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L’origine dei neocon attuali

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Academic year: 2021

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L’origine dei neocon attuali

Gli attuali appartenenti al movimento neoconservatore sono molto diversi dagli originali fondatori di questa corrente politica americana. A partire dagli anni ’70 essa ha subito un profondo processo di trasformazione: da sostenitori del partito democratico i neocon1 sono diventati nel tempo agguerriti sostenitori del partito repubblicano e della destra conservatrice. Per quale motivo ciò è accaduto?

Le radici delle dottrine dei neoconservatori sono state da alcuni individuate negli insegnamenti di Leo Strauss, come anche nell’esperienza dei circoli trotzkisti della New York degli anni ’30 e ’40 (frequentati per esempio anche da Irving Kristol, uno dei fondatori del movimento); ma se sicuramente questi elementi sono presenti, e costituiscono una parte importante della genesi originaria dei neocon, non sono però assolutamente sufficienti per comprendere la successiva svolta conservatrice.

Infatti i neocon degli anni ’50 e ‘60 non erano portatori di valori e visioni molto differenti rispetto al resto del partito democratico,

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Per maggiore chiarezza si utilizzerà il termine neocon anche per il periodo precedente agli anni ‘70/’80, nonostante farlo sia un anacronismo.

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in cui erano anzi perfettamente integrati, nonostante i trascorsi trotzkisti e l’eredità straussiana.

Sono questi gli anni più cupi della Guerra Fredda, dominati dall’ansia e dalla paura del pericolo comunista; in questo clima la linea guida del partito democratico è il Cold War Liberalism: profondissima avversione per ogni totalitarismo (un tempo il nazionalsocialismo, ed ora il comunismo), con conseguente forte sostegno agli ideali democratici; forti spese militari per promuovere una politica estera forte ed incisiva, pronta ad esporsi in ogni punto del globo per attuare una politica di contenimento di ogni avanzata sovietica2.

Se i futuri neocon approvano incondizionatamente questo programma, paradossalmente (rispetto alla situazione attuale) è il partito repubblicano a contestare alcuni aspetti del Cold War Liberalism: durante la presidenza Eisenhower la politica estera fu gestita in maniera molto prudente e l’uso della forza fu circospetto e limitato; il presidente si preoccupava delle eccessive spese militari che la politica di contenimento dell’URSS richiedeva3. La riluttanza presidenziale ad impegnare il paese in una corsa tecnologica allo spazio, consentì ai

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Cfr. Mario Del Pero, Henry Kissinger e l’ascesa dei neoconservatori, Laterza, Bari 2006, p. 14. 3

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sovietici di mietere notevoli successi propagandistici, permettendo inoltre al futuro presidente J.F.Kennedy di utilizzare il cosiddetto missile gap durante la campagna elettorale.

Nonostante queste differenze il Cold War Liberalism rimane comunque l’ideologia ufficiale della politica estera americana, condivisa da tutto il panorama politico, e dalla grande maggioranza della popolazione, pronta a sobbarcarsi il peso delle ingenti spese in denaro, personale e risorse che il contenimento del potere sovietico richiedeva4.

Fra il 1962 ed il 1964 la politica del contenimento, e di conseguenza il Cold War Liberalism, raggiunse l’apice grazie alla politica espansiva dei presidenti Kennedy e Johnson: il gap spaziale era stato recuperato e si prefigurava la vittoria nella corsa lunare, mentre i tentativi sovietici di cambiare l’equilibrio strategico (le crisi di Berlino del 1961 e di Cuba nel 1962) erano stati contenuti. A questi successi seguì però, nel giro di pochi anni, la crisi ed il conseguente, definitivo crollo della politica del contenimento e del CWL, che ne costituiva la necessaria base ideologica.

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Questo crollo fu un vero e proprio naufragio ideologico per la società e l’establishment statunitense, un disastro che ebbe fra le sue numerosissime conseguenze anche la nascita del movimento neoconservatore così come lo conosciamo oggi.

Lo shock del Vietnam.

La causa principale della fine del contenimento, e del Cold War Liberalism, è il conflitto nel Vietnam: esso è stato infatti uno degli eventi più traumatici mai subiti dagli USA, che vi profusero ingenti risorse, vi persero ben 55.000 soldati, vi misero in gioco tutta la loro reputazione, vi basarono tutta la loro politica asiatica, e che alla fine persero ignominiosamente.

In effetti un simile esito era una diretta conseguenza della stessa strategia del contenimento: la volontà di contrastare ogni penetrazione comunista in ogni parte del mondo ed a costo di ogni sacrificio impediva di stabilire delle priorità strategiche e costringeva ad impegnarsi in ogni conflitto che minacciasse lo status quo, poiché ogni arretramento, per quanto da zone remote e prive di valore strategico, sarebbe stato visto come un inaccettabile avanzamento del comunismo internazionale.

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Il CWL non vedeva infatti nella strategia del contenimento un mezzo per mantenere indefinitamente lo status quo: al contrario il contenimento dell’influenza comunista doveva essere attivo, al fine di esercitare una forte pressione sull’avversario, fino a farlo implodere su se stesso5.

Quindi il punto non era certo quello di trovare un modus vivendi, il che di per sé non è irragionevole, in quanto se si combatte una guerra lo si fa allo scopo di vincere. In effetti però la strategia di contenimento impediva, se interpretata in senso ristretto, ogni flessibilità strategica: ogni cedimento o ritirata, per quanto piccoli potessero essere, diminuiva la pressione sul nemico, e ne rimandava la sconfitta finale; tale approccio costringeva ad alzare sempre la posta, senza valutare se il gioco valesse la candela o se un determinato impegno potesse andare al di là delle effettive possibilità nazionali; del resto l’idea stessa che il potere nazionale potesse essere insufficiente di fronte ad un qualunque compito era inconcepibile per un americano degli anni ’50 e dei primi anni ’60: il pericolo derivava dalla forza di penetrazione e di sovversione comunista, mentre una superiorità sovietica nel

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confronto diretto sarebbe stata possibile solo se l’America avesse desistito dalla lotta6.

Per quanto alte fossero le spese militari, che raggiunsero persino l’8,1% del PIL nazionale, l’americano medio le accettava come necessarie, e non le riteneva un gravame eccessivo. Questa mentalità deriva certamente dall’esperienza della seconda guerra mondiale, che gli USA vinsero mantenendo un elevatissimo tenore di vita, senza peraltro lesinare niente alle truppe7.

Per vincere non serviva allocare accuratamente delle risorse limitate: le risorse dell’America erano così smisurate che ogni avversario sarebbe stato comunque spazzato via dal torrente in piena di uomini e materiali.

Il contenimento come si è detto era una versione nucleare di questa dottrina: riconosciuta l’impossibilità di un conflitto diretto, si puntava a sfiancarlo circondandolo, ed impedendone ogni ulteriore espansione, causandone alla fine anche il crollo.

L’inefficacia di questa Weltanschauung viene alla luce già nella stessa impostazione ideologica della guerra del Vietnam: gli

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Ad esempio nel 1950 il banchiere Robert Lovett diceva come non ci fosse niente di impossibile per gli Stati Uniti, cfr. Mario Del Pero, Henry Kissinger e l’ascesa… , op.cit., p.26.

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americani vi vedevano un esempio di un gigantesco movimento di penetrazione comunista a livello mondiale, movimento percepito come monolitico e compatto. Era quindi necessario reagire ad esso così come si era fatto con il nazionalsocialismo; gli statunitensi non negavano che vi fossero differenze fra il comunismo nazionalista vietnamita ed il nazismo, ma per essi queste differenze erano meno importanti delle analogie fra i due regimi, trattandosi sempre di totalitarismi.

Se le mutate condizioni (quali la natura insurrezionale della guerra in questione, l’equilibrio nucleare fra le superpotenze, etc.) costringevano ad adottare la politica del contenimento invece che la guerra ad oltranza, il nemico rimaneva un’entità con la quale non vi potevano essere punti di contatto ideologici, ed ogni accordo con essa poteva avere solo natura strumentale e dettata dalla necessità.

La mancanza di flessibilità è stata alla fine pagata a carissimo presso dagli statunitensi: la fine della guerra vedeva la superpotenza statunitense screditata a livello internazionale, divisa al suo interno, e traumatizzata dalla penosa consapevolezza di avere, per la prima volta nella sua storia, perso una guerra.

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Lo spettro del Vietnam permane tuttora, e costituisce uno dei più importanti elementi da tenere in considerazione, qualora si volesse comprendere sia l’evoluzione della politica estera statunitense, sia la vision e il modus operandi delle Forze Armate USA.

Per certi versi l’eredità del Vietnam è stata per gli statunitensi ancora più importante della Seconda Guerra Mondiale8, ed ha acquisito lo stesso valore che a suo tempo ebbe per gli europei la Prima Guerra Mondiale, con alcuni elementi in più: i reduci sono ancora vivi e costituiscono ancora una parte attiva della società americana, e la sconfitta, invece che analizzata e discussa, anche solo per trarne insegnamenti per il futuro, è stata completamente rimossa, anche a livello istituzionale: fino al 2006 i manuali operativi dell’Esercito USA non si occupavano in alcun modo della lotta alla guerriglia, come se non esistesse affatto.

La sconfitta metteva in discussione tutto il modo di pensare definito come Cold War Liberalism, che a partire dalla Seconda Guerra Mondiale aveva definito la percezione che l’establishment e l’opinione pubblica statunitense avevano di sé

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e del resto del mondo9. A questo punto si poneva un problema: con cosa sostituirlo?

Kissinger e la Realpolitik.

Per i repubblicani il problema era meno pressante, dato che la guerra era stata iniziata dalle amministrazioni democratiche, ed il presidente Nixon, eletto nel 1968, aveva dovuto gestire una situazione ormai già compromessa, districandosene abbastanza abilmente; il suo consigliere per la sicurezza nazionale, Henry Kissinger, disprezzava la vecchia mentalità da guerra fredda, e contava su di un tacito accordo fra le superpotenze, un gentlemen’s agreement fra USA ed URSS, per mantenere lo status quo e spartirsi le zone di influenza, esattamente il contrario di quanto prevedeva il containment, senza contare la cinica spregiudicatezza dell’accordo con la Cina della rivoluzione culturale, del tutto inconcepibile solo 10 anni prima.

Ci fu anche una disponibilità molto minore ad impegnarsi in interventi militari all’estero, e se Johnson nel 1965 aveva spedito 15000 marines nella Repubblica Dominicana, Nixon si

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affidò piuttosto ad un pronunciamento militare per risolvere il problema cileno. I repubblicani erano quindi riusciti a modificare sensibilmente il loro approccio in politica estera per venire incontro alle nuove esigenze dettate dal fiasco in Vietnam: nel 1964 infatti la piattaforma elettorale del candidato alla presidenza repubblicano Goldwater era stata di un anticomunismo viscerale, paranoico e quasi patologico.

Nixon e Kissinger cambiarono quindi radicalmente, anche se solo temporaneamente, l’approccio repubblicano alla politica estera: non con un ritorno al tradizionale isolazionismo, ma piuttosto con l’accettazione della necessità di realismo ed accortezza nell’affrontare i problemi mondiali, della necessità di concordare con l’Altro (non più visto come un nemico disumano da sconfiggere, ma come parte tesa a perseguire i propri interessi) il mantenimento dello status quo, e della consapevolezza dei limiti delle risorse materiali cui il paese poteva far ricorso10.

Ciò non significava solo la fine del contenimento, ma rappresentava proprio il suo esatto contrario; grazie ad esso Kissinger riuscì ad ottenere diversi successi, quali il nuovo

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rapporto con la Cina, ed il disimpegno dal Vietnam, acquistando notevole popolarità e prestigio.

Tuttavia, nonostante tali meriti, alla fine l’onda lunga del Vietnam colpì anche la presidenza Nixon: lo scandalo Watergate fu tutto sommato anch’esso una conseguenza della guerra. Due anni dopo le dimissioni di Nixon le nuove elezioni consegnavano di nuovo la Casa Bianca ai democratici.

La lotta per il Partito Democratico.

Ma i democratici saliti al potere nel 1977 erano ben diversi da quelli che l’avevano lasciato nel 1969 nella vergogna della sconfitta: anch’essi, come i loro omologhi repubblicani, erano stati profondamente mutati dal fallimento vietnamita; ma, per molti di loro, il mutamento era stato ancora più profondo e traumatico, in quanto il conflitto era stato profondamente voluto dalle classe dirigente del partito, che non aveva lesinato alcuno sforzo per poterla vincere.

Il sorgere negli anni ’60 della cosiddetta New Left costituì un colpo durissimo per il vecchio establishment democratico legato al centrismo liberale da guerra fredda. Questo movimento di contestazione, che poteva annoverare leader carismatici come

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Martin Luther King, andava a criticare duramente la politica del vecchio partito democratico, una politica che comprendeva riforme civili all’interno, intervento all’estero, e massicci investimenti militari (il già citato Cold War Liberalism). Queste critiche provenivano da una ristrettissima minoranza del popolo e dell’establishment americano11, ma ebbero un forte impatto sui democratici, i quali reagirono in modi differenti.

Ad esempio George McGovern, Robert e Ted Kennedy, Eugene McCarthy, Fulbright , Al Gore senior e tanti altri, mostrarono una certa disponibilità a tener conto delle istanze dei contestatori, non certo per accettarle totalmente, dati il loro estremismo ed il loro valore eversivo, ma piuttosto per stemperarle in una visione più moderata, che comprendeva il disimpegno dal containment e la distensione verso l’Unione Sovietica12.

Se una simile evoluzione era avvenuta anche per i repubblicani dell’era Nixon e Kissinger, essa si era basata piuttosto sui canoni del realismo politico, e non sull’onda dell’idealismo dei movimenti contestatori; inoltre la svolta repubblicana poteva in

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Ibid. , pp.33-34. 12

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parte poggiare sulle vecchie categorie dell’isolazionismo, elemento ricorrente nella storia del partito.

In effetti una politica estera più pragmatica, e disposta ad usare la forza solo quando fossero stati a rischio i veri interessi del paese, potrebbe anche venire interpretata come una nuova forma d’isolazionismo, per quanto aggiornata ed adattata ai tempi: riconosciuta l’impossibilità di ritornare ad una reale indipendenza strategica degli USA dal resto del mondo, all’interno di un contesto bipolare, si cerca tuttavia di stabilizzare le rispettive zone d’influenza, in maniera tale da impedire, o comunque attenuare, ogni eventuale motivo di attrito.

I sopraccitati esponenti democratici avevano solo in minima parte un’impostazione di questo tipo, ed in pratica andavano piuttosto ad intercettare quella parte dell’opinione pubblica disgustata dalla sconfitta in Vietnam, ed alienata da ogni interesse verso la politica estera, e se ricercavano la distensione con l’URSS lo facevano spinti da pulsioni più idealistiche (sia loro proprie che del loro elettorato). In ogni caso anch’essi, come Kissinger, vedevano la necessità di un

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cambio di rotta e l’abbandono delle vecchie politiche, che avevano condotto al disastro del Vietnam.

Vi era tuttavia una parte del partito democratico che reagì in maniera del tutto diversa al terremoto vietnamita, rifiutando ogni cedimento e concessione all’estrema sinistra, e che rimase fortemente attaccata alla mentalità della prima guerra fredda ed alla strategia del contenimento; questa parte, per noi, riveste il massimo interesse, visto che da essa provengono quelli che arriveranno a chiamarsi i “neoconservatori”13.

Fra la fine degli anni ’60 e ’70 i futuri neocon si trovano a combattere una battaglia contro più fronti:

gli estremisti della New Left;

• il resto del partito democratico, che come si è già detto, era disposto a “svendere” e a “tradire” la propria tradizione liberale per favorire una distensione verso i sovietici, la quale agli occhi dei futuri neocon non rappresentava altro che un riprovevole appeasement nei confronti di un regime totalitario, nella stessa misura in cui

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lo era stato l’atteggiamento di Chamberlain a Monaco nel 193814;

• Kissinger, da loro contrastato sia per la volontà da lui mostrata di accordarsi con i sovietici, sia per il suo pragmatico realismo, considerato praticamente “amorale” dai neoconservatori.

La New Left non rimase però sulla scena a lungo: innanzitutto questo movimento era comunque troppo estremista per poter aspirare ad esercitare una durevole egemonia all’interno del partito democratico; in secondo luogo nel giro di pochi anni si disgregò completamente, pur lasciando influenze durature nel resto della sinistra americana.

Al contrario gli altri due contendenti si rivelarono degli avversari ben più temibili, e se Kissinger ed i realisti furono alla fine sconfitti, i neocon non riuscirono mai più a riguadagnare il predominio nel partito democratico, nonostante vi fossero lotte laceranti al suo interno.

I contrasti che dividevano il partito democratico non consistevano in una contrapposizione puramente ideologica; vi fu per esempio un lungo confronto riguardo all’atteggiamento

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che i democratici avrebbero dovuto assumere su due importantissime questioni di difesa e sicurezza nazionale, le quali riguardavano lo stesso equilibrio strategico tra le superpotenze: gli eventuali accordi di riduzione degli armamenti strategici, cui i neocon erano contrari, e l’adozione di sistemi di difesa antimissili balistici, cui invece erano molto favorevoli (problematiche che sono, non a caso, di grandissima importanza anche per l’ultima amministrazione statunitense). In entrambi i casi i neoconservatori, rappresentati nel Congresso soprattutto dal senatore democratico Henry Jackson, si trovarono in minoranza, avendo contro sia l’amministrazione repubblicana che il resto del partito democratico, sebbene per ragioni diverse.

Il contrasto dei neoconservatori con il resto del partito democratico (e con Kissinger) non riguardava solo gli aspetti strategici della distensione: altrettanto importanti erano quelli morali.

Infatti la distensione. per i neoconservatori, significava ipso facto l’accettazione e l’approvazione dello status quo, ivi comprese le tremende violazioni dei diritti umani che

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avvenivano oltrecortina, come la persecuzione degli ebrei sovietici decisi ad emigrare in Israele.

Trattare da pari a pari con una dittatura totalitaria, del tutto contraria per ideologia e scopi ai valori incarnati dagli Stati Uniti, ed inoltre completamente infida ed inaffidabile nel comportamento, era qualcosa di inaccettabile per i neoconservatori, del tutto assimilabile al venire a patti con il diavolo: un’operazione ad un tempo blasfema e pericolosa. Proprio sulla questione del diritto d’emigrazione degli ebrei sovietici i neoconservatori, con il senatore Jackson di nuovo in prima fila, arrivarono ad un duro scontro con Kissinger: il disegno di legge Jackson-Vanik prevedeva che la concessione ad un’altra nazione di privilegi commerciali fosse vincolata alla libertà di emigrazione per i cittadini di quel paese.

Nell’ottica di Kissinger tale disegno di legge andava a costituire un’indebita ingerenza nella politica interna di una nazione straniera; nella visione dei neoconservatori era un modo di riproporre una spinta moralizzatrice in politica estera, al di là di ogni sterile realismo che avrebbe condannato gli oppressi dal

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totalitarismo comunista a perdere ogni speranza di una futura, per quanto lontana, liberazione dal giogo cui erano sottoposti15. Un altro momento cruciale per il movimento neoconservatore fu indubbiamente la scelta del candidato democratico per le presidenziali del 1972; alla fine la nomination andò a George McGovern, che come si è già detto, era un mush head (ovvero uno dei democratici contrari alla linea neocon) che proponeva una piattaforma apertamente isolazionista e pacifista, che scontentò talmente l’elettorato, da portare alla trionfale rielezione di Nixon16.

Sia sulla distensione che sul candidato alla presidenza i neoconservatori si trovarono in una posizione opposta a quella del resto del partito, e la frattura venuta a crearsi era destinata a non ricomporsi più, e anzi a divenire col tempo talmente definitiva e istituzionalizzata, da rendere del tutto impensabile una ricomposizione.

Se per tutti gli anni ’70 tale frattura rimase latente, e non causò una scissione, fu anche perché in campo repubblicano imperava la figura e la politica di Kissinger, che persone come

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Ibid. , pp.138-139. 16

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Henry Jackson vedevano come il fumo negli occhi, almeno tanto quanto i “distensionisti” all’interno del partito democratico. Ma nella seconda metà degli anni ’70 le cose cominciarono a cambiare: la politica di Kissinger, passati gli effetti più disgreganti dello “shock” vietnamita, cominciò ad apparire troppo spregiudicata e cinica, quasi “non-americana”.

Questo venne chiaramente dimostrato dall’atteggiamento che Kissinger assunse verso i dissidenti sovietici Sacharov e Solzhenitsyn, accusandoli di causare, con le loro richieste di appoggio americano alla loro lotta contro la nomenklatura, una crisi nei rapporti con l’Unione Sovietica17.

Quando il presidente Ford, nel 1975, non volle incontrare Solzhenitsyn, naturalmente dietro consiglio di Kissinger, questo suscitò grande indignazione negli USA, quando ci si rese conto che praticamente Kissinger si era schierato a favore della nomenklatura sovietica, e contro una figura prestigiosa come l’accademico dissidente18.

Dopo otto anni passati a seguire le sirene della Realpolitik, rivelatasi però preziose per trarsi fuori dalle secche vietnamite, i repubblicani cominciavano a tornare sui loro passi, e le primarie

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Ibid. , pp.141-142. 18

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del partito nel 1976 lo provarono: il presidente Ford fu costretto a misurarsi con lo sfidante Ronald Reagan, governatore della California, il quale ottenne in maniera inusuale molti consensi, e dato che solitamente il presidente in carica non incontra molti problemi a farsi riconfermare dal partito come candidato, questo fu di pessimo auspicio per Ford, nonostante alla fine egli ottenesse comunque la nomination.

Ronald Reagan aveva una piattaforma politica molto più radicale di quella di Ford, rigettava completamente la Realpolitik kissingeriana, e pur non vincendo le primarie contribuì a spostare verso “destra” la piattaforma repubblicana per le presidenziali19.

Durante le presidenziali vere e proprie Kissinger si trovò a fronteggiare Jimmy Carter, democratico della Georgia, che faceva dei diritti umani il cardine stesso di tutta la sua campagna.

Kissinger si trovò in secondo piano sia durante le primarie repubblicane, sia durante la sfida con Carter, poiché ormai la sua figura era imbarazzante, ed invece di calamitare consensi

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suscitava sospetti e disprezzo presso quella opinione pubblica che un tempo lo aveva apprezzato20.

La vittoria di Carter pose definitivamente fine all’esperienza della politica estera kissingeriana, in un certo senso immunizzando gli USA da ulteriori sue ricomparse.

Carter e la fine della distensione.

Quando alla fine Carter vinse, divenendo presidente nel 1977, ciò non costituì un successo per i neoconservatori: se da un lato egli riscopriva un’enfasi sui diritti umani da otto anni trascurata, dall’altro egli non la inquadrava certo in una politica estera incisiva e muscolare.

In quegli stessi anni venne invece ridotto sempre più il budget delle forze armate, anche a causa della crisi economica che flagellò il mondo occidentale per tutti gli anni ’70. Sebbene tali tagli al bilancio fossero necessari, furono intempestivi, visto il contemporaneo aumento della spesa militare sovietica, e l’intensificarsi della penetrazione sovietica in ambiti prima ad essa preclusi.

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Sia il Vietnam riunificato, che numerosi stati africani, permisero l’installazione di basi sovietiche sul proprio territorio, mentre nel teatro europeo, i sovietici cominciarono a dispiegare sempre più numerosi missili nucleari a medio raggio, spostando l’equilibrio strategico decisamente a proprio favore. Ciò segnò, di fatto, la fine della distensione, nonostante non fosse quello l’obiettivo dei sovietici, che volevano semplicemente raggiungere la parità strategica con gli USA.

Di fronte ad una tale situazione, Carter sul finire della propria presidenza cominciò a mostrare una certa disponibilità ad aumentare le spese militari ed a controbattere alle mosse sovietiche, per esempio installando armi nucleari a medio raggio in Europa per riequilibrare quelle sovietiche, i cosiddetti “euromissili”21;

Questi sforzi si rivelarono però inutili dopo che nel 1979 scoppiarono due terribili crisi, che posero fine ad ogni sua speranza di rielezione: l’invasione sovietica dell’Afghanistan e la caduta dello Shah in Iran, cui seguì la lunghissima e logorante vicenda degli ostaggi dell’ambasciata americana a Teheran, trattenuti per più di un anno.

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Tali umiliazioni disgustarono totalmente l’opinione pubblica americana, e contribuirono decisamente alla sconfitta di Carter alle presidenziali del 1980, vinte invece dal repubblicano Ronald Reagan, che entrò in carica nel gennaio 1981.

La trasformazione si completa.

I neoconservatori rimasero fino al 1980 all’interno del partito democratico, nonostante apprezzassero ben poco Carter, tentando anche di portare avanti, alle primarie democratiche del 1980, una candidatura alternativa.

La vittoria di Reagan cambiò tutto: ormai c’era ben poco che li legasse ancora ai democratici, mentre vi erano numerosissimi punti di contatto con i nuovi repubblicani, ormai depurati da ogni residuo kissingeriano, e decisi, da un lato a ripristinare la potenza dell’America, con un colossale programma di riarmo, e dall’altro a ripristinarne la legittimità e la forza morale, cessando ogni ammiccamento e concessione all’Unione Sovietica, e ritornando all’atteggiamento ed alla retorica della prima guerra fredda.

Ancor prima della vittoria di Reagan molti neoconservatori passarono dalla sua parte, ottenendo incarichi di una certa

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rilevanza nella futura amministrazione: per esempio Richard Perle22 e Paul Wolfowitz, divenuti molto noti tra il 2002 ed il 2003 a causa del loro ruolo nell’invasione dell’Iraq, ottennero rispettivamente la carica di sottosegretario alla Difesa per la Politica di Sicurezza Internazionale e l’incarico di assistente al Segretario di Stato per l’Asia Orientale ed il Pacifico; un altro esponente neocon, Elliott Abrams ottenne la carica di assistente al Segretario di Stato per le Politiche Interamericane, ed in tale posizione venne successivamente coinvolto nello scandalo Iran-Contras23.

Questi incarichi, sebbene importanti, non ponevano certo i neoconservatori ai massimi livelli del processo decisionale statunitense, ma in realtà l’effettiva influenza da essi esercitata era molto maggiore della loro rilevanza all’interno della catena gerarchica.

La politica estera della presidenza Reagan ne costituisce una buona prova: ad esempio l’atteggiamento intransigente nei confronti del nemico comunista, percepito come minaccia ideologica e la stessa definizione dell’URSS come Evil Empire;

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Richard Perle è stato anche assistente del citato senatore democratico Henry Jackson. 23

Cfr. Alessandro Spaventa e Fabrizio Saulini, Divide et Impera, Fazi Editore, Roma 2003, pp.33-34.

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il programma Star Wars (il cui nome ufficiale era SDI: Strategic Defense Iniziative) che riproponeva il progetto di uno scudo ABM in grado di assicurare l’assoluta invulnerabilità dell’America dai missili sovietici.

Tutti questi elementi sono stati una costante del neoconservatorismo fin dagli anni ’60, e la loro massiccia presenza all’interno del programma di governo di Reagan testimonia la forza di penetrazione ideologica di quello che avrebbe potuto sembrare solo uno dei tanti gruppi di pressione all’interno dell’amministrazione; Richard Perle, ad esempio, fu scelto da Reagan come unico rappresentante del Dipartimento alla Difesa per il summit di Reikjavik, svoltosi nel 198624.

Negli anni ’80 si consolidò anche l’ancoraggio “a destra” del neoconservatorismo, con l’apparire di articoli di Irving Kristol, uno dei fondatori del movimento, e di altri appartenenti al movimento sulla maggior parte delle riviste conservatrici americane, rafforzando sempre più l’alleanza con le altre forme, più tradizionali, di conservatorismo.

24

Il summit di Reikjavik del 1986 riguardava il controllo degli armamenti strategici. Il summit fallì, primariamente a causa della questione dello SDI, cui gli Stati Uniti non volevano rinunciare, e il cui blocco i sovietici pretendevano come clausola per un’ulteriore riduzione degli armamenti. Nonostante questo fallimento, a Reikjavik vennero poste le premesse per il Trattato INF del 1987, che stabilì lo smantellamento totale degli euromissili e dei loro equivalenti sovietici.

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La genesi del termine “neoconservatori”.

Contestualmente a questo scontro all’interno del partito democratico, e al processo che porterà i neocon in cmpo repubblicano, comincia ad imporsi anche l’uso del termine “neoconservatori”.

La nascita di tale termine è emblematica ed esemplare della lotta condotta dai neoconservatori per mantenere il partito democratico all’interno del Cold War Liberalism: innanzitutto tale denominazione non nasce affatto all’interno dei circoli neoconservatori, ma viene inventata da un intellettuale molto lontano da loro e dalla loro visione ideologica, ovvero lo scrittore e attivista politico Michael Harrington.

Egli è noto per essere stato una delle figure più conosciute del socialismo americano (corrente comunque del tutto minoritaria), contrario al militarismo del containment e oppositore della guerra in Vietnam, nonché autore del testo The Other America: Poverty in The United States, che influenzò molto i programmi sociali ideati dai presidenti Kennedy e Johnson25.

Nelle intenzioni di Harrington, definire “neoconservatori” coloro che nel partito democratico rimanevano agganciati al vecchio

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Che paradossalmente sono anche gli stessi presidenti che portarono il containment alle sue forme più esasperate (soprattutto Johnson), fino all’intervento massiccio in Vietnam.

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CWL aveva lo scopo di mostrare, connotandola in maniera negativa, la loro posizione di ex-liberal: in pratica è un’accusa di cripto-conservatorismo, cui i “neoconservatori” reagirono con sdegno, rifiutando almeno inizialmente la correttezza di tale definizione, come infatti riconosce Michael Novak, anch’egli neoconservatore di lunga data26.

Il motivo di tale rifiuto è chiaro: all’inizio i neocon non si consideravano certo “conservatori”, e stavano semmai tentando di mantenere il controllo del partito in cui militavano, senza voler passare dall’altra parte (dove del resto vi era Kissinger). Dal loro punto di vista non li si poteva quindi accusare di “diventare” conservatori, e semmai erano la New Left e persone come George McGovern a trasformare il partito democratico, facendolo diventare qualcosa di differente, e abbandonando i suoi valori fondamentali.

Ma il rifiuto di tale termine venne meno una volta che i neocon compresero di aver definitivamente perso la battaglia per l’egemonia a sinistra: una volta passati in campo repubblicano il

26

“What the neocons (how we hated that name in the early days, most of us, and rejected it, and

refused it, and rebutted it, in vain)…” cfr. Michael Novak, Neocon: some memories.

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termine “neoconservatore” perse la sua accezione negativa, e divenne un’oggettiva e corretta definizione di quanto successo. A quel punto essere “neoconservatori” non era più qualcosa di vergognoso o insultante, ma una condizione da rivendicare con orgoglio: era il frutto di una decisione sofferta, ma profondamente meditata e percepita come necessaria; la cosa giusta da fare.

Il termine venne quindi interiorizzato e adottato, tanto da divenire in breve il nome con cui il movimento si definiva, e si definisce tuttora.

Cambiare per rimanere dove si è.

In poco meno di 20 anni il cambiamento è completo: partiti come progressisti, che nel 1965 condividono completamente politica ed obiettivi del partito democratico, nella prima metà degli anni ’80 i neoconservatori sono ormai diventati una corrente del conservatorismo, e fanno parte a pieno titolo del partito repubblicano. Ma è stato davvero un mutamento?

Dopo quanto detto finora la questione sembra essere alquanto diversa: non sono i neoconservatori ad essere cambiati, anzi il punto è che essi sono rimasti esattamente com’erano del 1965,

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mentre la società ed il mondo politico americani cambiavano profondamente intorno a loro.

Con questo non si vuol certo dire che i neoconservatori non si siano accorti affatto di tali cambiamenti, al contrario essi li hanno ben riconosciuti, ma li hanno contemporaneamente rifiutati; essi hanno voluto consciamente rimanere quello che erano, poiché ritenevano che la loro fosse la visione corretta per affrontare le innumerevoli sfide che la loro nazione si trovava davanti.

Mentre parte della società americana vedeva in quella visione, il cosiddetto Cold War Liberalism, la causa stessa della propria umiliazione in Vietnam, per i neoconservatori tale visione era essenziale; in questo senso non sono stati loro ad abbandonare il partito democratico, ma è stato questo ultimo a tradire quei valori che avevano un tempo costituito il suo patrimonio fondante.

La chiave per comprendere il cambiamento neoconservatore risiede di conseguenza nelle trasformazioni che hanno subito i partiti repubblicano e democratico, anzi sono state queste a renderlo inevitabile: non appena i repubblicani divennero più vicini ai neoconservatori di quanto lo fossero i democratici, il

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cambiamento di campo neocon divenne praticamente inevitabile.

Del resto ogni ulteriore tentativo di cambiare i democratici operando tra le loro file era destinato al fallimento, e continuare con simili tentativi non avrebbe fatto altro che mantenere i neocon in una posizione di “tollerata” minoranza priva di potere, ed in un’eventuale futura amministrazione democratica ben difficilmente avrebbero potuto avere un ruolo di rilievo; di fronte a questa sconfortante realtà, si presentava la ben più esaltante prospettiva di confluire nel partito repubblicano, prontissimo, come abbiamo visto, a recepire molte delle linee guida del movimento ed a premiarne gli esponenti con cariche di responsabilità.

La scelta di cambiare schieramento politico è stata certo sofferta (è famosa la definizione di neoconservatore fatta da Irving Kristol, come di “un liberal sopraffatto dalla realtà”), ma necessaria; inoltre si è successivamente rivelata assolutamente corretta nei suoi sviluppi: nel 2001 i neocon potevano lanciare una nutrita pattuglia di loro rappresentanti all’interno della nuova amministrazione repubblicana, ed il loro ruolo e la loro

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influenza sono stati amplificati ancora di più dopo l’11 settembre.

Se il nucleo ideologico del movimento si è in gran parte salvaguardato (e del resto è naturale che sia così, dato che proprio il suo mantenimento, come si è detto, ha reso necessario il cambio di fronte neocon) questo non significa che i neoconservatori siano rimasti immutati dagli anni ’60 ad oggi; in effetti dei cambiamenti vi sono stati, e questo per tutta una serie di motivi.

Innanzitutto i neocon sono arrivati a sviluppare una forte antipatia nei confronti dei democratici e delle loro posizioni in politica estera; all’inizio questo astio era diretto solo verso la New Left, oppure contro coloro che, nel partito democratico, andavano a criticare il contenimento e la contrapposizione forte con l’URSS; ma con il divorzio definitivo la critica è andata a colpire tutto il partito, comprese posizioni un tempo condivise anche dai primi neocon, soprattutto in materia economica: dal keynesismo dell’amministrazione Johnson, con il suo programma di ampliamento del Welfare, si è approdati a posizioni molto più vicine al liberismo alla Reagan, la cosiddetta Reaganomics.

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Poi vi è il normale ricambio generazionale, che chiaramente ha prodotto un certo mutamento nella base del movimento: i neocon attuali spesso lo sono diventati durante gli anni ottanta, e quindi non hanno alcun legame diretto con il periodo democratico; di conseguenza sono più a “destra” dei loro predecessori, e non si sentono più troppo obbligati a pagare omaggio alle loro origini (benché ad esempio siano meno dogmatici degli altri repubblicani nei confronti del Welfare, sono divenuti comunque molto più liberisti di un tempo).

Un altro mutamento del movimento è avvenuto dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, e con la conseguente fine della sua sfida al potere americano.

A seguito di questo evento, se il nucleo ideologico del movimento rimaneva sostanzialmente intatto, le linea sostenuta dai neocon in politica estera si radicalizzava sempre di più: dal contenimento attivo dei tempi della guerra fredda, si passa alla teoria della guerra preventiva sviluppata all’inizio del nuovo secolo, che diventa dottrina ufficiale dell’amministrazione Bush nel 2002.

In realtà il radicalizzarsi è più apparente che reale: con la fine della guerra fredda viene anche meno l’elemento centrale della

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politica estera degli USA, e cioè il confronto con l’URSS; confronto che catalizzava buona parte degli sforzi diplomatici e militari statunitensi, e che doveva essere sempre tenuto presente al momento di intraprendere qualunque nuova azione. Di conseguenza anche la politica estera più aggressiva (quale ovviamente era quella proposta dai neocon) non avrebbe mai potuto essere completamente unilaterale, al fine di non suscitare reazioni eccessive da parte sovietica, cosa di cui arrivò a rendersi conto persino il presidente Reagan.

Venuto meno questo freno, e nell’apparente assenza di un qualunque limite all’azione USA, venivano meno anche quelle considerazioni prudenziali che prima attenuavano alquanto la portata delle posizioni neocon: l’immensa potenza dell’America è ora disponibile interamente per diffondere la libertà e la democrazia, e non c’è più bisogno di seguire i dettami della tanto aborrita Realpolitik kissingeriana, poiché non vi è più nessuna forza in grado di opporsi a quella americana.

La clamorosa vittoria nella Guerra del Golfo del 1991 rafforza e rende definitiva questa convinzione: viene infatti, anche se solo apparentemente, esorcizzato il fantasma del Vietnam, che costituiva il peccato originale dei neocon e che rendeva

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estremamente difficoltoso a livello interno ogni impiego di estese forze militari.

Simili considerazioni suggerirono, come vedremo anche nei prossimi capitoli, anche una minore rilevanza degli alleati e dell’ONU: che senso avrebbe venire a patti con gli altri quando il proprio potere è più che sufficiente ad ogni evenienza? Oltretutto cercare un accordo spesso significherebbe contrattare con paesi titubanti e deboli, come gli alleati europei, oppure che non hanno elevati standard democratici, e quindi annacquare l’azione dell’America allo scopo di fare gli interessi di dittatori e tiranni, o di non offendere la sensibilità di alleati il cui assenso non aggiungerebbe comunque niente all’efficacia dell’azione statunitense.

In queste nuove condizioni i neocon sono arrivati a pensare che l’unilateralismo sia sempre e comunque la soluzione migliore e più efficace alle sfide da affrontare per il futuro.

Nonostante quindi i neoconservatori, agli occhi di molti europei, siano apparsi come dal nulla con l’11 settembre, essi costituiscono invece gli ultimi rappresentanti di istanze che, lungi dall’essere novità nella politica americana, al contrario possono essere fatte risalire alla prima guerra fredda.

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Come si è dunque visto, per poter comprendere il pensiero neoconservatore, bisogna partire da quel periodo, in cui una società profondamente sicura di sé e della propria forza, imbevuta di solidi valori morali, abituata a misurare se stessa e gli altri sulla base di questi stessi valori, dovette confrontarsi con lo shock della sconfitta ad opera di un avversario più debole: era costretta, per la prima volta nella sua storia, a riconoscere dei limiti al proprio potere.

Un simile atteggiamento era però profondamente estraneo alla mentalità statunitense, e suscitò una successiva reazione di rigetto, nella quale ritroviamo le radici del neoconservatorismo attuale.

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