dell’Ottocento, in quanto le grandi banche private, come ad esempio quella di James de Rothschild, continuarono ad essere assolutamente predominanti nella gestione di un campo chiave del settore, ovvero il controllo dei grandi prestiti pubblici esteri. La svolta si ebbe solamente con il 1872, con il lancio del prestito per poter ripagare l’indennizzo alla Germania dopo la sconfitta del 1871 nella guerra franco- prussiana.

2.2 La periferia: Germania, Italia, Stati Uniti La Germania

Fino al 1871 la Germania è caratterizzata, politicamente, dalla presenza di un grande numero di piccoli stati, che intrapresero una prima unificazione economica attraverso gli accordi tariffari dello Zollverein, avviato nel 1818 e perfezionato progressivamente fino al 1833. Alcune città tedesche con una storica tradizione commerciale internazionale, tra le quali occorre ricordare Amburgo, Colonia, Francoforte e Berlino, videro la nascita di forti centri bancari fin dall’inizio dell’Ottocento, per lo più improntati sulla figura di banchieri-mercanti, tra cui i più famosi e ricchi furono gli appartenenti alla famiglia Rothschild, che si sparse poi in tutta Europa.

Con la rivoluzione del 1848 cominciò ad attuarsi un primo, piccolo cambiamento. In seguito ai moti rivoluzionari, la A. Schaaffhausen, una casa privata mercantile-bancaria di vecchio tipo, entrò in grande crisi.

Impossibilitata a trovare un’istituzione disponibile a concederle un prestito per risollevare i propri affari, la banca chiese al governo prussiano di concedergli l’autorizzazione per riorganizzarsi in forma societaria. Sull’onda del breve periodo liberale dovuto al clima che si era creato dopo la rivoluzione del 1848, tale autorizzazione venne concessa, portando così alla nascita della Schaaffhausen’scher Bankverein.

Nel periodo successivo, tuttavia, la burocrazia prussiana tornò ad opporsi fermamente alla nascita delle nuove banche, rifiutando l’autorizzazione a formare banche in società anonima, come nel caso della Sal. Oppenheim &

Co., che si rivolse poi ai Pereire a Parigi, e nel caso di Gustav Mevissen, che vide rifiutato il suo progetto di costituire a Colonia un istituto creditizio sul modello del Crédit Mobilier francese. Mevissen, comunque, non si arrese e, dopo essersi visto rifiutare l’autorizzazione anche a Francoforte, la ottenne invece a Darmstadt, nell’Assia, dove fondò nel 1853 la Bank fur Handel und Industrie, solitamente chiamata Darmstadter Bank, con uno statuto modellato in una certa misura su quelli del Crédit Mobilier parigino e della Scaaffhausen’scher Bankverein, per la quale lo stesso Mevissen aveva lavorato negli anni precedenti.

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La Darmstadter aveva uno statuo che le consentiva un’attività da vera e propria banca d’investimenti. Essa aveva quindi la possibilità di acquisire la proprietà di azioni di imprese commerciali, di sottoscrivere azioni e di organizzare fusioni tra imprese. Similmente alla Darmstadter, altre banche trovarono la loro sede in città al di fuori della Prussia, dove gli Junker , che continuavano ad essere politicamente influenti, non ne consentivano la formazione. La Diskontogesellschaft, ad esempio, venne fondata da David Hansemann, il quale era stato in precedenza Ministro delle finanze prussiano e presidente della Banca di Prussia, nel piccolo principato di Dessau nel 1851, mentre il Middeldeutsche Creditbank nacque a Meiningen in Sassonia, nel 1856.

Lo Stato prussiano, e così molti altri stati tedeschi tra cui la Bavaria, avevano impedito la nascita di nuove banche sotto forma di società per azioni, ma non vietavano la formazione di società in accomandita a responsabilità limitata. Questo portò alla immediata nascita di nuove banche e alla riorganizzazione di quelle più vecchie: nacquero, così, nel 1856, la Berliner Handels-Gesellschaft a Berlino; il Schlesische Bankverein a Breslavia, in Slesia; l’Allgemeiner Deutscher Credit-Anstalt a Lipsia, in Sassonia; e la Vereinsbank e la Norddeutsche Bank, entrambe sorte ad Amburgo.

Le nuove banche cominciarono quasi immediatamente a stringere forti rapporti con l’industria, in particolare con quella mineraria e manifatturiera, senza tuttavia tralasciare gli investimenti in ferrovie e in imprese di pubblica utilità. La Darmstadter in particolare partecipò direttamente, sempre nel 1856, in forme diverse, a ben sette imprese industriali, che fondò o ristrutturò in società per azioni, conservandone la proprietà per circa un terzo del capitale. Sempre nello stesso periodo, lo Schaaffhausen’scher Bankverein aveva contribuito alla formazione dello Hoerder Bergwerk & Huttenverein nel 1851, una società di miniere e fonderie, e di altre imprese, tra cui filatoi, assicurazioni e ferrovie.

La crisi finanziaria del 1857 bloccò la nascita di nuove banche. Ad un intervallo di circa quindici anni, però, vi fu una nuova ondata di fondazioni, innescata principalmente dalla grande crescita economica, dalla vittoria nella guerra franco-prussiana e dalla conseguente nascita del Reich.

L’Italia

Durante la prima metà del XIX secolo, l’Italia era una paese politicamente frammentato. Ad una molteplicità di piccoli stati, come quello di Genova o di Venezia, si affiancavano ampi territori dominati da potenze straniere, come il Lombardo-Veneto, sotto il dominio austriaco, e Napoli, sotto quello spagnolo, mentre il Papa conservava il suo potere temporale sullo Stato Pontificio nell’Italia centrale.

L’unificazione politica del paese, come successe anche in Germania, iniziò dalle tariffe. In reazione all’adozione tedesca dello Zollverein, nel 1847, il Regno di Sardegna adottò un’unica unità tariffaria con la Toscana e con gli Stati Pontifici. Le varie dominazioni straniere però, presenti nel nord-est e nel

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sud del paese, avversarono tale piano. In questo modo rimasero fuori dall’unificazione tariffaria il Lombardo-Veneto, già allora la parte industrialmente più progredita del paese, e il Regno delle Due Sicilie.

Al momento dell’unificazione politica, nel 1861, vi erano in circolazione centinaia di vecchie monete, in quanto non soltanto gli Stati, ma anche le singole città, possedevano un proprio sistema di coniazione con pesi, metalli e sistemi divisionali diversi. Per fare un esempio, nella sola Toscana si contavano, nel 1861, ben ventiquattro unità monetarie diverse. Di fronte ad una situazione così frammentaria, l’uniformità del cambio progredì, così come quella politica, per passaggi intermedi.

Fino alla nascita del Regno d’Italia era in vigore il Codice albertino del 1837, attraverso il quale l’esercizio del credito veniva riservato a società di negozianti e banchieri, i quali erano incaricati della diffusione del credito commerciale e bancario attraverso l’uso di biglietti e depositi convertibili in moneta metallica coniata dallo Stato e dai privati.

Dopo l’Unità, la legge Pepoli, emanata il 24 agosto del 1862, definì la lira italiana moneta legale per i pagamenti, nonché unità di conto del risparmio e del credito, estendendo a tutto il paese la normativa già in vigore nel Regno di Sardegna. Quest’ultima prevedeva un conio bimetallico, che doveva andare incontro a due elementi considerati fondamentali per lo sviluppo economico del paese: l’importanza attribuita agli scambi con la Francia, che costituiva il principale mercato di sbocco dei prodotti italiani; e la possibilità di uniformarsi ai pagamenti in oro, come era in uso nel principale paese di importazione, ovvero l’Inghilterra. Quello che venne poi definito «bimetallismo zoppo» divenne una forte fonte di instabilità per il sistema monetario italiano, favorendo lo sviluppo della diffusione di moneta abusiva, di aggio, e, in generale, contribuendo a generare una sostanziale incertezza sul reale valore dei mezzi di pagamento in circolazione.

L’impatto di tale incertezza sul sistema creditizio fu di notevole importanza, causando profonde conseguenze sul piano giuridico e amministrativo. Le norme che regolavano l’emissione e l’accesso al credito furono comunque sensibili ai mutamenti politici del paese. Tuttavia, le condizioni generali in cui si realizzò il Regno d’Italia, processo segnato dall’assoluta centralità del governo e dall’estensione delle regole istituzionali del Regno di Sardegna a tutta la penisola, portarono ad affermare un ordinamento prescrittivo di tipo piramidale.

Con l’unificazione si intensificò il fenomeno di adesione azionaria delle banche locali alla Banca nazionale sarda, rinominata nel 1861 Banca Nazionale del Regno d’Italia. Al netto delle fusioni, rimanevano, all’indomani dell’unità e dopo la presa di Roma nel 1870, cinque banche di emissione: la Banca nazionale, la Banca nazionale toscana, la Banca romana – l’ex Banca degli Stati Pontifici – , e i due più importanti istituti meridionali, il Banco di Napoli e il più piccolo Banco di Sicilia. Conclusa comunque la fase delle annessioni regionali, e morto Cavour, il progetto di creazione di un sistema del credito di tipo piramidale venne portato avanti dalla Destra piemontese per mezzo del ministro Giovanni Manna. Il progetto Manna, presentato nel 1863,

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prevedeva la creazione di una Banca d’Italia attraverso la fusione, favorita dal governo, delle due banche nazionali esistenti al momento dell’Unità, ovvero la Banca nazionale degli Stati sardi e la Banca nazionale toscana. Quella proposta era una rivisitazione del sistema francese, dove ad un istituto centrale di tipo statalista veniva affiancata una serie di istituti di sconto commerciale: chiaro era infatti il ruolo gerarchico dell’ordinamento, che avrebbe avuto al vertice una Banca d’Italia incaricata di scontare solo cambiali a tre firme, ovvero già scontate da altre banche.

Il disegno di legge, però, si scontrò contro le élites commerciali, che si opponevano ad un progetto che avrebbe creato, secondo la loro opinione, un sistema del credito troppo centralista e prescrittivo, lesivo delle libertà d’impresa privata. L’avvenuta unificazione italiana diede un forte impulso all’arrivo di una nuova ondata di capitali esteri, che arrivarono nel paese sia attraverso prestiti contratti all’estero dallo Stato, sia direttamente per mezzo delle banche straniere. Nel 1862 esistevano sul territorio tre banche di credito costituite in società per azioni. Tra il 1863 e il 1866 ne furono fondate altre 13, tra cui la Banca anglo-italiana, fondata dalla famiglia Ricasoli e dall’ambasciatore inglese Henry G. Elliot, la Società generale di credito mobiliare, nata per iniziativa del Crédit Mobilier francese, e la Banca di Credito Italiano, creata dal Crédit Industriel et Commercial attraverso fondi di proprietà dei Rothschild.

Negli anni successivi all’Unità e alla nascita di nuove banche grazie al capitale straniero, vi fu in Italia un breve boom dovuto alla costruzione di linee ferroviarie. Per questo progetto, essenziale all’ammodernamento del paese, il governo piemontese si era pesantemente indebitato giù durante gli anni ’50, continuando questo trend anche durante il decennio successivo. Se al momento dell’unificazione il debito pubblico ammontava a 2,4 miliardi di lire, di cui solamente uno apparteneva al Regno di Sardegna, durante il primo anno del nuovo Regno d’Italia vi fu un deficit di 500 milioni. Nel 1866, infine, il debito pubblico nazionale era salito a ben 6 miliardi di lire. Con l’esplosione delle crisi finanziarie a Parigi nel 1864 e nel 1866, il flusso di credito estero venne improvvisamente interrotto e l’Italia non fu più in grado di assicurare la convertibilità delle banconote in monete metalliche. Il corso forzoso venne così imposto nel 1866, in un paese di recente unificazione e che ancora aveva poca dimestichezza con l’uso della cartamoneta.

Gli Stati Uniti

I problemi di finanziamento dello sviluppo economico presentarono negli Stati Uniti delle problematiche per un verso analoghe a quelle europee e, per un altro verso, diverse. Le strutture su cui poggiava la crescita erano infatti le medesime, ma profondamente diverse erano invece le condizioni specifiche, da un punto di vista politico, sociale e culturale. L’architettura federale, unita ad una forte gelosia d’autonomia dei diversi Stati, che caratterizzò il paese almeno per tutto l’Ottocento, dettarono il peculiare sviluppo del sistema finanziario statunitense, un paese che, libero dal peso dell’eredità storica presente in Europa, poté sviluppare tratti originali – il più vistoso dei quali era certamente l’assenza, fino al 1913, di un sistema bancario centrale –, al fianco

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di caratteristiche vicine al sistema britannico ed altre più vicine a quello dell’Europa continentale.

La crescita del tasso del risparmio nazionale, che comincia negli anni ’50 e aumenta sensibilmente negli ultimi trent’anni del secolo, è spiegabile in parte con lo sviluppo degli intermediari finanziari e delle innovazioni che essi mettono in campo, svolgendo un ruolo di stimolo al risparmio e di agevolazione all’accesso di prestiti di capitali.

Uno dei tratti più originali del sistema bancario statunitense ottocentesco è l’eccezionale proliferazione di banche, unita all’assenza di una banca centrale tra il 1836 e il 1913. Vi erano stati, tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, alcuni esperimenti in questo senso, con l’istituzione di una banca denominata Banca degli Stati Uniti: la cosiddetta Prima Banca fu operativa tra il 1791 e il 1811, mentre la Seconda Banca riprese l’attività tra il 1816 e il 1836, quando il dinamismo del suo presidente Nicholas Biddle lo fece entrare in conflitto con diversi ambienti finanziari e politici, in particolare con il presidente Andew Jackson che, a conclusione della cosiddetta «guerra della Banca», pose il suo veto al rinnovo dell’istituto nel 1836.

Il sistema bancario che domina negli Stati Uniti fino alla Guerra civile e oltre era quindi costituito da un altissimo numero di banche commerciali, spesso senza filiali e a sportello unico, che stabilivano al massimo alcune filiali all’interno della propria contea e comunque mai al di fuori del proprio Stato.

Esse erano investite di un duplice ruolo. Da una parte esse fornivano i crediti necessari alla crescita economica del territorio; dall’altra, la moneta che esse emettevano, doveva essere convertibile a vista. Quest’ultimo punto diventava, nei periodo di recessione, il più difficile da mantenere, facendo sì che i casi di sospensione furono molto frequenti.

Dall’inizio dell’Ottocento fino allo scoppio della Guerra civile, le banche commerciali conobbero un rapidissimo sviluppo: nel 1800, ad esempio se ne contavano 29; esse divennero 260 nel 1816, per raggiungere poi la cifra di 634 nel 1837 e di 2000 nel 1860. Questa grande crescita è spiegabile anche grazie al fatto che la legislazione in vigore in numerosi stati americani concedevano facilmente le autorizzazioni necessarie. Soprattutto nelle regioni di frontiera ad Ovest, dove i capitali scarseggiano, le banche commerciali ricoprono principalmente il ruolo di istituti di emissione, con attività costituite in gran parte da titoli del debito pubblico e una incertezza nella convertibilità dei biglietti.

Al fine di combattere la minaccia inflazionistica insita in tali attività bancarie, molti esperimenti locali vengono posti in essere in questi anni. In Indiana viene fondata una banca centrale di stato, nel 1834; in Iowa, stato agricolo con una forte tradizione anti-bancaria, viene vietata l’emissione a tutte le banche nel periodo 1846-1857; nella Nuova Inghilterra viene istituito il controllo delle emissioni delle country bank rurali da parte delle banche urbane; infine, in Louisiana, nel 1842, una legge bancaria impone l’obbligo alle banche di avere una riserva metallica pari ad un terzo dei biglietti e dei depositi.

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In questo scenario molteplice, le banche commerciali, non assumendo tutte le funzioni finanziarie di base, permettono la nascita di altri intermediari finanziari specializzati.

Uno di questi è costituito dalle banche di mutuo risparmio, sorte agli inizi del secolo con intenti filantropici per promuovere la mentalità economica nelle classi popolari. La prima di queste, la Bank for Savings in the City of New York, venne fondata nel 1819. Alla metà dell’Ottocento, queste banche cominciano a svilupparsi rapidamente, raccogliendo depositi e investendo in numerosi campi. Con la crisi del 1857 – e maggiormente con quella del 1873 – questa tipologia di banche ritorna ad un originale spirito di prudenza e specializzazione, iniziando tuttavia un rapido declino.

3. La concentrazione del capitale (1870-1913)

A partire dagli anni ’70 dell’Ottocento si realizzò quella che viene definita come la prima ondata di globalizzazione della storia, che si accompagnò, e fu al tempo stessa favorita, dalla nascita degli imperi coloniali delle grandi potenze. L’ambiente istituzionale ed economico tra il 1870 e il 1914 era, quindi, particolarmente favorevole allo sviluppo di centri finanziari internazionali. Il ruolo dominante spettava ancora alla City di Londra, capitale dell’economia dominante all’interno del contesto globalizzato, seguita al secondo posto per importanza da Parigi ed in seguito da Berlino e New York.

La Francia, tuttavia, cominciava a declinare rapidamente in quanto ad importanza internazionale, e veniva sempre più relegata a ruolo regionale, come erano regionali le zone di influenza degli altri centri minori, come Francoforte, Ginevra, Zurigo e Milano.

Tre cambiamenti fondamentali si realizzarono in questo periodo in connessione con la rapida globalizzazione del sistema economico e finanziario.

Il primo è di tipo strettamente quantitativo: i flussi di capitale esportato raggiunsero, infatti, somme mai viste in precedenza. Il secondo fu, invece, la maggiore integrazione fra i diversi centri finanziari mondiali, resa possibile dall’avanzamento tecnologico nel sistema dei trasporti, quindi delle informazioni, e dalla libera circolazione di capitali. Il terzo ed ultimo mutamento fu l’aumento del numero dei centri finanziari mondiali, all’interno dei quali, come detto, Londra rimase tuttavia il più importante fino alla Prima guerra mondiale.

In particolar modo il flusso di capitali a livello internazionale era il centro della crescita delle attività economiche e finanziarie. La quantità di capitale inglese investito all’estero, ad esempio, quadruplicò tra il 1875 e il 1914, mentre quello francese triplicò. Le attività all’estero erano per la maggior parte, circa il 65%, investimenti che prendevano la forma di attività di portafoglio in titoli di governi stranieri, obbligazioni di ferrovie, in particolar modo negli Stati Uniti, e titoli di imprese di forniture pubbliche.

Il flusso di capitali raggiunse tutto il mondo, anche se l’Europa rimase l’area maggioritaria, seguita dall’America del Nord, dall’America centro-meridionale,

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