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All’interno dell’enunciazione platonica e della tradizione della filosofia

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Academic year: 2021

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1. INTRODUZIONE:

ARCHETIPI OSSESSIVI IN ALBERTO GIACOMETTI

Nel seguente lavoro dedicato alla complessa personalità di Alberto Giacometti (Borgonovo presso Stampa, 1901 – Parigi, 1966), riteniamo interessante approfondire particolari ricorrenze nell’intera attività artistica di Giacometti che, proprio per la costante reiterazione, vanno a costituire una vera e propria peculiarità dell’attività dell’artista svizzero. Siffatte ricorrenze denotano autentiche ossessioni dell’artista: proprio ciò ci ha indotti ad analizzare, in maniera più dettagliata, quelli che possiamo definire archetipi ossessivi in Giacometti. A questo punto, prima di procedere alla suddetta investigazione, desideriamo, in primo luogo, soffermarci sul concetto di archetipo per analizzarne, in secondo luogo, le origini, con particolare riferimento a quelle che furono le ispirazioni tratte dai modelli dell’arte egizia, dedalica e cicladica per Giacometti.

All’interno dell’enunciazione platonica e della tradizione della filosofia

idealista, l’archetipo rappresenta, per definizione, il modello originario, il

paradigma perfetto delle cose che, poi, appare in versione imperfetta e

depotenziata rispetto all’idea pura della cosa stessa. Nel mito della caverna,

l’archetipo, denotando simboli ancestrali, racconta di come gli uomini

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vedano soltanto ombre proiettate sulle pareti della caverna grazie a una luce che proviene dall’esterno, dove le cose sarebbero visibili nella loro compiutezza, tuttavia, la condizione umana permette appena di intravedere le incomplete e approssimative apparenze.

Con riferimento particolare a Giacometti, tutto ciò sembra descriverne bene concezioni fondamentali alla base della sua attività artistica. James Lord

1

, nel suo volume datato 1965, Un ritratto di Giacometti, descrive puntualmente tale sensazione di vaghezza e costante incertezza, espressa più volte dall’artista nel corso delle loro sedute, presente nell’intero percorso che persegue come fine ultimo la realizzazione, per così dire, compiuta di una testa. Quest’ultima, per esempio, costituisce un archetipo dell’attività di Giacometti. Come osserva James Lord nel suddetto volume:

Tra le immagini ricorrenti in tutto il lavoro di Giacometti la principale è senz’altro la testa di Diego, che pare ormai quasi l’archetipo del volto di uomo2.

e, nelle parole dello stesso Giacometti, «Per la stessa ragione, le teste di donna tendono a diventare quella di Annette»

3

.

Osserviamo, inoltre, attraverso il resoconto di una drammatica esperienza di Giacometti, come alcuni archetipi, prima fra tutti la testa, si presentino ripetutamente nella carriera artistica di Giacometti fino ad assumere vere e proprie sembianze di morte, ovvero la testa si evolve in teschio. Nell’autunno del 1921, Giacometti conobbe un vecchio signore

1 Cfr. J. LORD, Un ritratto di Giacometti, tr. it. di A. Fabrizi, Nottetempo, Roma 2004, passim.

2 J. LORD, Un ritratto di Giacometti, cit., p. 66.

3 Ibidem.

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VIII

bibliotecario all’Aja, di nome van Meurs. Fu un incontro fuggevole su un treno. Tuttavia, a distanza di alcuni mesi, colpito dalla cultura e dalla sensibilità dell’artista ventenne, con un annuncio su un giornale, van Meurs riuscì a rintracciarlo e gli propose un breve soggiorno a Venezia: «Mi trovava simpatico. Era vecchio e solo. Avevo voglia di andare a Venezia.

Ero povero. Pagava lui»

4

. Durante il viaggio van Meurs si ammalò gravemente. Giacometti passò una notte al suo capezzale e la giornata successiva lo vide morire. Tale drammatica esperienza rappresentò un costante motivo di angoscia per l’artista:

La morte l’avevo sempre immaginata come un’avventura solenne. Non era dunque che quello: nulla, derisoria, assurda. In poche ore van Meurs era diventato un oggetto, niente. C’era stata tanta casualità in tutto questo:

l’incontro, il treno, l’annuncio. Come se tutto fosse stato preparato affinché io assistessi a quella misera fine. La mia vita d’un tratto quel giorno si è proprio ribaltata. Quel dramma, più ci penso [...] è per causa sua che ho sempre vissuto nel provvisorio, che non ho smesso di avere orrore per ogni avere.

Sistemarsi, comprare una casa, condurre una bella esistenza, quando c’è sempre questa minaccia - no! Preferisco vivere negli alberghi, nei caffè, nei luoghi di transito[...]5.

E così fece per tutta la vita, anche quando la fama, il prestigio internazionale e la conseguente ricchezza gli avrebbero permesso un tenore di vita ben più elevato. La prima elaborazione esistenziale e artistica del trauma provocato dalla morte di van Meurs fu, a distanza di due anni, mentre studiava all’Académie de la Grande-Chaumière, scuola di scultura diretta dallo scultore Émile-Antoine Bourdelle a Parigi, il disegno Il teschio

4 Alberto Giacometti ad André Parinaud, http://www.scrivi.com, (14.3.2008), p. [12].

5 Ibidem, [13].

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Figura 1: Il Teschio (disegno)

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IX

(Fig. 1) che tenne occupato Giacometti per un intero inverno (tra il 1922 e il 1923), facendogli trascurare la scuola. Con febbrile accanimento egli studiò un teschio umano, che gli era stato prestato, come se volesse ancora trovare in esso i segni dell’energia e della tensione che, grazie al respiro e allo sguardo, animavano l’anonimo volto:

Da allora […] tra il vedere un cranio davanti a me o un personaggio vivo la differenza è diventata minima […], il che mi ha sempre piuttosto scosso.

All’opposto, lavorando sul personaggio vivo – e quasi con orrore – arrivavo, se insistevo un po’, a vedere quasi il cranio attraverso6.

Desiderava a tal punto dipingere il teschio in suo possesso che abbandonò l’accademia per alcuni mesi:

Ho passato tutto l’inverno in una camera d’albergo a dipingere quel cranio, volendo precisarlo, coglierlo il più possibile. Passavo le giornate a tentare di trovare l’attaccatura, dove si origina un dente, che può salire fino in prossimità del naso, di seguirla il più esattamente possibile in tutto il suo movimento […], sarebbe andato ben oltre le mie possibilità affrontare l’intero cranio e così mi ridussi a fare più o meno solo la parte inferiore7.

Da questo punto di vista, Il teschio è un’opera-chiave, un vero e proprio archetipo, la prima, drammatica interrogazione della testa umana, che assillerà Giacometti nell’arco di tutta la sua vita. Seguirono altri tentativi, in ambito naturalistico, ma anche nel successivo e lungo periodo in cui Giacometti subì l’influsso delle avanguardie artistiche coeve (1925-1935), la testa e il corpo furono al centro della sua indagine artistica, basta

6 Alberto Giacometti a Georges Charbonnier, http://www.scrivi.com, (14.3.2008), p. [2].

7 A. DEL PUPPO, Alberto Giacometti, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2005, p. 10.

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Figura 2 Tête qui regarde del 1928

Figura 3 Tête-crâne del 1934

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X

pensare alla celebre e astratta Tête qui regarde del 1928 (Fig. 2), sulla quale ci soffermeremo in seguito, o a Tête-crâne del 1934 (Fig. 3) di ispirazione cubista.

In tal modo, emerge un dato fondamentale alla base della concezione artistica, in dinamica e costante evoluzione, di Giacometti: intorno al 1925, l’artista confessò la propria incapacità di dipingere o scolpire ciò che vedeva. Naturale conseguenza di ciò fu il passaggio dallo studio della realtà percepita al processo di creazione a memoria, che Giacometti adotterò sino al 1934, sino al punto di conferire connotati astratti alle proprie figurazioni.

Come ricorda Alessandro Del Puppo, nel periodo trascorso all’accademia, Giacometti aveva percepito

uno spiacevole contrasto fra vita e lavoro, l’uno era di ostacolo all’altra, […]

Il fatto di ostinarmi a copiare un corpo a ore fisse, […] mi sembrava un’attività falsa […] che mi faceva perdere ore di vita8

.

Risoluzioni concrete di svolta rispetto alla crisi maturata intorno al 1925 provennero dal contatto di Giacometti con scultori più anziani del calibro di Laurens, Brancusi e Lipchitz, grazie ai quali sviluppò un particolare interesse per l’arte africana, oceanica e cicladica, che avrà un’applicazione pratica in numerose sue opere, quali, per esempio, Donna cucchiaio (Fig. 4) e Uomo e donna (Fig. 5). Vedremo, attraverso un’indagine di carattere esemplificativo di Donna cucchiaio, come il semplice interesse per l’arte primitiva si trasformerà, in seguito, in Giacometti in un vero e proprio dispiegamento di forme allusive ed essenziali, tipicamente primitive, che andranno a costituire, con ricombinazioni di forme per lo più geometriche

8Ibidem, pp. 10–11.

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Figura 4 Donna cucchiaio

Figura 5 Uomo e donna

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XI

ricorrenze archetipiche nell’arte di Giacometti. In particolare, la forma ovale di un cucchiaio – inserendosi bene nella tradizione dell’arte primitiva che utilizza largamente oggetti di uso quotidiano nelle sue raffigurazioni – è allusiva del ventre femminile. Qui, come altrove, si alternano convessità e concavità, in particolare dal pieno volume arrotondato della sommità si passa all’ampia cavità inferiore. Il simbolo di fertilità viene oltremodo sottolineato dalle dimensioni maggiori del ventre rispetto al resto del corpo.

Il richiamo al corpo femminile risulta dunque ben esplicitato e, come osserva Alessandro Del Puppo

9

, il rapporto sessuale viene altrettanto fortemente evocato. Tuttavia, osservando la parte superiore dell’opera, costituita dallo stretto fianco, il torso e una minuscola testa, il senso di pura positività, soltanto apparente, dato dal ventre femminile, ne risulta compromesso, mettendo in luce un accento di negatività. Il conflitto esteriormente espresso tramite il passaggio tra pieno e vuoto trova una motivazione profonda nell’animo dell’artista che fa del conflitto una costante di vita e di arte. Tendenze bipolari, vita e morte che si alternano all’interno della stessa opera.

Un altro simbolo archetipico è rappresentato dalla piazza che, nell’ambito della nostra trattazione, assume un’importanza particolare in quanto allude, come vedremo più specificatamente in seguito, al tema della rigidità e dell’immobilità in Giacometti. In maniera similare a quanto fatto a proposito dell’esperienza all’origine del teschio, esporremo qui di seguito quello che fu il motivo ispiratore della riproduzione della piazza. Una sera del 1938 un’auto urtò Giacometti e lo travolse in Place des Pyramides. Non fu un incidente grave, ma per l’artista assunse il significato di un avvertimento, come la morte di van Meurs: all’improvviso Giacometti colse

9 Cfr. ibidem, p. 54.

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Figura 6 Place del 1948

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XII

di nuovo, ma in maniera più intensa, la precarietà dell’esistenza, la propria finitudine. Dunque, la piazza (si veda il bronzo Place del 1948 (Fig. 6)), acquistò una densa valenza simbolica: essa divenne, come scrisse Bonnefoy, «il segno stesso, soprattutto di notte, della solitudine di ogni essere, esposto lì più che altrove a quella suggestione di nulla, di nonsenso di tutto, che nasce dagli spazi vuoti»

10

.

In Place quattro uomini in movimento sembrano dirigersi verso una donna, immobile. Ogni figura, spiega Giacometti, va per conto suo, tutta sola, in una direzione che le altre ignorano. Si incrociano, si sorpassano, senza vedersi, senza guardarsi, senza probabilmente raggiungere mai la loro mèta («l’atto del convergere finisce per trasformarsi in dispersione», annotò Jean Soldini

11

). Tutto ciò sembra alludere all’irraggiungibilità della mèta dell’artista stesso, apparentemente semplice ma, in realtà, enormemente complessa: la ricerca della rassomiglianza assoluta.

Cerco di fare ciò che trent’anni fa mi sembrava impossibile fare. Trovo che sia altrettanto impossibile che allora e perfino completamente impossibile, non può esserci che scacco. L’unica cosa che mi appassiona è cercare comunque di avvicinarmi a questa visione che mi pare impossibile rendere [...]12.

Come osserva acutamente Alessandro Del Puppo, per arginare la difficoltà di restituire con efficacia l’insieme di un oggetto unitamente ai suoi dettagli,

10 http://www.rodoni.ch/busoni/pittura/giacometti/html, (18.3.2008), p. [3].

11 Ibidem,[4].

12 Ibidem. [6].

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Giacometti opta per una totalità sommaria, che nasce dall’assimilazione della costruzione cubista dello spazio e della stilizzazione plastica dell’arte primitiva13.

Occorre ribadire, tuttavia, che l’avvicinamento di Alberto Giacometti a forme di arte primitiva non deriva tanto, o almeno non in primo luogo, da conoscenza profonda di quel mondo, quanto dalla percezione di trovare nella semplicità di quelle forme la risoluzione alla crisi maturata sull’impossibilità di riproduzione naturalistica da parte dell’artista.

Osservando tale fenomeno di forte affinità con l’arte africana, riteniamo interessante far riferimento al pensiero di Cacciari

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il quale, nel corso di una conversazione con Arnaldi, afferma che si tratta di un aspetto della grande reazione dell’intera arte delle avanguardie, a partire dall’inizio del XX secolo, contro la tendenza dominante, dalla seconda metà del Settecento, dell’estetica e della poetica e in tutti i campi dell’arte, che privilegiava ed enfatizzava il ruolo della soggettività, ovvero del genio creatore. Egli osserva come l’arte contemporanea sia un’arte desoggettivizzante, il cui scopo essenziale si riassume nell’espressione di forme o archetipi metasoggettivi, in altri termini, il soggetto sembra essere soltanto il trasmettitore di tali archetipi senza, tuttavia, esprimere se stesso.

Pur sottolineando come tale arte, nelle sue diverse espressioni, non sia portatrice di identità, o tanto meno di archetipi identitari, Cacciari parla di tendenza antisoggettivistica, antisentimentale, antiromantica della grande arte delle avanguardie.

Tutto ciò, a ben vedere, accomuna tutti i soggetti, per così dire desoggettivizzati, delle avanguardie, nelle quali, con particolare riferimento

13 A. DEL PUPPO, Alberto Giacometti, cit., p. 13.

14 Si veda www.tribaleglobale.info/intcacciari.html, (18.3.2008).

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XIV

al surrealismo di Breton, la riproduzione naturalistica viene rifuggita a favore dell’elaborazione all’interno del movimento di tematiche comuni, prima fra tutte la misoginia, che vanno a costituire il collante essenziale di un qualcosa che si definisce come comunitario, con punte, talvolta, settarie.

Quindi, riconducendo il discorso su Giacometti, vediamo come Alberto, nel momento in cui percepisce la costrizione di tale ambiente, decida di allontanarsi dalle dinamiche coercitive e normative caratterizzanti quella cerchia per dar nuovamente vita alla propria soggettività, che trova espressione diretta nel riavvicinamento, senz’altro più conscio, alla riproduzione dal vero. Ebbene, per stessa ammissione dell’artista, la sua produzione surrealista, a dispetto dei risultati eccellenti, viene collocata in una fase transitoria della sua esistenza.

Inoltre, occorre dire, a ribadire l’importanza di tali influenze, che le forme d’arte primitiva, dense di simbologia feticcia, si riveleranno assai produttive nell’attività artistica di Giacometti a riprodurre il contrasto tra i sessi con forte e crescente allusione misogina. Veniamo adesso ad analizzare in maniera più precisa – passando in rassegna opere di Giacometti esemplificative a nostro parere a richiamare alla mente una particolare simbologia primitiva – le ispirazioni ricavate dai modelli dell’arte egizia, dedalica, cicladica e oceanica.

La scultura bronzea del 1926, Uomo e Donna (Fig. 6), è molto

rappresentativa, in quanto presenta molteplici richiami all’arte primitiva

attraverso un mescolamento «impuro» di fonti africane, cicladiche e

megalitiche. In particolare, la femmina, sul lato sinistro, è riconoscibile

dalla sagoma schematica allusiva della vulva e dai seni espressi attraverso

due volumi sferici; il maschio, sul lato destro, dal cilindro aggettante del

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fallo. Come osserva Del Puppo

15

, lo schematismo dell’anatomia e la struttura allusiva delle sagome, ogivale per la figura femminile e cilindrica per la figura maschile, rinviano all’elegante stilizzazione déco diffusa dai disegni di Fernand Léger per i costumi del balletto L’Origine du monde, che nel 1923 aveva indicato l’apice dell’infatuazione négre. A tal proposito, Giacometti aveva spiegato il suo interesse per i feticci dell’arte africana e asiatica non solo come opere d’arte, ma anche in quanto con essi era in grado di dar forma a tensioni autobiografiche, ovvero al rapporto conflittuale tra sessualità e feticismo, realtà e sogno e religione e paura. Le forme ideografiche dell’arte primitiva permisero all’artista di spingere le tensioni psicologiche emergenti nei circoli surrealisti parigini verso un completo repertorio emblematico. Operare per strutture schematiche da parte di Giacometti, attraverso un procedimento a memoria, era la diretta conseguenza della sua presa di coscienza in merito all’impossibilità di restituire la totalità di una figura.

L’ammissione di tale incapacità principiò, come già detto, a partire dal 1925 e nel processo di creazione a memoria Giacometti si appoggiò a modelli cubisti e primitivi. E, in quest’ultimo caso, un importante contributo venne offerto dall’elegante e forte semplificazione delle opere dell’arte delle isole Cicladi, grazie alle quali Giacometti giunse a elaborare vere e proprie «lapidi», che si identificavano come memoria della realtà di una testa o di un corpo. Una di quelle realizzazioni è la succitata Tête qui regarde del 1928 che allude bene all’essenzialità tipica delle opere cicladiche e si caratterizza, inoltre, per un’estrema mancanza di aderenza al reale e di connotati naturalistici: un volume squadrato collocato su un più ristretto basamento allude alla testa e al collo e soltanto il titolo spinge

15 Cfr. A. DEL PUPPO, Alberto Giacometti, cit., p. 59.

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Figura 7 Homme. (Apollo) del 1929

Figura 8 Femme qui marche

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l’osservatore a interrogarsi sul significato dei due solchi orizzontali e verticali sulla superficie. L’abolizione di ogni elemento accidentale, braccia o gambe che fossero, si identificava nella mente di Giacometti come una chiara risposta alla percezione di falsità e di illusione colta in tali elementi, mentre l’immagine della lastra con due solchi, a indicare secondo Alberto l’orizzontale e la verticale di ciascuna figura, andava ben nella direzione di essenzialità ricercata dall’artista.

Altra scultura che presenta suggestioni dell’arte primitiva è Homme.

(Apollo) del 1929 (Fig. 7), in particolare la griglia che sintetizza le articolazioni della figura richiama alla mente le mappe-reticolo in legno e conchiglie create dalle culture oceaniche.

Infine, nella panoramica delle opere di Giacometti con forti richiami a elementi delle cosiddette arti primitive, riteniamo assai interessante la scultura elaborata tra il 1932 e il 1934 dal titolo Femme qui marche (Fig. 8).

In particolare, osserviamo come la solennità e la ieraticità della figura

alludano all’arte egizia. Inoltre, l’avanzamento della gamba sinistra in

avanti allusiva dell’incedere o, più in generale, del movimento, seppur

minimo, è rintracciabile in numerose sculture dell’antico Egitto, che

Giacometti ebbe modo di ammirare e studiare nelle collezioni del Louvre,

ma ancor prima alla fine del 1920, in occasione del suo primo viaggio in

Italia, quando visitò il Museo Archeologico di Firenze e rimase

impressionato dalle creazioni dell’arte egizia.

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