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malattia, che dall’aumento, in cinque casi su sette, dell’IBDQ. Dei due pazienti che

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DISCUSSIONE

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Questo studio ha mostrato buoni risultati della leucocitoaferesi nel ritardare l’intervento chirurgico in pazienti con MICI in forma moderata-severa non responsivi al trattamento medico standard; dei pazienti trattati, infatti, nessuno è stato sottoposto ad intervento di colectomia nel periodo di osservazione; esso ha inoltre confermato l’assenza di eventi avversi clinicamente rilevanti sia durante il trattamento che nel follow-up successivo, come precedentemente riportato in letteratura (24).

Tutti i pazienti sottoposti al trattamento hanno evidenziato un miglioramento

delle condizioni cliniche, testimoniato sia dal calo medio dell’indice clinico di

malattia, che dall’aumento, in cinque casi su sette, dell’IBDQ. Dei due pazienti che

non hanno invece mostrato un miglioramento della qualità di vita, uno era affetto da

sindrome depressiva sovrapposta che sicuramente ha influito negativamente sulla

valutazione della stessa mediante IBDQ. Per quanto riguarda i markers bioumorali

non sono state osservate variazioni significative per ciascuno dei parametri

considerati (Hb, PCR, VES, calprotectina); tale fenomeno è probabilmente ascrivibile

alla breve durata del periodo di osservazione. Infatti, in letteratura nella maggior

parte degli studi condotti con un follow-up di dodici mesi è stato evidenziato un calo

sia della PCR che della VES dopo l’aferesi (15, 24). Statisticamente significativo è

invece risultato il decremento, prima e dopo il trattamento di leucocitoaferesi,

dell’indice endoscopico; questo è un dato rilevante alla luce delle recenti evidenze

che sottolineano l’importanza della guarigione endoscopica e della risoluzione

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completa della flogosi per il mantenimento di una remissione clinica a lungo termine (25, 26, 27).

In merito ai fattori predittivi di risposta al trattamento, in questo studio non ne sono stati individuati. In letteratura, tuttavia, sono stati descritti come indici predittivi indipendenti di risposta all’aferesi elevati livelli di PCR e la steroido-dipendenza, mentre una rapida risposta, cioè l’induzione della remissione già dopo il terzo trattamento, è l’unico fattore predittivo di remissione a lungo termine (18).

I pazienti sottoposti al trattamento presentavano forme moderate-severe non responsive agli steroidi. Fino ad ora in tali forme gli immunosoppressori e l’infliximab erano i farmaci utilizzati per pazienti steroido-dipendenti e steroido- resistenti, per mantenere in remissione la malattia ed evitare la terapia chirurgica.

L’aferesi potrebbe essere una valida alternativa che, rispetto ai farmaci sopra citati, presenta scarsi effetti collaterali e, in virtù della sua completa sicurezza, potrebbe essere utilizzata come prima scelta fra queste terapie. Se vi è una risposta parziale è possibile introdurre le terapie convenzionali, senza il rischio di interazioni.

I nostri pazienti hanno seguito il protocollo standard, cioè un ciclo costituito da

una sessione alla settimana della durata di 60 minuti, per cinque settimane. Alcuni

studi hanno dimostrato migliori risultati sottoponendo pazienti con CU refrattari agli

steroidi a un totale di dieci sessioni di aferesi (tasso di risposta dell’82%) (19). Hanai

et al. hanno adottato uno schema con due trattamenti alla settimana per le prime

due/tre settimane, poi uno alla settimana nelle successive, fino a realizzare un totale

di dieci o undici trattamenti; una remissione clinica dopo cinque sessioni si otteneva

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in pazienti che non avevano mai assunto corticosteroidi, mentre nei pazienti refrattari agli steroidi i risultati erano visibili solo dopo dieci trattamenti (20). In un recente studio, condotto su pazienti steroido-dipendenti affetti da CU in fase di moderata attività, il confronto dell’efficacia tra cinque e dieci sessioni di aferesi non ha però dimostrato differenze statisticamente significative in termini di remissione clinica o endoscopica, ma solo una riduzione delle dosi di corticosteroidi nei pazienti che hanno ricevuto dieci trattamenti; questo, ad avviso degli autori, non è sufficiente soprattutto in termini di costo-beneficio per considerare migliore il ciclo con dieci trattamenti rispetto a quello con cinque (28). Per quanto riguarda la durata del singolo trattamento secondo altri autori novanta minuti di trattamento sono significativamente migliori ai sessanta, ma non vi sono dati consistenti (29).

Un dato interessante è l’ottenimento della remissione clinica in un paziente con colite indeterminata sottoposto a un pregresso intervento di colectomia subtotale per adenocarcinoma del colon, divenuto steroido-dipendente. In un paziente con anamnesi positiva per patologia neoplastica, dove l’uso di immunosoppressori è controindicato perché troppo rischioso, l’aferesi può diventare il trattamento di prima scelta.

Dei pazienti trattati in questo studio, quello che ha beneficiato meno della

granulocito-monocito aferesi è sicuramente il paziente affetto da MC; soprattutto per

l’IBDQ e l’IE, infatti, nessun miglioramento è stato riscontrato. Questo è in linea con

quanto riportato in letteratura, dove sono descritti tassi di remissione dell’85% per la

CU contro il 52% della MC, dimostrando che l’efficacia della terapia è maggiore

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nella prima rispetto alla seconda (20, 30). In realtà i dati sulla MC sono controversi,

alcuni studi hanno dimostrato un miglioramento significativo del CDAI e dell’IBDQ,

con tassi di remissione che vanno dal 90% al 54%, ma esiste anche uno studio che

riporta l’efficacia della leucocitoaferesi nella CU ma non nella MC (31, 32). Il limite

di questi studi è dato probabilmente dal basso numero di pazienti inclusi e dai criteri

di inclusione non omogenei, soprattutto per quanto riguarda la localizzazione di

malattia e il diverso comportamento clinico.

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