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Capitolo 1 Il romanzo giallo e Dorothy Leigh Sayers

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Academic year: 2021

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Capitolo 1

Il romanzo giallo e Dorothy Leigh

Sayers

1.1 La critica

Quando si pensa al genere giallo, la prima cosa che viene in mente è la scena del crimine con un detective simile a Sherlock Holmes che indaga con la sua lente di ingrandimento; in realtà questo genere letterario è molto variegato e contiene al suo interno diversi tipi di sottogeneri che amplificano e sviluppano percorsi psicologici dalle potenzialità pressoché infinite.

Per molto tempo sia la critica che gli autori stessi hanno considerato i racconti e i romanzi gialli come una letteratura di seconda mano, non all’altezza comunque dei grandi romanzi classici; questo genere è rimasto relegato a una letteratura d’evasione, un passatempo facile e remunerativo, in cui i delitti descritti non rispecchiavano spesso la realtà dei fatti. A proposito di questo, la critica ha frequentemente attaccato la detective fiction perché “as everyone knows, is artificial and unrealistic” secondo Joel Black”1 per esempio. Ciò ha spinto alcuni

autori che si erano affermati grazie ad altri generi letterari a usare pseudonimi quando scrivevano gialli, come l’accademica americana Carolyn Heilburn, la quale ha fatto pubblicare i suoi libri usando lo pseudonimo Amanda Cross fintantoché non ha ottenuto la cattedra alla Columbia University, per paura che la sua dignità professionale fosse compromessa dai suoi romanzi gialli.

I motivi per cui la detective fiction non è stata considerata finora letteratura “seria” sono principalmente cinque:

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 ovviamente il giallo è il genere per eccellenza che ha come prerogativa la cura per il dettaglio e i particolari, in modo che legandosi tra loro conducano a un finale coerente e soddisfacente; purtroppo molti romanzi gialli non presentano uno stile accurato, la trama è trascurata, incoerente e poco credibile;

 i gialli molto spesso si trovano incasellati in uno schema ben preciso che devono seguire per soddisfare le basi stesse su cui si fonda questo genere. Si tratta dello schema classico composto da un omicidio da risolvere scoprendo, dopo varie peripezie, il colpevole e da una conclusione che prevede la sua punizione da cui consegue la riaffermazione dell’ordine che precedentemente era stato sconvolto dall’ assassinio di un innocente;

 dopo il successo del giallo che comprendeva l’uso della tecnologia per risolvere i casi, molti autori hanno rinunciato alle sperimentazioni e all’inserimento di nuovi elementi che uscissero fuori da questo schema con il quale si assicuravano l’approvazione del pubblico;

 la detective fiction in passato si è adattata male al grande e al piccolo schermo a causa dell’assenza di effetti speciali. Quindi i romanzi e i racconti non sono stati supportati da film o fiction televisive che abbiano coadiuvato la loro espansione. Inoltre, la suspence si ottiene molto spesso grazie all’ambiguità delle parole, fattore che si perde nella resa cinematografica nella maggior parte dei casi;

 il genere giallo spaventa molte persone; sia che inserisca nella trama un personaggio intermedio tra il lettore e l’investigatore privato (come Hastings nel caso di Agatha Christie o il Dottor Watson nel caso di Arthur Conan Doyle) o che non sia presente, le ricerche e le elucubrazioni del protagonista spesso svelano una società corrotta e l’assenza di una chiara distinzione tra bene e male.

Proprio quest’ultimo punto, che rende così diffcile un giudizio univoco su questo genere, costituisce la base dei gialli: il lettore deve riflettere, deve mettere in discussione i propri valori, deve guardarsi attraverso gli occhi di un altro (il detective generalmente); chi legge si sente quasi in competizione con

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l’investigatore e cerca di trovare la soluzione prima di lui attraverso gli indizi conosciuti.

Se da un lato l’assenza di certezze ha allontanato una parte dei lettori da questo genere, dall’altro invece è proprio questo che ha generato la curiosità in altri; infatti sono proprio la catarsi e la rivalutazione delle proprie credenze ciò che ha spinto molte persone a interessarsi a questo genere, il quale fa scavare dentro se stessi per trovare risposte apparentemente generali e non rivolte al proprio io. Soprattutto nei primi romanzi gialli, viene soddisfatto il concetto di ordine del lettore, riportando tutto ad una condizione di normalità alla fine della storia (non a caso l’apice della produzione di gialli in Inghilterra si ha dopo la Prima Guerra Mondiale, proprio perché lo schema seguito da questo genere riconferma ordine e stabilità, concetti di cui si sentiva la necessità dopo la fine del conflitto). Nella maggior parte dei casi i lettori si sono avvicinati alla detective fiction per trovare rassicurazione e una riconferma dei propri valori, questa idea viene esplicitata da Franco Moretti, il quale afferma che:

One reads only with the purpose of remaining as one already is: innocent. Detective fiction owes its success to the fact that it teaches nothing.2

Un altro teorico, Dennis Porter, concordando con Moretti, pensa che la detective fiction sia “a hymn to culture’s coercive abilities”3, visto che il punto

di vista adottatto è di solito quello dell’investigatore, il quale è in linea con le forze di polizia (a parte qualche eccezione, per esempio nella corrente hard-boiled, in cui il detective agisce da solo e svela spesso la corruzione presente nelle forze di ordine pubblico). Bisogna però aggiungere che nonostante l’ordine ristabilito, alla fine resta comunque un attrito, infatti chiunque può essere colpevole, non esiste un’innocenza assoluta e questo aspetto sottolinea il fatto che nella letteratura dei gialli venga rappresentato anche il lato oscuro

2 W. Chernaik, M. Swales, R. Vilain (2000) The art of detective fiction, in cap. 9 “Mean Streets and English Gardens” by Warren Chernaik, p. 104.

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dell’essere umano e della società in generale, nonostante il finale positivo tenda a oscurare questo fenomeno.

Persino la morte viene presentata e percepita poi dal lettore come la conclusione naturale di un ciclo, quindi vista non sotto il punto di vista religioso di nuova rinascita, ma sotto il punto di vista razionale e della scienza; paradossalmente però è proprio la morte di qualcuno che dà l’avvio alla storia. Infatti è dallo studio del cadavere che si ricostruisce la vicenda. Si avvia, quindi, un processo all’inverso, in cui chi muore non viene dimenticato ma anzi quasi “riportato in vita” dal detective che ne ricostruisce le abitudini e lo stile di vita, esorcizzando, nel lettore, la paura di essere dimenticati dopo il decesso. In alcuni romanzi, il fatto che un serial killer uccida le sue vittime senza connessioni apparentemente logiche, esorcizza un altro fattore psicologico: la casualità con cui la morte opera sulle vite degli esseri umani. Un altro elemento fondamentale nella detective fiction è la coincidenza, che spesso lega eventi che apparentemente non sembrano collegati l’uno all’altro; sono le coincidenze a dare il via ai sospetti e ai ragionamenti dell’investigatore e, nella maggior parte dei casi, sono essi a portare alla risoluzione del caso. Tuttavia, è molto facile lasciarsi sfuggire questi “segni” e scambiarli per fenomeni accidentali. Sta alla bravura del protagonista saper prestare attenzione anche a dettagli che sembrano insignificanti. Edgar Allan Poe apre addiruttura il racconto “Il mistero di Marie Rogêt” spiegando cos’è secondo lui la coincidenza:

There are few persons, even among the calmest thinkers, who have not occasionally been startled into a vague yet thrilling half-credence in the supernatural, by coincidences of so seemingly marvellous a character that, as

mere coincidences, the intellect has been unable to receive them.4

L’idea di fondo, cioè, è che esistano due mondi paralleli in cui avvengono gli stessi eventi, che però vengono modificati rapidamente dalle azioni degli esseri umani e quindi i momenti in cui questi due mondi si sovrappongono

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sono brevi e generano le cosiddette coincidenze. Aspetti che inizialmente appartengono alla sfera del soprannaturale (e quindi derivanti dal filone gotico) tendono ad essere eliminati nel corso del Novecento. Gli scrittori tendono, in tal senso, a enfatizzare le coincidenze. Todorov esplicita questo concetto chiamandolo pandeterminismo:

Everything, down to the encounter of various causal series (or “chance”) must have its cause, in the full sense of the word, even if this cause can only be of a supernatural order.5

L’idea di coincidenza accomuna la figura del detective a quella dell’analista: entrambi, infatti, operano un processo di ricostruzione, fisica o mentale che sia, a partire da elementi frammentari in un tempo che scorre a ritroso. Svelando dietro ai particolari più di quello che in realtà significhino, ed evocando anche, a volte, traumi e sentimenti di angoscia.

Si è molto discusso su quali schemi debba seguire e in cosa consista il giallo. La critica si divide in due categorie al riguardo: la prima comprende coloro che si interessano all’aspetto sociologico della detective fiction, quindi indagano sui meccanismi della società e dell’individuo all’interno di essa. Si focalizzano a volte sull’aspetto marxista presente nella trama, in cui si presentano concetti etnici, sessisti e criminalità nella classe dei lavoratori e che hanno come conseguenza il disprezzo dell’alta società e della borghesia. Il secondo gruppo di critici si concentra sull’aspetto strutturale dei romanzi gialli, analizzando il testo e partendo da esso per sviluppare poi tematiche più generali. In entrambi questi filoni di studi comunque si passa dal Whodunit al How- o Whydunit, cercando quindi motivazioni psicologiche dietro al delitto e favorendo così una caratterizzazione dei personaggi (e in particolare dell’invesigatore privato) a tutto tondo e comunque più realistica e “umana” rispetto ai primi romanzi e racconti gialli. Adesso, infatti, si ha tutta una serie di sfumature che caratterizzano il protagonista, il quale può rispecchiare sia tratti caratteriali comuni, sia straordinari, sia addirittura soprannaturali; che si

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tratti di uomo, donna, o di etnie diverse, ciò che maggiormente importa è il fatto che rifletta la società in cui si trova, di cui svela spesso i lati negativi e la corruzione che spesso si cerca di nascondere.

In conclusione, non è possibile adottare un solo punto di vista per giudicare e analizzare un racconto o un romanzo giallo, perché se da un lato gli autori sono accusati di aver creato protagonisti statici e poco caratterizzati e averli incasellati in uno schema fisso composto da omicidio, processo deduttivo e punizione del colpevole, dall’altro, nel corso del XX secolo, i detective si sono “evoluti”, hanno sviluppato un loro senso di giustizia e si sono avvicinati alla gente comune, facilitando così, da parte del lettore, un maggiore avvicinamento a questo genere letterario.

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1.2 Evoluzione del genere giallo

La nascita del romanzo giallo e la Golden Age

Nonostante se ne abbiano tracce precedenti, il genere giallo o poliziesco inzia a emergere nel XIX secolo: quando appaiono i primi racconti gialli a puntate su riviste e giornali. Questi vedono come protagonista un detective eroe, simbolo di individualismo e razionalità, inserito nel contesto urbano nel quale sono però presenti elementi gotici, usati per creare suspence e mistero. L’aspetto gotico poi tenderà man mano a sparire, lasciando sempre più spazio e dando sempre più importanza al processo investigativo, che si snoda circondato da elementi tratti dal quotidiano, in cui qualsiasi lettore può identificarsi. La data canonica della nascita del genere giallo è il 1841: data di pubblicazione del racconto “I delitti della via Morgue” di Edgar Allan Poe. Esso vede come protagonista l’investigatore privato Auguste Dupin, del quale spiccano le straordinarie capacità deduttive e che sarà il modello seguito da Arthur Conan Doyle per creare Sherlock Holmes; quest’ultimo farà la sua prima apparizione nel romanzo Uno studio in rosso del 1887. A pochi anni di distanza, nel 1891, viene inaugurato con il romanzo Il grande mistero di

Bow dell’inglese Israel Zangwill, la cosiddetta categoria degli enigmi a camera chiusa, in cui il delitto avviene in luoghi chiusi dall’interno. Si tratta dunque di

delitti apparentemente impossibili, che danno così peso al processo investigativo. Ad inizio secolo, rispettivamente nel 1905 e nel 1907, vengono pubblicati in Gran Bretagna I quattro giusti di Edgar Wallace e L’uomo che fu giovedì di Gilbert Keith Chersterton, due romanzi che hanno segnato la storia del genere poliziesco prima di approdare al famoso investigatore di Conan Doyle.

Holmes, a sua volta, ispirirerà i detective più celebri come Hercule Poirot e Miss Marple di Agatha Christie, Lord Peter Wimsey di Dorothy L. Sayers e Nero Wolfe di Rex Stout. Con questi detective si apre l’epoca d’oro del romanzo giallo, la cosiddetta Golden Age appunto, in cui spiccano la razionalità, l’amore per la scienza e la logica che caratterizzano i protagonisti, i quali si trovano al centro di vicende che a volte sembrano irrisolvibili, ma che essi riescono a sciogliere,

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grazie alle loro capacità deduttive e di ragionamento. L’influenza maggiore su questa visione della vita deriva dalla corrente filosofica positivista ottocentesca, che esalta la ragione umana e considera la scienza come unica fonte di verità. È infatti su alcuni indizi, quindi su oggetti tangibili che spesso non si trovano nel loro contesto d’appartenenza, che si basano i vari processi logici degli investigatori privati, i quali, passo dopo passo, analizzando prove evidenti, cercano di ricostruire la vicenda. Ciò che accomuna i protagonisti della Golden Age è la loro appartenenza alla borghesia e in alcuni casi addirittura all’aristocrazia. Investigare per loro non rappresenta quindi un lavoro e non è fonte di reddito (come invece sarà per i detective privati della scuola hard-boiled). Ciò che li spinge a seguire casi di omicidio è la curiosità o comunque un puro soddisfacimento intellettuale, qualcosa che li tenga impegnati nelle loro vite ordinarie da benestanti. Anche i luoghi del delitto hanno come sfondo ambienti altolocati: salotti, ville, ecc., diametralmente opposti alle realtà sociali in cui si verificavano certe efferatezze.

Il finale prevede il ristabilimento dell’ordine e della moralità e la punizione del colpevole, con sommo sollievo del lettore.

Prima e Seconda Metà del Novecento

Il primo allontanamento dal modello proprio del giallo classico si ha negli anni ’30 del Novecento, quando viene sviluppata una maggiore elaborazione dei tratti che caratterizzano questo genere. Soprattutto negli Stati Uniti, ciò che viene messo in rilievo è la psicologia dei personaggi, che adesso non appartengono più al ceto borghese e usano un linguaggio gergale. Cambiano anche gli ambienti che fanno da sfondo ai delitti: dai salotti si passa ai quartieri malfamati delle grandi città.

In Europa, invece, spicca Georges Simenon col suo Commissario Maigret: il linguaggio e il protagonista stesso sono meno duri, ma le ambientazioni restano quelle dei quartieri popolari e delle strade attraversate dalla gente comune, che Maigret rappresenta. Simenon si focalizza soprattutto sulle cause che hanno spinto

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l’assassino a uccidere, piuttosto che sul processo investigativo. Si ha quindi un ribaltamento rispetto ai gialli della Golden Age, in cui ciò che veniva messo in risalto era la bravura del detective. Qui, invece, Maigret, nonostante le sue ottime capacità deduttive, scava a fondo nella psicologia umana per capire la vicenda personale che sta dietro al delitto, l’input che ha spinto una persona comune a trasformarsi in un omicida.

In Italia, nonostante qualche tentativo di romanzo giallo fatto a fine Ottocento (ad opera di Francesco Mastriani ed Emilio De Marchi) non si ha un grande sviluppo di questo genere, ostacolato nella prima metà del Novecento dal fascismo, che non apprezzava che si parlasse di crimine e tendeva a offuscare i delitti nelle cronache giornalistiche.

L’ordine e la moralità che venivano ristabiliti alla fine dei primi romanzi gialli classici nati in Inghilterra vengono messi in discussione durante il corso del Novecento. I nuovi autori non cercano più di rassicurare il lettore: anzi, le vicende dei loro romanzi rispecchiano la fallibilità della giustizia, fenomeno che emerge nei romanzi gialli degli anni ’70, in cui si parla molto di prevaricazioni del potere e complotti, gettando il lettore in un caos in cui le istituzioni non sono capaci di districarsi perché spesso a loro volta coinvolte.

Negli ultimi anni grandi autori come Andrea Camilleri e Carlo Lucarelli in Italia, Manuel Vazquez Montalbán in Spagna, Daniel Pennac in Francia e Stieg Larsson in Svezia hanno inserito sempre di più le vicende dei loro romanzi in un contesto quotidiano, caratterizzato da soprusi e violenza.

Classificazione delle correnti appartenenti al giallo

Ci sono stati diversi tentativi di classificazione dei vari filoni appartenenti al genere dei romanzi gialli, quelli principali sono: il giallo deduttivo, l’hard-boiled, il police procedural, il noir, il thriller e le storie di spionaggio. Ovviamente non ci sono confini netti tra un sottogenere e l’altro e la stessa opera può appartenere contemporaneamente a più sottocategorie.

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Il Giallo deduttivo

Il giallo deduttivo è il giallo classico, appartenente alla Golden Age. Viene chiamato anche whodunit? (contrazione di “chi è stato?”). Si racconta la classica storia dell’investigatore privato appartenente all’alta società che indaga, cercando attraverso gli indizi, di sciogliere l’enigma e svelare il colpevole, che alla fine del romanzo o del racconto verrà punito in maniera esemplare.

La Scuola Hard-boiled e il Police Procedural

Da quelli che sono considerati i classici della detective fiction (Conan Doyle, Poe, Christie, Sayers, ecc.) si sviluppano notevoli varianti come l’hard-boiled (genere letterario nato negli anni ’30 del Novecento e che ha come capostipiti gli scrittori statunitensi Dashiel Hammet e Raymond Chandler) e la police procedural (nata negli anni ’40 del XX secolo e caratterizzata da un linguaggio tecnico a seconda del campo in cui viene ambientata la storia: scientifico, miltare o poliziesco per esempio). Soprattutto, negli anni ’70 e ’80 del Novecento, verranno inserite le donne come protagoniste, sfruttando le correnti che attraversano la critica femminista e quella lesbica (sulle donne in veste di detective torneremo nel capitolo 2).

Un omicidio ha come elemento fondamentale il cadavere, che di solito tende a shoccare per la sua crudezza, soprattutto nella corrente hard-boiled rispetto a quella classica (per esempio sono frequenti i casi di annegamento, in cui di solito il cadavere è sfigurato e, di conseguenza, irriconoscibile).

Il detective hard-boiled sperimenta in prima persona il conflitto tra attrazione e repulsione che la morte provoca. È un personaggio solitario, ed eccetto qualche amico, non ha legami affettivi. È disgustato dalla società in cui vive, che rivela la grande divergenza tra ricchezza e povertà e l’iniquità con cui viene considerata questa piaga sociale. Infatti, in molti romanzi appartenenti alla scuola hard-boiled,

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la ricchezza e il benessere vengono associati a malattia e corruzione e, in casi estremi, è il protagonista stesso a impersonificare l’amoralità della società, dove il desiderio di ricchezza personale non ha limiti e giustifica qualsiasi azione, per quanto deplorevole possa essere. Emerge quindi una sensazione di ansia claustrofobica, visto che non ci si può fidare di nessuno, nemmeno di chi dovrebbe garantire la giustizia.

Di solito, comunque, l’investigatore privato è il primo a non avere fiducia nello Stato, per questo preferisce lavorare da solo e molto spesso in contrasto con la polizia. In molti casi il detective hard-boiled è un ex poliziotto lui stesso e non si tira indietro quando deve dimostrare il suo coraggio, anche quando si trova in mezzo a risse o comunque in situazioni violente, facendo emergere, così, una sfiducia nei confronti della vita stessa (dato che non riflette sulle conseguenze a cui potrebbero portare i suoi gesti). Mentre le forze di polizia sono viste semplicemente legate alla burocrazia e poco pratiche nei romanzi gialli della Golden Age, nell’hard-boiled la polizia è spesso corrotta e fonte di violenza brutale. Il fatto di non avere più certezze porta così il lettore a compiere un percorso interiore di autovalutazione, visto che mentre nei romanzi della prima metà del Novecento si limitava ad osservare i fatti in maniera distaccata, seguendo solo i ragionamenti del protagonista. Adesso invece deve calarsi anche lui nella psicologia non solo del detective, ma anche dell’assassino e “sporcarsi le mani” in un contesto di scene crude e non mediate dal bon ton.

Al polo opposto del detective hard-boiled si trova il protagonista del police procedural. Di solito è un poliziotto che segue e descrive meticolosamente le procedure che le forze di polizia seguono quando devono occuparsi di un omicidio; il police procedural ha avuto molta fortuna nella sua trasposizione in serie tv. Si pensi a quelle americane: CSI, scena del crimine e NCIS. Inoltre, in questo sottogenere, il protagonista non opera da solo, come invece accadeva per l’investigatore hard-boiled, ma è affiancato dalla sua squadra, con la quale collabora nel corso delle indagini e, in alcuni casi, dal medico legale, che fa emergere il lato “tecnico” del delitto, rivelando i risultati delle varie autopsie.

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Il Noir, il Thriller e lo Spionaggio

Il Noir è un sottogenere che deriva dalla corrente hard-boiled, quindi anche qui al centro dell’attenzione c’è la violenza, che però non caratterizza solo il protagonista, ma anche il criminale. Si cerca soprattutto di vedere l’assassinio dal punto di vista del colpevole e se ne analizza la psicologia, invece di limitarsi meramente a punirlo alla fine del libro. Quindi, il punto di vista adottato si sposta al polo opposto e l’autore cerca di farci capire perché sia stato compiuto un determinato delitto e quali traumi o disturbi psicologici affliggono l’assassino. Il thriller (termina che deriva dall’inglese thrilling, cioè “che provoca brividi”) è molto legato al cinema e il lettore o lo spettatore assiste alla preparazione del delitto invece di trovarsi, come accade per gli altri sottogeneri, in medias res, quando l’omicidio è già avvenuto. Si vuole suscitare emozioni forti, come tensione e suspence, in chi guarda o legge. Il thriller a sua volta può focalizzarsi su diversi aspetti, favorendone alcuni rispetto ad altri, come per esempio quello medico, in cui il protagonista è il medico legale o quello legale, in cui il protagonista è un avvocato.

La letteratura di spionaggio o spy story ha al centro delle sue vicende storie di spionaggio internazionale, il protagonista è un agente segreto che coraggiosamente svela complotti e salva così politici importanti e figure di spicco della società. Si ebbe il boom di spy stories durante le Seconda Guerra Mondiale, quando molti ufficiali dei servizi segreti in pensione si dedicarono a questo sottogenere (si pensi a William Somerset Maugham e Compton Mackenzie).

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1.3 DOROTHY LEIGH SAYERS: la vita e le opere

Dorothy Leigh Sayers (Oxford, 13 giugno 1893 – Londra, 17 dicembre 1957) personaggio eclettico, energico e geniale, ha dedicato la sua vita alla letteratura, coltivando generi letterari differenti e interessandosi a forme d’arte come la letteratura, il teatro e la musica.

Figlia unica del Reverendo Henry Sayers e di Helen Mary Leigh, i suoi genitori la sostennero sia finanziariamente che emotivamente finchè rimasero in vita, aiutandola durante il suo trasferimento a Londra e leggendo i suoi racconti prima che venissero pubblicati. Non è chiara la motivazione per cui abbia voluto usare anche il cognome della madre. Una delle ragioni, secondo James Brabazon, pare che consistesse nel fatto che non voleva essere confusa con la cantante Dorothy Sayers, famosa in quegli anni anche per la sua vita sregolata, oltre che per la sua musica. In una lettera all’amica del college Muriel St Clare Byrne

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l’autrice disse che “D.L.S.” era l’anagramma di “£.S.D”, “and pounds, shillings and pence were a matter of urgent practical concern for many years”.6

Ha vissuto la sua infanzia circondata da adulti (i suoi genitori, due zie e alcuni servitori) che la assecondavano, mascherandosi, e la aiutavano nelle sue rappresentazioni teatrali, delle quali curava il minimo dettaglio, dalla sceneggiatura ai costumi di scena. La sua istruzione cominciò a casa: la madre della piccola Dorothy le dava lezioni di dizione e il padre lezioni di violino e latino e inoltre frequentava lezioni di danza e praticava molti sport, tra cui il tennis. Con una tutrice parlava alla perfezione il francese e fluentemente il tedesco. Ha sempre avuto una grande passione per la lettura, da Defoe a Lewis e soprattutto Dumas. Infatti tutta casa Sayers si prestò a recitare la versione teatrale de “I tre moschettieri”, sotto l’attenta direzione di Dorothy. Oltre ai romanzi e ai testi teatrali, D. Leigh Sayers si appassionò anche alla poesia inglese, prestando attenzione anche al ritmo, alla metrica e ad altri elementi testuali che assorbirà e rielaborerà nei suoi componimenti poetici, poiché già da adolescente sapeva di voler diventare una scrittrice e in particolare una poetessa. La sua istruzione proseguì alla Godolphin School, a Salisbury, dove si dedicò alla sua passione per la musica, suonando il violino, la viola e soprattutto il piano, per arrivare poi all’università di Oxford (Somerville College), nel 1912, dove trascorse gli anni più felici della sua vita e la cui atmosfera ispirò il suo romanzo Gaudy Night (1936). A Oxford frequentò lezioni di tedesco e, tra le altre cose, fece parte del coro dell’università e strinse amicizie che la accompagnarono per tutta la vita. Là conobbe inoltre colui che ispirò il personaggio di Lord Peter Wimsey (il protagonista di tutti i suoi racconti e romanzi gialli): Roy Ridley, il cappellano del Balliol College. Dopo aver conseguito la laurea con il massimo dei voti nel 1915, iniziò a lavorare per il pubblicitario Basil Blackwell e anche se questo tipo di impiego non la soddisfaceva del tutto lo portò avanti e si occupò anche di curare delle antologie. Passò poi all’insegnamento, a Hull, e nonostante fosse un’ottima insegnante, sentiva che quella non era la sua strada. Nel frattempo continuò a scrivere poesie e nel 1916 pubblicò la sua prima raccolta, “Op. I”, e iniziò a tradurre dal francese, lingua che aveva perfezionato ancora di più avendo

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insegnato anche in Francia (precisamente in Normandia). Il suo impiego principale dopo l’esperienza dell’insegnamento fu quello di copywriter nell’agenzia pubblicitaria di S.H. Benson a Londra.

Nel 1923 Lord Peter Wimsey fece la sua prima apparizione con il romanzo

Whose body?, ma nei due anni precedenti un evento sconvolse la vita di Dorothy

per sempre: si innamorò dello scrittore americano di origini russe John Cournos. La loro storia d’amore fu molto turbolenta e finì per divergenze caratteriali ma fu fonte di ispirazione per entrambi, in quanto Dorothy L. Sayers ne prese spunto per

Strong Poison pubblicato nel 1930, mentre John Cournos per The Devil is an English Gentleman, uscito nel 1932. Sempre in questi anni, rispettivamente nel

1934 e nel 1935 vengono pubblicati The Nine Tailors e Gaudy Night. Questi due romanzi sono tra quelli più apprezzati dell’autrice; il primo per lo studio approfondito che la Sayers fece sull’arte del suonare le campane. Il secondo descrive il mondo accademico, soprattutto dal punto di vista femminile, e si conclude con Harriet Vane che accetta di sposare Lord Wimsey.

Un’altra relazione che lasciò il segno nella vita dell’autrice fu quella con Bill White, che fece conoscere alla sua famiglia e avvicinò Dorothy al mondo delle motociclette, al quale rimase appassionata anche dopo la rottura con White. Il frutto di questa relazione fu la nascita di John Anthony, il 3 gennaio 1924, e dato che Bill non si volle occupare del bambino, Dorothy rivelò la sua gravidanza solo alla cugina Ivy. Fu quest’ultima a crescerlo e rivelò a John Anthony che Dorothy non era una cugina ma sua madre solo quando fu abbastanza adulto per capire la situazione. Infatti un’eventuale maternità avrebbe compromesso la carriera della Sayers, la quale comunque si fece carico del benessere del bambino e della sua educazione, finchè non lo adottò con il consenso di suo marito Atherton Fleming, detto Mac (date le sue origini scozzesi). I due si sposarono nel 1926. Mac era un giornalista e sia lui che Dorothy lavorarono molto durante i primi anni di matrimonio, concedendosi qualche vacanza anche a causa della salute cagionevole di Mac, sul quale la guerra aveva lasciato dei segni indelebili.

Negli anni ’30, grazie al Canterbury Festival, Dorothy si avvicinò ai drammi religiosi e il suo “The Zeal of Thy House”, messo in scena per la prima volta nel 1937 e che vede come protagonista la vicenda dell’architetto William of Sens, fu

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accolto calorosamente dalla critica e dal pubblico. L’autrice si avvicinò così a temi religiosi e sviluppò una propria concezione di creazione e di arte, che secondo lei riflette la Santa Trinità. Negli anni del secondo conflitto mondiale Dorothy scrisse “The Devil to Pay”, un dramma religioso sul problema del bene e del male, grazie al quale espresse la sua idea sul tempo che passa, arrivando alla conclusione che il passato non può essere cambiato ma qualsiasi persona, nonostante ciò, può riscattarsi grazie al presente. Durante la guerra scrisse saggi, articoli e discorsi politici, interessandosi quindi anche alla politica e cercando di incoraggiare la Gran Bretagna, della quale si sentiva fiera.

Il 5 febbraio 1940, il Reverendo J.W. Welch, direttore della Religious Broadcasting, chiese a Dorothy di scrivere delle opere teatrali sulla vita di Cristo di trenta minuti ciascuna, da far vedere ai bambini dai sette ai quattordici anni. Grazie a questa opportunità, l’autrice rivelò la sua eccentricità e la sua umanità. Cristo è presentato non come qualcosa di impalpabile, ma ne vengono enfatizzati i tratti umani. Il linguaggio che usa è un inglese moderno e alcuni personaggi addirittura parlano con accento Cockney; decisione che suscitò parecchie critiche e addirittura lettere di lamentela e petizioni. Nonostante ciò, molti apprezzarono questa rappresentazione e Dorothy fu spinta a scriverne altre, che furono ancora una volta accolte prima con critiche e poi con entusiasmo.

Dorothy L. Sayers era ormai una figura di spicco della società britannica, non solo in materia di gialli ma anche in campo teologico (nonostante non si sentisse a proprio agio quando era chiamata a esprimersi in campo religioso); il suo punto di vista era molto apprezzato e veniva preso in considerazione. L’autrice criticava aspramente la società per la sua avarizia e la sua pigrizia intellettuale. Lei aveva dato prova di essere intelletualmente creativa e attiva, tanto che venne insignita del titolo di Dottore Onorario in Lettere all’Università di Durham.

Morì improvvisamente il 17 Dicembre 1957, quando ancora era a poco più di metà della sua ultima fatica letteraria: la traduzione in inglese della “Divina Commedia”, opera che l’aveva profondamente colpita e alla quale si era dedicata completamente negli ultimi anni della sua vita.

Concludendo, Dorothy L. Sayers è stata un personaggio di grande spicco nel panorama culturale dell’Inghilterra della prima metà del ‘900. Non solo: è stata

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anche una donna che, con i suoi dubbi e le sue paure, ha affrontato la vita con ottimismo, grinta e gentilezza e che si è circondata di amici con i quali ha collaborato anche a livello professionale e che hanno giocato un ruolo molto importante nella sua scala personale di valori. Nelle sue opere, soprattutto nei suoi gialli, la sua vita privata ha “interferito” nella creazione di personaggi e situazioni che quindi in realtà tanto fittizi non erano (per esempio è molto probabile che l’eroina femminile Harriet Vane sia un alter ego della stessa autrice). Ciò dimostra quanto considerasse importante l’arte, e la scrittura in particolare, nella sua vita, visto che c’è un rapporto di simbiosi tra attività creativa ed esperienze personali.

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Capitolo 2

Le figure dei detective

2.1 Teoria del personaggio

Un aspetto importante, data la varietà dei tipi di detective (di cui si parlerà nel paragrafo successivo), riguarda come è nata la costruzione vera e propria del personaggio all’interno di romanzi e racconti e la sua evoluzione nel tempo. Innanzitutto è opportuno chiedersi cosa sia un personaggio. Secondo la definizione di Robbe-Grillet del 1957:

Un personaggio, tutti sanno che cosa significhi questa parola. Non è un lui qualsiasi, anonimo o traslucido, semplice soggetto dell’azione espressa dal verbo. Un personaggio deve avere un nome proprio, doppio se è possibile: nome e cognome. Deve avere dei genitori, un’eredità. Deve avere una professione. Se avrà dei beni, tanto meglio. Infine deve possedere un ‘carattere’, un volto che lo rispecchi, un passato che ha modellato questo e quello. Il suo carattere detta le sue azioni, lo fa agire in maniera determinata dinanzi ad ogni evento… 7

Oppure nel vocabolario Treccani alla voce “personaggio” è possibile leggere:

Interlocutore di una composizione drammatica. Ognuna delle persone che agiscono in un’opera narrativa, cinematografica, televisiva.8

Ma sappiamo bene che non tutti i personaggi possiedono queste caratteristiche o rispettano gli schemi che molti critici hanno elaborato nel corso del tempo.

7 Stara A., L’Avventura del Personaggio, Le Monnier Università, Mondadori Education S.p.A.,

Milano, 2004, p. 5.

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Il primo problema riguardante queste “persone” è legato alla loro presunta esistenza: a volte sappiamo che sono il frutto della fantasia dell’autore, in altri casi è l’autore stesso a garantire la loro esistenza e in altri ancora rimandano a persone realmente vissute. Ma, in fin dei conti, nessun lettore potrà mai essere completamente certo dell’identità del personaggio di cui sta leggendo le avventure. Infatti lo stesso personaggio può essere rappresentato in maniera differente a seconda dell’opera in cui si legge di lui, per esempio si hanno tre versioni diverse di Napoleone Bonaparte in Guerra e Pace, I Miserabili e “Cinque Maggio”. È quindi molto difficile distinguere tra personaggi referenziali (cioè che si rifanno a persone realmente esistite) e personaggi di invenzione e questo di sicuro non è un criterio abbastanza accurato per catalogare i personaggi. Certo è che i personaggi possiedono una serie di tratti che si intersecano e si sovrappongono, che porta i critici a parlare di famglie di personaggi; non esiste infatti un unico tratto che resti invariabile, ma ne esistono una moltitudine che si evolvono nell’insieme e nelle varie opere.

Etimologicamente la parola “personaggio”, nell’accezione analizzata qui, deriva dal francese personnage ed è entrata nell’italiano all’incirca nel Quattrocento. La variante francese rimanda al latino persona (per indicare l’individuo in generale), che a sua volta deriva dall’etrusco phersu, “maschera teatrale”, con un conseguente ampliamento del significato. Partendo dall’accezione di un individuo che con una maschera recita su un palco si arriva all’accezione di individuo che con la sua personalità fa parte del mondo.

Lo studio del personaggio subisce una battuta di arresto dopo Flaubert, e i critici ritroveranno interesse nella sua analisi solo nella seconda metà del Novecento.

L’aspetto principale che è stato preso in considerazione nello studio del personaggio fin da Platone è la mimesis, cioè la capacità di questa figura di essere ancorata alla realtà e quindi di rappresentarla nonostante sia un prodotto di fantasia. All’interno della Repubblica di Platone (del 375 a.C. circa), l’autore dedica alcune pagine alla questione dell’arte, ed espone il suo punto di vista attraverso le parole di Socrate e del suo interlocutore Adimanto. L’idea di fondo è che non bisogna “confondere verità e falsità, giustizia e ingiustizia, bene e

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male…”.9 Inoltre si stabilisce un rapporto molto stretto tra verosimiglianza e

coerenza, quindi non potranno esserci uomini buoni che compiono brutte azioni o uomini cattivi che compiono azioni positive. Socrate mette in guardia i lettori soprattutto per quanto riguarda l’insegnamento delle favole ai giovani, in quanto i personaggi e gli eventi sono un misto di realtà e finzione e potrebbero confondere il lettore non facendogli capire cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Dal punto di vista della narrazione, Socrate distingue tra narrazione diegetica (che si svolge sotto il pieno controllo del narratore), mimetica (in cui il protagonista narra in maniera diretta, senza essere quindi mediato) e mista (che è una combinazione tra la narrazione diegetica e mimetica); ovviamente Socrate predilige la narrazione diegetica, proprio perché posta sotto il controllo della ragione. Questo punto di vista cambia completamente in un’opera di Aristotele: la Poetica (del 330 a.C. circa), in cui la mimesis non spaventa più Aristotele, che considera l’imitare una cosa naturale e un metodo di apprendimento primordiale dell’uomo. Infatti le passioni e i drammi descritti in un libro o in un’opera teatrale non contagiano più il lettore o lo spettatore come affermava Platone, ma lo purificano, esorcizzano le sue paure attraverso qualcosa di collettivo, secondo Aristotele. È un’esperienza dalla quale si esce fortificati, per questo è importante che i personaggi parlino in prima persona raccontando le proprie vicende. Un altro tema fatto emergere da Aristotele (e che sarà presente nel Novecento) è la maggiore importanza rivestita dall’azione piuttosto che dalla psicologia del personaggio, che resta comunque legata alle vicende che si susseguono. Ciò che lo caratterizza maggiormente è la sua normalità, che favorisce l’identificazione da parte del lettore o dello spettatore. La caratterizzazione del personaggio sarà il fenomeno che avrà più rilevanza col passare del tempo. Dipende infatti dalla capacità dell’autore di suscitare particolari effetti emotivi sul lettore/spettatore tramite il tratteggio di questa figura e attraverso l’immedesimazione dell’autore stesso. Facendo un salto temporale, sarà Orazio nel 15 a.C. con la sua Ars Poetica a far conoscere al mondo latino i precetti aristotelici; inoltre Orazio elabora una sorta di repertorio canonico chiuso e stabile di tutti i personaggi che è possibile rappresentare. Sono questi agenti che devono trasmettere emozioni e suscitare un effetto su chi guarda

9 Stara A., L’Avventura del Personaggio, Le Monnier Università, Mondadori Education S.p.A.,

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o legge, un effetto che sarà nullo se si scende sotto il livello minimo del potenziale illusionistico che ogni personaggio possiede. Sarà poi la mescolanza dei tratti psicologici di personaggi diversi che favorirà la nascita del personaggio protagonista della letteratura moderna e contemporanea, caratterizzato appunto da un’interiorità complessa e variegata. I personaggi “evoluti” avranno una memoria, un passato, dei sentimenti che influenzeranno le loro scelte, proprio come le persone reali.

È possibile trovare il nucleo di questa evoluzione nel 1605, con Don Quijote de la Mancha, nato dalla penna di Miguel de Cervantes; il protagonista decide di fare il cavaliere errante ispirandosi ai romances che legge con grande fervore, alternando momenti di lucidità a momenti di follia. Inoltre le categorie delle

dramatis personae si erano già ampliate e arricchite grazie al teatro di William

Shakespeare, durante l’epoca elisabettiana. Ciò che distingue Don Quijote è la consapevolezza di essere una copia, egli infatti non reclama nessuno statuto di originalità, a differenza dei personaggi che lo hanno preceduto; in lui c’è quindi consapevolezza riguardo al suo status. È solo grazie a lui e a Cervantes stesso che entrano in contatto due mondi (quello reale e quello della cavalleria) che si trovano agli antipodi della scala della realtà.

Questo “virus libresco” che contagia Don Quijote è stato ribattezzato da Michel Foucault “follia per identificazione romanzesca” e sarà presente anche in altri personaggi protagonisti dei romanzi che si diffondono nel secolo XVII in Italia, Francia, Inghilterra, Spagna e Germania. Non solo nei personaggi, ma anche in alcuni autori si sviluppa il desiderio e il piacere di leggere romans dalle trame ritenute da loro stessi frivole ma appassionanti, ne sono due esempi Boileau e Madame de Sévigné, a metà del diciassettesimo secolo. Ciò che si sviluppa e si potenzia in questi anni sono gli effetti illusionistici che i romanzi hanno sui lettori, i quali sentono una specie di attaccamento e di affetto per i loro protagonisti preferiti; si assottiglia così la linea che divide la realtà dalla finzione. La tappa evolutiva successiva nella caratterizzazione del personaggio si ha negli anni ’50 del Settecento in Inghilterra, con la nascita di Robinson Crusoe, Gulliver, Pamela Andrews e Tom Jones; questi protagonisti dei novels favoriscono ancora di più l’identificazione tra lettore e personaggio, perché le

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vicende sono ambientate nella quotidianità e potrebbero, conseguentemente, accadere a chiunque. Di solito nella prefazione dell’autore viene introdotto il protagonista, che è poi presentato e inserito nel suo contesto abituale, di solito legato alle classi sociali inferiori e, di conseguenza, avrà una condotta in linea con il suo status, in modo che il lettore abbia gli strumenti per distinguere realtà e fantasia. Si ha una rottura quindi con la rappresentazione del sublime e degli eroi del passato. Si tratta adesso di raccontare le peripezie di persone normali da un punto di vista epico-comico. L’autore-narratore cerca di oggettivare il racconto del protagonista spacciandolo per vero attraverso testimonianze di diari ritrovati, lettere o confidenze, presentandola appunto non come una story, ma come una

history of facts. Il paradosso sta nel fatto che certi segreti vengono rivelati proprio

perché si tratta di personaggi inventati e non di persone reali, che al contrario tutelerebbero la propria privacy. Molto spesso l’autore però descrive e si riferisce a persone vere, e le descrizioni sono così verosimili da dover usare l’anonimato o pseudonimi in modo che i corrispettivi reali non vengano identificati da chi legge. È l’autore che dà una garanzia al personaggio e in quest’epoca è sempre presente nel testo, a fianco dei protagonisti del romanzo. Un elemento che sottolinea la crescente autonomia del personaggio a partire dal novel è la presenza di un nome e un cognome, quasi come fosse una persona vera con una propria identità. Nome e cognome amplificano l’ ” ‘effetto di reale’, (…) perché proprio questo permetteva di collocarli in un sistema di riferimenti e di leggi sostanzialmente non diverso da quello del lettore”.10 Il cognome infatti rendeva possibile l’attribuzione di genitori, l’appartenenza a un ceto sociale, una genealogia, un lavoro, ecc.; sono questi dettagli che fanno percepire al lettore una maggiore vicinanza e un’intimità con il protagonista, avvicinandoli sotto lo sguardo attento del narratore-autore. Fondamentale nel novel è la coerenza delle azioni del personaggio: dalla sua formazione e dalle sue esperienze passate deve saper modellare il presente nel migliore dei modi, nonostante alcuni eventi non siano sotto il suo controllo; ci deve essere un equilibrio tra vita interiore e vita esteriore.

Al grande entusiamo con cui venne accolto il romanzo in Inghilterra nel Settecento, si oppone un giudizio nettamente negativo in Germania agli inizi

10 Stara A., L’Avventura del Personaggio, Le Monnier Università, Mondadori Education S.p.A.,

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dell’Ottocento. Hegel, Goethe e Schlegel non consideravano il novel un genere da prendere seriamente in considerazione, i romanzi che narravano le vite di uomini e donne comuni erano solo un passatempo. Hegel, soprattutto nella sua Estetica, vede il protagonista del romanzo come un individuo schiacchiato dagli obblighi della società e le uniche due vie di uscita sono o la ribellione contro l’oppressione o mostrarsi per come si è fatti veramente (Hegel le chiama rispettivamente “azione” e “siuazione”). Ciò che secondo Hegel penalizza alcuni personaggi romantici (tra cui Werther di Goethe) è la morbosità del conflitto interiore, il personaggio si ritrova imprigionato dentro se stesso e non riesce ad agire.

Addentrandosi nell’epoca moderna infatti è possibile incontrare sempre più spesso nei romanzi, personaggi interiormente complessi, problematici, senza le grandi certezze che caratterizzavano i grandi eroi del passato. Dopo la metà dell’Ottocento i critici sottolineano sempre di più la supremazia della psicologia del personaggio sull’azione; gli autori mettono distanze sempre più ampie tra le aspettative dei loro protagonisti e la realtà, e ciò li porterà alla rovina o alla morte (alcuni esempi sono: Emma Bovary, Anna Karenina o Josef K.).

Una data di svolta per Lukács è il 1848: quando da una parte si ha la capacità dei personaggi di Balzac, Dickens o Tolstoj di influenzare gli eventi tramite le loro azioni e dall’altra vengono descritte l’alienazione e la noia borghesi presenti nelle opere di Flaubert o il realismo squallido della vita dei proletari in Zola. La credibilità del personaggio va esaurendosi verso la fine dell’Ottocento e poi con le avanguardie del primo Novecento, ed è Nietzsche a sottolineare questo fenomeno: secondo lui il lettore non riesce più a identificarsi con i protagonisti dei romanzi. Nel 1983, Gérard Genette, parlando della modificazione della caratterizzazione del personaggio, fa una distinzione tra due tipi di presentazione del protagonista da parte del narratore: il tipo A (dall’esterno verso l’interno del personaggio, con una quantità sempre maggiore di dettagli, come nelle opere di Balzac) e il tipo B (presentando il personaggio come se fosse già noto, come fa Kafka). Sarà soprattutto la presentazione di tipo B ad affermarsi nel XX secolo, anche attraverso l’uso di soprannomi, che favoriscono lo sviluppo di una complicità del personaggio con il lettore. Un altro punto di rottura secondo Virginia Woolf è il 1910 (anno in cui ascese al trono d’Inghilterra Giorgio V):

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separa la sua generazione (detta georgiana) da quella precedente (detta edoardiana). Gli edoardiani aderivano ad una presentazione del personaggio di tipo A, arricchendo quindi la sua descrizione di dettagli e particolari, costruendogli un contesto e solo in un secondo momento parlando del protagonista vero e proprio. I georgiani invece penetravano nella psicologia del personaggio, indagando la sua interiorità anche in modo molto diretto.

Un fenomento che sta alla base del romanzo degli anni ’30 del Novecento è l’importanza che gli autori danno a fatti quotidiani, eventi banali, come comprare dei fiori, organizzare una festa o fare una passeggiata; quello che conta è la percezione del personaggio, quello che prova. Il ruolo dell’autore di conseguenza si annulla, spesso l’incipit del romanzo si apre in medias res, senza la presentazione del personaggio che caratterizzava le opere dell’Ottocento; si perdono quindi l’onniscienza e pure la credibilità, non avendo più l’autore come garante di verità dei fatti narrati. Adesso si chiede uno sforzo al lettore, il quale dovrà capire da solo fino a che punto la prospettiva di chi racconta sia obiettiva e valida, starà sempre al lettore interpretare i fatti e trarne le conclusioni, e non è sempre facile se si pensa per esempio alla complessità degli streams of

consciousness usati da James Joyce. Sono i personaggi secondari ad assumere un

ruolo di maggiore spessore, a loro infatti spetta il compito di guidare e aiutare il lettore nell’interpretazione degli eventi, visto che il narratore onniscente non è più presente.

Edward Morgan Forster divide così i personaggi in due categorie: flat e round: i primi sono costruiti intorno a un’unica qualità o idea, mentre i secondi sono più complessi e sono capaci di evolversi, sono quelli che hanno un maggiore impatto sul lettore.

Negli anni ’70 e ’80 del Novecento, sotto l’influenza degli studi strutturalisti, si tende a scomporre i personaggi in tratti, che tra loro si mescolano e danno vita a nuove caratterizzazioni. Altri critici invece vedono il personaggio solo un punto di contatto tra le varie fasi dell’intreccio, facendo prevalere l’importanza dell’azione sull’interiorità.

Riprendendo un’idea di Northrop Frye: come i simboli e i segni matematici ci aiutano a spiegare ed interpretare il mondo, così i segni della letteratura (e quindi

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anche i personaggi) possono aiutarci a capire meglio la quotidianità che ci circonda; un romanzo non è solo pura mimesi della realtà o pura finzione. Il lettore si affida al personaggio non solo per accompagnarlo nelle vicende che lo vedono protagonista, ma anche per fare chiarezza dentro se stesso, per interrogarsi e per analizzare la società in cui si trova.

In conclusione, a prescindere dal genere di cui fa parte un romanzo, la caratterizzazione dei personaggi non è casuale, ma è frutto di un’evoluzione che nel corso dei secoli ha portato gli autori a farsi domande insieme al lettore e a dotare i loro protagonisti di un’interiorità che è diventata sempre più profonda e ricca di sfumature.

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2.2 Classificazione dei vari tipi di investigatore

privato: gli archetipi

Quasi come se fosse una persona in carne e ossa anche il personaggio del detective si è evoluto nel tempo, sviluppando una sua personalità, spesso legata a quella dell’autore, mostrando al lettore tratti caratteriali diversi tra loro.

Alcuni studiosi, concentrandosi nello specifico sui gialli appartenenti all’epoca vittoriana, hanno provato a classificare i vari “tipi” di detective, in base alle idee, proprie di ogni cultura, attraverso le quali traspaiono percezioni del mondo differenti. Ovviamente questo tipo di classificazione non appiattisce mediante stereotipi le diverse sfumature che sono peculiari delle varie caratterizzazioni dei numerosi detective che si susseguono sulla scena della detective fiction fino ai nostri giorni.

Il primo tipo è il detective aristocratico, nato da due spinte emozionali in opposizione tra loro. Da un lato si tratta della figura dell’uomo che ha scalato da solo l’ascesa verso il successo, con sacrifici e rinunce. Dall’altra parte il rimpianto del declino della borghesia terriera, con le sue feste e le sue tradizioni. È soprattutto il secondo sentimento che dà vita all’investigatore aristocratico, un personaggio che presenta delle caratteristiche particolari del tutto scisse da privilegi di nascita e nobiltà di sangue. Queste virtù o difetti possono essere: la bontà, la bellezza, l’intelligenza, la colpa, l’essere sognatore, l’egoismo, ecc., ma che siano tratti positivi o negativi sono comunque acuiti (per esempio il bene e il senso di giustizia trovano il loro epigono in Sherlock Holmes, mentre il male nel Professor Moriarty). Di solito le caratteristiche negative, soprattutto nella Golden Age, appartengono alle vittime o agli assassini, mentre successivamente, con l’hard-boiled non ci sarà più una separazione così netta.

In opposizione all’aristocratico c’è il detective eroe, che accoglie con benevolenza un aiutante, grazie al quale riesce a risolvere il caso, dividendo così con lui la gloria e la vittoria che ne derivano. A differenza dell’investigatore aristocratico, l’eroe non cerca volutamente il pericolo per mettersi al centro dell’attenzione, dimostra quindi di non possedere un’indole egocentrica, ma,

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spalleggiato da un compagno di avventure, lascia che la legge faccia il suo corso, non cadendo così nella tentazione di farsi giustizia da solo o di scavalcare le autorità statali. Il primo tipo esalta la morte, l’orgoglio e il romanticismo, il secondo invece la ragione, l’energia, l’amore per la vita ed è pronto a riconoscere i propri fallimenti, al contrario dell’aristocratico che crede invece nell’illimitatezza delle sue potenzialità. C’è inoltre il terzo e il più importante tipo di investigatore: il clown; il suo rapporto con la società non è né di rifiuto come per l’aristocratico né di totale sottomissione come per l’eroe. Il clown ha un rapporto ambiguo con essa, accetta alcune limitazioni e ne rifiuta altre e non si sente completamente a suo agio all’interno della comunità in cui vive, avendo, così, come conseguenza, comportamenti che a volte possono apparire discutibili (da qui la denominazione di clown). Il detective clown non si sente sicuro di se stesso, non riesce a ritagliarsi un posto nel mondo e la sua insicurezza e ansia permeano le sue azioni, che spesso risultano infantili.

Se dovessimo rappresentare questi tre tipi attraverso una metafora potremmo dire che l’arisotcratico è l’io, l’eroe il super io e il clown l’es; ognuna di queste tre categorie a sua volta racchiude sottocategorie che sono definite in modo preciso per l’aristocratico e l’eroe, mentre sono meno nette per il clown. Tre esempi di sottocategorie del clown sono il detective “Silly Ass”, caratterizzato soprattutto da ingenuità, figura a cui ricorre anche Dorothy L. Sayers, (nonostante Lord Wimsey sia un perfetto aristocratico). C’è poi il “Lay Analyst”, investigatore meticoloso che ragiona con insistenza sugli eventi, capace di violenza ma più che altro una sorta di confessore per gli altri personaggi, che gli chiedono consigli sulla loro vita privata. L’ultimo è il Buffoon. Quest’ultima sottocategoria presenta a sua volta una figura non ben definita, che può racchiudere al suo interno sia un detective che, nonostante non si trovi a suo agio nella società, ha una capacità deduttiva che gli permette di risolvere brillantemente i casi (il Bouncer) o al contrario un investigatore confusionario e privo di metodo che però ottiene i suoi risultati (il Prankster); inoltre non tutti i Buffoons sono poliziotti o comunque collaborano con lo Stato. Anche se gli autori si sono focalizzati inizialmente sull’arisocratico e sull’eroe, a partire dagli anni trenta il clown si è imposto sempre di più all’interno del genere giallo, sottolineando la necessità dei lettori di

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avere a che fare con personaggi sfaccettati, in grado di mostrare un’interiorità profonda e piena di sfumature che possono anche essere contraddittorie tra loro. Critici letterari e gli stessi scrittori hanno cercato di delineare la figura del detective perfetto; Eliot, per esempio, ha dichiarato che “the character and motives of the crime should be normal”11; mentre il detective deve essere “highly intelligent but not superhuman”.12 Oppure Freeman critica gli autori di libri gialli

di puntare troppo su scene crude e particolari orridi per provocare repulsione e orrore nel lettore invece di sottolineare la bravura e la sottogliezza delle capacità deduttive e di analisi logica dell’investigatore. Altri invece vorrebbero un detective in cui ognuno di noi potrebbe riconoscersi, che faccia della sua ordinarietà la sua qualità straordinaria, che parli per e in difesa della gente comune, che spesso ha bisogno di essere rassicurata. Come il detective Wilson, nato dalla penna di Margaret e G.D.H. Cole negli anni ’30 del Novecento e protagonista di una serie di gialli trasmessi alla radio (“Meet the detective” del 1935). Per C. Day Lewis, autore di molti gialli ma conosciuto con lo pseudonimo Nicholas Blake, il detective deve rappresentare “both the light and the dark side of his nature”.13 Spesso questa sua natura contraddittoria, si riflette nell’incapacità

del detective di gestire relazioni amorose o rapporti di amicizia perché troppo impegnato a fare giustizia. Questo aspetto sarà molto presente nel sottogenere hard-boiled, in cui il protagonista è una persona solitaria, che non sviluppa legami con la società in cui vive e risolve i casi grazie alla sua mente brillante e alle sue capacità intellettive molto pronunciate, negando quindi la necessità di una compagna o di un compagno che lo sostenga. Negli altri sottogeneri del romanzo giallo, l’unica eccezione in cui l’investigatore crea un rapporto d’amicizia è rappresentata dalla presenza di un aiutante, che supporta l’investigatore e lo aiuta nella risoluzione del caso. Alcune coppie celebri sono: Holmes e Watson, Poirot e Hastings, Wimsey e Harriet Vane e ce ne sono molte altre, nate dalla prima coppia formata da Dupin e dal suo amico anonimo, che è anche il narratore dei racconti

11 D. Glover, The Writer Who Knew Too Much: Populism and Paradox in Detective Fiction’s Golden Age, in W. Chernaik, M. Swales, R. Vilain, The art of detective fiction, Palgrave

Macmillan, 2000, p. 38.

12 D. Glover, Ibidem p. 38.

13 W. Chernaik, Mean Streets and English Gardens, in W. Chernaik, M. Swales, R. Vilain, The art of detective fiction, Palgrave Macmillan, 2000, p. 106.

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di Edgar Allan Poe nati negli anni ’40 dell’Ottocento. La presenza di un collega ha la funzione di attenuare l’eccentricità, la stravaganza e la solitudine del detective. Si sviluppa quindi un equilibrio che smorza l’intelligenza fuori dal comune dell’investigatore, che, per mezzo dell’aiutante, viene avvicinato emotivamente al lettore, il quale lo percepisce quindi meno distante e meno irraggiungibile. Nei gialli appartenenti alla Golden Age la figura dell’aiutante è presente e a volte si tratta di un parente o un amico d’infanzia del detective, mentre nei romanzi hard-boiled il cinismo dell’investigatore gli impedisce di far nascere qualsiasi legame con altre persone.

Inoltre, mentre in un primo periodo del percorso evolutivo della figura del detective il lettore era limitato a leggere di investigatori di sesso maschile appartenenti alla nobiltà o comunque benestanti, nell’età moderna questo personaggio può essere tutto e tutti, senza limitazioni di sesso, professione o etnia: un Navajo, un africano, una lesbica, un omosessuale, un bambino, un robot, ecc. Che sia un detective di professione, un gentiluomo che si improvvisi investigatore, un emarginato o una persona perfettamente integrata nella società, più si va avanti nel tempo più è difficile stabilire una categoria precisa in cui incasellare il personaggio. Come accennato prima, l’interiorità si fa sempre più profonda e complicata, tanto che non ci stupiremmo se incontrassimo il detective di alcuni libri o racconti gialli per la strada, trasfigurato in “persona vera”. È proprio questa caratterizzazione accurata che ha permesso lo sviluppo di serie e collane di gialli. L’investigatore è così amato dal lettore che ciò ha fatto sì che l’autore o l’autrice potesse continuare a scrivere le sue avventure in più di un libro. L’interiorità del detective si pone così in contrasto con le prime critiche mosse a questo genere, secondo le quali il protagonista sarebbe piatto, senza sentimenti, una “macchina pensante” e mosso solo dal senso del dovere.

Uno dei primi a cogliere la complessità di questo personaggio è stato Mark Twain. Nel suo “Double-barreled Detective Story” lo scrittore americano delinea quattro categorie in cui poter classificare il detective: in primis è possibile dividere tra il juvenile detective (un investigatore adolescente le cui peripezie si snodano in una trama semplice) e l’adult detective (un investigatore adulto inserito in una trama complessa). Queste due suddivisioni riflettono,

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rispettivamente, il backwoodsman e l’urban detective, due spiriti opposti: il primo, selvaggio e guidato dall’istinto, il secondo, “civilizzato” e subordinato alle regole della società: entrambi rappresentativi della cultura americana e britannica, secondo Twain. Molti scrittori, tra cui Conan Doyle, Stevenson e Wallace, hanno scritto sia storie per ragazzi sia libri per adulti; spesso i detective sono dotati di un’intelligenza quasi sovrannaturale, modi confusionari che li legano al mondo fanciullesco o addirittura hanno direttamente a che fare con i bambini (come lo stesso Lord Wimsey che incarna entrambe le caratteristiche). Il personaggio crea una sorta di double bind: “you must grow up before you can play the game; you have to grow up before you can be a child”14, e ciò che lega l’adulto e il bambino

sono la fantasia, la capacità di immaginare e in molti casi l’atto di vedere il crimine come un gioco, un puzzle da risolvere. Un esempio ne è, di nuovo, Lord Wimsey, il quale in Strong Poison fa riaprire il caso che vede come imputata Harriet Vane perché “I wouldn’t lose the fun of all this for the world” (SP 38). Quindi nella detective fiction è possibile riscontrare i segni, quasi gli indizi, per usare un termine portante di questo genere, di una ribellione adolescenziale contro l’autorità: nel detective hard-boiled, per esempio, che non riconosce lo Stato come autorità. Inoltre, la ribellione adolescenziale si manifesta anche tramite il “paradosso della polizia”, cioè attraverso la rappresentazione di poliziotti incompetenti e privi di metodo scientifico, che senza il detective non riuscirebbero mai a risolvere il caso. Così facendo, emerge la volontà del detective di beffarsi di loro e di sfidarli ripetutamente. Il “paradosso della polizia” è presente anche quando l’investigatore stesso è un poliziotto, oppure quando si mette in luce l’inefficienza di un superiore (nel caso in cui il protagonista sia un poliziotto) o ancora quando si esclude la polizia dal caso (nell’hard-boiled), oltre alle occasioni in cui si manifesta apertamente l’odio del detective nei confronti della polizia. Oltre al “paradosso della polizia” e il double bind “bambino-adulto”, un’altra caratteristica che accomuna tutte le categorie e gli archetipi di investigatori è il fatto che debbano essere imperscrutabili. Agli altri personaggi è permesso

14 Roth M., Foul and Fair Play: Reading Genre in Classic Detective Fiction, University of

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sorprendersi, ma non a loro. Nessuno deve intuire quali pensieri si avvicendino nella mente di un detective, perennemente dominato dal self-control, in modo che, alla fine del libro o del racconto, la soluzione del caso venga presentata come del tutto logica e di effetto, sia per i personaggi secondari che per il lettore. Questa sua impenetrabilità si riflette anche nel linguaggio: il detective non dice mai più del necessario, misura le parole e non lascia spazio a dubbi o a informazioni superflue; spesso fa uso di battute sarcastiche e pungenti, che nel caso dell’investigatore hard-boiled lasciano trasparire la rabbia del protagonista. A volte viene usato un linguaggio volgare e offensivo, anche perché in molti dei casi da risolvere il detective hard-boiled si trova coinvolto suo malgrado, mentre il detective della Golden Age cerca di risolvere misteri solo per piacere personale e quindi non per lavoro. In linea generale, all’interno del genere giallo, la sfida consiste nel saper indovinare il rapporto tra linguaggio e sentimenti; saper scavalcare le frasi ambigue e i trabocchetti ideati dai detective che fanno i duri per arrivare a una soluzione certa. È necessario cogliere una soggettività del personaggio che molto spesso è nascosta e scoprire qual è la prospettiva più affidabile che viene di solito distorta mediante l’uso della narrazione in prima persona.

Soprattutto nel sottogenere hard-boiled l’investigatore cela sotto un’apparente impenetrabilità, distacco e noncuranza una profonda sensibilità, che lo spaventa, in quanto lo fa sentire vulnerabile, e fa cadere quel velo di severità che si è auto-costruito e grazie al quale si rende credibile agli occhi degli altri.

Che sia un detective analitico (cioè della Golden Age) o hard-boiled, la funzione di questo personaggio è quella di sollevare domande che siano interessanti, che conducano alla verità, che facciano riflettere il lettore; una domanda che nasce da un assassinio, o comunque da un crimine. Il fatto di far scaturire dubbi nel lettore e la centralità del ruolo della colpa hanno fatto sì che alcuni critici, come per esempio Auden, vedessero la detective fiction “as the Christian morality play restated in modern dress”15, nonostante nei sottogeneri più

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recenti questo aspetto sia stato offuscato dalla presenza della politica, del degrado e del sesso, elementi che attutiscono la percezione della “Cristianità”.

Di sicuro l’ago della bilancia tra bene e male è incarnato dal detective, che accompagnamo e seguiamo nelle sue scelte; lo vediamo tradito o che tradisce, non c’è privacy tra lui e il lettore, il quale a sua volta può identificarsi o meno nelle scelte che fa, attribuendogli anche la funzione di capro espiatorio quando prova sensi di colpa, esorcizzandoli di conseguenza attraverso il personaggio. Il detective è anche colui che sprona il lettore a fare ragionamenti, a sviluppare le sue capacità logico-deduttive, facendo quindi emergere un tipo di empatia anche positiva e costruttiva; questo eroe solitario e razionale ci dimostra che eventi che inizialmente sembrano irrazionali e contraddittori in realtà hanno una spiegazione logica e coerente.

Infine, il detective è stato associato ad altre due figure: il giocatore di scacchi e il perdigiorno. Nel primo caso ovviamente ciò che viene esaltato è la capacità di ragionamento, la sua razionalità. In alcuni episodi anche il criminale è un bravo giocatore di scacchi, facendo così percepire al lettore che l’investigatore e il suo avversario giocano ad armi pari e che quindi la risoluzione del caso sarà complicata e laboriosa, visto che da entrambe le parti si hanno due menti vivaci e intelligenti. L’immagine del detective giocatore di scacchi appartiene soprattutto alla Golden Age, in quanto questo gioco era praticato soprattutto dai nobili e dall’alta borghesia (si perderà interesse nel giocare a scacchi dopo il 1850, parallelamente alla decadenza della nobiltà e all’emergere di nuove classi sociali). La capacità di risolvere un caso dipende dalla bravura del detective di entrare nella mente dell’assassino e anche la vittoria di una partita a scacchi è legata alla capacità del giocatore di prevedere le mosse dell’avversario: ecco un’altra analogia. Nell’evolversi del genere, il gioco degli scacchi assumerà la funzione di semplice hobby con cui gli investigatori si rilassano a fine giornata.

Una figura che vede la sua affermazione agli inizi del Novecento è quella del

flâneur: il perdigiorno, il bighellone, che aggirandosi per le strade della città

riesce a cogliere dettagli che ad altri sfuggono. Il detective, per certi suoi aspetti, può essere considerato una sorta di flâneur. Questa figura nasce orginariamente nelle strade di Parigi, ma più che una collocazione geografica, rappresenta uno

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