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Cassazione: non spetta al giudice disporre la rateizzazione delle multe

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Academic year: 2022

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Cassazione: non spetta al giudice disporre la rateizzazione delle multe D'ora in avanti sarà più difficile ottenere la rateizzazione per il pagamento delle multe. Secondo la Corte di Cassazione infatti questo beneficio può essere accordato solo a chi è povero e comunque le rate non possono essere più di trenta. La decisione è della Seconda sezione civile della Corte (sentenza n. 26932/2009) che ha ricordato come il ricorso alle rateizzazioni deve essere limitato a chi si trova in "condizioni realmente disagiate". Nella parte motiva gli Ermellni ricordano peraltro che a decidere sulle rate è il Comune che ha inflitto la sanzione per violazione del codice della strada e queste non devono mai essere inferiori a 15 euro al mese per un totale massimo di trenta rate. La Corte ha così accolto il ricorso contro una decisione del Giudice di Pace che aveva concesso ad un automobilista, in debito per diverse contravvenzioni, la possibilità di rateizzarle, pagando 10 euro al mese. Piazza Cavour ha ricordato che non è certo il Giudice a poter stabilire le rate mettendo in chiaro peraltro che "il potere di suddivisione in rate e' legato all'esistenza di condizioni economiche disagiate dell'obbligato e non può essere stabilito secondo equità".

L'automobilista aveva ricevuto diverse contravvenzioni per aver circolato in corsie riservate ad altri veicoli ed aveva collezionato multe per un totale di ben 2.777 euro. Il giudice di Pace aveva così deciso di autorizzare la rateizzazione in 278 rate da 10 euro al mese. Il Comune naturalmente si è rivolto alla Suprema Corte che accogliendo il ricorso ha cassato la sentenza impugnata nella parte in cui ha disposto la rateizzazione del pagamento ed ha ricordato che "la rateizzazione" è appannaggio esclusivo del Comune e che "non può essere inferiore a 15 euro" così come non può superare le trenta rate. Ora l'automobilista dovrà pagare oltre alle multe anche ulteriori 400 euro per rifondere il Comune delle spese processuali.

Dimissioni per giusta causa ed indennità di mobilità

L’Inps, con messaggio n. 25942/2009, chiarisce che il lavoratore percettore dell’indennità di mobilità decade da tale trattamento in caso di instaurazione di un rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato. Se successivamente lo stesso lavoratore rassegna le proprie dimissioni per giusta causa ha diritto alla reiscrizione nelle liste di mobilità e alla percezione del relativo trattamento integrativo per il periodo corrispondente alla parte residua non goduta decurtata del periodo di attività lavorativa. Infatti, chiarisce l’Inps che le dimissioni per giusta causa, determinate nella fattispecie in esame, dal mancato pagamento della retribuzione, comportano un’interruzione involontaria del rapporto di lavoro, in quanto addebitabile al comportamento del datore di lavoro.

CASSAZIONE: IMMEDIATEZZA DELLA CONTESTAZIONE PER IL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE

La Cassazione, sez. lav. (sent. n. 20404/2009) stabilisce che la regola della tempestività della contestazione nell’ambito di un provvedimento disciplinare deve essere intesa tenendo conto delle ragioni oggettive che possono ritardare la percezione o il definitivo accertamento e valutazione dei fatti contestati, soprattutto quando il comportamento del lavoratore consista in una serie di fatti che, convergendo a comporre un’unica condotta, esigono una valutazione unitaria. In tali casi la contestazione può seguire l’ultimo di questi fatti, anche ad una certa distanza temporale dai fatti precedenti. In particolare, la Cassazione afferma che, poichè è principio consolidato in giurisprudenza quello secondo il quale la contestazione deve essere precisa e analitica, in modo da consentire al lavoratore un adeguato esercizio del diritto di difesa, è legittimo che il datore di lavoro che debba contestare una condotta molto articolata effettui delle indagini anche lunghe al fine di un

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completo accertamento dei fatti oggetto di contestazione. Nel caso di specie, il giudice di merito aveva correttamente ritenuto che fosse sufficiente l’esame delle della lettera di contestazione per accorgersi che gli addebiti si fondavano su circostanze di fatto molto complesse ed articolate che non potevano certo essere apprese se non attraverso le specifiche indagini effettuate nel corso di una lunga ispezione.

Garante Lazio: 71 suicidi in carcere nel 2009

Il Garante dei detenuti del Lazio , Angiolo Marroni, ha affermato in una nota che con i due suicidi registrati nei giorni scorsi a Vicenza e a Roma "i detenuti che si sono tolti la vita nel 2009 nelle carceri italiane sono 71, cifra che supera la precedente soglia massima di 69, fatta registrare nel 2001''. Il totale dei detenuti che sono morti nelle carceri di tutta Italia nel 2009, secondo i dati diffusi da 'Ristretti Orizzonti', sale dunque a 173. ''Fra suicidi e morti sospette e' stato davvero un anno terribile" spiega Marroni. Nel caso recente della morte di un collaboratore di giustizia "c'e' da dire che i collaboratori di giustizia sono spesso in celle singole e, almeno in questo caso, non ci sono dubbi sulla natura di questo decesso. [...] Sarebbe, invece, più utile chiedersi quali sono le motivazioni che spingono un collaboratore di giustizia a togliersi la vita visto che si tratta di reclusi particolarmente condizionati dalla loro vita pregressa e dalle loro scelte. In generale, gli episodi di questi ultimi giorni confermano che il carcere e' sempre piu' un luogo di morte dove la disperazione, che deriva da molti fattori non ultimo l'invivibilità e il sovraffollamento, aumenta di giorno in giorno. Tutto ciò fa si che, almeno nei detenuti più fragili, la possibilità di porre fine ad una vita in apparenza senza più speranze e' la via che appare la migliore da percorrere''.

CASSAZIONE: CIRCOLAZIONE STRADALE - RILEVAMENTO DELLA VELOCITÀ

Cassazione Civile, sezione seconda - Sentenza n. 22041/2009

Circolazione stradale - Artt. 11, 45 e 142 del Codice della Strada - Rilevamento della velocità - Gli organi di Polizia Stradale sono deputati alla verifica ed al controllo della sussistenza della omologazione e del funzionamento degli apparecchi misuratori della velocità, nonchè della regolarità del loro posizionamento sulle strade. L'accertamento della violazione del limite di velocità ben può essere espletato dai corpi di polizia municipale, nell'ambito del territorio di competenza ed anche al di là di essi, ove espressamente autorizzati, restando a carico dell'opponente provare l'eventuale mancata autorizzazione.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato davanti al G.d.P. di Orbetello, l'avv. D. V. R., in giudizio di persona quale esercente la professione forense, proponeva opposizione avverso il verbale con il quale la polizia municipale del Comune di Capalbio gli aveva contestato che l'autovettura Lancia K tg. (OMISSIS) di sua proprietà in data 3.4.2004, verso le h. 18 percorrendo la strada statale (OMISSIS) all'altezza del Km. 124,450, teneva una velocità di Km. 123, superando di oltre 40 Km il limite massimo fissato in quel punto in Km. 70 orari (velocità di percorrenza accertata mediante Autovelox).

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Specificava che con lo stesso verbale la polizia municipale gli aveva altresì comminato la sanzione

amministrativa di Euro 351,95 o di Euro 357,55, la decurtazione di dieci punti dal la patente e la sospensione della patente per quattro mesi, invitandolo a comunicare entro 30 gg. il nominativo della persona che conduceva la Lancia K e ritenendolo, in caso di mancato adempimento personalmente responsabile.

L'Avv. D. V. non comunicava il nominativo del conducente la sua autovettura limitandosi a proporre il ricorso avverso l'accertamento dell'infrazione, deducendo altresì l'inapplicabilità delle sanzioni accessorie, relative alla decurtazione dei punti sulla patente e sulla sospensione della stessa.

Il G.d.P., con sentenza 10.1.2005 rigettava il ricorso affermando:

che la violazione del codice della strada era stata regolamentarmene contestata e rilevata con apparecchiatura regolarmente omologata e controllata;

che la procedura di accertamento dell'infrazione non è censurabile tenuto conto delle dichiarazioni degli agenti e delle spiegazioni fornite dalla P.A.;

che le modalità di accertamento,rimesse alla discrezionalità inerente all'attività di vigilanza, non sono sindacabili);

che l'istruttoria non ha evidenziato alcun elemento idoneo a mettere in discussione il contenuto del verbale assistito da presunzione di veridicità salvo querela di falso non proposta.

Avverso detta sentenza ricorre in Cassazione l'avv. D. V..

Nessuna attività difensiva ha svolto la controparte.

MOTIVAZIONE DELLA DECISIONE

Deduce il ricorrente a motivi di impugnazione:

1) l'omessa motivazione sul punto della inapplicabilità ed inutilizzabilita da parte della polizia municipale di Capalbio dell'apparecchiatura destinata alla osservanza dei limiti di velocità ai sensi del Regolamento di applicazione del C.d.S. L. n. 326 del 2003, art. 345, comma 4 stabilendo, tale norma che le apparecchiature di controllo per l'accertamento delle violazioni ai limiti di velocità devono essere gestite dagli organi di polizia stradale;

2) la violazione del Regolamento di applicazione del C.d.S., art. 345, comma 4. - per essere stata, la violazione della velocità prescritta, accertata da organi non appartenenti alla Polizia Stradale con conseguente nullità del verbale di accertamento della sanzione pecuniaria e delle sanzioni accessorie comminate;

3) la violazione o errata applicazione del D.L. n. 285 del 1992, art. 126 bis, comma 2, introdotta dal D.L. 15 gennaio 2002, n. 9, art. 7, nel testo risultante all'esito della modifica apportata dal D.L. n. 151 del 2003, art. 7, comma 3, lett. b convertita con modificazioni nella L. 1 agosto 2003, n. 214:

- per avere il G.d.P. confermato l'applicazione della decurtazione del punteggio sulla patente e della sospensione della stessa, pur non avendo la polizia municipale proceduto alla contestazione personale della violazione accertata al conducente della vettura, non identificato; pur avendo il ricorrente negato di essere il conducente e quindi solo sul presupposto dell'intestazione della proprietà e sul fatto di non aver comunicato chi fosse il conducente della vettura al momento dell'infrazione, nonostante con sent. n. 27 del 12- 24/1/2005 la Corte Costituzionale abbia statuito la illegittimità del D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 126 bis, comma 2 nella parte attinente alla sospensione della patente ed alla decurtazione del punteggio sulla stessa comminate al

proprietario dell'autovettura, non conducente la stessa al momento dell'infrazione.

I primi due motivi di ricorso sono infondati.

Infatti, ai sensi dell'art. 345 del regolamento di applicazione del C.d.S., comma 4, è la sola gestione degli

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apparecchi che servono ad accertare la violazione dei limiti di velocità, ad essere rimessa agli organi di Polizia Stradale, nel senso che tali organi sono deputati alla verifica ed al controllo della sussistenza della

omologazione e del funzionamento degli apparecchi misuratori della velocità, nonchè della regolarità del loro posizionamento sulle strade; mentre l'accertamento della violazione del limite di velocità, costituendo ex art.

11 C.d.S. un servizio di polizia stradale, ben può essere espletato ex art. 12, comma 1, lett. e, dai corpi di polizia municipale, nell'ambito del territorio di competenza ed anche al di là di essi, ove espressamente autorizzati, restando a carico dell'interessato provare la mancata autorizzazione.

Nella specie, la sentenza ha accertato che l'apparecchiatura era regolarmente omologata e controllata, e che la contestazione era stata regolare.

A fronte di tali affermazioni, il ricorrente nessuna prova ha dato del contrario.

I due motivi vanno, perciò, respinti.

E', invece, fondato il terzo motivo di ricorso in quanto con la sentenza n. 27 del 2005, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 126 bis C.d.S. nella parte in cui comminava la riduzione dei punti della patente e la sospensione della patente a carico del proprietario del veicolo che non sia stato anche responsabile dell'infrazione stradale, oppure che ometta di comunicare i dati personali e della patente del conducente, ipotesi quest'ultima verificatasi nella specie e che, pertanto, esclude l'applicabilità delle sanzioni accessorie comminate (sospensione della patente e decurtazione dei punti); ma non la sanzione pecuniarìa ex art. 180 C.d.S., comma 8 per l'omessa comunicazione del nominativo del conducente, non avendo il ricorrente nè provato, nè dedotto di essere stato impossibilitato a farlo (v. sent. 13748/07).

Pertanto, in accoglimento del terzo motivo di ricorso, la sentenza impugnata va cassata nei limiti del motivo accolto e decidendosi nel merito ex art. 384 c.p.c. va dichiarata l'inapplicabilità delle sanzioni accessorie comminate al ricorrente e stante la parziale soccombenza del ricorrente, va dichiarata, in assenza di attività difensiva della controparte, non costituitasi nel presente giudizio la irripetibilità delle spese del presente giudizio sostenute dal ricorrente.

P.Q.M.

la Corte rigetta i primi due motivi di ricorso ed accoglie il terzo motivo.

Decidendo nel merito dichiara inapplicabili le sanzioni accessorie.

Dichiara irripetibili le spese del presente giudizio.

Scanniello Michelangelo

Si scrive dolo, si legge errore (La definizione del dolo attraverso l'errore)

"…ammette di non conoscere la legge e intanto dice di essere innocente" (Kafka) 1. Premessa

In questo breve scritto si vuole sostenere che la definizione del dolo, fornita dall'art. 43 c.p. (il reato è secondo l'intenzione quando l'evento dannoso o pericoloso è dall'agente "preveduto e voluto"

quale conseguenza della sua condotta) è una definizione parziale; inoltre, si tenterà di dimostrare

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che una tale definizione può poggiare solo su un attento esame della normativa dell'errore (art. 47 c.p.) così come, infatti, afferma la dottrina maggioritaria.

Quanto detto è maggiormente vero ove si consideri che ordinamenti che non contengono una definizione del dolo, come quello tedesco (Fornasari), addivengono ad una compiuta definizione dello stesso grazie anche all'errore penale.

2. Errore sul fatto

L'art. 47 c.p. al primo periodo del primo comma dispone: "L'errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell'agente".

Errore è la scorretta percezione della realtà giuridica o naturalistica. Pertanto l'errore è una realtà falsata, per le più diverse ragioni, che vive solo nell'immaginazione di uno o più soggetti.

L'errore è studiato nel diritto civile come in quello amministrativo e penale, ed ogni disciplina reca una disposizione espressa, o una soluzione che ricostruisca unitariamente la disciplina dell'errore data la sua, spesso notevole, rilevanza.

Dubbio ed errore non sono la stessa cosa, evidentemente; tuttavia in alcuni casi la differenza è davvero labile e fluida.

In linea di massima il dubbio è sorretto da un conflitto interiore tra più convincimenti, ognuno ipoteticamente corretto, fermo restando che potrebbe non esserlo nessuno; il dubbio è una "forma problematica, non univoca, del pensiero che determina un'astensione dal giudizio o uno stato psicologico di incertezza, di esitazione" (dizionario Sabatini-Coletti), di talché si versa in una

"condizione di incertezza della volontà, della mente" (dizionario Gabrielli); perciò nessuna realtà, per quanto sbagliata, si configura in modo compiuto nella mente di colui che agisce nel dubbio o per il dubbio, oppure - più semplicemente - resta inerte. Il dubbio oscilla tra la realtà e l'errore, senza appartenere a nessuna di queste categorie.

In ogni caso, in diritto penale più che mai, il dubbio non ha rilevanza, mentre l'errore ha una disciplina alquanto accurata nell'art. 47 c.p., seppure non priva di sbavature ed equivoci interpretativo-sistematici.

La disciplina dell'errore si interseca, come si vedrà, con l'art. 43 c.p. (definizione del dolo) e con l'art. 59 c.p. (circostanze che escludono la punibilità, erroneamente ritenute esistenti).

In passato, specie la dottrina civilistica, si è spesso fermata fiaccamente dinanzi al binomio inossidabile: "errore di fatto-errore di diritto".

Errore di fatto è quello che cade su un elemento della realtà esterna della vita; errore di diritto è quello che coinvolge una disposizione normativa e pertanto non scusa, dato l'art. 5 c.p.: "nessuno può invocare a propria scusa l'ignoranza della legge penale".

Ma scindere l'errore in base alla sua scaturigine di genere e non in base alle conseguenze rilevanti per il diritto, significa confondere il piano dell' "oggetto della valutazione" con quello della

"valutazione dell'oggetto".

In altre parole, una cosa è valutare la natura tipologica dell'errore, altra cosa è valutarne le conseguenze giuridiche. Ciò avviene perché l'errore di diritto non sempre è ignoranza della legge;

infatti, salvo il doloso mascheramento, che comunque non scuserebbe, della conoscenza della legge penale, chi dovesse agire ritenendo che - ad esempio - sposarsi due volte è lecito poiché la propria religione accetta la poligamia, è in errore inescusabile, ma solo se vuole esattamente il fatto del doppio matrimonio; se, cioè, il bigamo voleva esser tale, essere bigamo appunto, poiché ritenuto comportamento lecito, magari per errore sull'art. 8 della Costituzione, verserebbe in re illicita perché suo desiderio era l'essere bigamo. L'errore, in questo caso, inerisce proprio la legge penale, se ne inferisce la sua scorretta interpretazione (o la sua più totale ignoranza) originando la sanzione penale.

Al contrario chi vuole un fatto diverso da quello punito da una norma, ma per errore di diritto si trova nella situazione da quella norma disciplinata, dovrà essere esente da pena, perché la natura dell'errore (di diritto) non rileva, ma la sua causa sì.

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Riprendendo l'abusato esempio del bigamo: chi ritenesse, per errore di diritto, che il proprio precedente matrimonio fosse stato annullato, ritenendosi perciò libero di stato, avesse a contrarre ulteriore matrimonio, non può essere punito per bigamia; in questo caso costui ha in realtà voluto un fatto diverso (secondo matrimonio) da quello effettivamente realizzato (doppio matrimonio); egli non voleva essere bigamo, che poi avesse o meno contezza della norma che punisce quella condizione non rileva.

Appare evidente che il volere essere bigamo è diverso dal trovarsi ad esserlo, per errore, restando solo la prima condizione penalmente rilevante, non la seconda.

Non è la natura dell'errore dunque, se di diritto o di fatto, a definire le conseguenze dello stesso, ma un momento più arretrato: l'intenzione. Colui che cade nell'errore sul divieto vuole esattamente quello che fa, solo che per errore ritiene che non costituisca reato; colui che cade nell'errore sul fatto

"non sa quello che fa" (Fiore), poiché percepisce erroneamente la realtà in qualche suo elemento, normativo o naturalistico, pertanto non viene mosso dal dolo.

Si desume che ove esiste l'errore non può esistere il dolo: non si può avere volontà e rappresentazione di un fatto malamente percepito; non si può voler agire con il dolo di uccidere se ci si crede, per errore, vittima di una cruenta aggressione. In questo caso, difatti, l'agente che si difendesse da un uomo armato, presumendosi pericolosamente aggredito, ma che in realtà era solo oggetto di uno scherzo, sarà caduto in un errore scusabile, pertanto nessun dolo è alla base dell'uccisione del presunto aggressore.

Tutto questo avviene perché l'errore ha determinato uno sviamento nella corretta formazione della volontà (errore-vizio); caso opposto è quello che determina, si pensi all'errore di mira, una causazione del fatto diversa o, addirittura, un fatto totalmente diverso (errore-inabilità).

Inoltre, l'errore deve essere determinante, investire cioè un elemento essenziale del fatto di reato;

non sarebbe tale se rivestisse una circostanza del reato, in nulla modificando il reato che fa da base alla circostanza presa in considerazione.

In questo senso saranno di norma irrilevanti gli errore sulla qualità dell'oggetto o del soggetto: chi vuole uccidere A ma, per errore, uccide B, ha comunque soppresso il bene "uomo" vivo, qualità giuridica tutelata dall'art. 575 c.p. con ventuno anni di reclusione. In particolare l'art. 60 c.p.

disciplina nel modo testé detto l'errore di persona (error in persona); lo stesso discorso si ritiene debba valere per l'errore sul nesso causale, "almeno finché la divergenza tra decorso causale prefigurato e decorso causale effettivo non sia tale, da far escludere che l'evento costituisca pur sempre realizzazione dello specifico rischio insito nell'iniziale azione del soggetto" (Fiandaca- Musco).

Caso peculiare è quello dell'errore sull’età (error aetatis), che previsto dall'art. 609 sexies c.p., prevede che i reati in materia sessuale non costituiscono scusa se il fatto ricade su un minore degli anni quattordici; la norma è frutto di un bilanciamento a tutto vantaggio del minore, soggetto tutelato dalla norma, in maniera, secondo parte rilevante della dottrina, aprioristica; in questo caso no si elide il dolo (Gallo), per invincibile presunzione di legge.

Dunque, la differenza rilevante non è tra errore di diritto e errore di fatto, ma quella che intercorre tra l'errore "sul fatto" e quello "sul divieto" (o "sul precetto"). Soltanto il primo scusa, perché all'agente sarà mancata la piena conoscenza e/o percezione della realtà, di tutta la realtà, sia essa giuridica o metagiuridica. L'errore sul precetto, invece, non scusa poiché si scontra contro l'art. 5 c.p., secondo cui ignorantia legis non exusat.

Ad ogni modo un temperamento all'art. 5 è dovuto alla ignoranza incolpevole della legge penale, come ha affermato la Corte Costituzionale con sentenza n. 364/88.

In ultimo, fondamentale è che la falsa rappresentazione concerna "un elemento essenziale di fatto:

cada, cioè, sul fatto costitutivo di illecito penale, considerato nella sua essenza naturalistica"

(Gallo), a prescindere dal fatto che l'agente abbia sbagliato per errore di interpretazione della legge, ignoranza della medesima o abbia erroneamente percepito la realtà.

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3. Errore e colpa impropria

Quanto detto finora spiega, dell'art. 47 c.p., solo il primo periodo, primo comma, il secondo periodo, invece, prevede una importante deroga a quanto sopra esposto: "Nondimeno, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo".

Si evince facilmente che l'errore determinato da colpa non esclude la punibilità se realizza comunque un reato diverso. In pratica se l'errore è dovuto a colpa (prima condizione) e se il delitto è punito anche colposamente (seconda condizione) il fatto è sanzionato penalmente, ma quale reato colposo; anche in questo caso, come avviene per gli artt. 55 e 59 (comma 4), si parla di eccesso colposo o di 'colpa impropria'. L'espressione, ambigua, ma sempre corteggiata in dottrina e giurisprudenza, sta ad indicare un fatto doloso, punito tuttavia come colposo.

Se la colpa è l'"esatto simmetrico negativo del dolo", nei due significati di:

1) reciproca esclusione e 2) presenza del binomio intenzione-rappresentazione dell'evento nel dolo e assenza dello stesso nella colpa, la colpa impropria è - in realtà - colpa semplice, tipica; essa rispecchia l'art. 43 c.p., ove la colpa è definita come violazione di una norma cautelare;quanto detto è tanto vero che la c.d.colpa con previsione, in cui l'evento cioè - seppur non voluto - è previsto dall'agente quale conseguenza della sua condotta, ma nell'erronea e colposa convinzione che esso non abbia a realizzarsi.

In questo senso, al contrario, si dovrebbe trattare di colpa in senso 'proprio', in nulla diversa da quella comunemente fissata in dottrina e giurisprudenza.

Se ne deduce che la colpa e il dolo vanno studiati, in primo luogo, attraverso l'art. 43 c.p., che entrambi li definisce, ma illuminati dagli artt. 47, 55, 59. Si ottiene così un composto sistematico completo: "la colpa è configurabile sia quando l'evento non è voluto (art. 47/1), sia quando è voluto, ma l'agente non si è rappresentato un qualsiasi altro elemento positivo o negativo" (Mantovani), magari per errore (colposo). Del resto la colpa con previsione è una aggravante, disciplinata dal codice (art. 61, c. 1, n. 3).

Il secondo comma dell'art. 47 c.p. prevede: "l'errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso". Con questa disposizione il codice ha stabilito, secondo una interpretazione ora non più del tutto minoritaria, che "quando l'agente realizza la fattispecie oggettiva di un determinato reato" privo di dolo a causa dell'errore, sarà punibile per il reato diverso, "rispetto al quale egli era in dolo", perché l'errore elide solo un elemento

"specializzante" del fatto che si voleva realizzare (Fiore); si elimina, in questo modo, parte del dolo a causa dell'errore che sorregge, de residuo, la medesima fattispecie oggettiva, colorandola differentemente dall'esterno, come per "infusione" da altro reato, per usare una immaginifica metafora.

Il fenomeno della "conversione", del resto, non è sconosciuto ad altre branche all'ordinamento giuridico, si pensi alla conversione dei contratti, inoltre essa è studiata anche nel diritto amministrativo, specie nell'invalidità degli atti (sul punto bene Casetta, Manuale Diritto Amministrativo, 2007, 540).

Il terzo ed ultimo comma dell'art. 47 c.p. è il più problematico; esso dispone che: "l'errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato".

L'interpretazione, di questo comma, che si ritiene dover condividere, è quella secondo cui l'errore che cade su una legge extrapenale, ove provocasse un errore sul fatto di reato, costituirebbe una esenzione della pena. Questo perché chi sbaglia su una legge non penale che è "incorporata", come dice la giurisprudenza, da una norma penale, si trova nella medesima situazione di chi sbaglia a causa di una errata rappresentazione della realtà sensibile.

L'ultimo comma dell'art. 47 costituirebbe, cioè, una deroga all'art. 5 c.p. Tuttavia, parte autorevole della dottrina (Fiandaca-Musco), ritiene che si abbia non deroga ma conferma della regola secondo

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cui l'ignoranza della legge non scusa, perché l'errore è sempre uguale se è errore sul fatto di reato, a prescindere dalla sua natura tipologica.

Dubbi molto forti sussistono, ad ogni modo, sulla definizione di norma extrapenale e sulla compatibilità dell'errore con la non imputabilità.

Riguardo alle norme extrapenali, la giurisprudenza perviene, nella pratica, ad una abrogazione dell'art. 47, comma terzo. Difatti, essa ritiene che ogni norma non penale, ove 'richiamata' da una norma penale, venga da questa "incorporata" divenendo, così, un tutto unico con la prima, divenendo un mixtum penale in ogni senso. Che spazio residua, allora, all'errore su legge extrapenale secondo questa interpretazione? Nessuno!

La dottrina è di diverso avviso: "se il dolo postula la volontà e la conoscenza di tutti gli elementi costitutivi del fatto", l'errore su norma extrapenale che si riveli pregnante del fatto punito "è in grado di determinare una situazione psicologica del tutto equivalente, dal punto di vista effettuale, a quella originata da falsa rappresentazione del dato materiale" (Garofoli).

In altri termini: chi sbaglia su una legge non penale che qualifica il fatto penale è scusato se non vi è colpa.

Discorso a parte meriterebbe l'errore determinato dall'altrui inganno, art. 48 c.p., poiché "del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l'ha determinata a commetterlo", sempre che la condotta ingannatoria si possa assimilare ai raggiri e agli artifici della truffa (Fiandaca-Musco).

Il punto è complesso, e per taluni costituirebbe un caso di autoria mediata, non condivisibele tuttavia.

Naturalmente in questa sede si sono riportati solo gli elementi ritenuti utili per una breve analisi della definizione del dolo.

4. L'art. 59 c.p.

Di seguito si riporta l'art. 59 c.p.: "Le circostanze che attenuano o escludono la pena sono valutate a favore dell'agente anche se da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti.

Le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell'agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa.

Se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze aggravanti o attenuanti, queste non sono valutate contro o a favore di lui.

Se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo".

In primo luogo una annotazione terminologica. L'espressione del codice "circostanze che escludono la pena" è termine equivoco, dommaticamente frivolo; difatti è una espressione che in dottrina si può 'tradurre' con 'esimenti', che si dividono in cause di giustificazione, scriminanti e cause non punibilità in senso stretto, ma in questa sede il punto non rileva.

L'art. 59 è di fondamentale importanza. Con essa il codice rende oggettiva l'applicazione delle cause di esclusione della pena, a prescindere dalla conoscenza che il soggetto attivo ne abbia; è la sola esistenza delle cause di esclusione della pena a legittimarne l'applicazione (Antolisei).

Quanto detto, in realtà, è avvenuto a seguito di una novella legislativa che tra l'altro ha molto ridimensionato la portata dell'art. 60 c.p., sopra citato.

Tuttavia autorevole dottrina, particolarmente Fiore (più ancora Spagnolo), sostiene che alcune esimenti - dato il loro forte collegamento al coefficiente soggettivo - possano essere influenzate dalla loro natura.

Il secondo comma dell'art. 59 disciplina le esimenti putative, ossia il caso di chi reputa esistente una esimente che in realtà non sussiste, a causa di un errore: 1) sul fatto e 2) sul precetto.

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Nel primo caso l'agente pone in essere una condotta ritenendo erroneamente che il fatto integri una esimente; nel secondo caso, invece, per errore inescusabile (salvo la citata sentenza Cost. 364/88) si ritiene che la situazione nella quale si agisce rientri tra quelle scusate dall'ordinamento.

Il terzo comma dell'articolo in esame disciplina l'errore dovuto a colpa sull'esistenza (o meno) dell'esimente, disponendo che l'agente sia punito per lo stesso "delitto", ma solo se è prevista anche la fattispecie colposa.

Ritornando al solito esempio: si supponga che A, ritenendosi per errore aggredito da B, agisca in legittima difesa putativa; se l'errore non è scusabile, perché A ha agito - ad esempio - frettolosamente, quest'ultimo risponderà di omicidio colposo (art. 589 c.p.) e non doloso (art. 575 c.p.).

Un cenno merita l'autorevole dottrina (Santamaria), minoritaria, secondo cui l'errore sulle esimenti non elide il dolo, ma rientra nel profilo della colpevolezza, incidendo sulla coscienza dell'offesa.

Inoltre, nonostante l'articolo parli solo di "delitto" si ritiene doversi comprendere anche le contravvenzioni.

L'art. 59, ora dovrebbe essere chiaro, è il rovescio speculare dell'art. 47, limitatamente alle esimenti in generale.

Riassumendo, le cause di esclusione della punibilità putative sono sempre valutate a vantaggio del reo, con una importante eccezione: "se l'errore, che genera la putatività, è determinato da colpa e il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo, la punibilità non è esclusa" (Crespi- Stella-Zuccalà).

5. Il dolo. Concetti (molto) generali.

L'art. 43 c.p. dispone che il delitto è doloso, o secondo l'intenzione, "quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione".

Dibattuta a lungo, oggi la definizione del dolo è meno problematica. Difatti, mentre in passato si oscillava tra una teoria della intenzione-volontà, come elemento caratterizzante il dolo, ed una teoria della rappresentazione, attualmente si sostiene che il dolo le comprende entrambe; il dolo ha, per sua struttura ontologica una natura mista, fatta di volontà e rappresentazione dell'evento dannoso o pericoloso.

Tralasciando l'annosa aporia vertente su cosa sia l'evento previsto dall'art. 43 c.p., accettiamo aprioristicamente questa definizione: “l'evento del reato è dunque quella situazione finale del fatto, in cui si modificano rispettivamente gli interessi delle due parti, e così prende corpo il vantaggio del reo e il danno dell'offeso” (Carnelutti, Lezioni di diritto penale, 1947, 171). Ma se ciò è vero – e meriterebbe ben altri approfondimenti - oggetto del dolo non è un indefinito “evento”, bensì il fatto tipico per intero, il fatto, cioè, punito dalla singola norma; in altri termini, il dolo è volontà di realizzare il fatto che ci si è rappresentati: il furto, l'omicidio (doloso), la violenza sessuale, la rissa, e così via.

Se il fatto è il vero oggetto del dolo, si specifica che tale fatto quello tipico per intero, non solo nella componete evento; oggetto del dolo, vale a dire cosa investa questa volontà e rappresentazione, non è solo l'effetto della condotta del reato, che può essere una conseguenza tangibile, come la morte nell'omicidio (evento in senso naturale), o una non tangibile, come la lesione dell'onore nella diffamazione (evento in senso astratto).

La radice su cui si innesta il dolo è il fatto, nella sua più piena compiutezza, non l'evento, comunque lo si voglia intendere questo termine 'oscuro'. Difatti delle due l'una: o la definizione del dolo data dal codice è incompleta, se non errata, o l'evento deve intendersi in modo da non scostarsi da un concetto molto lato, che comprenda - in realtà - l'intero fatto reato,

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comprensivo di "tutti gli elementi necessari e sufficienti a fondare la corrispondenza del fatto realizzato alla fattispecie criminosa" (Crespi-Stella-Zuccalà).

6. Conclusioni

Tirando le somme del ragionamento fin qui fatto, possiamo dire che:

- l'art. 43 c.p., nel definire il dolo, è incompleto nel momento in cui limita la volontà e la rappresentazione ad un non meglio definito “evento”, che è stato al centro di vivaci dispute;

specie se si consideri il dolo eventuale: quando, cioè, si accetta il rischio che un evento rappresentato, ma non voluto, si perfezioni per realizzare un secondo evento-finalità ultima (realmente prefisso); “in sintesi: ai fini del dolo, ciò che deve “necessariamente” prevedersi, è sempre anche voluto: ciò che è soltanto possibile, deve essere specificamente voluto” (come insegnava il De Marsico, nel 1969);

- l'art. 47 c.p., inoltre, eslude il dolo se c'è stato errore sul fatto costituente reato;

- l'art. 59 c.p., esclude il dolo se c'è stato errore sulle cause di esclusione della punibilità.

Dunque, se è vero che, in modo intuitivo, il dolo “consiste nella volontà o, meglio, nel fine di nuocere” (Carnelutti, Principi del processo penale, 1960, 13), il dolo è anche, nel sistema penale, un isituto complesso fatto da più sottosistemi interpretativi e legislativi, che vi ruotano attorno come silenziosi satelliti. Di modo che, pur dando ragione a chi afferma: “la definizione legale del dolo...

finisce col risolversi in uanserie di allusioni problematiche, pesiamo che una definizione è pur doverosa; inoltre, riteniamo, che la definizione migliore è, come spesso avviene, la più semplice: il dolo è “volontà consapevole di realizzare il fatto tipico” (Fiandaca-Musco, Diritto Penale, PG, 2007, 353), ma solo ove si tengano ben presenti le argomentazioni sopra esposte, che servono solo a dare un limite esterno alla parola “consapevole” (che pesa come un macigno) contenuta nella definizione sopra offerta.

Ne residua che da una definizione molto amplia, per approssimazioni successive (non è dolo se ricorre l'art. 47, 55, 59), si ottiene la quintessenza del “vero” dolo, filtrato più volte da altri istituti ad esso vicinissimi fin, forse, a snaturla un po', ma non eccessivamente!

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