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Salvatore Savoia. L asino di Cavour

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Academic year: 2022

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Salvatore Savoia

L’asino di Cavour

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Torino, lunedì 12 luglio 1943

Lo sbarco a Torino della Banca dell’Isola nel nuovo pa- lazzo di via Alfieri era avvenuto un po’ alla chetichella qualche mese prima. Nessuna inaugurazione, nessuna ce- rimonia grandiosa, un po’ come i matrimoni di guerra, che si risolvevano con due pastarelle ed uno spumante in tutta fretta. Una storia che il vecchio cavaliere Boero, nel bar sotto la banca, raccontava sempre a tutti, insieme a quella delle sventure del padre che aveva perduto un sac- co di denari in un affare andato a male col defunto Ban- co di Sconto e Sete e poi con la Banca Tiberina, proprio nello stesso palazzo. Boero si era ridotto così a gestire un piccolo caffè all’angolo, lui che aveva avuto le sue belle ter- re nelle Langhe. Il caffè comunque andava benino, anche in quei tempi in cui caffè vero non ce n’era, e gli impiega- ti della zona risparmiavano pure sul numero di croissant mattutini. Bastava però che un cliente si prendesse il suo caffè seduto al bel tavolino d’alluminio che il cavaliere par- tiva con quella storia un po’ confusa di banchieri imbro- glioni romani o con l’altra dell’incendio del palazzo La-

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scaris, per poi concludere col mistero dei gioielli rubati al- la contessa che lo abitava. Anzi, visto che faceva confusio- ne fra le storie, alla fine non trovava di meglio che rim- piangere la sua Turin finita proprio male.

«Lei non lo sa, fieul, che non è passato nemmeno un an- no da quando hanno scolpito in fretta e furia quelle insegne lì, guardi bene, quelle al primo piano della Banca dell’Isola, proprio sulla facciata della vecchia Banca Tiberina? Pensi che quelli di Roma ci avevano sperato, anche nell’88 o nell’89, di entrare nel salotto buono delle banche italiane, aprendo una sede nel cuore della nostra vecchia capitale del Regno, che già non è che avesse apprezzato quella retrocessione di rango». Se l’interlocutore aveva tempo da perdere o si incuriosiva, il racconto del cavaliere Boero continuava: «Non è che però gli fosse andata troppo bene a quei romani intrallazzatori che avevano avuto la faccia tosta di sfoggiare proprio qui a Tori- no il nome di quel loro fiumiciattolo giallo, e proprio a due passi dal fiume Po. Ma a questo gli uomini delle banche e delle sete – poi le spiego, se vuole, questo curioso nome – quel- li che da sempre facevano il buono ed il cattivo tempo a To- rino non sembravano farci caso. Da ottant’anni comunque, grazie a Dio, non c’è scolaro italiano che non sappia a me- moria che il fiume più grande d’Italia si trova a Torino, mi- ca a Roma».

La Banca dell’Isola provava comunque a farcela lo stes- so, anche in quei tempi di magra. Di suo non è che aves- se grandi credenziali: aveva smesso di battere moneta da un bel po’, e se i soldi non le mancavano era solo perché i me- ridionali – ma questo lo dicevano solo i tipi come il cava- liere Boero – “non hanno mica il bernoccolo degli impren-

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ditori come noi: loro magari risparmiano tutta la vita, han- no depositi enormi che non fanno arricchire nessuno oltre lo- ro. Sono come quelle contadine che hanno risparmiato lira su lira per quarant’anni, passano la vecchiaia nella miseria e la notte non fanno che contare e ricontare i loro soldi. E maga- ri alla loro morte, si trovano i milioni dentro il loro mate- rasso”.

Naturalmente, che queste affermazioni fossero un po’

abborracciate tutti lo sapevano bene. Ma era comodo e rassicurante che i luoghi comuni fossero rispettati. Era poi tempo di guerra, ed erano ben altre le cose di cui lamen- tarsi. Figuriamoci poi perder tempo nelle inaugurazioni delle banche dei terroni. E così la cerimonia dell’inaugu- razione della Banca dell’Isola vide la presenza solo delle autorità locali, il Prefetto Borri, il Podestà Bonino, oltre al direttore generale, che si sarebbe trovato a maledire quel- la sua presenza proprio a Torino, in piena zona di guerra, per poi finire bloccato, come gli era successo, per mesi “tra quegli impervi monti a mangiar polenta”, come scrisse alla famiglia, proprio nei giorni in cui il paese si spaccò.

Oltre ai disagi con quelle maledette tessere, ai raziona- menti ed al coprifuoco, sin dal giugno del 40, Torino si era trovata sulla testa gli aerei della RAF già pochi giorni dopo la dichiarazione di guerra. E per un po’ gli appelli del Duce e delle autorità locali che invitavano alla sopporta- zione stoica ed eroica avevano funzionato. Dopo tre anni, molte di quelle certezze si erano dissolte e nemmeno i no- mi grossi del regime avevano troppa voglia di insistere con le adunate, e lo stesso Re non se la sentiva di sfilare più in piazza Vittorio davanti ai suoi amati Granatieri.

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Il clima di agitazione ed i segni di una irrefrenabile in- sofferenza poi erano vistosi. In fabbrica, non solo in Fiat, ma alla Ceat, alla SNIA ed un po’ dovunque gli operai era- no tesi. A febbraio c’erano state delle vere sommosse, fo- mentate, lo dicevano i giornali – ma proprio quando non potevano negare che di disordini si trattava – da sovversi- vi e disfattisti d’oltralpe. E persino le autorità fasciste, che prima pensavano di poter imporre l’ordine solo con la pro- pria presenza negli stabilimenti, non si facevano vedere troppo, e talvolta se ne ritornavano mestamente sui propri passi.

A demolire ogni speranza per la Banca dell’Isola ci si era- no messi poi gli angloamericani, che il 9 luglio erano sbar- cati in Sicilia, cosicchè il personale della banca stessa non sapeva se sentirsi pure lui occupato, o liberato, e sentiva che in ogni caso tutta quella gran macchina messa in moto per fare figura a Torino era stata inutile se non dannosa.

La sera del 12 luglio, con un caldo che in altri tempi avrebbe invitato i torinesi alle più soavi passeggiate tra le zanzare lungo il Po, non si vedevano in giro che sparuti gruppi familiari rassegnati e frettolosi, vista la proibizione di far luce nei parchi e la limitazione negli orari dei tram. Stra- ne cose invece si agitavano dalle parti della vecchia Isola di Santa Francesca, vicino alla Casa dei Padri della Missione, nello stesso isolato dove, un po’ malandato ma ancora pos- sente, si trovava il vecchio Palazzo Lascaris; tutte gli edifici della zona riconoscevano a quella casa, che era stata pure dei Cavour, il rango di massima gloria del quartiere, e come ta- le la riverivano. Visto il buio, il caldo ed il panico da bom- be, laggiù il deserto era comunque assoluto.

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Ma nel cortile che divideva l’imponente e sgangherato Lascaris con il neobattezzato Palazzo della Banca dell’Isola (per tutti ancora la sede del Banco “Sconto e Sete” o, per chi ne sapeva un po’, della Banca Tiberina) dietro l’elegan- te e presuntuoso cancello di ferro che separava le due co- struzioni, ancora coperto dai resti del nuovo cantiere messo su dai siciliani c’era un pozzo che mostrava tracce di guizzi rococo. Lo aveva voluto una contessa piemontese che per qualche anno aveva abitato nel primo novecento a casa La- scaris e si era messa in testa di farne una residenza leziosa, co- sa non particolarmente frequente a Torino. Una veranda, un semidiruto pozzo romantico da duetto d’opera, ricoperto da ferri battuti sormontati da una corona comitale, e soprat- tutto un vaghissimo accenno di decori da Trianon, pensati nel primo decennio del novecento, quando quel pianeta li- berty che la nobildonna adorava andava decomponendosi.

Prima sotto i cannoni della guerra e poi sotto i labari neri.

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Da cinque giorni e sei notti quattro uomini vivevano negli umidissimi infernotti1che da secoli si trovavano sot- to quel pozzo, all’inizio occupandosi soprattutto di co- struire una solida calotta che li proteggesse dai rischi di in-

1A Torino, vengono chiamati “Infernotti” gli antichi scantina- ti delle vecchie case, che un tempo costituivano una rete di inin- terrotti camminamenti diffusi lungo tutto il centro, ed erano talmente lunghi e profondi da raggiungere l’esterno della città murata. La leggenda, forse più della Storia li ha resi luoghi di malavita o nascondigli di rivoluzionari.

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