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CAPITOLO 2 Economia ed etica: mondi separati o no?

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CAPITOLO 2

Economia ed etica: mondi separati o no?

1. Etica e mercato

2. Responsabilità morale ed azienda

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28 1. Etica e mercato

Il tema se il mercato fosse o meno svincolato dall’etica è stato molto dibattuto in passato. Oggi siamo giunti a concludere che tra etica e mercato esiste un legame indissolubile. A questo proposito è utile cominciare col discutere sul modello di concorrenza perfetta. Partendo dall’assunto che ciascun soggetto è informato su quanto serve a decidere e tutti hanno una dotazione iniziale di risorse non contestata, questa teoria si basa sull’idea che il perseguimento individuale sul mercato del proprio interesse porta, attraverso scambi liberi e razionali, ad un equilibrio di massimo benessere per tutti. Il libero mercato, quindi, soddisfa contemporaneamente sia le esigenze fondamentali dell’uomo (ciascun individuo è libero di scegliere gli scambi da fare e se farli) che l’obiettivo di un innalzamento complessivo del benessere collettivo ed individuale. GAUTHIER ha definito l’area di funzionamento della concorrenza perfetta come una «zona libera dall’etica», in quanto l’agire secondo il proprio interesse fa coincidere l’utile collettivo con quello individuale. Affinché questa free zone si realizzi concretamente, è necessario che tutti scelgano liberamente e consensualmente in ogni scambio in base alle loro preferenze e contano su di un adeguato sistema di informazione che rifiuta frode e inganno, essendo nell’interesse di tutti accettare il contratto sociale implicito di rifiutare ogni imbroglio.

Nella realtà economico sociale di fatto questo assunto non trova riscontro; infatti: • occorre assicurare una base di “legge e ordine” senza la quale nessuno

scambio può avvenire in maniera corrispondente al desiderio dei soggetti economici (es: nelle aree dove prevale la delinquenza organizzata non si può parlare di libere scelte imprenditoriali o di libere scelte del consumatore). • è necessario garantire un contesto di fiducia reciproca1

.

• nei sistemi economici concreti esistono delle economie e diseconomie esterne (cosiddette esternalità) che rendono, in vari casi, difficile la

1 Nel 1989 JOHN SHAD, allora presidente della Securities Exchange Commission, fece notare che ogni

anno i brokers trattano 40 trilioni di dollari di valori e titoli sulla base di chiamate telefoniche, con un basso tasso di frodi ed imbrogli. Se questi soggetti non potessero contare sulla fiducia, allora l’efficienza delle vendite e dei commerci sarebbe molto inferiore di quanto effettivamente è.

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29 conciliazione tra l’azione economica individuale ed il risultato collettivo. In presenza di esternalità negative, quali ad esempio l’inquinamento atmosferico prodotto da una compagnia aerea, sorge il problema se sia etico o meno per un’azienda in concorrenza scaricare alcuni costi sulla collettività. Il conflitto morale che si viene così a creare si riflette, successivamente, sul processo di formazione della legislazione.

• la dotazione informativa di partenza dei soggetti nei singoli scambi non è identica e presenta problemi di scelte combinate e interrelate. Spesso questa asimmetria informativa causa, al momento dello scambio, scelte confuse e sbagliate da parte dei partecipanti al mercato. Questo fa emergere un problema etico, perché non tutti i soggetti sul mercato, a causa di questa disparità informativa, possono raggiungere un equilibrio ottimale di comune utilità nel rispetto dei propri diritti di fondo.

• la distribuzione di partenza delle risorse naturali, finanziarie ed umane pone spesso i contraenti nello scambio in una posizione non di pari opportunità (es: il prestito ad usura sfrutta ingiustamente una posizione di bisogno). Da questa disuguaglianza di risorse discende il fenomeno della «rassegnazione» dell’individuo più disagiato. Su questo soggetto si possono così generare due tipi di conseguenze: “autocensura delle aspettative” che fa ritenere sempre e comunque troppo costosi e vani i tentativi di riscatto2; “passaggio repentino dalla rassegnazione alla violenza e alla criminalità” (fatto che si verifica soprattutto nelle aree urbane dove si confrontano estrema miseria ed estrema ricchezza), costringendo così la società e le imprese a sostenere maggiori costi. In accordo con quanto dichiara RUSCONI nell’opera “Etica e impresa: un’analisi economico-aziendale” del 1997, per superare i disagi provocati dalla rassegnazione degli emarginati (le cui fila sono state fortemente rimpinguate dalla crisi economica degli ultimi anni) è indispensabile non solo l’intervento del potere pubblico, ma è anche auspicabile l’intervento delle aziende. Per quest’ultime può infatti risultare conveniente, da un punto

2 Il costo-opportunità dell’istruzione per chi vive nella povertà va posto in relazione anche alla spesso

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30 di vista economico-finanziario, combinare la promozione delle aspettative dei rassegnati con la loro disponibilità a sopportare sacrifici maggiori rispetto alle popolazioni che vivono nel benessere; se opportunamente valorizzati, questi soggetti possono andare a costituire una nuova generazione di operai qualificati e di tecnici e/o manager ben integrati con le tradizioni dei loro paesi.

• nello scambio di mercato e nel concreto operare delle aziende vi sono azioni non influenzabili da valori puramente economici (es: scelte alimentari connesse ai principi religiosi). Nel mondo reale, a differenza del modello di concorrenza perfetta, per molte persone esistono valori non negoziabili (es: rifiuto etico della prostituzione) sui quali non è possibile agire attraverso il meccanismo dello scambio, indipendentemente da quanto prevede la legislazione.

• l’azienda è una realtà sistemica al cui interno si sviluppano una molteplicità di interrelazioni tra i soggetti che vi operano; questa concretezza non coincide con la visione atomistica dell’azienda tipica del modello di concorrenza perfetta. L’esame dei problemi etici che nascono all’interno dell’azienda dal rapporto che questa ha con gli interlocutori che fanno parte del suo apparato sinergico (azionisti, dirigenti, quadri, impiegati ed operai), non può prescindere dalla “visione” dell’intero complesso funzionamento del sistema aziendale nella sua continua e sempre instabile ricerca di equilibri economici e finanziari.

Alla luce di quanto esposto sopra, possiamo concludere nell’affermare che è impossibile parlare dell’esistenza nel mercato reale di una zona libera dall’etica, nella quale tutti i soggetti (aziende comprese) concordano completamente sulle regole del gioco a cui bisogna fare riferimento per raggiungere il massimo benessere collettivo.

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31 2. Responsabilità morale ed azienda

Molto a lungo gli studiosi hanno dibattuto sul seguente quesito: l’azienda è un mero strumento artificiale di azione delle singole volontà cui rinviare ogni responsabilità etica, oppure esiste la possibilità di costruire una sorta di etica di un soggetto-sistema in cui sono coinvolte in diversa misura varie persone umane? Prima di procedere con l’esame delle diverse teorie che sul punto si sono confrontate, è opportuno premettere che:

• l’azienda non è una persona;

• al suo interno opera una pluralità di soggetti sui quali ricadono, indipendentemente dal loro livello, responsabilità personali.

CECCHERELLI, adottando una visione complessa d’azienda che tiene conto non solo della struttura ma anche della dinamica aziendale, definisce l’azienda come “un’organizzazione economica sociale, alla cui base ci sono delle organizzazioni di persone e di mezzi economici nelle quali le forze del lavoro e le utilità dei beni si combinano tra loro per il conseguimento di finalità economiche”. Più precisamente:

− sotto l’aspetto strutturale, l’azienda è vista come un insieme di mezzi e di forza lavoro combinati in base alla quantità di mezzi disponibili e alla particolare attività che si vuole porre in essere;

− sotto l’aspetto dinamico, l’azienda è un complesso operante nel quale l’attività deliberativa ed esecutiva di più persone si applica ai beni che formano la dotazione dell’azienda per aumentarne l’utilità (risultato economico).

Premesso questo, possiamo iniziare col dire che, in un primo momento, l’opinione prevalente considerava l’azienda come priva di alcuna forma di responsabilità. Secondo la teoria della concorrenza perfetta, l’azienda viene costituita dai soci al solo scopo di trarre profitti in un mercato pienamente libero. L’azienda è quindi lo strumento attraverso il quale i soci cercano di massimizzare

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32 la propria utilità economica. In questo contesto scompare ogni differenziazione fra doveri del singolo e doveri della struttura, poiché tutti coloro che operano con responsabilità nell’azienda, a qualunque livello, sanno che la massimizzazione del risultato economico individuale coincide con il fine morale delle loro azioni. L’organizzazione è solo una rete di contratti continui ed incessanti; per cui i soli responsabili morali sono i singoli. Facendo leva su quanto appena detto, FRIEDMAN si oppone fermamente circa l’esistenza di una eventuale responsabilità sociale d’azienda. Entrando ancor più nel dettaglio, FRIEDMAN ritiene che il consiglio d’amministrazione che proclama di usare risorse per adempiere a doveri etici o lo fa per avere un tornaconto indiretto o viene meno ai suoi doveri di “mandatario” (l’unico dovere degli amministratori è quello di massimizzare l’utile per gli azionisti). Tutti gli economisti ed aziendalisti che seguono questa impostazione liberalista radicale considerano l’azienda come strumento automatico (e quindi irresponsabile eticamente) dell’azione di singoli soggetti, la cui unica responsabilità è quella di cercare di avere successo rispettando le regole del gioco.

A questa teoria ne sono poi seguite altre che trattano in maniera diversa il tema della responsabilità.

Secondo FRENCH, l’azienda è un soggetto morale. Fonda il suo ragionamento sull’affermazione dell’esistenza di una struttura decisionale interna della grande azienda, la cosiddetta Corporation’s Internal Decision structure (più comumente chiamata CID structure), la quale compie scelte intenzionali che sono qualitativamente diverse da quelle dei singoli dirigenti e proprietari, dando luogo ad un vero e proprio soggetto morale autonomo. Di fronte all’obiezione mossa da coloro che sostengono che la politica della grande impresa societaria rifletta solo gli obiettivi correnti dei suoi consiglieri d’amministrazione, FRENCH si difende con l’affermare che queste imprese attuano una serie di scelte politico-strategiche di base che tendono alla stabilità, perciò non possono essere meccanicamente ricondotte alla volontà di singoli dirigenti. L’attribuzione di responsabilità viene distinta in due modalità: da una parte si ha il concetto più usuale di

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33 responsabilità; dall’altra invece si ha la cosiddetta accountability, cioè la resa dei conti a qualcuno. Essere in questa seconda posizione di responsabilità significa “essere una parte in una relazione di responsabilità” e quindi, per divenire una persona morale, occorre che alcune scelte del soggetto siano il frutto delle sue intenzioni. L’esistenza di un’autonoma CID structure, per FRENCH, sta a fondamento dell’attribuzione di intenzionalità all’azienda e permette di parlare di quest’ultima come soggetto morale. Il modello della soggettività morale dell’azienda non è immune da critiche; questa teoria tende, infatti, a sottovalutare le responsabilità morali personali dei singoli dirigenti e proprietari. È su questo terreno che ha origine la teoria dell’azienda come struttura formale di LADD; il quale vede l’azienda come un’ «organizzazione formale», al cui interno è necessario fare una distinzione tra:

a) atti e relazioni degli individui che si vengono a creare durante la vita privata di ogni singolo soggetto;

b) atti e relazioni degli individui svolti dalle persone nel loro ruolo ufficiale dentro l’organizzazione.

Nel primo caso, le decisioni sono attribuite al singolo soggetto; per cui ciascun individuo prenderà la propria decisione tenendo conto dei propri valori etici. Nel secondo caso invece, le decisioni sono impersonali e vanno attribuite all’organizzazione. All’interno delle organizzazioni formali gli individui si comportano e assumono le decisioni nel rispetto di opportune regole del gioco, che LADD definisce giochi linguistici. Regole che stabiliscono:

• quali comportamenti possono essere tenuti e quali no; • gli obiettivi da perseguire e con quali azioni;

• come le attività all’interno dell’organizzazione devono essere concepite, prescritte, giustificate e valutate.

In questo modo l’azienda diventa una “macchina complessa” che non può essere considerata, in alcun modo, un soggetto moralmente responsabile, in quanto nel suo agire deve seguire le regole del gioco che le sono state assegnate e non

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34 principi etici. Nelle organizzazioni formali le decisioni sono prese dai singoli individui per l’organizzazione, con uno sguardo ai suoi obiettivi e non sulla base degli interessi personali o delle convinzioni dell’individuo ufficiale che prende la decisione. Tutto ciò che non è collegato agli obiettivi dell’organizzazione deve essere escluso dal processo decisionale. Non ha quindi senso per LADD parlare di organizzazioni formali come soggetti morali, perché esse sono complicati meccanismi, retti da precise regole, unicamente finalizzati agli scopi di cui sono automatici strumenti di attuazione. Tutte le azioni mosse da scopi diversi sono incoerenti con le finalità dell’organizzazione e vanno attribuite ai singoli individui che le attuano. Tali azioni inoltre, essendo chiare manifestazioni di eccesso di potere, sono considerate riprovevoli (aspetto in comune con FRIEDMAN). LADD riconosce l’esistenza di condizioni esterne (tra cui i valori etici) che limitano il raggiungimento degli obiettivi. In questo modo le considerazioni morali influiscono sul processo decisionale dell’organizzazione formale come vincoli al raggiungimento dell’obiettivo, e non in termini di valori morali. Essendo molto pessimista circa la possibilità che la grande azienda possa disinteressatamente scegliere di comportarsi secondo l’etica dei comuni soggetti morali, LADD auspica l’esercizio di pressioni esterne, in termini legislativi o di opinione pubblica, che incidano sui vincoli alla massimizzazione degli obiettivi aziendali. Se si confronta il pensiero di FRIEDMAN con quello di LADD si nota una differenza rilevante in ordine all’importanza che essi attribuiscono al rispetto della legge. Per il primo, il rispetto della legge rappresenta la condizione base affinché il mercato possa funzionare bene. Per LADD invece, tale obbedienza è puramente opportunistica; cioè comportamenti illeciti quali mancanza di trasparenza, spionaggio ed inganno possono essere usati per raggiungere gli obiettivi dell’azienda, purché il danno di essere scoperti sia inferiore al beneficio ottenibile con l’illegalità. Questi comportamenti sono quindi considerati moralmente neutri. Di questa teoria, piuttosto astratta, si possono individuare due punti impossibili da sostenere:

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35 • la scomparsa o il rovesciamento della coscienza individuale da parte delle

regole del gioco.

Nonostante queste critiche, la teoria di LADD mette in luce l’esistenza di un pericolo molto forte insito nelle potenti organizzazioni della società moderna consistente nella deresponsabilizzazione del singolo. Così si legge in una sua opera del 1988: appare decisamente di sinistro significato l’affermazione che “..un ufficiale che bombarda con successo un villaggio, uccidendo tutti i suoi abitanti, seguendo gli obiettivi della sua organizzazione, sta ponendo in atto un’azione sociale, un’azione che è attribuibile all’organizzazione e non a lui come individuo”.

Secondo alcuni esperti appartenenti a posizioni moderate, l’etica dell’attività aziendale si basa su tre condizioni:

1) la separazione tra proprietà e controllo;

2) il riconoscimento dell’utilità per l’azienda della fedeltà ai principi etici; 3) il rifiuto sia del liberismo che del dirigismo estremi.

In questo modo questi studiosi vogliono, nel contempo, salvare: • l’economicità aziendale;

• la responsabilità dei singoli;

• alcuni valori sociali e morali di fondo;

• l’esistenza di un soggetto-azienda per il quale abbiano in qualche modo senso gli imperativi morali.

Tra i principali esponenti di questo filone di pensiero troviamo GOODPASTER e MATTHEWS, i quali articolano la responsabilità delle persone su tre livelli:

1) causale ⇒ chi ha causato un danno ne è responsabile.

2) legata ad un ruolo sociale ⇒ i genitori sono responsabili verso i figli. 3) decisionale ⇒ rientra in quest’ambito la responsabilità morale.

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36 Sia la responsabilità che la scelta morale sono entrambe caratterizzate dalla conoscenza degli effetti delle azioni; dalla razionalità3; dal rispetto delle vite altrui (in quest’ottica è importante prendere in considerazione le necessità e gli interessi altrui non solo come risorse di un proprio processo decisionale, ma come vincoli che permettono il passaggio da un mondo centralizzato su di sé ad un ambiente condiviso). La teoria della proiezione della responsabilità morale all’azienda, realizzata da questi autori, si basa sull’attribuire all’azienda quelle caratteristiche di conoscenza dell’impatto, razionalità e rispetto tipiche della responsabilità morale individuale. Così, come le persone agiscono responsabilmente solo se entrano in possesso di informazioni sull’impatto delle loro azioni su altri e le usano nel prendere decisioni, anche le grandi aziende che esaminano le loro pratiche di assunzione e gli effetti dei loro processi di produzione e prodotti sull’ambiente e sulla salute umana mostrano quello stesso tipo di responsabilità e rispetto che hanno gli individui moralmente responsabili. In questo modo non si creano problemi nell’attribuire azioni, strategie, decisioni e responsabilità morali alle aziende come entità distinguibili da coloro che vi lavorano.

Infine, un’ultima teoria da considerare è quella del cosiddetto “decisore aziendale”. Con tale termine si usa indicare quella persona, o gruppo di persone, a cui sono riconducibili, in ultima analisi, l’autorità e il potere da esercitare nell’ambito delle scelte aziendali. Il decisore aziendale rappresenta quindi il punto di riferimento dei risvolti etici delle scelte aziendali. A questo punto può essere utile domandarsi: con chi si identifica il decisore aziendale? Ovviamente non è possibile individuare una figura valida per tutte le imprese. Nelle piccole imprese, caratterizzate dalla presenza di un unico individuo proprietario che lavora con una struttura assai semplice e con dipendenti completamente deresponsabilizzati sul piano decisionale, il decisore aziendale si identifica con la figura dell’imprenditore-factotum. E quindi ricadranno su di lui le responsabilità

3 Il giudizio morale discende da:

• un esame attento di alternative e conseguenze; • chiarezza su obiettivi;

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37 morali di tutte le scelte direzionali e di quelle esecutive più importanti. Ovviamente può accadere che le piccole imprese decidano di aggregarsi in consorzi, cooperative assumendo così responsabilità etiche equiparabili a quelle delle grandi imprese. Anche se queste forme di associazionismo possono portare alla creazione di una mentalità di gruppo, la figura del decisore aziendale continua a coincidere con quella dell’imprenditore anche perché queste associazioni gestiscono solo alcuni aspetti dell’attività imprenditoriale (spesso legate al consumo, ai rapporti con le banche,…). Per quanto riguarda invece le imprese di grandi dimensioni bisogna distinguere tra:

a) imprese a capitale diffuso (le cosiddette public company); b) imprese a capitale familiare o finanziario.

Nelle public company il decisore aziendale è formato, anzitutto, dai manager cooptati nel consiglio d’amministrazione che, nel decidere, sono anche influenzati da una sorta di memoria inerziale dell’azienda (vedi FRENCH) e da regole e prassi consolidate (vedi LADD). Invece per quanto riguarda le grandi imprese a capitale familiare o finanziario, dove la gestione è nelle mani del nocciolo duro che costituisce la maggioranza azionaria, occorre distinguere tra:

• decisioni singole, cioè quelle in cui chi controlla l’azienda pone in atto un comportamento con cui fa agire l’organizzazione in modo differente da come sarebbe accaduto seguendo le ordinarie prassi e regole interne, che hanno l’approvazione generica e indiretta dei vertici aziendali (es: scelte strategiche dell’azienda; scelte non conformi alle procedure aziendali accettate e consolidate in materia di assunzioni, rapporti con il potere politico e la pubblica amministrazione; atteggiamenti e stili di direzione che by-passano gli usuali canali staff-line dell’organigramma aziendale). In questo caso il decisore aziendale si identifica con la persona (o le persone) che controlla di fatto l’azienda.

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38 • decisioni di routine, cioè tutte le scelte prese una volta per tutte che rientrano nello schema interpretativo proposto per le operazioni ordinarie (es: criteri da seguire per l’assunzione del personale).

Non è possibile fare una netta e rigida distinzione tra i due tipi di decisione, perché a seconda dei casi una decisione di routine, quale l’assunzione del personale, può diventare una decisione singola extra-organigramma, come nel caso dell’ingresso in azienda di persone legate al capitalista-imprenditore che controlla l’azienda. In questo caso, il problema della soggettività morale si sposta sulle caratteristiche organizzativo-societarie di chi detiene il pacchetto di controllo e che, a sua volta, può essere una o più società a capitale diffuso o una o più società familiari, oppure un misto fra i due tipi di struttura azionaria. Il decisore aziendale, in questo caso, tende ad essere un’entità molto complessa ed articolata.

Parlando di società è opportuno fare due osservazioni. La prima concerne il fatto che nessuna forma societaria esclude la responsabilità morale di chi detiene quote di proprietà, per cui l’azionista di minoranza non può difendersi nel dire di non poter contare in alcun modo, in quanto nelle sue mani persiste il potere di partecipazione all’assemblea degli azionisti ed una certa rilevanza mediatica. La seconda osservazione riguarda il fatto che nessun manager, di nessuna impresa a capitale diffuso, può pensare di avere pieni poteri di fronte ad un azionariato ostile a prassi considerate non etiche.

Secondo la teoria del decisore aziendale, è sempre possibile parlare operativamente di questo soggetto etico, ma questo non deve distogliere l’attenzione sul comportamento etico individuale di coloro che investono nell’azienda e che quindi sono per legge i “principali” degli amministratori e dei manager.

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39 3. Rapporto tra etica ed economia aziendale

Quando si parla di etica si fa riferimento all’insieme dei valori morali che guidano, nella quotidianità, l’agire umano. In passato si è molto dibattuto se l’etica dovesse essere o meno applicata anche alle imprese4. Solo di recente si è registrato il superamento della visione dell’amoralità del business, fortemente sostenuta da economisti come FRIEDMAN. Mai come ora, alla luce della recente crisi finanziaria, risulta evidente la veridicità della tesi sostenuta in passato da diversi studiosi: attuare scelte eticamente orientate genera degli effetti positivi sulle prestazioni aziendali. In particolare, si assiste ad una convergenza dell’etica e dell’economia aziendale con riferimento agli obiettivi strategici di lungo periodo. Non cogliere i vantaggi ottenibili da una visione più lungimirante è un errore strategico di fondo in cui possono cadere e sono effettivamente caduti, come dimostra l’attuale crisi, tutti quegli operatori economici che non considerano rilevante per la gestione i problemi etici.

Come abbiamo sopra affermato, l’etica non è un qualcosa di staccato dalla vita dell’azienda, al contrario. Partendo dalla definizione che Zappa (1927) da di economia aziendale “scienza che studia le condizioni di esistenza e le manifestazioni di vita delle aziende” ed interpretandola nell’ottica del raggiungimento di equilibri di breve e lungo periodo, possiamo notare come l’azienda è chiamata ad affrontare problemi morali (e quindi afferenti l’etica) per tutto il suo arco di vita. È possibile, infatti, suddividere i problemi etici in due categorie:

• problemi afferenti le condizioni di esistenza dell’azienda:

4 HAWLEY ha tentato di individuare alcune spiegazioni puntuali che rendono più o meno compatibile

l’obiettivo di massimizzazione della ricchezza con il comportamento etico. Egli sostiene che:

• l’obiettivo di massimizzazione della ricchezza disincentiva il comportamento etico se la concorrenza non è etica, in quanto quest’ultima scoraggia anche gli operatori etici dal perseguire la loro politica; • il comportamento non etico non è compatibile con l’obiettivo di massimizzazione della ricchezza se

questo ha un costo che si riflette sul prezzo delle azioni;

• l’obiettivo di massimizzazione della ricchezza può incoraggiare l’adozione di comportamenti etici solo se livelli più alti di comportamento etico hanno un impatto significativo sulla capacità di generare ritorni che controbilanciano i disincentivi e se i miglioramenti sono percepibili dagli investitori.

Sotto quest’ultimo aspetto si deve però obiettare che, se l’orientamento etico è determinato unicamente dalle prospettive di reddito, si tratta allora di un’etica solo apparente.

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40 1) rispetto della legge;

2) tutela dell’immagine aziendale, al fine di ottenere e conservare una buona legittimazione sociale (in un mercato altamente competitivo come quello attuale, l’immagine e la percezione che l’azienda genera con il suo comportamento possono rappresentare un elemento discriminante nelle scelte d’acquisto dei consumatori);

3) rapporto con i valori dell’ambiente in cui l’azienda opera. • problemi relativi alle condizioni di sviluppo dell’azienda:

a) trasparenza nella comunicazione di bilancio; b) rapporti con il personale;

c) ecologia; d) …

Per l’economia aziendale sono quindi rilevanti tutte le conoscenze di etica il cui possesso può influenzare in maniera più o meno diretta gli equilibri aziendali. Sul piano diretto, l’azienda deve conoscere ogni vincolo effettivo o potenziale al raggiungimento degli equilibri di breve e lungo periodo. Sul piano indiretto, rileva tutto ciò che costituisce un vincolo morale soggettivo all’azione dell’operatore economico, anche se questo non è strettamente connesso al miglioramento degli equilibri aziendali (il decisore è moralmente tenuto a conoscere le conseguenze delle sue azioni).

A questo punto della trattazione, dopo aver dimostrato l’importanza dell’etica per l’economia aziendale e quindi per la vita dell’azienda, possiamo domandarci: che cosa studia l’etica d’azienda? L’etica d’azienda studia come la gestione deve tener conto dei vincoli etici all’azione dei decisori. Addentrandoci nell’ambito di questa disciplina, prendendo come parametro di riferimento il rapporto tra morale e risultati aziendali è possibile distinguere tra:

• etica strategica; • etica assoluta.

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41 Prima di procedere nel dire quando siamo in presenza dell’una o dell’altra tipologia di etica, risulta agevole sottolineare come nell’arco della vita dell’azienda si possono alternare decisioni eticamente valide che hanno effetti positivi sugli equilibri aziendali e scelte che, pur negative da un punto di vista aziendale, devono essere attuate in virtù di valori morali. Dopo questa premessa, possiamo dire che l’etica strategica ha ad oggetto quelle scelte che, nel rispetto dei valori morali, vengono compiute per salvaguardare l’equilibrio di lungo periodo del sistema aziendale. Rientra in quest’ottica, ad esempio, la decisione di un’azienda che versa in difficoltà economico-finanziarie di procedere, in conformità alla legge, ad una riduzione contrattuale dei salari reali, evitando così il licenziamento di parte del personale. Dato un determinato problema l’etica strategica, nel rispetto dei principi assoluti di fondo, ricerca la soluzione mezzi/fini migliore. In particolare questa forma di etica vuole evitare che i manager, guidati dal solo obiettivo della massimizzazione dei profitti, possano tenere comportamenti miopi. Si parla invece di etica assoluta quando siamo di fronte a doveri etici o a principi e scelte morali che sono in conflitto con l’obiettivo di equilibrio aziendale. Rientra in questo ambito, ad esempio, il licenziamento di un dipendente di un’impresa industriale che si è rifiutato di lavorare in condizioni di pericolo. Quindi nel campo dell’etica assoluta, il principio morale prevale “sempre” sugli equilibri aziendali. A complicare il tutto giunge il fatto che questa forma di etica spesso riguarda scelte complesse ed articolate.

L’etica assoluta si compone di due parti:

• un minimo etico oggettivo, cioè quei principi che solo se vengono rispettati da tutti i partecipanti al gioco economico garantiscono la protezione dei diritti fondamentali dell’uomo;

• una componente etica soggettiva (cioè in relazione a diverse persone o a diverse aree culturali), può accadere che quello che è ritenuto un dovere morale inderogabile per un operatore economico non lo sia per un altro. Questo è l’elemento che attribuisce un vantaggio competitivo a quei soggetti

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42 che hanno una morale economica più permissiva od operano in regioni dove la legge non ha ancora provveduto a regolare questioni che pongono dei problemi sul piano etico.

ETICA AZIENDALE

etica assoluta

etica strategica

area

soggettiva

dell'etica

assoluta

minimo

etico

oggettivo

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