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1. EVOLUZIONE DEI CONSUMI E DELLA MODA DAGLI ANNI ’50 AD OGGI Premessa

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1. EVOLUZIONE DEI

CONSUMI E DELLA MODA

DAGLI ANNI ’50 AD OGGI

Premessa

Prima di iniziare la trattazione è opportuno effettuare una precisazione. Come è espresso dal titolo sopra stante l’obiettivo di tale capitolo è quello di delineare un quadro generale dell’evoluzione dei consumi e della moda nella seconda metà del secolo.

Per poter capire in profondità tale processo evolutivo è necessario, tuttavia, tracciare un profilo storico-sociale che evidenzi le caratteristiche contestuali nelle quali tale evoluzione si dipana.

Vedremo, infatti, nel proseguo del lavoro che tutti i cambiamenti inerenti i consumi e i costumi messi in atto nel corso di questi cinquant’anni (e in generale in tutta la storia) sono frutto di altrettanti cambiamenti della società.

Il contesto storico serve quindi come sfondo nel quale devono essere immessi i diversi cambiamenti nei comportamenti di consumo e conseguentemente degli studi che vengono elaborati per comprendere meglio la realtà.

Il punto di osservazione quindi spazia da quello storico-sociale a quello economico con riferimenti di carattere sociologico ed antropologico per avere una visione maggiormente completa ed esaustiva di tutti i cambiamenti che si sono succeduti.

(2)

1.1

STUDI SUL CONSUMO:

LA NASCITA DEL CONSUMATORE

POST-MODERNO

1.1.1Nascita degli studi sul consumo

Come ho già puntualizzato nella premessa gli aspetti storici e sociali ci aiutano a comprendere meglio i cambiamenti avvenuti nello studio del comportamento di consumo. Dal momento che a partire degli anni Cinquanta si sono verificate forti modifiche sia dei beni consumati sia nel modo in cui questi vengono poi utilizzati, è ragionevole considerare che anche il modo di studiare il consumo non possa rimanere inalterato.

Proprio negli anni Cinquanta-Sessanta si apre, infatti, la strada per una serie di studi interdisciplinari comprendenti economia, sociologia, antropologia i quali cercano di comprendere i comportamenti di consumo sotto aspetti diversi.

Un importante contributo è stato quello fornito dalla sociologia dei consumi1che negli anni Sessanta ha cercato di dare una interpretazione dei consumi legata alla società, eliminando parte di quei connotati razionali fino a questo momento esclusivamente presi in considerazione sia dalla micro che dalla macro economia2. L’attenzione viene adesso maggiormente

1

La sociologia dei consumi si sviluppa in Italia abbastanza recentemente, negli anni Sessanta, con gli scritti di Alberoni; essa si caratterizza per sottrarre l’agire di consumo dal dominio univoco delle scienze economiche e per proporre un analisi del consumo come attività sociale più che economica. FONTE:www.wikipedia.org.

2

E’ opportuno precisare, tuttavia, che dopo gli studi di Veblen e Simmel, che sono considerati coloro che hanno offerto un maggiore contributo alla sociologia dei consumi, il cammino di questi studi fino agli anni Sessanta è stato relativamente piatto.

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posta sull’oggetto che viene consumato per comprendere cosa esso significa per il suo consumatore, qual’è la sua funzione al di là di quella meramente oggettiva e materiale.

Attraverso i beni che consumano i soggetti esprimono qualcosa di sé, dichiarano di appartenere o meno ad un certo gruppo, definiscono la propria identità.

In Italia nascono , in realtà, due diversi approcci: uno ha una valenza a livello macrosociale, il focus, cioè, viene posto sul funzionamento della società con un forte avvicinamento all’antropologia3; l’altro segue un approccio più orientato al marketing, considera, cioè, i processi decisionali e le variabili che intervengono nelle scelte dei consumatori.

L’apporto più importante della sociologia è consistito nel focalizzare l’attenzione sui fattori limitanti della razionalità e nell’adozione dell’approccio istituzionalista , attento alle variabili di contesto. D’altro canto la critica più diffusa all’impostazione sociologica è stata quella di essere determinista, schiacciando l’azione individuale e quindi anche l’agire di consumo all’interno di variabili causali di natura sociale e contemporaneamente considerando il consumo come dipendente passivamente dalla produzione, anche per il tramite di mass-media e pubblicità4.

In realtà non solo attraverso la sociologia, ma anche grazie all’interazione con studi di carattere

3

Disciplina che studia l’uomo nei suoi aspetti fisico-organici e razziali o , in stretta collaborazione con le scienze umane, le caratteristiche culturali dei vari gruppi. FONTE: Dizionario della lingua italiana Garzanti 2006.

4

Studi sui consumi e approccio interdisciplinare, Convegno AIS-ELO Cagliari 25-26 ottobre 2002, pp. 9-12.

(4)

antropologico, si evidenzia il declino del contributo dell’economia neoclassica sugli studi del consumo.

Il contributo dell’antropologia, che da sempre, si è occupata di consumi, diviene centrale alla fine degli anni Sessanta; essa si appropria della tematica del consumo rischiando da un lato la dissoluzione del suo progetto storico di disciplina applicata specificatamente alle società tradizionali, ma contemporaneamente aprendo la strada ad un nuovo campo in espansione nel quale essa è destinata ad assumere un ruolo centrale.

Questi nuovi studi del consumatore come essere sociale, che esprime attraverso il consumo la voglia di definire la propria identità così come l’appartenenza ad un gruppo sociale vengono sintetizzati in un nuovo tipo di approccio di marketing.

In tale periodo, infatti, alcuni studiosi cominciano ad occuparsi specificatamente di consumo e di consumatori dando vita ad una branca di studi distinta all’interno del marketing5. Si cominciano a cercare spiegazioni a specifici aspetti del comportamento d’acquisto, anche se la frammentazione è notevole e non emergono modelli di tipo sistematico.

Il filone più in voga è probabilmente quello dei modelli stimolo-risposta, sulla scorta dei primi contributi di psicologia cognitiva, allora in pieno sviluppo. Si apre, così, la fase dei grandi modelli6. In questi modelli si parte dal presupposto che gli stimoli esterni siano costituiti da tutte le possibili

5

Daniele Dalli e Simona Romani, Il comportamento del consumatore, pp. 58-62.

6

(5)

sollecitazioni che il consumatore riceve: prodotti, messaggi pubblicitari, ma anche le informazioni ricevute da parenti ed amici. Tali stimoli devono essere percepiti, compresi ed elaborati; successivamente il consumatore, che elabora in maniera soggettiva tali attività, è condotto verso la scelta d’acquisto (o di non acquisto); è l’esito di quest’ultima a determinare un certo livello di soddisfazione (o insoddisfazione) che agisce poi come feedback sulle procedure di ricerca delle informazioni e sulle logiche interpretative e decisionali7.

Questi modelli cercano, quindi, di comprendere il consumo in maniera meno razionale ed oggettiva di quanto era avvenuto nei decenni precedenti; si avverte la necessità di considerare il consumatore non più meramente come homo

oeconomicus8, un essere cioè prettamente razionale e che compie le sue scelta di consumo sulla base di parametri identificabili in maniera oggettiva, ma un soggetto pensante che elabora informazioni e che fa del processo di acquisto un momento decisionale importante e significativo.

Questo percorso, come già detto precedentemente, avviene in quanto cambia la modalità di consumo; la società si arricchisce e i soggetti acquistano nuovi beni con modalità diverse; si sente la necessità di dare al consumo un valore nuovo. Consumare assume quindi molti significati: dimostrare, ostentare, ma anche appartenere ed emulare.

7

Daniele Dalli e Simona Romani, Il comportamento del consumatore, pp58-62.

8

Tale definizione di consumatore viene elaborata intorno agli anni Trenta con la nascita di quella fase definita da Arndt empiricista. FONTE: Daniele Dalli e Simona Romani, Il comportamento del

(6)

A questo proposito è doveroso ricordare il grande contributo del sociologo americano Veblen il quale elabora la teoria dell’agiatezza vistosa e del

consumo vistoso9. Questi studi in realtà si riferiscono alla società americana degli anni Trenta, ma ben rappresentano la società italiana degli anni Cinquanta-Sessanta che sappiamo seguire le orme della società appena citata.

In modo particolare il consumo diviene fondamentale simbolo di appartenenza alla nuova società, il consumo di cose superflue, ovvero lo spreco, assume una valenza etica; Veblen individua nell’emulazione (in tal caso della società americana) il meccanismo motivazionale, la molla del comportamento del consumatore della società industriale. In quest’ottica, quindi, l’oggetto o meglio il possesso di esso è visto come valore differenziale, come simbolo della classe sociale acquisita, in altre parole come status symbol10.

Bisogna comunque sempre tenere in considerazione che la teoria elaborata da Veblen descrive la società con una accezione che rischia, tuttavia, di essere estremamente negativa e quindi in un certo senso inadeguata, da sola, a cogliere la complessità del fenomeno del consumo nel contesto qui preso in considerazione.

Questo appena descritto rappresenta uno degli aspetti maggiormente emergenti e che in un certo qual modo meglio rispecchiano le peculiarità di questa società, ma deve essere preso solo come riferimento non come verità assoluta e totalizzante.

9

P.Parmigiani, Consumo e identità nella società contemporanea, pp. 108-110.

10

(7)

1.1.2 Evoluzione degli studi sul

consumatore

Sono numerosi gli studiosi che hanno cercato di comprendere il fenomeno del consumo, sotto diversi punti di vista.

Fra gli economisti è sicuramente doveroso ricordare J. S. Duesemberry il quale cinquant’anni dopo la Teoria della classe agiata di Veblen elabora un interessante interpretazione del comportamento del consumatore11, che sebbene molto vicina a quella Vebleniana giunge ad una diversa valutazione etico- morale del consumo.

Duesemberry cercò di spiegare l’anomalia concernente la funzione di consumo, cioè il fatto che seguendo un ragionamento logico ci si attendeva che la quantità di risparmio sarebbe dovuta aumentare all’aumentare del reddito, invece si osservò che la propensione al risparmio variava, nel breve e nel medio periodo, non seguendo questo tipo di logica12. Ciò venne spiegato dall’autore, seguendo un principio di emulazione sociale, asserendo che: più è alto il reddito maggiori sono le possibilità di soddisfare le esigenze che la società induce ad avere e maggiori sono le possibilità di destinare solo una parte residuale al risparmio; viceversa, un reddito basso comporta un continuo sforzo per far fronte alle domande provenienti dalla cultura ed ad un risparmio praticamente nullo.

11

J. S. Duesemberry, Teoria dell’effetto dimostrativo, elaborata nel 1969. FONTE: P:Parmigiani,

Consumo e identità nella società contemporanea, pp. 112-117.

12

Convegno AIS-ELO Cagliari 25-26 ottobre 2002, Studi sui consumi e approccio interdisciplinare, pp. 3-15.

(8)

Egli attaccava formalmente il modello individualistico ed atomizzato proposto dallo schema teorico neoclassico, fino a questo momento dominante, secondo cui il comportamento di consumo di ciascun individuo è indipendente ed isolato rispetto a quello di tutti gli altri. Diversamente Duesemberry evidenzia l’esistenza di una scala gerarchica di beni di consumo, sulla base della loro capacità qualitativa di soddisfare un determinato bisogno, comunemente riconosciuta ed accettata; individua nella frequenza di contatto con beni di qualità superiore a quelli abituali l’impulso fondamentale alla base dell’aumento delle spese di consumo.

Questo tipo di studio tuttavia non venne preso in grande considerazione dagli economisti che preferirono continuare ad appoggiarsi alla spiegazione alternativa del “reddito permanente” fornita da Milton Friedman13e basata su una lettura del fenomeno nel lungo periodo nel quale le variazioni vengono annullate (come d’altronde avviene nella teoria del ciclo vitale di Modigliani e Brumberg, 1958).

Pur essendo un economista Duesemberry con i suoi studi ha comunque offerto importanti contributi anche alla sociologia dei consumi.

Altre rilevanti riflessioni sociologiche ed antropologiche sono state apportate da un grande sociologo francese Jean Baudrillard14.

Nelle sue teorie egli ritiene che i beni non abbiano un valore in quanto tale, ma piuttosto in quanto inseriti all’interno di un sistema di oggetti di cui è lo stesso soggetto a fornirne un significato e a

13

Milton Friedman,Teoria del reddito permanente,1957. FONTE:Convegno AIS-ELO Cagliari 25-26.Ottobre 2002, Studi sui consumi e approcci interdisciplinari, pp. 3-15.

14

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darne un valore. Egli osserva che ciascun gruppo sociale si caratterizza per un sistema di oggetti e per il modo in cui questi vengono utilizzati; in tal modo i sistemi degli oggetti divengono parte del profilo culturale, indicatori di un certo stile di vita, strumenti per creare e comunicare differenze, per manifestare coesione, appartenenza o rifiuto ed esclusione15.

Il consumo è dunque concepito in un’ottica sistemica e semiotica, è strumento di integrazione sociale, consente di inserirsi in un sistema di relazioni sociali, ma assorbe anche un valore linguistico nel senso che diviene il mezzo attraverso cui i soggetti comunicano fra loro.

Importanti contributi in questo ambito sono stati forniti anche da un altro sociologo francese Pierre Bourdier che nel 1979 elabora la teoria de La

distinzione.

Pur essendo in analogia con quanto evidenziato dall’opera di Baudrillard, le sue riflessioni appaiono maggiormente in sintonia con alcune caratteristiche della società post-industriale e contemporanea. Egli ritiene che ciò che veramente connota un individuo sia il suo capitale economico, culturale e sociale o meglio il livello di reddito ed il livello professionale insieme alla cultura trasmessa dalla famiglia e dal tipo di istruzione; la quantità e qualità dei rapporti sociali; questi sono gli elementi attraverso i quali si determinano i gusti.

Bourdieu definisce il gusto come una sorta di orientamento sociale: “orienta coloro che occupano un determinato posto nello spazio sociale verso le posizioni adatte alle loro proprietà, verso le pratiche o

15

(10)

verso i beni che si addicono a coloro che occupano quella determinata posizione16. Egli individua come la società sia in realtà formata da diversi gruppi ognuno dei quali si distingue per un proprio stile di vita.

Bisogna precisare che questi studi, sia di Baudrillard che di Bourdieu, pur essendo rivolti prevalentemente alla società francese, della quale i due autori fanno parte, sono comunque riconducibili anche alla società italiana in quanto descrivono comportamenti di consumo generalizzabili a tutto il mondo occidentale.

Sulla scia di Bourdieu si pone Mary Douglas antropologa che scrive un importante trattato nel 1978 insieme ad un altro studioso della materia B. Isherwood17.

Essi affermano che i beni di consumo hanno un ruolo rilevante nel processo di costruzione sociale della realtà, costituiscono un sistema di comunicazione attraverso cui si definiscono e si stabilizzano i significati elaborati dalla cultura18. In quest’ottica l’individuo si serve dei consumi per dire qualcosa su se stesso, la sua famiglia, il luogo in cui risiede; un mezzo attraverso il quale tenersi in contatto con gli altri, per evitare la marginalità e l’isolamento sociale.

Contemporaneamente a ciò il marketing a cavallo tra le leggi matematiche di stampo neoclassico e i contributi derivanti dalla sociologia, si affaccia ulteriormente rispetto al periodo precedente verso un approccio multidisciplinare.

16

P.Parmigiani, Consumo e identità nella società contemporanea, pp. 128-130.

17

M. Douglas e B. Isherwood, Il mondo delle cose,1978.

18

(11)

Uno dei filoni più interessanti che si sviluppano nel corso degli anni Settanta lungo la direzione di ricerca già emersa all’inizio degli anni Sessanta è quello che si occupa dell’elaborazione delle informazioni19. Il principale rappresentante è Jim Bettman il quale cerca di identificare le modalità con cui gli stimoli vengono internalizzati dai consumatori ed impiegati per il processo decisionale.

Il vero cambiamento nella disciplina del marketing si attua tuttavia negli anni Ottanta; in questo periodo, infatti, emerge una nuova prospettiva. Probabilmente è il 1986 l’anno in cui si concretizzano le più importanti istanze di cambiamento: alcuni ricercatori americani (in prevalenza antropologi) girano gli Stati uniti a bordo di un camper osservando e studiando il comportamento dei consumatori. Questa vicenda ha dato luogo ad alcuni articoli e libri che hanno diffuso e legittimato una strategia di ricerca di tipo naturalistico.

I nuovi ricercatori sfidano il paradigma dominante anche su un altro piano, assai delicato: il criterio della rilevanza manageriale era e rimane il pilastro fondamentale della ricerca di marketing. Esso implica che lo studio di un mercato o di un gruppo di consumatori debba essere valutato in relazione al contributo che dà alla presa delle decisioni di marketing. Questo pilastro negli anni Ottanta comincia a vacillare ad opera, appunto, dei ricercatori

naturalisti i quali ritengono che la rilevanza manageriale sia un criterio restrittivo e limitante.

Essi sostengono che la ricerca empirica debba essere giudicata in base all’efficacia descrittiva con

19

(12)

cui rappresenta il quotidiano dei consumatori e non se è utile a prendere decisioni, altrimenti si cade nel pericolo di concentrarsi su fenomeni e su metodi parziali. Studiare i consumatori ha quindi da questo momento in poi un valore in sé e non solo come supporto per il marketing.

E’ soprattutto in questo periodo e poi anche successivamente che le riviste e i convegni di

consumer behaviour cominciano ad essere frequentati da studiosi di antropologia, sociologia, semiotica che contribuiscono a rinnovare profondamente la materia, sia dal punto di vista dei contenuti che dei metodi impiegati

I nuovi argomenti riguardano il simbolo associato all’acquisto, il consumo edonistico, il ruolo delle emozioni, il significato associato ai prodotti, gli acquisti d’impulso (tipici delle società consumistiche) e poi ancora con riferimenti a fenomeni più recenti la scelta dei regali, il collezionismo20.

I metodi sono quelli di ricerca naturalistica (si osserva il consumatore nel suo ambiente naturale) e di natura qualitativa (osservazione, introspezione, interviste e tecniche proiettive); ma anche ricerche psicografiche ispirate dal cosiddetto marketing di nicchia, cioè quello coincidente con target di vendita costituiti da raggruppamenti sociali basati sulla condivisione di stili di vita. L’individuazione delle tipologia di consumatori, come già detto precedentemente, non avviene più soltanto in base a

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(13)

categorie socio-economiche, ma tenendo conto anche di variabili di tipo culturale, psicologico e valoriale21.

1.1.3Consumo e identità nella società

contemporanea

La vita quotidiana nella società postmoderna è dominata dalla figura del consumo, in quanto agire che più di ogni altro accomuna i diversi gruppi sociali.

Essa non è più scandita solo dai tempi di lavoro, dal riposo e dall’occasionale divertimento, ma si è arricchita di una pluralità di momenti e luoghi d’interesse che hanno determinato la proiezione fuori dal mondo del lavoro di energie, risorse e tempo in buona parte investiti in attività di consumo culturale.

Nell’ambito di questo percorso assume un particolare interesse il contributo del sociologo inglese Mike Featherstone22che sulla base di un’attenta e suggestiva ricerca sociologica sulla postmodernità propone interessanti riflessioni sul consumo.

Attraverso l’analisi delle categorie culturali proprie della società contemporanea egli individua l’emergere di una nuova gamma di sensibilità culturali comportanti la cancellazione dei confini tra arte e vita quotidiana23. Si assiste ad un processo di estetizzazione della vita quotidiana, tutto diviene arte. In quest’ottica si sviluppa un’estetica delle sensazioni, un’estetica del corpo che enfatizza l’immediatezza dei

21

Convegno AIS-ELO Cagliari 25-26 Ottobre 2002, Studi sui consumi e approcci interdisciplinari, pp. 3-17.

22

Mike Featherstone, Cultura del consumo e postmodernismo.

23

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processi primari (il desiderio) piuttosto che quelli secondari (ego), le immagini piuttosto che le parole.

Tale estetizzazione conduce ad un appiattimento culturale, una generale venerazione per le merci intellettuali e uno stile di vita artistico. Secondo l’autore, infatti, seguendo in parte lo schema elaborato da Bourdieu, è necessario sviluppare una prospettiva di analisi che superi la dicotomia micro-macro, ovvero che vada oltre una concezione di consumo e stili di vita come prodotti totalmente manipolati di una società di massa. Per comprendere la società postmoderna si devono comprendere i segni che sono utilizzati dagli individui nelle proprie pratiche quotidiane.

Fra i tanti sociologi e antropologi che hanno dato il loro contributo per lo studio della società contemporanea particolarmente significativo risulta essere quello di Colin Campbell24.

Egli cerca di comprendere il vero motivo per cui i soggetti consumano e il modo in cui lo fanno seguendo una via per così dire più “idealista”. Per fare ciò studia il Romanticismo ed elabora un particolare confronto tra il romanticismo passato e quello moderno. Attraverso questi studi emerge nuovamente una figura di consumatore che ricerca il piacere in tutte le sue esperienze, un soggetto desideroso di emozionarsi, ma che allo stesso tempo non è schiavo delle proprie emozioni,ma anzi despota in quanto è egli stesso che controlla il significato degli oggetti e degli eventi25.

24

Colin Campbell, L’etica romantica e lo spirito del consumismo moderno, 1987.

25

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Pertanto dall’osservazione della società contemporanea e dagli studi che da essa emergono si evince che il consumo può essere visto come un sistema di comunicazione che si esprime tramite una pluralità di linguaggi e come tale deve essere studiato. In questa prospettiva sembra venir meno l’esistenza di modalità di comportamento o di stili di vita socialmente riconosciuti come “migliori” o “superiori” ed emerge, invece, la coesistenza di diverse interpretazioni o letture del reale ognuna delle quali rappresenta una selezione della complessità sociale26.

Viene spontaneo interrogarsi su come il marketing possa agire per cercare di raggiungere i consumatori. In un contesto sempre più dinamico, fluttuante dove i soggetti non assumono ruoli precisi, ma variano i loro comportamenti a seconda delle esigenze del momento e del contesto nel quale si trovano. Le strade sono fondamentalmente quelle delineate dagli studi sociologici ed antropologici che mirano ad una maggiore comprensione dei comportamenti dei soggetti e del modo in cui essi interagiscono fra loro.

Interviste in profondità, osservazione partecipativa, focus group sono i principali strumenti usati dal marketing per poter comprendere il consumatore postmoderno. Non solo, dato che siamo assistendo ad una sempre maggiore richiesta di personalizzazione dei prodotti e dei consumi si sono sviluppati anche studi di direct marketing o marketing individualizzato che conducono alla ricerca di un

26

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rapporto diretto e quasi personale con i singoli clienti, non più, quindi, limitato al solo atto di acquisto, ma allargato anche alla fornitura di sevizi aggiuntivi. In quest’ottica diviene fondamentale creare un rapporto di fiducia con il proprio cliente, “coccolarlo”, farlo sentire parte di una “grande famiglia”.

1.1.4 Il consumatore degli anni

Novanta e la nascita del consumatore

postmoderno

Come ho già accennato precedentemente, si delinea un nuovo tipo di consumatore: egli sembra dotato di maggiore indipendenza e capacità critica nei confronti della pubblicità e delle promesse consumistiche, pur non sfuggendo alla logica della personalizzazione simbolica dell’acquisto27. Il consumatore esprime un’esigenza di consumo sempre più differenziata e mutevole nel tempo e inoltre effettua le proprie scelte in base a più criteri. Si afferma un’azione di consumo più equilibrata e tendente all’autoregolazione: la morale del “Je me pilote” caratterizza il cosiddetto egobuilding, ovvero il tentativo di costruirsi un “Io” attraverso il consumo. La varietà dei criteri utilizzati è imputabile al moltiplicarsi delle occasioni di consumo e di fruizione, ma è anche il riflesso di un atteggiamento di costante ricerca del nuovo che si manifesta attraverso la moltiplicazione dei luoghi di acquisto frequentati, il peso delle fonti di informazione utilizzate (nasce Internet) ed i tempi dedicati alle

27

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diverse fasi delle attività di consumo28. Le tendenze di consumo e le modalità con cui le stesse si manifestano nel singolo consumatore fanno sì che le imprese si trovino di fronte una situazione di crescente complessità: non solo non esiste più un consumatore-tipo verso cui uniformare la produzione, ma la stessa segmentazione appare più difficile. Di conseguenza, le affinità fra consumatori hanno sempre più carattere temporaneo e interessano non la totalità del comportamento dell’individuo, bensì specifiche attività di consumo29: le imprese pertanto, invece di incentrarsi sul prodotto o sul consumatore sono sempre più portate a privilegiare i criteri che orientano di volta in volta le scelte dei consumatori.

Negli anni Novanta si afferma una modalità di consumo affettivo-identificativa, in cui l’oggetto diventa realmente significante, a prescindere dal suo valore funzionale e assume una valenza simbolica, rendendo i tempi di consumo più riflessivi e consapevoli. Si arriva così alla situazione attuale dove tutto è cambiato; il trend che più di tutti caratterizza la società attuale è quello che si fonda su una personalizzazione dei modelli di consumo. Disegnare delle tendenze vuol dire accettare il fatto che interessino, nella maggior parte dei casi, solo gruppi ristretti di soggetti, ossia che si configurino come microtrend.

E’ come se affiorasse un arcipelago di piccole isole, ognuna abitata da una distinta tribù. Non si è più in presenza dunque di una “struttura piramidale di acquisizione di prestigio sociale attraverso le merci”,

28

CENSIS 1988.

29

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bensì di una “struttura esplosa di micro-universi paritari”30.

Ecco che, dunque, la vecchia logica del consumo individuale anni Ottanta non regge più: il consumo si è fatto personalistico. La moltiplicazione delle identità fa sì che l’individuo non accetti più la moda, anche se fatta a suo uso e consumo (come nella prospettiva individualista), ma cerchi, nell’infinità di mode in corso, quella più significativa per la propria esperienza nell’universo di riferimento. Inoltre le scelte di consumo sono divenute combinate-competitive, permettendo al consumatore di mescolare il capo griffato con quello unbranded e di superare il rigido schema del total look.

L’abbigliamento, è opportuno precisare, rappresenta solo una delle possibili alternative per soddisfare i bisogni e i desideri del soggetto, poiché sono emerse altre opportunità di consumo, soprattutto quelle legate al tempo libero, per esempio viaggi, beauty farm, sport e quelle riguardanti le nuove tecnologie della comunicazione come cellulari, computer, lettori dvd ecc. In questa situazione le scelte entrano in concorrenza tra loro e si basano sulla capacità di produrre benessere e comodità per l’individuo dando origine ad una logica di consumo armonica-comunicativa. Si crea, quindi, un tipo di prodotto atto a soddisfare un consumatore sempre più esigente, informato, attento alla qualità e ai servizi che gli vengono offerti e sempre più complesso.

Come sostiene anche Giampaolo Fabris31, il nuovo consumatore, definito postmoderno, presenta

30

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mille volti ed è caratterizzato da una molteplicità di stili; i suoi comportamenti non si possono più classificare secondo un unico modello e la sua età non rappresenta più un punto di riferimento sicuro, anzi tale variabile è sempre meno determinante.

Di conseguenza a ciò entrano in crisi i tradizionali criteri di segmentazione del target per stili di vita, sesso, età, istruzione, classe sociale in quanto emerge, soprattutto tra i giovani, un consumatore “trasversale” che non si riconosce in un determinato stile di vita, ma tende a creare contaminazioni e commistioni di stili e di generi. Il consumatore postmoderno è molto libero e poligamo nei confronti della marca; è eclettico: combina fra loro cose e comportamenti apparentemente contraddittori. Si genera il fenomeno del crossdressing in base al quale l’individuo crea con i vestiti dei patchwork d’abbigliamento che tagliano trasversalmente le distinzioni etniche, di classe, di cultura e molto spesso anche di tempo, attraverso il recupero del passato.

Tornano così di moda i vecchi stili, esplode il consumo di oggetti del passato, nei quali si iscrive anche il fenomeno del vintage ed emerge un consumatore collezionista che fa della raccolta di “robe vecchie” una delle attività preferite del tempo libero, dimostrando verso di essa un forte piacere ed un forte coinvolgimento affettivo32. Per quanto riguarda le relazioni con gli altri, il consumatore postmoderno appare più interessato all’area del privato (individualismo) che a quella del sociale (individualità), rivelando, però allo stesso tempo la

31

Giampaolo Fabris, Il nuovo consumatore: verso il postmoderno,in “ consumo e postmodernità” a cura di Paolo Dell’Aquila pp. 1-6.

32

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tendenza a formare dei gruppi o meglio della tribù intorno agli oggetti e ai luoghi di consumo. Inizialmente riservate all’universo giovanile tali tribù si stanno estendendo anche alla popolazione adulta e si basano sul legame di appartenenza che diventa più importante del bene da cui ha avuto origine l’incontro, influenzando l’intero stile di vita dell’individuo. La ricerca di una o più comunità a cui appartenere è strettamente legata ad un altro tipo di ricerca quella dell’emozione che rappresenta sicuramente l’aspetto di maggior rilevo del nuovo consumatore.

Al prodotto il consumatore non chiede più soltanto qualità ed innovazione tecnologica, ma anche un legame affettivo; vuole un prodotto su misura, rigorosamente personalizzato. In quest’ottica la pubblicità e i punti vendita cercano di creare intorno al prodotto un’atmosfera affettiva ed emozionale sottolineando le caratteristiche immateriali e comunicative del bene, più che le sue qualità tecniche e trasmettendo al consumatore delle sensazioni capaci di soddisfare i suoi desideri e la sua voglia di evasione dalla realtà. Oltre alla comunicazione pubblicitaria un altro elemento che influenza notevolmente il consumatore è l’atmosfera all’interno del punto vendita composta sia da stimoli fisici quali suoni, luci, colori, profumi che da fattori sociali rappresentati dal personale di vendita e dagli altri consumatori i quali possono contribuire in modo determinante ad aumentare (o eventualmente diminuire) la probabilità d’acquisto.

(21)

1.2

ECONOMIA

E

SOCIETA’

ITALIANA

1.2.1Cause del boom economico in

Italia tra il 1950 e il 1960

Nel periodo di tempo compreso tra gli anni Cinquanta e Sessanta l’Italia fu protagonista di un record di crescita nella produzione nazionale, tale da far parlare di “miracolo economico”33. L’apice dello sviluppo di questo trend positivo fu raggiunto tra il 1958 e il 1963. Questo fenomeno che caratterizzò soprattutto gli USA si diramò anche in molti Paesi europei, oltre all’Italia, tra cui la Germania e la Francia, in cui si verificò un miglioramento dello stile di vita. In questi anni l’Italia riuscì a ridurre il divario economico con l’Inghilterra e la Germania e a eguagliare sistemi economici come quello belga, olandese, svedese.

Nonostante il fenomeno si riferisca a un evento principalmente economico, esso ebbe una forte ripercussione sullo standard di vita degli italiani che in pochi anni cambiò radicalmente soprattutto grazie ad un notevole aumento del reddito pro-capite. Si portò così nel nostro Paese un livello di progresso e benessere mai conosciuto nei periodi precedenti.

33

La società italiana conosce in un brevissimo volgere d’anni una rottura davvero grande con il passato: nel modo di produrre e di consumare, di pensare e di sognare, di vivere il presente e di progettare il futuro. E’ messa in movimento in ogni sua parte: esprime energie e potenzialità economiche diffuse, capacità progettuali, ansie di emancipazione differenti e di diverso segno. FONTE: G.Crainz, Storia del miracolo italiano, cit. pVII.

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I fattori che determinarono tale svolta sono molteplici e da ricercarsi in ambiti differenti. Bisogna premettere innanzitutto che lo sviluppo dell’Italia e degli altri paesi europei avvenne grazie ai forti contributi rilasciati dagli Stati Uniti, non dobbiamo infatti dimenticare che questi non furono solo gli anni della ripresa economica, ma anche della guerra fredda. Si creò una situazione fra Russia (la maggiore potenza dell’occidente) e Stati Uniti (vincitori del Secondo conflitto mondiale) caratterizzata da contrasti ideologici, economici e strategici34. Mentre la Russia si caratterizzò per un regime politico chiuso e protezionista gli Stati Uniti collaborano alla ricostruzione dell’occidente ovviamente seguendo come impronta quella del loro stesso Paese.

Uno dei fattori prima citati è senza dubbio la fine del protezionismo e l’adozione di un sistema di tipo liberista che rivitalizzò il sistema produttivo italiano, favorito anche dalla creazione del Mercato Comune Europeo a cui l’Italia aderì nel 1957. Inoltre fu importante il ruolo svolto dallo Stato, caratterizzato da un notevole interventismo nell’economia. Infatti il governo finanziò la costruzione di un gran numero di infrastrutture, essenziali per lo sviluppo economico del Paese, tramite stanziamenti statali e prestiti a tasso agevolato che ammontarono a più di 714 miliardi di lire; anche la Banca d’Italia mantenne un tasso di sconto estremamente favorevole per le nuove industrie italiane che permisero un più facile accumulo di capitali, al fine di agevolare gli

investimenti.

34

(23)

Alla base del nuovo sistema economico italiano vi furono quindi:

• la crescita della domanda interna ed esterna • la capacità di adattare la produzione alla domanda futura

• i cospicui investimenti pubblici e privati • l’aumento della produttività

• la stabilità dei prezzi

Un ulteriore, fondamentale fattore di promozione della crescita dell’economia italiana negli anni Cinquanta fu rappresentato da un’eccezionale disponibilità di mano d’opera a basso costo. L’elevato tasso di disoccupazione soprattutto nella prima metà del decennio e il progressivo esodo dalle campagne provvedevano a garantire un afflusso continuo di forza lavoro prevalentemente giovane e disposta ad adattarsi anche alle più dure condizioni lavorative pur di riuscire a mantenere un posto sicuro.

Nella seconda metà degli anni Cinquanta le storiche regioni del triangolo industriale si sostituirono in parte considerevole alle mete della prima ondata migratoria. Gli impianti di Mirafiori, della Pirelli, dell’Alfa Romeo, della Magneti Marelli, della Montedison e di numerose altre industrie in espansione divennero i principali poli di attrazione dell’emigrazione meridionale.

(24)

1.2.2

Conseguenze

del

boom

economico nel mercato e nell’industria

Pertanto tra il 1958 e il 1963, anni di massima crescita economica, il PIL crebbe addirittura del 6,3%.Sin dall’inizio la struttura produttiva italiana si caratterizzò per il fenomeno chiamato “dualismo”35, che consisteva in un’ampia sfasatura e livello di crescita tra mercato interno ed esterno. Infatti, l’Italia presentava un vantaggio competitivo sulla produzione interna, basata sui settori tradizionali ad alto coefficiente di lavoro. La domanda estera, invece, premeva per prodotti sempre nuovi nei paesi ricchi e industrializzati dove i fattori produttivi maggiormente usati erano il capitale e la tecnologia. L’urgenza di soddisfare questa domanda e quindi cercare di ottenere un vantaggio competitivo anche in Europa, portò lo sviluppo di settori che divennero il fulcro del boom e la base della nascente industria italiana.

L’Italia cercò di sfruttare a questo punto tale dinamismo di idee e di capitali, riuscendo ampiamente ad imporsi nel campo degli elettrodomestici, dell’automobilismo e delle manifatture; infatti in questi anni nascono le grandi industrie italiane la cui produttività aumentava progressivamente grazie alle nuove tecnologie da loro utilizzate.

Fiat, Zanussi, Candy, Olivetti, sono solo degli esempi del passaggio da un’Italia fondamentalmente agricola ad un Paese dove l’industria era il settore maggiormente produttivo. L’alta tecnologia impiegata

35

(25)

nei processi produttivi permise alle imprese di autofinanziarsi più facilmente, servendosi di manodopera qualificata; inoltre la stabilità dei prezzi portò a un relativo contenimento dei salari, a un sempre maggior investimento produttivo e a una crescita dei consumi.

Nonostante questa situazione positiva portasse il Paese verso un benessere sempre maggiore, gli squilibri non mancarono. Si deve citare a questo proposito la cosiddetta “distorsione dei consumi”36, un esempio di scompenso dovuto a una inadeguata politica di controllo dello sviluppo economico. Non si riuscì, cioè, ad armonizzare i diversi andamenti tra consumi privati e consumi pubblici. Mentre i primi crebbero in maniera estremamente rapida, poiché su di essi si riflettevano gli effetti della produzione fortemente orientata all’esportazione e concentrata soprattutto su beni di consumo durevoli e indirizzati ai privati, i consumi pubblici, quelli cioè promossi dagli enti e dalle istituzioni pubbliche, le scuole, gli ospedali, i trasporti e i beni di prima necessità in generale, crebbero molto più lentamente. La crescita della domanda estera conferì un’importanza eccessiva alla produzione di beni di consumo anche di lusso, a scapito invece degli investimenti in infrastrutture. Questa distorsione venne riscontrata anche a livello di consumi individuali, proprio a causa del diverso dinamismo e ritmo di crescita dell’economia. Infatti, i beni primari risultavano proporzionalmente più costosi rispetto a quelli secondari, proprio perché la volontà di emulare le ricche società europee aveva causato un salto troppo brusco per un Paese ancora

36

(26)

provinciale e contadino, dove spesso l’auto era un necessario status-symbol e i servizi igienici solo una comodità di pochi. Gli esempi di industrie legate al boom sono limitati al Nord Italia; questo perché il Sud, a causa del già noto divario industriale, riuscì ad avvertire qualche impulso solo successivamente sul finire degli anni Cinquanta .

E’ doveroso ricordare il ruolo svolto dalla FIAT in questi anni. Essa37riuscì ad instaurare un sistema di produzione a costi decrescenti che dipendeva da un massimo sfruttamento degli impianti, dall’allargamento del mercato interno e da una graduale liberalizzazione degli scambi. La FIAT fu in grado di imporsi a livello internazionale, diventando competitiva alla pari di altre imprese europee. Fu, quindi, un asse portante del modello di sviluppo caratteristico del miracolo economico italiano degli anni Sessanta, perché aveva esteso la sua presenza all’estero sino a diventare un gruppo multinazionale. Stesso percorso seguì l’Olivetti, il cui fondatore, Adriano Olivetti, sviluppò un piano aziendale di produzione per rettificatrici, macchine multiple e speciali, impianti di lavorazione automatizzati.

Lo sviluppo industriale che si verificò in Italia fu sorprendente e contribuì a cambiare l’opinione pubblica mondiale, che era abituata a considerare gli Italiani come europei di secondo livello; questo soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale.

37

(27)

1.2.3

Conseguenze

del

boom

economico nella società

In seguito alla fase economica positiva di cui l’Italia fu protagonista, la società cambiò radicalmente e le condizioni di vita subirono un notevole miglioramento dovuto all’aumento del reddito medio della popolazione, che permise a volte l’acquisto di beni di lusso, prima assolutamente fuori portata. I consumi aumentarono con una rapidità mai vista e le possibilità finanziarie delle famiglie erano tali da permettersi un’alimentazione sana e ricca, vestiti, un’abitazione e perfino l’automobile.

Quest’ultima è sicuramente, assieme alla televisione, ciò che più rappresenta la nuova società del tempo e il simbolo del boom; in questi ultimi anni Cinquanta infatti la motorizzazione nazionale raggiunse livelli mai visti e questo portò ad un aumento delle auto in circolazione38.

In molte case italiane erano presenti gli elettrodomestici di ultima generazione: phon, orologio, frigorifero, stufette elettriche, frullatori, lavatrici, che cambiarono le abitudini degli Italiani. Tale rinnovamento dei consumi è evidente se andiamo ad osservare i dati forniti dall’Istituto Nazionale di Statistica; infatti negli anni 1952-1959 si denota un ampio incremento dei consumi in tutte le voci di spesa. Il consumo di generi alimentari e bevande

38

Nel 1973 a causa dell'aumento di prezzo del greggio deciso dall'OPEC scatta la crisi energetica in Italia, viene così deciso che alcuni centri urbani vengano chiusi al traffico, in altri sia possibile circolare solo a targhe alterne e la domenica obbligatoriamente a piedi. FONTE: www.griseldaonline.it.

(28)

cresce del 41,8%, il vestiario del 16%, la spesa in trasporti e comunicazione passa da 480 a 911 miliardi di lire effettuando così una variazione accrescitiva del 90%; aumentano considerevolmente anche le spese per spettacoli ed altre attività ricreative che balzano infatti da 413 a 588 miliardi di lire crescendo così del 42,3%.

Si delinea così una nuova società dove i consumi diventano sempre più il prodotto di un modello culturale, un elemento centrale per la sistemazione dell’esperienza individuale e per le scelte complessive dei singoli. Le motorette, le automobili e gli apparecchi per l’ascolto della musica salgono così ai primi posti nella graduatoria dei beni più desiderati, mentre fra il 1956 e il 1965 il raddoppio delle presenze negli alberghi e nei campeggi rappresenta un altro chiaro segnale del modello culturale che sta scoprendo concetti come “tempo libero” e “villeggiatura”.

La crescita economica iniziata negli anni Cinquanta prosegue anche nel decennio successivo però ad una velocità meno intensa rispetto al periodo precedente; infatti tra il 1957 e il 1967 assistiamo ad una forte crescita dei consumi (in tutte le voci di spesa) che si stabilizzano poi tra il 1967 e il 1970. Nasce un nuovo rapporto con i beni che porterà nel giro di breve tempo a forme di idolatria delle merci, a stravolgimenti degli usi dei prodotti; a quel fenomeno noto come consumismo39che si svilupperà poi con tratti ancora più marcati negli anni Ottanta.

39

Tendenza propria delle moderne società industriali a sviluppare comportamenti collettivi orientati a sempre nuovi consumi privati, perlopiù indotti dalla pubblicità e da altri mezzi di comunicazione di massa. A cura di, Dizionario di

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Specialmente la casalinga diviene il “soggetto” protagonista della nuova mentalità consumistica; infatti molte delle innovazioni tecniche e delle relative apparecchiature immesse sul mercato hanno riguardato il settore della pulizia, dell’igiene e della vita domestica. E’ normale quindi immaginare che la donna da sempre affidata alla gestione economica familiare abbia visto in questi prodotti un mezzo in grado di farle risparmiare tempo e fatica.

1.2.4 Descrizione della società italiana

dagli anni Settanta ad oggi

Gli anni Settanta sono anni di libertà, di trasgressione, di lotte politiche. Esplodono la creatività, la voglia di progresso a tutti i costi, l'interesse per l'archeologia. E' un decennio dalle tinte forti e di grande competizione in tutti i campi: si fanno sentire sempre di più la presenza dei media, che entrano di prepotenza nella vita quotidiana, le contestazioni scaturite dalle tensioni generazionali e i comportamenti aggressivi. E' un periodo colto, ideologico, di ristrutturazioni: le aziende si ingrandiscono e si dotano di maggiori tecnologie, nascono uffici di ricerca e sviluppo, vengono istituiti corsi di formazione per i manager. Anche l'occupazione ha un incremento notevole, principalmente nel settore terziario.

Non possiamo parlare degli anni Settanta e non fare riferimenti alla musica; Patty Pravo, Claudio

(30)

Baglioni, Lucio Battisti non sono solo degli ottimi cantanti apprezzati dalla discografia italiana, ma diventano il simbolo di una nuova generazione. Essi

divengono portavoce di quella fascia della

popolazione sempre più emergente e desiderosa di esprimere la propria identità in modo libero e spesso anche provocatorio: i giovani che nel 1975 riescono ad ottenere dal governo la possibilità di divenire maggiorenni a 18 anni, raggiunti i quali, possono quindi votare e sposarsi senza il consenso dei genitori.

Rispetto al decennio precedente cresce il grado di istruzione, si legge di più, grazie ad una più ampia diffusione di giornali, riviste e pubblicazioni varie di tipo informativo.

Nascono le prime radio libere40, iniziano gli

anni d'oro della disco music, che dilaga nelle discoteche di tutta Italia, si creano nuovi programmi televisivi di intrattenimento, i primi sceneggiati. Di questo rinnovamento culturale fa parte anche il cinema; è il momento infatti di grandi registi, spesso molto criticati per le loro sceneggiature irriverenti e controtendenza, come Fellini, Bertolucci, Scorsese.

La fine degli anni Settanta sono caratterizzati da una maggiore distensione a livello politico e sociale. Si assiste ad un graduale ritorno a quei valori e a quegli affetti che sono stati accantonati negli ultimi anni a causa degli eventi rivoluzionari e progressisti che hanno soffiato a lungo nel Paese. Anche i ragazzi della contestazione finalmente

40

Svolta storica in tema di comunicazioni quella espressa dalla legge 103 del 14 aprile del 1975 sulla regolamentazione del servizio pubblico, che pur confermando la legittimità del monopolio di Stato, apre ad un maggiore pluralismo dell'etere. FONTE: www.web.dsc.unibo.it.

(31)

abbandonano i loro propositi bellicosi e sembrano più interessati al ballo e al divertimento.

Gli ultimi vent’anni dell’attuale secolo sono sicuramente scanditi da ritmi più lenti (in termini di avvenimenti storici) rispetto agli anni precedenti o comunque da eventi che hanno un riflesso meno

“rivoluzionario” sulla società. Dal punto di vista

sociale e culturale la fine degli anni Settanta rappresentò un momento di svolta, segnato dal distacco con il decennio appena trascorso. Si cominciavano a cogliere nuovi comportamenti, nuovi rituali messi in scena da nuovi protagonisti. I giovani abbandonavano le piazze e si concentravano nelle discoteche trascinati dal modello di John Travolta e del film culto La febbre del sabato sera. Gli adulti mettevano le basi di una vera restaurazione borghese che reintroduceva il gusto della mondanità. Tuttavia è

opportuno ricordare che i problemi economici degli

anni Settanta lasciarono l'eredità di un pesante deficit della spesa pubblica (110.000 miliardi di deficit nel 1988, cresciuti a 130.000 nel '90); inoltre l’ultimo decennio si è aperto in Italia e nel mondo con una serie di grossi mutamenti imposti da un generale

disagio nella società civile e nelle istituzioni.

Economicamente, la crescita produttiva, che negli anni Ottanta aveva rinviato la discussione di alcuni problemi, si è arrestata all'inizio del 1990. Le grandi aziende nazionali, come FIAT e Olivetti, hanno perso di competitività a livello internazionale, aggravate da problemi dell'Amministrazione italiana e da un'inflazione al di sopra della media europea. Si delinea, quindi, all’inizio degli anni Novanta una situazione economica prevalentemente negativa. In realtà nasce il grande dibattito sulla situazione italiana

(32)

ancora oggi molto sentito: “i pessimisti” parlano di depressione, gli “ottimisti” , invece, ritengono che la produzione italiana stia crescendo e che siano aperte molte prospettive per il rilancio dell’economia.

1.3 LA MODA IN ITALIA

1.3.1 Cambiamenti nella moda

Importanti e significativi cambiamenti si svilupparono nel settore moda a partire dagli anni Cinquanta. E’ doveroso premettere che la moda non è sempre esistita, non fa parte dei bisogni naturali dell'uomo per garantirsi l'adattamento all'ambiente e dunque la sopravvivenza.

Per molti secoli infatti le società umane non hanno conosciuto la moda: i vestiti venivano realizzati seguendo sempre gli stessi canoni e non vi era perfino molta differenza tra l’abbigliamento maschile e quello femminile, soprattutto fra le classi popolari. Fra i ceti meno abbienti inoltre vi era l’abitudine a coltivare nei propri campi lino e cotone i quali venivano poi autonomamente filati per produrre tessuti con i quali coprirsi. Gli abiti creati, nelle classi più povere, fino al tardo medioevo erano indumenti prevalentemente informi, standardizzati e privi di colore; non vi era un senso del gusto, ma l’abito era visto esclusivamente come una necessità41. Avere vestiti fatti su misura e colorati era un esclusivo privilegio dei ricchi; gli abiti, inoltre, erano usati dai ceti più elevati per testimoniare

41

(33)

ricchezza e nobiltà, uno strumento per comunicare a tutti il prestigio della propria casata.

La grande rivoluzione nei costumi e non solo, si avvia in Italia a partire dagli anni Cinquanta (sulla scia dei cambiamenti avvenuti negli Stati Uniti negli anni trenta). Gli anni del “miracolo italiano”, 1958-1963, sono caratterizzati da un mutamento dei costumi che si enfatizza soprattutto nei decenni successivi. Il desiderio febbrile di acquistare non era rivolto solo all’automobile o al televisore, ma anche all’abito che diviene un’ulteriore testimonianza di benessere raggiunto. Bisogna considerare che, terminata la guerra, gli americani avevano lasciato nel loro passaggio abiti prodotti industrialmente e proseguendo nell’emulazione della società liberatrice si crearono in Italia una serie di aziende tessili specialmente al nord che producevano essenzialmente abiti confezionati.

Di tale cambiamento ne risentì il settore dell’alta moda in quanto non tanto il pubblico maschile quanto quello femminile sembrava molto affascinato dall’idea di acquistare capi di abbigliamento moderni e a prezzi contenuti. Tali beni derivavano da una produzione seriale nella quale mancava la creatività tipica della haute couture e l’eleganza dell’atelier, ma erano abiti molto pratici e dinamici che si acquistavano con facilità nei grandi magazzini. Il settore dell’ abbigliamento si caratterizzò quindi per una semplificazione delle fogge, per una diminuzione del numero e della varietà delle tenute, si affermò uno stile più spoglio, più disadorno rispetto al passato; gli abiti tesero sempre più all’uniformità sia nei luoghi di lavoro sia altrove. Questo nuovo abbigliamento si diffuse in tutti gli

(34)

ambienti anche in quelli contigui dello spettacolo e dell’arte.

Tale fenomeno proseguì negli anni Sessanta con un’ulteriore accentuazione di quei caratteri di libertà e democratizzazione iniziati nel decennio precedente.

Caratteristica di questa antimoda42era l’essere al di fuori di qualsiasi canone e imposizione, lasciare a ognuno la completa libertà di vestire. All’interno di questa libertà i blue jeans divennero l’abito metafora per eccellenza. Un segno di libertà, ma anche di democrazia, uguaglianza e fraternità.

A questo proposito è opportuno citare il contributo del sociologo inglese Mike Featherstone il quale, con riferimento a tale periodo, parla di processo di informalizzazione degli stili di abbigliamento e di presentazione. Tale processo viene anche definito dallo stesso autore come “un rilassamento ed un più alto livello di controllo nell’essere capaci di confrontarsi con emozioni in precedenza represse. I canoni meno ristretti del comportamento ed il rilassamento dei codici che accompagnano il processo di informalizzazione richiedono che gli individui mostrino maggiore rispetto e considerazione gli uni rispetto agli altri, quanto la capacità di identificarsi ed apprezzare i punti di vista altrui”.43 Questo processo di informalizzazione ha dunque richiesto agli individui un maggior gradi di rispetto reciproco, di

42

Negli anni Sessanta si comincia a parlare di antimoda che in un primo momento viene individuata nell’abbigliamento “esistenzialista” degli intellettuali. (Maglione nero a collo alto e pantaloni anche per le donne), quindi nel sopraggiungere degli stili giovanili (tipici i pantaloni svasati in fondo) e nell’intensificazione di mode passeggere lanciate soprattutto dai divi del cinema.

43

(35)

autolimitazione e rispetto per il prossimo, un “de-controllo-controllato” delle emozioni.

A questo concetto si legò anche l’avvento della minigonna che segnò per la donna una rottura con il passato: ci si spoglia della funzione morale dell’abito di coprire e nascondere il corpo. Si assistette ad una profonda e cruciale trasformazione del costume femminile, lo stile si fece più semplice anche per far fronte ad una vita più attiva, sportiva, dinamica.

Si trattò di una vera e propria “rivoluzione silenziosa”, che si diffuse attraverso l’abitudine di prolungare le comodità degli indumenti da viaggio, balneari e sportivi nella vita di tutti i giorni e che giunse ad influenzare anche il modo di vestirsi nelle occasioni mondane o di gala.

Oltre alla minigonna anche il bikini44divenne simbolo dei grandi cambiamenti sociali di quegli anni, caratterizzata dal desiderio di libertà ed emancipazione.

Fu proprio questa esigenza di uguaglianza ed emancipazione che nel tempo fece avviare verso una moda unisex, la donna iniziò ad indossare pantaloni da uomo; il suo abbigliamento si fece meno rigido e si arricchì di colori più vivi e presi in prestito dall’altro sesso.

44

Il bikini è il completo composto da alta fascia reggiseno e calzonicini-mutandina, che nel 1946 venne ideato dallo stilista svizzero Luois Reard e che fu poi lanciato dal couturier Jacques Heim e presentato a Parigi in coincidenza con le prime esplosioni atomiche sperimentate sull’atollo Bikini.

(36)

1.3.2 La moda degli anni Settanta

Abbiamo visto che negli anni Cinquanta è andato diffondendosi uno stile semplice, sobrio nel quale viene meno l’eleganza e la qualità tipica dell’alta moda.

Negli anni Settanta si assiste ad una qualificazione stilistica del prodotto industriale. Ciò portò il sistema moda italiano ad arricchirsi di un insieme di esperienze, di rapporti e di conoscenze; i creatori di moda ebbero l’opportunità di misurarsi con la realtà imprenditoriale per poi divenire essi stessi imprenditori della creatività e del gusto. Inoltre, l’industria dell’abbigliamento che fino ad allora si era dovuta preoccupare di crearsi un mercato, grazie al rapporto instaurato con gli stilisti incominciò a creare e a orientare la domanda spostando, di conseguenza,

l’attenzione dall’innovazione organizzativa e

distributiva che aveva caratterizzato i processi di integrazione verticale, all’innovazione di prodotto.

Gli impianti e le attrezzature furono rinnovati, l’integrazione verticale si estese a tutta la filiera produttiva, furono effettuati investimenti in marketing e distribuzione per sfruttare le economie di scala

generate dall’accresciuto capitale. La

modernizzazione dell’industria tessile e

dell’abbigliamento si è dunque compiuta all’insegna di una stretta contiguità con il mercato, di una stretta compenetrazione fra cultura industriale e cultura mercantile. Si sviluppò un legame fra orientamento al mercato e alla produzione che gettò le basi per la nascita dell’industria della moda.

(37)

Negli anni Settanta prendono avvio aziende che ancora oggi hanno un forte peso sull’economia nazionale.

Fra tali aziende un ruolo importante è stato sicuramente giocato da Benetton che nasce nel 1965 in Veneto con il nome di Maglificio di Ponzano

Veneto dei Fratelli Benetton. La novità della loro idea imprenditoriale consisteva nel tipo di abbigliamento proposto, colorato e con un ottimo rapporto qualità/prezzo; caratteristiche che lo rendevano particolarmente gradito ai giovani . I negozi Benetton erano assolutamente innovativi in quanto mancava il banco di vendita e si eliminava in questo modo la

storica separazione tra venditore e cliente45.

L’innovazione diviene la chiave per il successo; solo alcuni creatori di moda riescono a comprendere che lo stile con cui presentarsi al pubblico deve cambiare, il cliente non è più costituito dalla ristretta élite, ma il nuovo segmento di mercato è il popolo dei giovani variegato e pieno d’interessi. Fra i pionieri della moda ricordiamo Versace, Armani, Ferré i quali seppero reinterpretare la moda con gusto e stile adeguandola al nuovo contesto sociale.

Armani, ad esempio, inventò un abito destrutturato, scisso cioè dai riti e i ruoli cui

rispondevano le vecchie rappresentazioni

vestiamentarie. Il suo esperimento iniziò con la giacca da uomo sempre meno rigida e realizzata con tessuti morbidi e proseguì con altri capi d’abbigliamento annullando fodere e imbottiture. Si apre, quindi, una

45

Alla fine degli anni Ottanta l’azienda fece un importante investimento nel campo dell’automazione industriale che consentì di sfruttare al meglio le caratteristiche di flessibilità della struttura produttiva e commerciale dell’impresa. Elisabetta Merlo, Moda italiana: storia di un’industria dall’Ottocento a oggi, pp. 106-108.

(38)

logica casual si producono abiti informali, che possono essere usati indifferentemente per il lavoro e per il tempo libero. Nasce, dunque, la necessità di trovare fogge, indumenti e materiali che rispettino tali caratteristiche e per fare ciò ci si rivolge ai tessuti e colori del mondo orientale. Il rosso, l’arancio, lo zafferano, cappotti di stile “beduino” caftani e persino tentativi di chador vengono importati dal mondo arabo e vengono subito indossati dai giovani italiani. Anche l’abbigliamento dell’Occidente, però, venne rivisto con occhio attento per captare indicazioni, come l’uso di panni pesanti bordati da semplici sopraggitti di lana, la sovrapposizioni di capi dall’aspetto informe che potevano essere tolti o indossati a seconda della temperatura, il fustagno e il velluto a coste per pantaloni o completi da “guardiacaccia”, gli stampati a fiori e i ricami folk, gli scialli, i calzettoni e le calze di lana pesante.

In generale si trattava di indumenti dalla struttura sartoriale molto semplice che potevano essere facilmente realizzati dall’industria, ma soprattutto di capi decontestualizzati dalla loro situazione d’origine e che non avevano alcuna collocazione nell’immaginario sociale dell’Occidente.

1.3.3 La moda degli anni Ottanta

La moda, come già è stato detto più volte, riflette i cambiamenti economici e sociali in corso; negli anni Ottanta essa si propose con uno stile cupo, classico e militaresco, ma contemporaneamente si proiettò nel futuro adottando un nuovo schema organizzativo: si realizzò la prima edizione di Modit

(39)

alla fiera di Milano, seguita da Milano Collezione che riunì al Centro Sfilate le presentazioni degli stilisti. Le due associazioni italiane più importanti (Associazione Italiana Industriali dell’Abbigliamento e Associazione Magliecalza) erano riuscite nel compito di creare un’ immagine compatta del pret-à-porter italiano.

Il segnale che il pret-à-porter milanese riuscì ad essere funzionale al nuovo scenario sociale che si andava configurando riguardò nuovamente lo stilista Giorgio Armani.

Si trattava per lo più di una moda difficile ed estremamente lussuosa, realizzata con tessuti ricercati e con lavorazioni innovative che sconfinava nell’Haute Couture. Anche i costi erano adeguati a questo stile; il pret-à-porter italiano sembrava divenire l’abbigliamento dei ricchi. Questo nuovo stile portò a diverse problematiche, prima fra tutte il rifiuto del mercato.

Tali prodotti infatti si rivolgevano ad una fascia ristretta di popolazione; sembrava quindi opportuno diversificare l’offerta per mercati differenti. Un segmento che non doveva assolutamente essere escluso e che venne rivalorizzato fu quello dei giovani. Lo stesso Armani creò una linea Emporio Armani da vendere in negozi monomarca appositamente creati, in cui si potevano trovare dai jeans, griffati con il marchio dell’aquilotto, a collezioni complete di prodotti di abbigliamento maschile e femminile.Tali capi avevano il pregio di unire un alto valore innovativo e d’immagine a un prezzo pensato per i giovani. L’obiettivo, per Armani così come per gli altri stilisti a lui contemporanei, era quello di creare prodotti di alta qualità che rispondessero alle nuove esigenze di mercato, una

(40)

moda “ricca” che però non fosse rivolta solo all’elite, ma che coinvolgesse anche le classi emergenti e soprattutto i giovani.

Era iniziata una nuova corsa alla scalata sociale: i ricchi degli anni Ottanta provenivano dal commercio o dal mondo del terziario innovativo e non avevano alcuna tradizione alla spalle. Come era accaduto nell’Ottocento, durante il Secondo Impero, il loro obiettivo era “esibire”.

Si cominciò a parlare di look, ossia di struttura comunicativa, fatta di abiti e di oggetti di consumo, capace di costruire l’immagine di ciò che non è. La destrutturazione dei modelli tradizionali dell’apparire aveva però lasciato un vuoto, non c’erano più rituali certi cui adeguarsi per mostrare la propria ricchezza e non c’erano neppure valori o strumenti culturali abbastanza profondi, radicati e condivisi per crearne altri. Ricorrendo all’antico modello di Veblen si scelse la strada dell’ostentazione e del consumo mettendosi “i soldi indosso”46. Gli stilisti italiani erano pronti a soddisfare le richieste dei nuovi clienti: si abbandonò gli eccessivi riferimenti al passato e ci si concentrò nella ricerca del nuovo e di un linguaggio personale. Ferré si impose con una moda sobria, netta e pulita destinata ad una donna colta e raffinata; Krizia, operando una sintesi fra l’esperienza fatta sugli abbigliamenti etnici e l’amore per le avanguardie astratte propose forme geometriche, senza abbandonare, però, la maglieria con le grandi effigi, principalmente di animali, che ormai la caratterizzava; Versace si focalizzò sulla traduzione al

46

Espressione pronunciata durante un’intervista da Armando Bianchini, segretario generale dell’A.I.I.A.

(41)

femminile di capi d’abbigliamento maschili e sulla loro struttura proporzionale, ma soprattutto presentò il primo abito in maglia metallica, materiale che poi sarebbe diventato il simbolo della sua griffe.

Dunque l’immagine collettiva del “Made in Italy”, già di per se stessa garanzia di qualità ed eleganza, si articolò in tante proposte di gusto diverse e ben caratterizzate, ognuna della quali corrispondeva a una firma, cui era possibile ricorrere per ottenere il look prescelto. La firma divenne quindi la chiave estetica dei nuovi consumi, divenne lo status symbol, in assenza di altri elementi forse più certi, ma più difficilmente decodificabili. La nuova eleganza era aggressiva nella sua sfacciataggine ed esplicitava in modo diretto il suo significato ed il suo costo.

La moda si fece sempre più raffinata ed articolata; tutti, senza eccezioni, fecero però una concessione alle eroine della nuova epoca, le cosiddette “donne in carriera”. In questi abiti le spalle si imbottirono, la parte superiore del corpo venne enfatizzata in maniera esasperata a scapito di quella inferiore. La giacca diventò la nuova divisa della donna che lavora, ma non faceva più parte di un tailleur, era semmai un indumento basic, con una vita propria, che si accompagnava indifferentemente a gonne, pantaloni e bermuda. Nel 1986 si assistette ad un avvicinamento all’Alta Moda da parte di alcuni stilisti e al contemporaneo proliferare di un casual firmato, fatto anche di magliette, accessori, scarpe. La sera più sfarzosa e il tempo libero più normale richiedevano di essere ugualmente garantiti dalla logica del look totale. Tanto potere però finì per non essere più stimolante. Il pret-à-porter cominciò ad adagiarsi nella produzione di banali capi realizzati con

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