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1. Introduzione e scopi del progetto

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Academic year: 2021

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1.1 Lo studio del comportamento affettivo dell’uomo

Da sempre le emozioni e il comportamento hanno affascinato non solo poeti e scrittori, ma anche filosofi e scienziati, che tuttavia non sono riusciti a risolvere il problema della loro origine, in rapporto al cervello o agli altri organi e sistemi somatici. Se ad esempio, per l’antica dottrina medica orientale, le emozioni avrebbero origine dai diversi organi del corpo, per cui la dominanza di uno degli organi fondamentali, cuore, fegato, polmoni, reni e milza, è associata a stati emotivi e caratteristiche peculiari della personalità, e una disfunzione dei suddetti organi può comportare manifestazioni che si esprimono come disturbi dell’umore e del comportamento (Pietrini et al., 1999; Kaptchuk, 1999), ancora oggi si discute se l’origine primaria di un’emozione risieda nel cervello o nel resto del corpo. Tale visione non sorprende se consideriamo che la risposta del nostro corpo a stimoli emotivi di ogni tipo produce, senza eccezione, cambiamenti degli organi viscerali (ritmo cardiaco, frequenza respiratoria, peristalsi intestinale, solo per citare i principali), la cui percezione, a sua volta, modula la nostra stessa risposta emotiva (Ricciardi et al., 2002).

Attualmente gli sforzi congiunti delle varie aree della medicina e della bioingegneria, cui si aggiungono quelli della psicologia, antropologia e filosofia, stanno realizzando una visione più completa delle emozioni e del comportamento, in cui si riconoscono i differenti aspetti senso-percettivi, fisiologici e clinici, ed anche sociali ed evoluzionistici.

1.2 La nascita delle tecniche di esplorazione metabolico-funzionale in

vivo del cervello

Nell’ultimo quarto di secolo, la nascita di innovative metodologie di esplorazione metabolico-funzionale del cervello, tra cui in primo luogo la tomografia ad emissione di positroni (PET) e, più recentemente, la risonanza magnetica funzionale

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(fMRI), ha permesso di studiare in vivo, in maniera non invasiva anche nell’uomo, i correlati neurometabolici che sottendono le funzioni cerebrali cognitive (Raichle, 1999; Furey et al., 2000a,b,c; Koechlin et al., 2000; Haxby et al., 2001), la comparsa di patologie neurodegenerative, (Pietrini et al., 2000b; Silverman et al., 2001). La messa a punto di modelli sperimentali sempre più sofisticati e il supporto bioingegneristico nello sviluppo tecnologico e in un’analisi più complessa dei dati ha inoltre consentito di rivolgere l’indagine anche alle basi neurobiologiche della vita emotiva e del comportamento dell’uomo (Pietrini et al., 1999, 2000a; Damasio, 2000; Rolls, 1999; Davidson, 2000a,b; Zalla et al., 2000): i risultati di uno di questi studi è altresì oggetto del presente lavoro.

Ma cosa effettivamente studiamo con queste tecniche di esplorazione biochimica in vivo del cervello? Il cervello umano è una struttura singolare dal punto di vista strutturale (presenza delle cellule gliali e della barriera ematoencefalica) e funzionale (ogni singolo neurone fa parte di complessi circuiti nervosi), e pertanto lo studio dei correlati neurometabolici che sottendono le diverse e complesse funzioni cerebrali non può che essere effettuato in vivo nel cervello integro. Parametri biochimici misurabili in maniera indiretta, quali determinazioni liquorali, o determinazioni su neuroni isolati in coltura sono senza dubbio importanti nel fornire indicazioni per esempio sul turn-over neurotrasmettitoriale o sui meccanismi molecolari dei potenziali di membrana, ma poco o nulla ci possono dire su che cosa accade nel nostro cervello quando eseguiamo un calcolo matematico o contempliamo un paesaggio.

Lo studio in vivo delle basi neurobiologiche delle funzioni cerebrali è stata fornita da alcune peculiarità metaboliche del cervello rispetto ad altri organi. Infatti, in condizioni fisiologiche, il cervello utilizza solo l’ossidazione del glucosio come fonte di energia (produzione di adenosin-trifosfato - ATP) per l’attività sinaptica neuronale e dipende dal flusso ematico cerebrale regionale per un costante apporto di glucosio ed ossigeno (è noto a tutti come si perda rapidamente coscienza quando viene meno il normale apporto di flusso ematico al cervello) per produrre l’energia necessaria a mantenere l’omeostasi. I neuroni si scambiano segnali mediante la propagazione di potenziali d’azione: la depolarizzazione a livello della sinapsi si associa ad un aumento del K+ extracellulare e del Na+ intracellulare e il ripristino del potenziale negativo di riposo della membrana richiede l’attività della pompa Na+/K+. L’aumento del consumo di ATP da parte della pompa Na+/K+, attiva gli enzimi del metabolismo ossidativo del

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adenosin-difosfato (ADP) e fosfato inorganico citosolico con conseguente aumento di ATP. Infatti, il fosfato inorganico attiva l’esochinasi e la fosfofruttochinasi glicolitiche, l’ADP attiva la piruvato chinasi, il piruvato stimola la formazione di acetilCoA, lo squilibrio tra NAD/NADH stimola gli enzimi della via glicolitica. Dal momento quindi che attivazione cerebrale, metabolismo ossidativo del glucosio e variazione del flusso ematico sono in stretto rapporto reciproco, la misurazione del consumo neuronale del glucosio (come avviene nella PET con 18Fluoro-2-deossi-D-glucosio), delle variazioni dell’apporto ematico (PET con H215O), o dei fenomeni correlati alla variazione di flusso (fMRI, near infrared spectroscopy - NIRS), rappresentano un valido indice dell’attività neuronale.

1.3 La nascita delle neuroscienze affettive come sforzo congiunto tra

medicina, psicologia e bioingegneria

Lo sviluppo delle metodiche di neurofisiologia, elettrofisiologia ed elettroencefalografia ha permesso di comprendere come tutto ciò che caratterizza le più varie attività della nostra mente, dalla percezione di un lampo di luce all’esecuzione del più semplice atto motorio, fino all’esperienza delle emozioni più vivide, possa essere ricondotto alla complessa interazione di innumerevoli neuroni cerebrali, che in ogni istante della nostra esistenza dialogano tra loro attraverso una fitta ed ancor più estesa rete di sinapsi eccitatorie e inibitorie (Raichle, 1999; Boles, 2000).

Per molti anni tuttavia, la ricerca neuroscientifica ha privilegiato gli aspetti cognitivi dell’esperienza umana, lasciando in ombra lo studio delle emozioni, anche perché dominio della vita soggettiva e per questo ineffabili, intraducibili per il pensiero della scienza della natura (LeDoux, 1996; Damasio, 2000). Nel corso di molti anni, per le neuroscienze cognitive lo studio dei correlati neurometabolici e neurofisiologici si è focalizzato su alcune specifiche capacità del cervello (ed in particolare l’attenzione, la memoria e la percezione), ed è a lungo mancata una prospettiva di insieme in cui la vita cognitiva e le emozioni, in modo anche evoluzionistico, si inseriscono in una concezione più generale dei rapporti "mente-corpo- ambiente", che sottendono la vita dell’organismo umano e l’esperienza individuale di ogni singola persona.

Negli ultimi anni, anche grazie agli avanzamenti tecnologici bioingegneristici, si sono invece sviluppate anche le neuroscienze affettive (Davidson e Irwin, 1999b, 2000a; Lane, 2000b) che investigano la base di processi mentali complessi come integrazione

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di meccanismi cognitivi e affettivi. Il loro approccio, così come per lo studio del comportamento umano, è quello di dissezionare ogni emozione in processi mentali più semplici, per poter individuare i rispettivi substrati neuronali (Lane et al., 2000a-b; Pietrini et al., 2000a; Dolan et al., 1998,2001; Zalla et al., 2000). L’approccio neuroscientifico allo studio delle emozioni deve, infatti, affrontare inevitabili condizioni sperimentali, a partire dagli aspetti definitori ai parametri di quantificazione, fino ai fattori sulla rilevanza evolutiva e sociale e sull’influenza nei processi di pensiero per poter tentare in modo adeguato una caratterizzazione biologica, morfologica e fisiologica.

Ciò ha richiesto la messa a punto sia di raffinati disegni sperimentali, che integrano compiti psicologici e comportamentali con stimolazioni emotive sofisticate, e di sempre più complessi e integrati metodi di analisi dei dati, che hanno permesso di individuare le strutture cerebrali coinvolte nelle differenti funzioni cognitive e nel controllo del comportamento (Davidson et al., 1999a,b).

1.4 Studio nell’uomo dei correlati funzionali del perdono e del non

perdono

Il protocollo di ricerca oggetto della mia Tesi di Laurea rappresenta il frutto del consolidamento di un gruppo di ricerca integrato e multidisciplinare che vede coinvolte due Facoltà distinte (Ingegneria e Medicina e Chirurgia) della nostra Università, e il Centro di Risonanza magnetica del CREAS-CNR. L’interazione tra gruppi di provenienza diversa – il gruppo di immagini con tecnologie non ionizzanti diretto dal Prof. Luigi Landini e il Laboratorio di Biochimica Clinica e Biologia Molecolare diretto dal prof. Pietro Pietrini - è stato l’elemento fondamentale per lo sviluppo di un approccio multidisciplinare nella ricerca, approccio di cui si sente considerevole necessità e che da molti è riconosciuto come essenziale per l’avanzamento delle conoscenze nel campo delle neuroscienze affettive.

Nello specifico del progetto, tale integrazione tra la bioingegneria e l’esplorazione funzionale in vivo del cervello ha consentito di introdurre paradigmi sperimentali e metodi di analisi dei dati di Risonanza Magnetica funzionale originali e innovativi. Per prima cosa, il paradigma utilizzato durante l’esperimento presenta una notevole complessità metodologica in quanto lascia la possibilità al soggetto volontario, che esegue il compito sperimentale, di scegliere i propri tempi di risposta (paradigma

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self-paced). Questo ovviamente introduce un’ulteriore variabile individuale che, se da un lato complica la dissezione dei dati registrati, consente altresì all’individuo di comportarsi nel modo più naturalistico possibile, senza alcun vincolo introdotto dallo sperimentatore.

Data quindi la complessità del paradigma affettivo, abbiamo correlato le variazioni obiettive del segnale di risonanza magnetica con la valutazione soggettiva della risposta comportamentale in modo da avere una valutazione e interpretazione più oggettiva dei dati di tutto il gruppo. Questo tipo di correlazione prende in considerazione la vera e propria coscienza del sentimento evocato nei singoli soggetti e la valuta all’interno dell’intero gruppo di studio per evidenziare soltanto quelle variazioni comuni a tutto il campione. L’applicazione poi di metodi statistici per il confronto di gruppo dei dati di risonanza magnetica garantisce una visione d’insieme più coerente di una risposta affettivo-comportamentale così complessa.

Nel progetto, inoltre, sono stati coinvolti collaboratori di prestigiose istituzioni internazionali, quali il National Institute of Mental Health e il National Institute of Neurological Disorders and Stroke dei National Institutes of Health di Bethesda (Stati Uniti) e il Department of Psychology della Princeton University di Princeton, New Jersey (Stati Uniti), con periodi di soggiorno per studio, ricerca ed attività seminariale di ricercatori presso la nostra Università, garantendo così un’interazione costante con il mondo scientifico internazionale ed un beneficio reciproco.

In questo elaborato, rimandiamo all’Appendice I per una più completa trattazione sulla definizione di emozione e sulle basi metabolico-funzionali delle funzioni affettive. La descrizione più specifica dei principi fisici e neurofisiologici della risonanza magnetica funzionale si sviluppa nell’Appendice II.

1.5 Cosa si intende per perdono?

Il perdono è l’atto emotivo e cognitivo che avviene quando una persona, che è stata offesa e ferita da un’altra persona, prova un sentimento di risentimento o impulsi di ritorsione verso di essa, ma decide ugualmente di scusarla. Sebbene colui che perdona non assolve dalla sua colpa la persona che si è comportata male nei suoi confronti, egli compie una decisione cosciente di rinunciare alla sua rabbia ed ai sentimenti di vendetta, che avrebbero rappresentato una sorgente di stress psicologico,

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fisico e sociale. Il perdono è stato normalmente considerato un atteggiamento positivo e socialmente apprezzabile, sia in ambito religioso che filosofico. In anni recenti molti studi hanno messo in evidenza l’utilità del perdono nella psicoterapia (per esempio nel trattamento della rabbia o per ridurre l’ansia e la depressione legate ad un conflitto) o per risolvere dispute sociali o politiche. Gli aspetti positivi del perdono e le conseguenze deleterie del non perdono sono state messe in evidenza con chiarezza da Sir John Templeton nel suo libro Worldwide Laws of Life. Per esempio egli scrive “the person who cannot forgive may become physically, mentally, emotionally or spiritually ill”. Sulla base di questa eredità culturale e scientifica, il progetto di ricerca è stato finanziato dalla Campaign for Forgiveness Research della John Templeton Foundation.

Sono state fatte molte ricerche per determinare misure affidabili del perdono e per capire le caratteristiche psicologiche ad esso associate. Ad oggi, comunque, si sa ancora poco dei correlati (neuro)biologici del perdono e dei suoi effetti sul corpo umano. In generale, l’affermazione che il perdono rappresenti una soluzione positiva per la salute neurobiologica e sociale dei problemi causati da torti subiti, sembra indicare che esso si sia evoluto come una risposta favorevole che in qualche modo avvantaggia la sopravvivenza dell’uomo.

In soggetti ai quali era stato chiesto di giudicare differenti scenari sociali, Farrows e colleghi (Farrows et al, 2001), in uno studio fMRI, hanno recentemente mostrato attivazioni nel giro frontale superiore, nel cingolo posteriore, nel precuneo, nella corteccia frontale superiore e orbitofrontale sinistra, un insieme di regioni associate con l’elaborazione delle emozioni e del giudizio morale. Anche se questi risultati forniscono indicazioni sui circuiti neurali coinvolti nella valutazione dell’attitudine a perdonare e a dare un giudizio etico di alcuni contesti sociali, essi non forniscono alcuna informazione su cosa accade nel cervello quando le persone decidono di perdonare o di non perdonare.

1.6 Scopi dello studio

Questo progetto di ricerca si propone di verificare l’ipotesi che il perdono eserciti un effetto positivo sul nostro organismo, perché perdonare rappresenta un modo per l’individuo di superare situazioni o eventi che altrimenti potrebbero rappresentare una causa di stress, sia dal punto di vista psicologico che neurobiologico e sociale, anche per un periodo di tempo prolungato, che può drammaticamente alterare l’equilibrio

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omeostatico biologico e mentale dell’individuo stesso, con conseguenze potenzialmente pericolose (Pietrini e Guazzelli, 1997). Lo scopo di questo studio è di determinare le risposte neurobiologiche ed i correlati cerebrali associati all’evocazione immaginaria (ipotetica, ma realistica) del comportamento legato al perdono ed al non perdono nell’uomo. Stiamo provando a rispondere a varie domande relative a questo argomento: perché il perdono è stato selezionato attraverso l’evoluzione? Perché perdoniamo? Cosa succede nel nostro cervello e nel nostro corpo quando perdoniamo? Perdonare è un’azione benefica per l’organismo? Perché? Come perdonare influenza il nostro corpo?

Lo scopo di questo studio è di fornire informazioni sull’impatto del perdono sulle funzioni neurobiologiche e psicologiche dell’organismo. Infatti quando i soggetti immaginano o ricordano di perdonare, ci si aspetta che la loro risposta neurobiologica allo stress sia ridotta rispetto a quella che essi provano quando immaginano o ricordano di vendicarsi. Questo studio si propone si fornire le basi per la comprensione delle basi biologiche e dell’importanza psicologica del perdono, un fenomeno che finora è stato studiato principalmente solo dal punto di vista filosofico e psicologico. Si propone cioè di fornire una validazione su base scientifica del valore positivo del perdono, dimostrando che esso suscita una risposta neurobiologica favorevole nell’organismo, in contrapposizione alle conseguenze stressanti associate al non perdono.

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