6 Maggio 2015
Fisco Inferno
Imprese e professionisti: l’oggetto dell’accertamento analitico-contabile
Con oggi diamo il via ad una nuova serie di approfondimenti della rubrica Fisco Inferno. In questo e nei prossimi articoli avremo modo di esaminare la disciplina, di particolare interesse, degli accertamenti dei redditi che colpiscono imprenditori e professionisti. Il nostro viaggio si districherà attraverso i tre colossi di questo tema:
prenderà le mosse dal cosiddetto accertamento analitico-contabile, attraverserà le problematiche dell’accertamento induttivo extracontabile, per poi terminare con gli studi di settore e le loro più rilevanti questioni sostanziali e procedimentali.
di Alberto Marcheselli - Professore di Diritto Finanziario nella Università di Genova - Avvocato
Cerchiamo innanzitutto di chiarire le basi dell’accertamento analitico-contabile: attraverso l’individuazione dell’oggetto, arriveremo a delineare quali sono le sue principali caratteristiche.
L’art. 39 del D.P.R. n. 600/1973 prevede le modalità della rettifica dei redditi di impresa delle persone fisiche, applicabili, in forza dell’ultimo comma della disposizione, anche ai redditi delle imprese minori e a quelli derivanti dall’esercizio di arti e professioni, con riferimento alle scritture contabili per esse previste e, in forza dell’art. 40, anche al reddito complessivo imponibile dei soggetti IRES, nonché, in forza del comma 2 dello stesso articolo, alla rettifica delle dichiarazioni delle società in nome collettivo, in accomandita semplice ed equiparate.
La disposizione ha prevalenti contenuti descrittivi: ad esempio laddove prevede che la rettifica è possibile se i dati della dichiarazione non corrispondono a quelli del bilancio, del conto dei profitti e perdite, ovvero se non sono state
esattamente applicate le disposizioni che disciplinano l’imposta.
Ugualmente poco significativa, perché ovvia, è la disposizione che prevede che l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza della dichiarazione possono risultare dai verbali e dai questionari di cui ai numeri 2) e 4) del comma 1 dell’art. 32, dagli atti, documenti e registri esibiti o trasmessi ai sensi del numero 3) dello stesso comma, dalle dichiarazioni di altri soggetti previste negli articoli 6 e 7, dai verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti o da altri atti e documenti in possesso dell’Ufficio.
Si può solo notare che questa parte della disciplina è limitata all’ipotesi in cui da tali atti la prova dell’evasione risulti in modo certo e diretto. Tale specificazione non va tuttavia enfatizzata: essa non comporta che le presunzioni semplici non siano utilizzabili, ma solo che la relativa disciplina è rinviata a poco oltre.
La disposizione prosegue affermando che l’infedeltà o incompletezza della dichiarazione può risultare dall’ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche di cui all’art. 33, ovvero dal controllo delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti e documenti relativi all’impresa nonché dei dati e delle notizie raccolti dall’Ufficio nei modi previsti dall’art. 32.
In buona sostanza, fino qui, possiamo dire che si tratta di una rettifica fondata o sulla difformità della dichiarazione dalla legge (ad esempio, si deducono accantonamenti non previsti dal TUIR), o su discrasie della dichiarazione rispetto alla contabilità (un ricavo contabilizzato non è confluito nella determinazione del reddito), ovvero a documenti relativi all’impresa (una fattura attiva non è stata contabilizzata e non è affluita nella determinazione del reddito), ovvero ad altri dati risultati dall’istruttoria (nell’accesso si è reperita la copia di un contratto di vendita di merci con indicazione dei corrispettivi, ovvero si sono acquisite prove di versamenti di ricavi sui conti correnti, con indicazione della causale
imprenditoriale, ecc. ma nella dichiarazione non vi è traccia dei relativi ricavi).
La disciplina del comma 1 si conclude con la clausola (art. 39, comma 1, lettera d) secondo cui sono applicabili presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti.
Notiamo quindi che viene delineato un accertamento che ha le seguenti caratteristiche:
a) non si prescinde dalla contabilità, che esiste e non viene considerata inattendibile nel suo complesso;
b) vengono individuate singole attività non dichiarate o singoli costi fittizi, non globalmente il reddito di impresa (o il complesso dei ricavi).
Per il secondo aspetto è corretta la denominazione di accertamento analitico, per il primo di accertamento contabile. Ed ecco la ragione per la quale tale metodo di accertamento viene usualmente definito accertamento analitico-contabile.
Quando esso utilizzi, come di norma, presunzioni semplici, appare corretta la denominazione di accertamento analitico contabile induttivo (o presuntivo).
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Dopo la sentenza della Corte Costituzionale
Blocco rivalutazione delle pensioni: verso un decreto ponte
Sarà probabilmente coperta con un decreto legge “ponte” la falla nei conti pubblici aperta dalla sentenza n. 70 del 2015 della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittima la mancata rivalutazione delle pensioni superiori a 1.405 euro mensili lordi per il 2012 e ad euro 1.441,50 per il 2013. Il decreto dovrebbe dare attuazione parziale e rateale alla sentenza, in attesa della prossima legge di Stabilità. Con la sentenza n. 70 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma della Manovra Monti che aveva bloccato, per il biennio 2012/2013, l’indicizzazione delle pensioni superiori a tre volte la minima INPS.
di Riccardo Pallotta - Esperto di Previdenza Professionale, Organizzazione e Funzionamento della Pubblica Amministrazione
L’articolo 24, comma 25, del D.L. n. 201/11, aveva disposto – per gli anni 2012 e 2013 – il blocco della rivalutazione automatica delle pensioni, per i trattamenti superiori a tre volte la pensione minima INPS (ossia, € 1.405,05 mensili lordi per il 2012 ed € 1.441,50 per il 2013).
Rinviando ai molteplici articoli già apparsi sul Quotidiano in merito ai tagli contenuti nelle manovre del 2010/2011 ed alle sentenze della Corte Costituzionale che se ne sono occupate, la questione decisa dalla Corte trae spunto da alcuni giudizi – promossi tanto da pensionati delle gestioni dei dipendenti privati avanti al Giudice Ordinario che da pensionati ex dipendenti pubblici avanti a diverse Sezioni Giurisdizionali Regionali della Corte dei conti, quale Giudice unico delle pensioni – per la declaratoria del proprio diritto a fruire della perequazione automatica di cui alla citata L. 448/98 e la condanna dell’Istituto pensionistico alla liquidazione delle relative somme (si veda, al riguardo, l’articolo apparso il 12/9/14).
La sentenza n. 70/2015
Senza entrare nel dettaglio delle argomentazioni portate avanti dai singoli Giudicanti, la Corte con la sentenza n. 70 del 2015, dopo aver valutato l’inammissibilità di una delle censure, operata con riferimento alle disposizioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha enucleato e vagliato le seguenti censure di incostituzionalità:
Eccezioni di violazione degli artt. 2, 3, 23 e 54 della Costituzione
Tutte le Ordinanze di remissione censuravano la norma ritenendo che il blocco della perequazione “configurerebbe una prestazione di natura tributaria, lesiva del principio di universalità dell’imposizione a parità di capacità contributiva, in quanto posta a carico di una sola categoria di contribuenti.
Al riguardo, la Corte ha ritenuto infondata tale eccezione, in quanto il blocco de qua “ …non da luogo ad una prestazione patrimoniale imposta, realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, destinato a reperire risorse per l’erario. Ciò in quanto – secondo la propria giurisprudenza - un tributo consiste in un prelievo coattivo che, nel caso di
specie, non si configura(va) perché il blocco della perequazione non comporta una decurtazione o un prelievo a carico di un pensionato e, inoltre, nella norma censurata viene altresì a mancare “il requisito che consente l’acquisizione delle risorse al bilancio dello Stato, poiché la disposizione non fornisce, neppure in via indiretta, una copertura a pubbliche spese, ma determina esclusivamente un risparmio di spesa”.
Questa ricostruzione – sia detto con il massimo rispetto per i Giudici – appare venata da una certa dose di manicheismo, dal momento che, da un lato, ed in concreto, la temporanea mancata erogazione di maggiori somme prevista da leggi che rimangono in vigore e riprendono a produrre effetti all’esito del blocco è, di fatto ed in concreto, un “prelievo indiretto”: circostanza, questa, provata ex post dai conteggi relativi all’ammontare delle somme che dovranno essere tratte dal bilancio dello Stato per erogare le somme dovute a titolo di perequazione in conseguenza della sentenza.
D’altro lato, è altrettanto evidente come il “risparmio di spesa” rappresenti, anch’esso, una forma di finanziamento indiretto del bilancio dello Stato (non foss’altro che in considerazione del fatto che la riduzione del rapporto deficit/PIL comporta la riduzione della spesa per interessi).
Eccezioni di violazione degli artt. 3, 36.1 e 38 della Costituzione
Secondo i Giudici della remissione (in particolare la Corte dei Conti) “…il … necessario rispetto dei principi di
sufficienza e di adeguatezza delle pensioni impone al legislatore, pur nell’esercizio del suo potere discrezionale …, di individuare un meccanismo in grado di assicurare un reale ed effettivo adeguamento dei trattamenti … alle variazioni del costo della vita” (sent. n. 30/2004 C. Cost).
Ciò posto, il Legislatore stesso è più volte intervenuto su tale meccanismo, anche sospendendone temporaneamente l’operatività, in relazione a delle soglie di importo via via diversamente individuate nel tempo.
E, tuttavia, la giurisprudenza costituzionale ha affermato che tale potere trova un limite nella necessità che esso non si traduca “in un regolamento irragionevole, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate su leggi precedenti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica”. Tale ragionevolezza, afferma la Corte, dovrà essere valutata in un
“altrettanto ragionevole” contemperamento degli interessi – tutti di rango costituzionale – legati al rispetto del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. al fine di evitare che “una generalizzata esigenza di contenimento della finanza pubblica possa risultare, sempre e comunque, e quasi pregiudizievolmente, legittimata a determinare la compromissione di diritti maturati o la lesione di consolidate sfere di interessi” (sent. 92/2013).
Così come i sacrifici eventualmente imposti devono essere “eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo” (sent. 299/1999).
A tale riguardo – e proprio con riferimento alla sentenza costituzionale 316/10 portata dall’INPS a sostegno della legittimità della norma censurata in sede di giudizio di costituzionalità – la Corte dei conti rilevava come il blocco della perequazione, ritenuto legittimo da tale sentenza:
a) era disposto per un solo anno;
b) colpiva pensioni di importo molto più elevato (quelle maggiori ad 8 volte la pensione minima) che, con ogni evidenza potevano “resistere”, per un solo anno, all’erosione del loro valore conseguente al blocco della loro indicizzazione al costo della vita.
Senza contare che la medesima sentenza affermava che “la frequente reiterazione di misure intese a penalizzare il meccanismo perequativo esporrebbe il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità”.
Quindi, l’Ordinanza riteneva che nella norma censurata non si ravvisano i presupposti di compatibilità costituzionale: 1) poiché si tratta della reiterazione di un intervento già disposto pochi anni prima e per una durata maggiore; 2) perché la soglia del blocco (sole tre volte l’importo della pensione minima) rende il trattamento più “sensibile” all’erosione del potere d’acquisto, rispetto al limite reputato “legittimo” dalla sentenza del 2010.
Inoltre – sempre in punto di ragionevolezza – la Corte dei conti affermava che la decurtazione economica non è
transitoria in quanto, per definizione, la perdita di valore causata dal blocco della perequazione è irreversibile e si cumula con gli effetti dei precedenti blocchi, con un effetto di amplificazione del sacrificio economico imposto.
La pronuncia di illegittimità
La sentenza in commento ha ritenuto fondate le sole censure da ultimo esposte, esplicitando anche una “bacchettata” al Legislatore, reo di non aver “ascoltato il monito” indirizzatogli “con la sentenza n. 316 del 2010.
Nel dettaglio, all’esito di un excursus tanto della normativa in materia di perequazione sia in materia di modifica e sospensione della perequazione stessa, la Corte ha rammentato come il blocco del 2008 aveva superato il vaglio di costituzionalità in quanto riferito ad un solo anno e ad importi di pensione più elevati (8 volte la pensione minima) e per i quali – in un’ottica di contemperamento tra interessi costituzionalmente garantiti (proporzionalità e adeguatezza delle pensioni ed esigenze di sostenibilità del bilancio) – era ragionevole rilevare una maggiore “resistenza” all’erosione economica rappresentata, per un solo anno, dall’aumento del costo della vita.
Inoltre, la Corte rammenta come nella sentenza 316/2000 fosse stato espressamente affermato che “… la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo [il meccanismo perequativo N.d.R.] entrerebbe in collisione con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità…. le pensioni, sia pur di maggior consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta”. Appare quindi evidente come il monito a suo tempo avanzato nel valutare il blocco annuale della perequazione di pensioni superiori a circa 4.000 euro sia stato clamorosamente disatteso dalla norma censurata che – a soli 3 anni di distanza, reitera la sospensione della perequazione per ulteriori due anni e, per giunta, lo applica a pensioni di importo nettamente inferiore (pari ad €1.217,00 mensili).
In sostanza la Corte – rifacendosi alla propria giurisprudenza – ha nuovamente chiarito come il Legislatore sia chiamato,
“sulla base di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali” a dettare la disciplina di un trattamento pensionisitico adeguato che faccia salve le esigenze minime di protezione della persona e come – quindi – il criterio della
ragionevolezza rappresenti un vincolo che circoscrive la discrezionalità del Legislatore stesso in relazione ai principi dettati dagli artt. 36 e 38 della Costituzione.
In conclusione, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, la Corte ha rilevato come “L’interesse dei pensionati, in particolare di quelli titolari di trattamenti … modesti, è teso alla conservazione del potere d’acquisto … da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio.
Risultano, dunque, intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzional: la proporzionalità del trattamento di quiescenza… quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l’adeguatezza (art. 38 Cost.). Quest’ultimo è da intendersi quale espressione … del principio di solidarietà … e al contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale.
Conclusioni
Come accennato in premessa e, peraltro, indicato con inusitata chiarezza dai Giudici, la sentenza appena illustrata era ampiamente annunciata, alla luce della palese difformità della norma censurata rispetto ai principi costituzionali ed alla giurisprudenza precedente e successiva della Corte Costituzionale
Va, quindi, evidenziato negativamente l’approccio del Governo dell’epoca che – nonostante la palese illegittimità di tale prelievo – ha pervicacemente “voluto” tale disposizione con ciò – per certi versi – violando il principio di leale
collaborazione tra Organi dello Stato e depositando – anche in sede comunitaria – dati contabili e di bilancio dei quali era quantomeno dubbia (per usare un eufemismo) la veridicità. Resta ora da vedere:
a) le reazioni UE alla evidente modifica retroattiva dei parametri di bilancio per gli anni 2012 e 2013;
b) quali saranno le misure che il Governo intende adottare al riguardo, dal momento che – dai primi commenti – sembrerebbe che l’intenzione non sia quella del pedissequo ed integrale ricalcalo dei trattamenti (che comporterebbe oneri superiori ai 10 miliardi di euro), ma vi sia l’intenzione di intervenire attraverso una rimodulazione del blocco che tenga conto (per quanto possibile) dei rilievi della Corte: vuoi riducendolo ad un solo anno, vuoi rimodulandolo con criteri di maggiore progressività in relazione agli importi di pensione. E, comunque, diluendo nel tempo la restituzione.
Certo, quale che sarà la scelta, essa non potrà non avere impatto sui conti pubblici, non foss’altro perché il “costo”
dell’esecuzione della sentenza costituzionale azzera il c.d. “tesoretto” a suo tempo indicato nel DEF, può comportare la revisione dei conti pubblici per gli anni pregressi con conseguente esaurimento della “flessibilità” contrattata in ambito UE e rende molto più concreto il rischio che scatti l’aumento delle aliquote IVA attualmente previsto per il caso di mancato
raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica.
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Regime forfetario per i contribuenti di minori dimensioni
L’uscita dall'IVA analitica "salva" la neutralità del tributo
L’effettiva attuazione del principio di neutralità si determina attraverso l’esercizio del diritto alla detrazione spettante, in quanto il contribuente, prima di entrare nel nuovo regime forfetario, ha liquidato l’IVA analiticamente, cioè con l’applicazione dei criteri ordinari. Se l’IVA assolta sugli acquisti si è rivelata eccedente rispetto al tributo addebitato ai propri clienti, dovrebbe trovare applicazione il “riporto a nuovo” del credito nel successivo periodo di liquidazione. Tuttavia, il contribuente che applichi, a partire dall’esercizio successivo, il regime forfetario, non avrebbe materialmente la possibilità di recuperare l’eccedenza di IVA non essendo in grado di esercitare la rivalsa del tributo. Per tale ragione, il legislatore ha disciplinato espressamente le modalità di recupero del credito, che può essere utilizzato in compensazione ovvero chiesto a rimborso.
di Nicola Forte - Dottore commercialista in Roma
Nel corso degli ultimi anni si sono succeduti una serie di interventi normativi tendenti a salvaguardare il principio di neutralità dell’imposta sul valore aggiunto. Nello stesso senso si è indirizzata anche la legge di Stabilità del 2015 (legge n. 190/2014), che ha introdotto un nuovo regime forfetario in sostituzione, sia pure graduale, del regime dei minimi.
In base al principio di neutralità gli esercenti imprese e arti e professioni non devono, in linea di principio, rimanere incisi dall’IVA che risulterà indetraibile esclusivamente per il “consumatore finale”. In buona sostanza, per tutti i soggetti che si pongono all’interno del circuito commerciale, dal produttore fino alle attività di commercio al minuto, l’imposta sul valore aggiunto deve essere neutra, vale a dire non deve costituire un costo dell’esercizio.
L’imposta sul valore aggiunto è un tributo neutrale per la maggior parte dei soggetti passivi ai fini IVA a seguito
dell’esercizio del diritto di detrazione di cui all’art. 19, D.P.R. n. 633/1972. A seguito della neutralità, come già anticipato, tutti i soggetti passivi che intervengono nelle diverse fasi della produzione o distribuzione dei beni e dei servizi possono beneficiare del diritto alla detrazione. Il pagamento del tributo ai propri fornitori costituisce esclusivamente un
“movimento di tipo finanziario”, ma i predetti soggetti possono “recuperare” l’IVA assolta considerandola in diminuzione dell’IVA addebitata a titolo di rivalsa nei confronti di propri cessionari o committenti (art. 18, D.P.R. n.
633/1972).
La “forza” del principio di neutralità quale presupposto essenziale dell’IVA, è stata ribadita in diverse occasioni dalla giurisprudenza comunitaria. Secondo l’orientamento della Corte di Giustizia, il principio di neutralità fiscale esige che, in assenza di frodi o pratiche palesemente elusive, il diritto di detrazione del tributo assolto sugli acquisti sia in ogni caso riconosciuto qualora gli obblighi sostanziali siano soddisfatti anche se taluni obblighi formali sono stati omessi (Corte di Giustizia UE, sentenza 8 maggio 2008, cause riunite C-95/07 e C-96/07).
Il legislatore nazionale ha tenuto presente l’esigenza di rispettare tale principio comunitario. Ha così previsto una specifica disciplina dettata per ciò che riguarda la fase transitoria di passaggio dei contribuenti da un regime IVA analitico al nuovo regime forfetario caratterizzato dal mancato esercizio della rivalsa.
La disposizione di riferimento è rappresentata dall’art. 1, comma 63 della legge n. 190/2014 (legge di Stabilità del 2015).
La norma citata prevede che:
“l’eccedenza detraibile emergente dalla dichiarazione presentata dai contribuenti che applicano il regime forfetario, relativa all’ultimo anno in cui l’imposta sul valore aggiunto è applicata nei modi ordinari, può essere chiesta a rimborso ovvero può essere utilizzata in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, e successive modificazioni”.
Come già anticipato l’effettiva attuazione del principio di neutralità si determina attraverso l’esercizio del diritto alla detrazione spettante in quanto il contribuente, prima di entrare nel nuovo regime forfetario, ha liquidato l’imposta sul valore aggiunto analiticamente, cioè con l’applicazione dei criteri ordinari. Se l’IVA assolta sugli acquisti si è rivelata eccedente rispetto al tributo addebitato ai propri clienti, dovrebbe trovare applicazione il “riporto a nuovo” del credito nel successivo periodo di liquidazione. Tuttavia, qualora il contribuente applichi, a partire dall’esercizio successivo, il regime forfetario, non avrebbe materialmente la possibilità di recuperare l’eccedenza di IVA non essendo in grado di esercitare la rivalsa del tributo (l’esercizio della rivalsa è vietato).
Per tale ragione, al fine di impedire che l’IVA assolta in “eccesso” sugli acquisti effettuati si trasformi in un costo (in violazione del principio di neutralità), il legislatore ha disciplinato espressamente le modalità di recupero del credito.
Il credito IVA, evidenziato nell’ultima dichiarazione annuale precedente all’entrata nel regime forfetario, può essere utilizzato in compensazione anche con altri tributi ai sensi dell’art. 17, D.Lgs. n. 241/1997. In tale ipotesi valgono le ordinarie limitazioni stabilite per effettuare le compensazioni. Pertanto, qualora l’eccedenza che il contribuente intende utilizzare dovesse essere superiore a 15.000 euro sarà richiesta l’apposizione del visto di conformità sulla
dichiarazione IVA.
In alternativa il contribuente, in luogo della compensazione, potrà chiedere il rimborso dell’eccedenza.
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Per lo sviluppo imprenditoriale
Agevolazioni per i contratti di sviluppo: domande dal 10 giugno
Il Ministero dello Sviluppo ha fissato alle ore 12.00 del 10 giugno 2015 il termine iniziale per la presentazione, da parte delle imprese interessate, delle istanze di accesso alle agevolazioni per i contratti di sviluppo. La dotazione finanziaria iniziale è prevista in 250 milioni di euro dal Fondo Sviluppo e Coesione 2014-2020, ripartiti all’80% al Mezzogiorno e al 20% alle regioni del Centro-Nord.
Con decreto direttoriale 29 aprile 2015 il Ministero dello Sviluppo ha fissato alle ore 12.00 del 10 giugno 2015 il termine iniziale per la presentazione, da parte delle imprese interessate, delle istanze di accesso alle agevolazioni a valere sui contratti di sviluppo.
I programmi di sviluppo possono essere realizzati da una o più imprese, italiane o estere, anche mediante il ricorso al contratto di rete.
Agevolazioni per i contratti di sviluppo
Il decreto del Mise del 9 dicembre 2014 ha introdotto semplificazioni procedurali a vantaggio delle imprese beneficiarie e consente la presentazione di programmi di sviluppo nei settori industriale.
I settori interessati comprendono quelli della trasformazione e commercializzazione di prodotti agricoli, della tutela ambientale e del turismo.
Nel settore turistico possono essere agevolate anche attività commerciali, per un importo non superiore al 20% del complessivo programma di sviluppo.
Possibile finanziare progetti di ricerca, sviluppo ed innovazione purché strettamente connessi e funzionali al programma di sviluppo.
Investimenti finanziabili
L’investimento minimo previsto per l’accesso è di 20 milioni di euro, 7,5 milioni di euro per i programmi che riguardano esclusivamente il settore della trasformazione e commercializzazione di prodotti agricoli.
Entità delle agevolazioni
Le agevolazioni sono concesse sotto forma di finanziamento agevolato, contributo in conto interessi, contributo in conto impianti e contributo alla spesa.
Dotazione finanziaria
La dotazione finanziaria iniziale dello strumento è di 250 milioni di euro provenienti dal Fondo Sviluppo e Coesione (FSC) 2014-2020 , con un vincolo di ripartizione territoriale dell’80% al Mezzogiorno e del 20% alle regioni del Centro-Nord.
All’iniziale dotazione si potranno aggiungere ulteriori risorse derivanti dalla programmazione comunitaria e nazionale per il periodo 2014-2020.
Presentazione delle domande
Le istanze dovranno essere presentate con le modalità e secondo i modelli, disponibili da oggi, indicati nell’apposita sezione del sito web di Invitalia, soggetto gestore dello strumento agevolativo, o nella sezione del sito web del Ministero dedicata ai Contratti di sviluppo.
A cura della Redazione
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Il decreto attuativo della delega fiscale
Perdite su crediti (ancora) riviste dal decreto Internazionalizzazione
Lo schema di decreto in materia di internazionalizzazione delle imprese si occupa della disciplina fiscale delle perdite su crediti, nonché delle rinunce ai crediti vantati dai soci verso le proprie partecipate. Viene espressamente previsto che la neutralità fiscale delle operazioni di rinuncia opererà soltanto nei limiti del costo fiscale del credito che dovrà essere certificato dal socio attraverso apposita dichiarazione sostitutiva. Nell’ambito delle procedure concorsuali e degli istituti connessi, inoltre, il decreto estende la deducibilità “automatica” ai piani di risanamento, posto che gli accordi di ristrutturazione dei debiti omologati già rientravano tra gli istituti per i quali il TUIR stabilisce la deduzione fiscale “immediata” della perdita contabile. Per i crediti esteri, troverà applicazione lo stesso meccanismo previsto per le procedure concorsuali “interne” ove nello Stato estero di riferimento vi sia una procedura equivalente a quella interna e con il relativo Paese sussista un adeguato scambio di informazioni.
di Emiliano Ribacchi - ACP Studio - Alonzo Committeri & Partners
L’art. 13 dello schema di decreto legislativo in materia di crescita ed internazionalizzazione interviene sulla disciplina delle perdite su crediti sotto diversi profili che interesseranno nell’immediato gli operatori. È infatti previsto, nella bozza di decreto resa disponibile, che le relative disposizioni si applicano a decorrere dal periodo di imposta in corso alla data di entrata in vigore del decreto, ossia dal 2015 per i soggetti aventi l’esercizio sociale coincidente con l’anno solare.
Quanto precede nel presupposto che il decreto venga approvato e pubblicato in via definitiva nel corso del 2015.
Perdite su crediti: le novità applicabili dal 2015
Il decreto interviene e modifica alcune norme del TUIR che disciplinano le perdite su crediti che, in passato, erano già state oggetto di modifica per effetto sia del D.L. n. 83/2012 (c.d. decreto crescita e sviluppo) sia della legge di Stabilità per il 2014.
Si rileva, in primis, come venga modificata (nuovamente) la disciplina sui crediti vantati nei confronti dei soggetti rientranti in procedure concorsuali; i piani di risanamento attestati da un professionista qualificato (ex art. 67, comma 1, lettera d, R.D. n. 267/1942) vengono infatti inseriti tra gli istituti che consentono le deducibilità “immediata” della relativa perdita. La novità in commento stabilisce quindi la deducibilità ex lege per le perdite conseguenti ai piani di risanamento, a partire dalla data di iscrizione del piano nel Registro delle imprese. Erano invece già inclusi in questo contesto gli accordi di ristrutturazione dei debiti omologati (ex art. 182-bis).
È altresì previsto, per effetto delle previsioni del decreto, che in presenza di crediti esteri opera il medesimo
meccanismo ove vi sia nello Stato estero di riferimento una procedura equivalente a quella interna; deve tuttavia trattarsi di un Paese con il quale esista un adeguato scambio di informazioni. La stessa relazione illustrativa del decreto
prende atto che il “mancato riferimento a procedure estere equivalenti, pertanto, avrebbe potuto mettere in dubbio la possibilità per il creditore italiano di dedurre le perdite su crediti derivanti dallo stralcio parziale o totale dei debiti disposto nell’ambito di procedure concorsuali estere”.
Sotto un distinto profilo, il decreto si occupa del periodo di competenza rilevante ai fini della deducibilità della perdita.
Si tratta di un tema da tempo oggetto di attenzione, sia avuto riguardo alla data di rilevazione della perdita sui mini-crediti sia per i crediti esistenti verso le imprese assoggettate a procedure concorsuali ed istituti assimilati. Il decreto in tal senso prevede che la deduzione della perdita è ammessa nel periodo di imputazione contabile in bilancio, anche quando la stessa venga effettuata in un periodo di imposta successivo rispetto a quello in cui sussistono gli “elementi certi e precisi” oppure rispetto a quando il debito rientra nella procedura concorsuale.
In sostanza è espressamente previsto, come già da tempo richiamato in dottrina, che l’apertura della procedura
concorsuale o il decorso del termine semestrale di scadenza del credito di “modesto ammontare” costituisce soltanto un termine iniziale per rilevare la deduzione fiscale senza che vi sia un obbligo di farlo proprio in questo esercizio. Questo criterio, già riconosciuto dall’Amministrazione finanziaria per i crediti di modesta entità, è quindi adottato anche in relazione alle perdite sui crediti correlati alle procedure concorsuali (od agli istituti equiparati).
Viene in ogni caso specificata la preclusione per la deducibilità se l’imputazione avviene in un’annualità successiva a quella in cui si sarebbe dovuto provvedere (o si è provveduto) alla cancellazione del credito in linea con la corretta applicazione dei principi contabili di riferimento. La finalità di tale specifica e previsione è certamente quella di delimitare l’orizzonte temporale della deducibilità. Nello stesso ambito, ma con riferimento specifico alle svalutazioni contabili, è previsto che la mancata deduzione, totale o parziale, come perdite fiscali delle svalutazioni dei crediti nell’esercizio in cui sussistevano i requisiti per la relativa deduzione non costituisce violazione del principio di competenza, sempreché detta deduzione avvenga non oltre il periodo di imposta in cui, nel rispetto della corretta applicazione dei principi contabili, si sarebbe dovuto procedere alla vera e propria cancellazione del credito dal bilancio.
Si segnala, infine, come il decreto intervenga anche sul regime delle rinunce dei crediti dei soci. La norma vigente, nel non prevederne l’imponibilità, non pone alcuna particolare condizione. In futuro, invece, la detassazione opererà soltanto nei limiti del costo fiscale del credito che dovrà essere certificato dal socio attraverso apposita dichiarazione sostitutiva; in mancanza della stessa il relativo costo sarà assunto pari a zero. Ne discende che se il credito (oggetto di rinuncia) è acquisito dal socio ad un prezzo inferiore al valore nominale, la quota che eccede il costo verrà tassata in capo alla società partecipata. La relazione al decreto stabilisce che il nuovo regime non ha natura antielusiva e, di conseguenza, non è suscettibile di disapplicazione.
Rilevato quanto precede, si ricorda che qualora il decreto venga approvato nel corso del 2015, le suindicate novità si applicheranno a decorrere dal periodo di imposta 2015 per i soggetti con esercizio sociale coincidente con l’anno solare.
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Quaderni operativi
Riciclaggio, come evitarlo: lo spiega l’UIF
ll Quaderno pubblicato dall’UIF - Unità di Informazione Finanziaria presso la Banca d’Italia raccoglie su base sistematizzata una selezione di casi di particolare interesse, riscontrati nel corso dell’attività di analisi finanziaria condotta dal 2008, anno di istituzione dell’Unità, ad oggi. La pubblicazione, che descrive fattispecie molto diverse tra loro in termini di complessità e rilevanza economica, si propone di fornire ai destinatari degli obblighi di segnalazione di operazioni sospette uno strumento informativo pratico e di agevole consultazione, suscettibile di aggiornamento nel tempo. Il documento è suddiviso in due parti: una dedicata ai “casi ricorrenti” e una ai casi di più recente emersione.
L’Unità di Informazione Finanziaria presso la Banca d’Italia ha pubblicato il secondo quaderno dedicato all’analisi di una serie di casi in materia di riciclaggio.
ll Quaderno raccoglie su base sistematizzata una selezione di casi di particolare interesse, riscontrati nel corso dell’attività di analisi finanziaria condotta dal 2008, anno di istituzione dell’Unità, ad oggi.
La pubblicazione, che descrive fattispecie molto diverse tra loro in termini di complessità e rilevanza economica, si propone di fornire ai destinatari degli obblighi di segnalazione di operazioni sospette uno strumento informativo pratico e di agevole consultazione, suscettibile di aggiornamento nel tempo.
I casi ricorrenti
Sospetti trasferimenti di contante tra imprenditori
Il conto corrente intestato a un imprenditore edile viene frequentemente accreditato con operazioni di versamento di contante. Presso la medesima filiale si riscontrano, contestualmente, addebiti per prelevamento di contante su conti correnti intestati a due società apparentemente prive di collegamenti soggettivi con il citato imprenditore. Dagli accertamenti è emerso che le operazioni descritte erano volte alla restituzione di anticipi di liquidità effettuati
dall’imprenditore alle due società in stato di difficoltà finanziaria. L’operatività rilevata, posta in essere con l’obiettivo di aggirare le norme che limitano il trasferimento di contante tra privati, può risultare altresì connessa a fattispecie di usura.
Interposizione di veicoli societari esteri per schermare la titolarità effettiva di asset
L’acquisto di quote di fondi gestiti da una Sgr e riservati a investitori qualificati viene effettuato da persone fisiche che si avvalgono dell’interposizione di un veicolo di cartolarizzazione, avente sede in un Paese UE. La società di
cartolarizzazione sembrerebbe pertanto utilizzata come strumento per schermare il titolare effettivo delle stesse quote.
Analoga operatività è posta in essere tramite società assicurativa, avente sede nel medesimo Paese UE, che acquista quote di fondi della stessa Sgr e conferisce le stesse in polizze di tipo unit linked sottoscritte da persona fisica.
Operatività di “compro-oro” connessa ad acquisto di polizze pegno
Una impresa individuale, operante nel settore dei compro-oro, preleva integralmente in contanti le disponibilità presenti sui propri rapporti bancari e le utilizza, oltre che per l’acquisto di gioielli usati ceduti dalla clientela, per riscattare polizze pegno su preziosi intestate a terzi soggetti, con possibili violazioni di norme sanzionate penalmente.
False fatturazioni nel settore dei metalli ferrosi
Intensi flussi finanziari tra imprese operanti nel settore dei metalli ferrosi, caratterizzati da un consistente ricorso al prelevamento di contante, hanno messo in luce un possibile fenomeno di frodi nelle fatturazioni attraverso alcune società verosimilmente qualificabili come “cartiere”.
Rientro di fondi dall’estero mediante prelievi di contante su carte di credito
Una società italiana, dopo aver inviato all’estero ingenti flussi finanziari a fronte di fatture emesse per prestazioni verosimilmente inesistenti, rientra in possesso, in Italia, di parte di tali somme, mediante prelievi di contante effettuati tramite carte di credito estere intestate a soggetti italiani.
Utilizzo di carte prepagate per possibili frodi nelle fatturazioni
Un imprenditore effettua giornalmente diversi prelevamenti di contante attraverso numerose carte prepagate a sé intestate; la provvista deriva da ricariche disposte a valere sul conto di un’impresa a lui riconducibile. Il conto è a sua volta alimentato da bonifici ordinati da alcune società ricorrenti, attive in settori contigui a quello dell’imprenditore.
Frode carosello nel commercio di prodotti informatici
Esponenti di società operanti nel commercio di prodotti informatici, appartenenti al medesimo gruppo familiare, eseguono ingenti versamenti in contante su propri conti personali e su quelli aziendali collegati. Dall’esame dell’operatività complessiva, emerge un possibile schema di frode “carosello”.
I casi emergenti dall’analisi dell’UIF Operatività sospetta di una Onlus
Una Onlus italiana fa confluire i fondi ricevuti a titolo di donazioni e di contributi pubblici nella disponibilità personale dei suoi soci fondatori avvalendosi dello schermo di società operanti nel settore della pubblicità e del marketing.
Uso improprio di trust
Il conto corrente di un trust, costituito con finalità protettive a beneficio del gruppo familiare del disponente, è
alimentato con numerosi bonifici disposti da conti dello stesso disponente e di imprese a quest’ultimo riconducibili. Lo stato di difficoltà finanziaria in cui tali imprese versano induce a ritenere che la predetta operatività sia funzionale a sottrarre fondi ai creditori.
Cessioni di rami d’azienda tra società cooperative con possibili finalità di evasione fiscale
Gli introiti derivanti dalla cessione di rami d’azienda, appartenenti a cooperative operanti nel settore sanitario, sono in parte sottratti a tassazione mediante il ricorso a veicoli societari esteri, appositamente costituiti dall’amministratore delle società cooperative cedenti. Gli utili di tali transazioni finanziarie sono infine destinati al patrimonio personale di quest’ultimo.
Operatività preordinata a possibili finalità corruttive
Sul conto personale di un esponente politico locale si registra l’accredito di fondi provenienti da conti correnti intestati al proprio gruppo politico ed a soggetti aventi relazioni finanziarie e/o professionali con l’ente locale di appartenenza o con altri enti pubblici territoriali. Una parte di tali fondi è utilizzata per perfezionare un’operazione immobiliare con modalità apparentemente dissimulatorie che inducono ad ipotizzare possibili scopi di corruzione.
Uso di contratti di affitto di ramo d’azienda per finalità dissimulatorie
Una società di ristorazione stipula un contratto di affitto di ramo d’azienda con altra società attiva nello stesso settore, versando alla stessa canoni di locazione di importi notevolmente superiori a quelli previsti dal contratto. Nello stesso periodo una terza società dello stesso settore, nonostante risulti inattiva, effettua cospicui versamenti di contante. Le tre società hanno in comune esponenti aziendali coinvolti in una indagine penale: ciò induce il sospetto di un uso improprio del contratto di affitto di ramo d’azienda e del canale bancario per immettere e trasferire fondi di natura non commerciale.
Distrazione di fondi all’estero sotto forma di pagamento di accordi transattivi
Una società italiana dispone bonifici a favore di una controparte estera a titolo di parziale adempimento di un accordo transattivo riguardante un credito per servizi di consulenza pubblicitaria oggetto, nel tempo, di ripetute cessioni. Il lungo lasso temporale intercorso tra l’origine del credito commerciale e l’accordo transattivo, i diversi passaggi di proprietà del credito tra società di Stati diversi, le condizioni inusuali previste nell’accordo, inducono ad ipotizzare che tale accordo sia stato unicamente funzionale al deflusso di fondi verso l’estero.
Possibili condotte finanziarie preordinate a bancarotta fraudolenta
Il conto di una società in stato di difficoltà finanziaria viene alimentato da bonifici disposti da un’unica controparte a titolo di pagamenti commerciali. Tali somme sono sistematicamente utilizzate per emettere assegni circolari a beneficio della stessa società, poi riversati sul medesimo conto solo in presenza della necessità di effettuare
pagamenti. Tra questi, si rilevano addebiti a favore di due società controllate di nuova costituzione che poi dispongono bonifici verso l’estero. L’operatività appare finalizzata a distrarre fondi dal patrimonio della società in crisi, ostacolando così la soddisfazione dei creditori nella fase immediatamente precedente alla dichiarazione di fallimento.
A cura della Redazione
Copyright © - Riproduzione riservata Unità di Informazione Finanziaria presso la Banca d’Italia, Quaderno n. 2 del 29 settembre 2015
20 milioni le entrate da split payment
Entrate tributarie stabili nel primo trimestre del 2015
Nei primi tre mesi del 2015 le entrate tributarie erariali, accertate in base al criterio della competenza giuridica, ammontano a quasi 89 miliardi di euro, segnando una lieve riduzione rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (-0,1%). In calo del 2,4% il gettito IVA, con una quota pari a 20 milioni di euro di versamenti assolti dalla PA con applicazione del meccanismo dello split payment, i quali tuttavia confluiranno nel Bilancio dello Stato solamente a
partire dai dati relativi al mese di aprile.
Le entrate tributarie accertate nel periodo gennaio-marzo 2015 ammontano a 88.536 milioni di euro, registrando una lieve diminuzione rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (-0,1%).
Sul versante delle imposte dirette si registra un gettito complessivo di 50.244 milioni, in crescita del 2,5%% rispetto al 2014.
In lieve crescita il gettito IRPEF (+0,4%), alla luce di un sensibile incremento delle ritenute sui redditi di lavoro autonomo (+1,2%) e dei versamenti in autoliquidazione (+3,6%) che compensa la diminuzione delle ritenute sui redditi di lavoro dei dipendenti del settore pubblico (-2,2%). Nel periodo considerato, l’IRES è risultata pari a 674 milioni di euro (-35,7%).
20 milioni di euro le entrate da split payment
Le imposte indirette registrano un gettito pari a 38.292 milioni, con un decremento del 3,3% rispetto al primo trimestre del 2014. Il gettito IVA risulta in calo del 2,4% (-501 milioni) per effetto della flessione di entrambe le componenti relative agli scambi interni (-2,8%) e alle importazioni (-0,8%). L’andamento dell’Iva sugli scambi interni – spiega il Dipartimento delle Finanze in una nota – è stato influenzato dalla circostanza che il gettito relativo agli acquisti effettuati dalla PA nel primo trimestre del 2015 con applicazione del nuovo meccanismo dello split payment (pari a 20 milioni di euro nel periodo considerato) affluirà al bilancio dello Stato solo a partire dal mese di aprile.
Il gettito delle imposte sulle transazioni nel complesso presenta i seguenti andamenti:
- l’imposta di registro ha generato entrate per 1.046 milioni di euro (-2,7%);
- l’imposta di bollo per 1.111 milioni (+12,1%);
- le tasse e imposte ipotecarie per 338 milioni di euro (-8,6%).
Le entrate relative ai giochi registrano, nel complesso, una crescita del 3%.
Bene, infine, il gettito derivante dalle attività di accertamento e controllo, in crescita del 22,7% (+385 milioni) rispetto allo scorso anno.
A cura della Redazione
Copyright © - Riproduzione riservata Dipartimento delle Finanze, bollettino entrate tributarie gennaio-marzo 2015
Il documento del CNDCEC
L’IVA nelle fatture indirizzate alla PA
Lo split payment presenta ancora molti punti critici che attendono chiarimenti da parte dell'Amministrazione finanziaria. Nel documento “L’IVA nelle fatture indirizzate alla Pubblica Amministrazione”, il CNDCEC esamina gli aspetti ancora da chiarire: dalle note di variazione intervenute nel corso del 2015 al trattamento degli acquisti di beni e servizi afferenti attività sia commerciali che istituzionali, ai rapporti con le associazione non commerciali e coloro che adottano regimi speciali con l'evidenza dell'IVA in fattura.
Secondo il CNDCEC, le note di variazione intervenute nel corso del 2015:
- se riferite a fatture emesse nel 2014, anche se emesse e ricevute dalla PA nel 2015 non saranno assoggettate allo split payment;
- se riferite a fatture emesse nel 2015 saranno a loro volta rilevanti per lo split payment.
Quanto al trattamento degli acquisti di beni e servizi afferenti attività sia commerciali che istituzionali (c.d. costi promiscui), tenuto conto che il procedimento di registrazione delle fatture istituzionali e commerciali avviene sempre mediante le partite di giro, si ritiene utile individuare due capitoli distinti:
- in uno confluirà l'IVA istituzionale e con le periodicità stabilite, con decorrenza 16 aprile 2015, presenterà sempre saldo zero a fronte dei versamenti effettuati;
- nell'altro confluirà l'IVA commerciale e viene movimentato in base alle liquidazioni periodiche; pertanto per un importo pari alla quota del debito IVA derivante dalla scissione dei pagamenti in regime commerciale, viene emesso un ordine di pagamento a valere degli impegni assunti nelle partite di giro per l'IVA split commerciale, versato in entrata del bilancio dell'ente, previo accertamento di un'entrata di pari importo al titolo terzo dell'entrata ed emissione della relativa reversale di entrata.
Il debito IVA sarà rilevato al titolo I della spesa.
In caso di incertezza nell'individuazione della quota di IVA commerciale rispetto quella istituzionale, poiché di fatto con lo split payment gli enti locali non avranno più un credito IVA, il CNDCEC consiglia di considerare la fattura interamente istituzionale.
Intervento sostitutivo in presenza di DURC negativo
Le PA devono richiedere il DURC prima di effettuare pagamenti a favore dei propri fornitori ed in presenza di irregolarità attivano il c.d. "intervento sostitutivo", ovvero paghino l'importo dovuto direttamente all'istituto previdenziale e/o
assicurativo creditore.
Tale procedimento, nel caso di fatture soggette al regime dello split payment, deve essere avviato con riferimento solo alla parte di credito effettivamente vantato dal fornitore, cioè all'importo dell'imponibile della fattura, quindi escluso IVA.
Creditore pignoratizio e debitore pignorato
Le sentenze per pignoramento dei crediti nei confronti di PA dovranno tener conto della nuova norma e pertanto stabilire il pignoramento di somme solo nel limite del debito esigibile, cioè al netto dell'IVA.
Autofatture per autoconsumo di beni o servizi
Al fine di mantenere integro il diritto alla detrazione IVA in caso di prestazione resa gratuitamente a terzi, alcuni enti possono valutare l'opportunità di emettere un'autofattura per il servizio reso a terzi. Tale autofattura dovrebbe essere esclusa dallo split payment.
Passaggi interni
In presenza di contabilità separate, sussiste l'obbligo di emissione di fattura da un’attività ad un’altra. Secondo il CNDCEC, anche tale fattura dovrebbe essere esclusa dallo split payment.
Rapporti con associazione non commerciali e quanti adottano regimi speciali con evidenza dell'IVA in fattura La circolare n. 6/E/2015 dell’Agenzia delle Entrate espressamente esclude della disciplina dello split payment le fatture relative a regimi speciali che non prevedono l'evidenza dell'IVA in fattura (es. agenzia viaggio, regime del margine, regime di franchigia per le piccole imprese).
Tale interpretazione però non esclude dallo split tutte le casistiche di coloro che - pur applicando un regime speciale IVA forfettizzato - evidenziano normalmente l'IVA in fattura. È il caso:
- degli agricoltori in regime di esonero dove il cessionario emette una fattura per conto dell'agricoltore;
- delle fatture emesse da Associazioni sportive dilettantistiche e anche di altra natura che applica il regime IVA ai sensi della legge n. 398/1991.
Tali soggetti si trovano ora incisi del 100% IVA che viene trattenuta alla fonte dall'Ente in luogo del 50% come da spettanza normativa.
Reverse charge per le spese di pulizia
La legge di Stabilità 2015 ha allargato il reverse charge anche alle spese di pulizia.
L'ente locale, pur essendo un soggetto IVA, relativamente alla sfera istituzionale si troverà a mal partito con tale applicazione, ragion per cui si ritiene che limitatamente all'attività istituzionale si continuerà ad applicare il regime ordinario con lo split payment.
Per cui avremo una doppia tipologia di fatturazione:
1) con il reverse charge relativamente alle spese di pulizia afferenti servizi rilevanti IVA
2) con il meccanismo dello split payment relativamente alle spese di pulizia afferenti attività istituzionali.
Per le attività promiscue sarebbero opportuni chiarimenti; per semplicità sarebbe preferibile trattare tali spese attraverso lo split payment.
Lo split payment non opera in tutti i casi in cui l'operazione è soggetta a reverse charge e cioè ad inversione del debitore dell'imposta; in pratica, si tratta dei casi in cui l'ente pubblico riceve fattura senza addebito di IVA e deve essere lui stesso ad assolverla mediante integrazione della fattura ricevuta (o emissione di autofattura nei rapporti con gli extracomunitari).
Si può trattare di operazioni interne per le quali opera il reverse charge ma, più frequentemente, si tratterà delle operazioni con l'estero territoriali in Italia.
Infine, con riferimento ai rapporti fra il meccanismo dello split payment e gli obblighi di fatturazione elettronica relativa alle prestazioni rese alla PA, l'Agenzia delle Entrate ha chiarito che non esiste perfetta coincidenza tra le amministrazioni nei confronti delle quali è obbligatoria la scissione dei pagamenti e quelle coinvolte nella fatturazione elettronica.
A cura della Redazione
Copyright © - Riproduzione riservata CNDCEC, Documento marzo 2015
Nessun obbligo se si tratta di violazioni penali o di etica minima
Legge 104: permessi per altri scopi, licenziamento senza codice disciplinare
La decisione della Suprema Corte si fonda non sul tipo di assistenza prevista dalla legge “104” che il lavoratore licenziato doveva fornire alla madre handicappata, quanto piuttosto sul rilievo della utilizzazione del permesso retribuito per finalità diverse da quelle per il quale il legislatore ha previsto il diritto al permesso. Nel caso di specie, trattandosi di licenziamento disciplinare la mancata affissione del codice disciplinare non rileva nei casi in cui il licenziamento sia irrogato per sanzionare condotte del lavoratore che concretizzano violazione di norme penali o che contrastano con il cosiddetto "minimo etico".
Il fatto trae origine dal contenzioso instaurato da un lavoratore nei confronti della società di cui era dipendente.
La Corte di Appello, riformando la sentenza del Tribunale, rigettava la domanda di A.E., proposta nei confronti della S.
S.p.A., avente ad oggetto l'impugnativa del licenziamento intimatogli da detta società per aver durante la fruizione del permesso per assistere la madre disabile grave, partecipato ad una serata danzante.
A base del decisum la Corte del merito poneva la considerazione fondante secondo la quale, nella specie, non rilevava il tipo di assistenza che l'A. doveva fornire alla propria madre handicappata, quanto piuttosto la circostanza che il
lavoratore aveva chiesto un giorno di permesso retribuito per "dedicarsi a qualcosa che nulla aveva a che vedere con l'assistenza".
Ciò che veniva in evidenza, precisava la Corte, è che "l'A. aveva usufruito di una parte di questo permesso per finalità diverse da quelle a cui il permesso mirava, giacché, essendo il permesso richiesto finalizzato all'assistenza di persona portatrice di handicap, egli non poteva chiedere il predetto permesso per altra finalità del tutto estranea all'assistenza".
Questo comportamento, secondo la Corte, implicava "un disvalore sociale giacché il lavoratore aveva usufruito di permessi per l'assistenza a portatori di handicap per soddisfare proprie esigenze personali scaricando il costo di tali esigenze sulla intera collettività, stante che i permessi sono retribuiti in via anticipata dal datore di lavoro, il quale poi viene sollevato dall'ente previdenziale del relativo onere anche ai fini contributivi e costringe il datore di lavoro ad organizzare ad ogni permesso diversamente il lavoro in azienda ed i propri compagni di lavoro, che lo devono sostituire, ad una maggiore penosità della prestazione lavorativa".
Ne conseguiva, asseriva la Corte di Appello, che "proprio per gli interessi in gioco, l'abuso del diritto, nel caso di specie, era particolarmente odioso e grave ripercuotendosi senz'altro sull'elemento fiduciario trattandosi di condotta idonea a porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore rispetto agli obblighi assunti".
Contro la sentenza A.E. proponeva ricorso per cassazione, sollevando numerose questioni, in particolare sostenendo che la Corte d’appello non avrebbe fatto corretta applicazione della normativa della legge “104”, non avendo tenuto conto che la relativa disciplina, come modificata dalle successive leggi, non richiede il requisito della continuità ed esclusività dell'assistenza cui bisogna aver riguardo ai fini del legittimo esercizio dei permessi merito; i giudici, poi, non avrebbero tenuto conto che era stata richiesta una specifica prova da esso ricorrente sull'avvenuta assistenza alla madre per il periodo successivo al suo ritorno a casa né, infine, i giudici avrebbero esaminato l'eccezione della mancata
affissione in azienda del codice disciplinare.
La Cassazione ha respinto il ricorso del lavoratore, affermando un principio già presente nella giurisprudenza della Corte ma che, per la sua importanza, dev’essere in questa sede ribadito.
Va sul punto precisato, secondo la Cassazione, che il decisum della sentenza si fonda, non sul tipo di assistenza prevista dalla legge “104” che l'A. doveva fornire alla madre handicappata, quanto piuttosto sul rilievo della utilizzazione del permesso retribuito per finalità diverse da quelle per il quale il legislatore ha previsto il diritto al permesso retribuito.
Nell'economia motivazionale della sentenza la ragione fondante non è la mancata prova della avvenuta assistenza alla madre per le ore residue, ma la utilizzazione, in conformità alla contestazione disciplinare di una parte oraria del permesso in esame per finalità diverse da quelle per il quale il permesso è stato riconosciuto.
Inoltre, si precisa, l'accertato disvalore sociale del comportamento del lavoratore ed il ritenuto abuso del diritto danno conto delle ragioni per le quali la Corte d’appello, sia pure implicitamente, ha ritenuto irrilevante la questione della mancata affissione del codice disciplinare. Costituisce principio consolidato nella giurisprudenza della Corte di legittimità l'affermazione secondo la quale in materia di licenziamento disciplinare, il principio di necessaria pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti non si applica nei casi in cui il licenziamento sia irrogato per sanzionare condotte del lavoratore che concretizzano violazione di norme penali o che contrastano con il cosiddetto "minimo etico".
IN SINTESI:
secondo l’interpretazione offerta dalla Cassazione, la mancata affissione del codice disciplinare non rileva nei casi in cui il licenziamento sia irrogato per sanzionare condotte del lavoratore che concretizzano violazione di norme penali o che contrastano con il cosiddetto "minimo etico".
Fra i precedenti giurisprudenziali si segnala:
- Cass. Civ.., Sez. L, sentenza n. 22626 del 3 ottobre 2013 Riferimenti normativi:
- Cod. Civ. art. 2106;
- L. 20/05/1970, n. 300, art. 7
A cura della Redazione
Copyright © - Riproduzione riservata Corte di Cassazione, Sez. L, sentenza 30 aprile 2015, n. 8784
Le conclusioni dell’Avvocato generale UE
Frodi IVA, norme sulla prescrizione da disapplicare
È compatibile col diritto UE la disposizione del Codice penale secondo cui il termine di prescrizione per i reati fiscali nel settore dell’IVA viene prolungato, nel caso della sua interruzione, esclusivamente di 1/4 del termine originario, dopodiché interviene la prescrizione assoluta? L’Avvocato generale UE ritiene che non lo sia, e suggerisce alla Corte di Giustizia di dichiarare che una normativa nazionale sulla prescrizione dei reati, che, per motivi sistemici, comporta in numerosi casi la non punibilità dei responsabili di frodi IVA è incompatibile con i precetti del diritto comunitario. Pertanto una simile normativa dovrebbe essere disapplicata dai giudici nazionali in procedimenti penali pendenti.
Secondo le conclusioni raggiunte dall’Avvocato Generale presso la Corte di Giustizia UE, la normativa italiana sulla prescrizione dei reati, che, per motivi sistemici, porta in molti casi alla non punibilità dei responsabili di frodi nel settore dell’IVA, sarebbe da dichiarare incompatibile con i precetti del diritto dell’Unione e per tale motivo dovrebbe essere disapplicata dai giudici nazionali nei procedimenti penali pendenti.
La bocciatura dell’Avvocato Generale UE è netta, e se il suo suggerimento dovesse essere accolto da parte della Corte di Giustizia, tenuto conto dell’acceso dibattito di questi ultimi tempi sulla prescrizione ci sarebbero delle ripercussioni importanti sui processi in corso in Italia in materia fiscale, con la possibilità di evitare la chiusura delle cause per il decorso della prescrizione.
La questione è stata portata all’attenzione dei giudici europei dal Tribunale di Cuneo, e verte sul quesito se il diritto UE imponga ai giudici degli Stati membri di disapplicare determinate disposizioni del loro diritto nazionale relative alla prescrizione dei reati, al fine di garantire una repressione efficace dei reati fiscali.
La domanda pregiudiziale è stata sollevata dal giudice penale italiano nell’ambito di un procedimento relativo a una frode fiscale scoperta in Italia, effettuata nel campo del commercio di champagne. Gli imputati sono accusati di aver rilasciato dichiarazioni IVA fraudolente, nell’ambito di un’associazione per delinquere, tramite l’impiego di fatture per operazioni inesistenti di alcune imprese - cosiddette “missing traders” - le quali, a loro volta, figuravano fittiziamente quali
importatrici di champagne. In pratica, sulla base di accordi tra gli imputati, vendite nazionali di champagne cui hanno partecipato varie imprese per le quali operavano rispettivamente, quali loro rappresentanti legali, alcuni degli imputati, sono state fatte apparire falsamente come transazioni intracomunitarie, con una certa somiglianza di queste manovre a una frode di tipo “carosello”.
Come osservato dall’Avvocato Generale UE, probabilmente la prescrizione maturerà per tutti gli imputati prima che si giunga ad una sentenza definitiva e un tale esito - ha sottolineato il Tribunale italiano - non rappresenta una peculiarità del caso, essendo invece condiviso da un gran numero di procedimenti penali promossi in Italia, specialmente quelli relativi a reati economici che, per loro natura, richiedono indagini spesso particolarmente ampie e caratterizzate da un’estrema complessità. Pertanto, si tratterebbe di un vero e proprio problema strutturale del diritto penale italiano, il quale prevede diverse possibilità di interruzione della prescrizione dei reati, ma non la sua sospensione durante un processo penale in corso.
Addirittura, il giudice del rinvio ha espresso la preoccupazione che l’istituto della prescrizione dei reati in Italia - contrariamente alla sua finalità originaria - si sia tramutato in realtà in una “garanzia dell’impunità” per reati economici e che l’Italia, in definitiva, non ottemperi ai propri obblighi di diritto dell’Unione. La causa di ciò dovrebbe essere ravvisata nella legge n. 251 del 2005, che ha introdotto nel Codice penale italiano un termine di prescrizione assoluto, la quale limita a 1/4 il prolungamento dei termini di prescrizione in caso di una loro interruzione, mentre in precedenza tali termini erano prolungabili della metà.
L’Avvocato Generale UE rileva che nel caso è interessata l’IVA, una quota della quale fa parte delle risorse proprie dell’Unione europea, e quindi tale questione offre l’occasione alla Corte di chiarire talune questioni fondamentali in relazione alla tutela degli interessi finanziari dell’Unione.
Al termine della sua disamina, l’Avvocato Generale UE suggerisce alla Corte di Giustizia le seguenti dichiarazioni, che sembrano bocciare senza appello la normativa italiana in oggetto:
- gli articoli 4, paragrafo 3, TUE e 325 TFUE, il regolamento (CE, Euratom) n. 2988/95 e la direttiva n200. 6n/112/CE obbligano gli Stati membri a prevedere sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive per irregolarità commesse nel settore dell’IVA;
- l’art. 2, paragrafo 1, della Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee (Lussemburgo, 1995) obbliga gli Stati membri a punire frodi nel settore dell’IVA tramite sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive che comprendano, almeno nei casi di frode grave, pene privative della libertà;
- una normativa nazionale sulla prescrizione dei reati, che, per motivi sistemici, comporta in numerosi casi la non punibilità dei responsabili di frodi nel settore dell’IVA, è incompatibile con i summenzionati precetti del diritto dell’Unione, e, pertanto, deve essere disapplicata dai giudici nazionali in procedimenti penali pendenti.
L’Avvocato Generale UE spiega la sua opinione in modo articolato, precisando che non si tratterebbe di ricavare nuovi termini di prescrizione direttamente dal diritto dell’Unione, dato che dovrebbe risultare proprio dal diritto nazionale un’applicazione concreta e conforme della durata e del decorso dei termini di prescrizione; al riguardo, il diritto UE esplica tutt’al più un effetto indiretto per la controversia di cui al procedimento principale, aiutando il giudice nazionale a porre le giuste basi per un’interpretazione conforme del diritto nazionale.
Quindi, suggerisce l’Avvocato Generale UE, non si tratterebbe di abolire in toto la prescrizione, ma di applicare una disciplina adeguata della prescrizione, che faccia apparire realistica l’irrogazione di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive in un procedimento equo e che si concluda entro un termine ragionevole (art. 47, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali e art. 6, paragrafo 1, prima frase, CEDU).
Sul punto, l’Avvocato Generale UE dà delle chiare indicazioni al Tribunale di Cuneo da poter seguire:
- un’applicazione delle disposizioni sulla prescrizione senza il termine assoluto di prescrizione previsto dall’art. 160, ultimo comma c.p., nella versione della legge n. 251/2005;
- in alternativa, sarebbe ipotizzabile un ricorso ai termini di prescrizione per reati fiscali, prolungati di 1/3, oggetto del frattempo di una nuova disciplina, come risultano adesso in Italia dalla legge n. 148/2011;
- infine, si potrebbero continuare a ritenere applicabili al caso le norme sulla prescrizione precedentemente in vigore (cioè, nella versione del Codice penale precedente alla legge n. 251/2005).
Il compito di scegliere una di queste diverse strade viene rimesso dall’Avvocato Generale UE al giudice nazionale: sotto il profilo del diritto UE, occorre unicamente aver cura che la soluzione accolta venga trovata nell’ambito di un procedimento equo in maniera non discriminatoria, e che la stessa poggi su criteri chiari, comprensibili, nonché generalmente
applicabili.
A cura della Redazione
Copyright © - Riproduzione riservata Avvocato generale, conclusioni 30/04/2015, C-105/14
Equitalia
Riscossione: da febbraio possibile rateizzare anche le singole cartelle
Il gruppo Equitalia da febbraio, in base alle nuove direttive interne diffuse presso gli uffici periferici, permette ai contribuenti di rateizzare anche singoli atti della riscossione, seppur in presenza di altre somme iscritte a ruolo.
di Mirco Gazzera
Aspetti generali sulla rateazione degli atti emessi dall'Agente della riscossione
La rateazione degli atti della riscossione, dal punto di vista generale, è soggetta a questi limiti:
• • l'importo minimo della rata non può essere inferiore a 100 Euro;
• • prima delle nuove direttive, descritte successivamente, la rateazione doveva riguardare l'intero debito iscritto a ruolo a carico del contribuente. Ogni istanza di rateazione comportava una “riunificazione” dei piani di rateazione già in corso con la rideterminazione della rata.
In base alle nuove direttive di Equitalia il contribuente, a partire da febbraio 2015, compilando l’istanza di rateazione online può scegliere quali atti della riscossione rateizzare. La novità costituisce una nuova opportunità per il contribuente destinatario di più atti della riscossione.
Per quanto concerne le modalità di rateazione valgono i seguenti principi:
• • per i debiti non superiori a 50 mila euro l'accesso alla rateazione ordinaria (sino a 72 rate mensili) è concesso in base a una semplice istanza. Si può estendere il piano di rateazione fino a un massimo di 120 rate mensili (10 anni) nei casi di grave difficoltà per la congiuntura economica, comprovata da apposita documentazione;
• • per i debiti superiori a 50 mila è richiesta una specifica documentazione aggiuntiva da allegare all'istanza
(certificazione ISEE per i privati e le ditte individuali in regime semplificato e prospetti di calcolo degli indici di liquidità e Alfa per gli imprenditori in contabilità ordinaria, le società e gli enti non commerciali).
La presentazione di un'istanza di rateazione attraverso il sito internet di Equitalia
Nell'area riservata del sito www.gruppoequitalia.it è possibile, oltre a fruire dell'utile servizio “Estratto conto” che riassume le partite “saldate” e “da saldare”, presentare telematicamente l'istanza di rateazione per i debiti non superiori a 50 mila Euro.
L'accesso all'area riservata del sito deve avvenire previa autenticazione del contribuente attraverso le credenziali fornite dall'Agenzia delle Entrate, dall'INPS o la carta nazionale dei servizi. I professionisti possono accedere alla posizione dei loro clienti attraverso un'apposita delega che quest'ultimo può concedere, direttamente dall'area riservata del sito, inserendo il codice fiscale del consulente delegato.
Una volta inserite le credenziali d'accesso l'utente deve:
• •compilare la maschera completando i propri dati anagrafici e indicando un indirizzo di posta elettronica non certificata;
• •inserire il numero dell'atto interessato dalla rateazione;
• •indicare i dati specifici per il piano di rateazione (durata, rata costante o variabile, etc.).
Conclusa la procedura telematica il sistema invia all'utente una ricevuta dell'istanza all'indirizzo di posta elettronica indicato.
La disamina appena svolta e gli ulteriori sviluppi tecnologici recenti (es. il 730 precompilato, il cassetto fiscale e previdenziale, etc.) rendono ormai indispensabile familiarizzare con le credenziali d'accesso fornite dall'Agenzia delle Entrate e dall'INPS.
A tale proposito è auspicabile una futura riunificazione delle diverse tipologie di credenziali e una modalità più semplice di delega ai professionisti.
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Fiscalità internazionale
Delega fiscale: semplificata la disciplina CFC e quella sui costi black-list
E' stato pprovato dal Consiglio dei Ministri lo schema di decreto che riforma la disciplina in tema di CFC, costi black-list, ruling internazionale e stabile organizzazione.
di Carmen Miglino
Lo schema di decreto approvato in via preliminare nel CDM del 21.04.2014, contiene novità significative in materia di fiscalità internazionale; in particolare, il decreto in questione, che ora passerà all’esame delle Commissioni
parlamentari, modifica i criteri per la deducibilità dei costi black list e per l’applicazione della CFC, amplia l’ambito di operatività del ruling internazionale, ridefinisce i criteri di tassazione dei dividendi provenienti da paradisi fiscali e individua appositi criteri per la tassazione delle stabili organizzazioni.
L’obiettivo di questo pacchetto di norme è quello di rendere il nostro Paese maggiormente attrattivo e competitivo per le imprese, italiane o straniere, che intendono operare in Italia, così da ridurre i vincoli alle operazioni transfrontaliere e creare un quadro normativo quanto più certo e trasparente per gli investitori. In questa direzione vanno gli interventi di riordino che ci si appresta ad esaminare, concernenti vari aspetti della fiscalità internazionale.
In riferimento alla disciplina CFC, il regime di piena imponibilità dei dividendi provenienti da Paesi “black list” viene limitato alle sole situazioni di detenzione di partecipazioni dirette in una società localizzata in Stati o territori a fiscalità agevolata oppure, in caso di partecipazione indiretta, di titolarità di una partecipazione di controllo in una società intermedia white-list che consegua, a sua volta, utili da partecipate in territori a fiscalità privilegiata.