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“In quanto agli Italiani che già risiedono nell’Africa del Sud ho potuto constatare che, meno rare eccezioni, si fanno tutti onore. Alcuni occupano eccellenti posizioni e hanno fatto fortuna.”

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INTRODUZIONE

“In quanto agli Italiani che già risiedono nell’Africa del Sud ho potuto constatare che, meno rare eccezioni, si fanno tutti onore. Alcuni occupano eccellenti posizioni e hanno fatto fortuna.”

Così scrisse il Cav. Adolfo Rossi nel 1903, di ritorno dal Sud Africa, dove aveva condotto per conto del Commissariato Generale dell’Emigrazione un’inchiesta sulle condizioni dei connazionali presenti e sulle possibilità di incentivare nuovi arrivi di italiani in quelle zone. Le osservazioni di Rossi ben si adattano a descrivere anche oggi la comunità degli italiani in Sud Africa, composta da oltre trentamila persone, che iniziò a formarsi nella seconda metà dell’Ottocento con l’arrivo dei primi piemontesi reclutati per la costruzione delle ferrovie e di qualche avventuriero attratto dalla scoperta dell’oro e dei diamanti.

L’emigrazione italiana ha lasciato un’impronta importante in Sud Africa (gli italiani hanno costruito strade, ferrovie, ponti e palazzi, hanno impiantato moderne aziende agricole e sono stati protagonisti dello sviluppo industriale del secondo dopoguerra) e presenta tutte le caratteristiche che hanno giustificato l’attenzione per altre esperienze migratorie verso altri paesi, come la lunga durata e la creazione di una comunità economicamente attiva ben integrata nel paese d’accoglienza.

Ciononostante, probabilmente a causa del limitato numero di connazionali coinvolti e della grande difficoltà nel reperimento delle fonti, gli storici non hanno prestato molta attenzione all’esperienza migratoria italiana in Sud Africa, tantomeno al gruppo dei lucchesi.

Nel corso della mia attività lavorativa come impiegata della Banca del Monte di Lucca ho avuto contatti con diversi protagonisti di questa esperienza migratoria, membri attivi di una vivace comunità molto legata alle proprie radici, e questo ha suscitato in me interesse verso un fenomeno che non è mai stato oggetto di studi specifici, ma solo di vaghi riferimenti nei testi che affrontano, più in generale, il tema dell’emigrazione lucchese.

A. Rossi, Le questioni del lavoro nell’Africa Australe, in C.G.E. (a cura di), “Bollettino dell’Emigrazione n. 9 anno 1903”, Tipografia Nazionale di G Berto e C., Roma, 1903, p. 103

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2

La ricerca è stata svolta ripercorrendo, nella prima parte, il più ampio fenomeno dell’emigrazione italiana in Sud Africa, in parallelo con la storia del paese che, con le proprie specificità e le proprie legislazioni in materia di immigrazione, ha condizionato fortemente l’entità e le dinamiche dei flussi.

Esistono solo pochi lavori che tentano di ricostruire la storia degli italiani in Sud Africa e sono quelli di Bini (1957), Sani (1989), Giuliani-Balestrino (1995), i quali hanno prevalentemente carattere agiografico e celebrativo e pur facendo riferimento a fonti archivistiche sia italiane sia sudafricane (soprattutto Sani) si disperdono spesso nel racconto delle imprese personali degli emigrati che hanno avuto maggior successo.

È quanto osserva anche Robert Buranello, dell’Università di Ottawa:

It is the paucity of documentation relevant to the moderate number of Italian immigrants that leads researchers to rely on personal narratives in order to fill in the conspicuous lacunae. 

Altri studi più recenti hanno dato un notevole contributo alla comprensione delle caratteristiche e delle specificità dell’emigrazione in Sud Africa, ma hanno avuto per oggetto gruppi provenienti da particolari aree geografiche, come quello sui biellesi, condotto Ottaviano, o quello sui veneti, condotto da Carlesso e Berto.

Per il periodo compreso tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi del Novecento, di particolare interesse è lo studio condotto da Valentina Iacoponi, che ha effettuato ricerche direttamente in Sud Africa, dove si è trasferita per diversi mesi, concentrando la sua attenzione sull’esperienza dei migranti italiani, in rapporto al particolare contesto in cui si vennero a trovare.

Per la realizzazione della prima parte del lavoro, dunque, è stato fatto riferimento a tutti questi testi, mettendo a confronto le diverse trattazioni; sono poi stati anche consultati direttamente i Bollettini del Commissariato Generale dell’Emigrazione e alcuni rapporti consolari.

Tra la prima e la seconda parte è posta un’appendice statistica elaborata con i dati degli Annuari Statistici dal 1876 al 1974, che ha lo scopo di dare una visione d’insieme e comparata dell’emigrazione italiana, toscana e lucchese verso le varie destinazioni europee, transoceaniche e sudafricane.

 R. Buranello, Between Fact and Fiction: Italian Immigration to South Africa, www.altreitalie.it, 2009, p. 23

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La seconda parte è dedicata all’analisi dell’emigrazione lucchese in Sud Africa ed è stata realizzata attraverso fonti d’archivio e fonti orali.

La ricostruzione della fase migratoria di fine Ottocento è stata effettuata soprattutto attraverso la consultazione dei documenti conservati nell’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Esteri a Roma che riguardano i reclami presentati da alcuni lucchesi espulsi dal Transvaal durante la guerra anglo-boera e attraverso le notizie sui lucchesi disseminate nei rapporti consolari e nei documenti dell’epoca.

Per la fase migratoria successiva, fino ai primi anni settanta del Novecento, sono state utilizzate le fonti dei Centri di documentazione locali di Lucca ossia l’Archivio della Fondazione Paolo Cresci per la storia dell’emigrazione italiana ed in particolare il Fondo Premiazioni dell’Associazione Lucchesi nel Mondo. Sono stati analizzati i fascicoli relativi ai quarantasette emigrati o discendenti di emigrati lucchesi in Sud Africa premiati

“per aver onorato l’Italia nel mondo”, distinguendosi nelle attività economiche, sociali e culturali.

Attraverso questo lavoro si è cercato di capire le ragioni per le quali alcuni italiani scelsero

di andare in Sud Africa e non in altri paesi, e quale fosse il rapporto tra le politiche

migratorie sudafricane e i flussi italiani e lucchesi. Si è posta particolare attenzione al

ruolo che hanno avuto le reti migratorie locali per l’arrivo in Sud Africa e per

l’inserimento lavorativo e sociale degli emigrati nel paese d’accoglienza. Per la

ricostruzione della fittissima rete di rapporti familiari, oltre alla documentazione raccolta

dall’Associazione Lucchesi nel Mondo, è stato essenziale l’utilizzo di fonti orali (sette

interviste ad emigrati e discendenti di emigrati).

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PARTE PRIMA

L’emigrazione italiana in Sud Africa e le vicende storiche del paese

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5 CAPITOLO 1

La colonizzazione europea del Capo, la creazione delle Repubbliche Boere e le prime tracce della presenza italiana in Sud Africa

1.1 L’arrivo degli europei. Il periodo olandese

Il Sud Africa rimase un territorio sconosciuto agli europei fino alla fine del XV secolo, quando il portoghese Bartolomeo Dias doppiò il Capo di Buona Speranza (1488), nel tentativo di raggiungere l’Oriente e le sue spezie per via oceanica, al fine di eliminare la costosa intermediazione di arabi, persiani, turchi e veneziani. Dopo dieci anni l’impresa fu realizzata da un altro portoghese, Vasco Da Gama che, partito da Lisbona, oltrepassò il Capo, costeggiò la costa sud-orientale dell’Africa e raggiunse l’India. Alla fine del ‘500 anche i mercanti olandesi, inglesi, francesi e scandinavi cominciarono a percorrere la rotta oceanica verso l’Asia, fermandosi abitualmente nella penisola del Capo di Buona Speranza per fare rifornimento di acqua e viveri, barattando con i pastori indigeni pecore e bovini contro merci in ferro e in rame

1

.

La prima colonia europea nella regione australe dell’Africa fu fondata nel 1652 dalla Compagnia olandese delle Indie orientali (Verenigde Oostindische Companie – Voc)

2

, che incaricò il comandante Jan Van Riebeeck di costruire un forte presso il Capo di Buona Speranza, a presidio di quella che doveva essere una base per il rifornimento delle flotte olandesi dirette verso l’Oriente. Gran parte del territorio del Capo era in quel momento abitato dalle popolazioni di lingua khoisan, cui appartenevano i due gruppi indigeni dei

khoi-khoi (dediti principalmente all’allevamento, chiamati anche “ottentotti”) e dei san

(dediti soprattutto alla caccia e alla raccolta, chiamati anche “boscimani”)

3

. La Compagnia non aveva intenzione di trasformare la stazione di rifornimento in una stabile colonia di popolamento: il Capo aveva l’unica funzione di collegare l’Olanda al suo impero orientale, che gravitava attorno a Batavia (Java). Nei primi anni di insediamento, dunque, la colonia dipendeva in modo rilevante dalla fornitura di bestiame da parte delle popolazioni indigene, con le quali intercorrevano, per ragioni di opportunità e

1 L. Thompson, a cura di L.Berat, A history of South Africa, fourth edition, Yale University Press, Usa 2014, pp 31-32

2 La Compagnia era stata fondata nel 1602 con capitale privato, ma era strettamente legata al governo olandese, che le aveva attribuito il monopolio dei traffici con le Indie Orientali e conferito il potere di governare le colonie, stipulare trattati e muovere guerra.

3 M.Zamponi, Breve Storia del Sudafrica, Carocci, Roma 2009, p. 17

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6

convenienza, relazioni amichevoli, mentre i prodotti agricoli erano coltivati da schiavi e dipendenti della compagnia. Pensando di ridurre i costi, la Voc decise di svincolare alcuni dei propri dipendenti dai loro contratti, facendoli diventare vrjburgers boere (agricoltori indipendenti) e assegnando loro terre nella penisola del Capo, affinché producessero grano e ortaggi da rivendere alla Compagnia stessa a prezzi prefissati. Questa scelta, però, mutò profondamente gli equilibri nella penisola, in quanto i vrjburgers cominciarono ad impadronirsi delle terre degli indigeni e, a partire dal 1659, le tensioni riguardanti il bestiame sfociarono in un conflitto con i khoi-khoi, che durò ad intermittenza fino al 1677 e portò alla distruzione della società indigena del sud-ovest. I dipendenti della Voc erano prevalentemente nord-europei, soprattutto per la preferenza ad essi accordata per l’appartenenza alla religione protestante. Nella prima fase fu quindi preponderante, tra la popolazione europea del Capo, la componente di scapoli olandesi, tedeschi, scandinavi e svizzeri, per lo più provenienti dalle classi sociali più umili, dal momento che il servizio nella Compagnia era pericoloso e mal pagato

4

. La cura dei campi venne affidata interamente a manodopera servile e schiavile proveniente da altre regioni dell’Africa (in particolare dal Mozambico), dall’India, dall’Indonesia e dal Madagascar

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. Il periodo della schiavitù (1652-1833) permise di istituzionalizzare un modello di lavoro non libero che rimase predominante fino al XX secolo, formando il sub-strato culturale sul quale attecchiranno con forza le politiche segregazioniste e razziste perpetrate dalla minoranza bianca sulla maggioranza non bianca fino a pochi anni fa

7

.

1.2 L’arrivo dei primi emigranti italiani nel 1688

Tutti i testi che affrontano il tema dell’emigrazione italiana in Sud Africa riportano che le prime tracce di un nucleo di coloni provenienti dalla penisola italiana risalgono al 1688, anno in cui la Compagnia e gli Stati generali decisero di consegnare terre e bestiame a un gruppo di profughi francesi ugonotti e ai “correligionari savoiardi di fede valdese”

8

,

4 V. Iacoponi, Campi d’oro e strade di ferro, XL Edizioni sas, Roma, 2013, p. 20

5 M. Zamponi, opera citata, p.19

6 Dal 1652 al 1808 circa 63.000 schiavi furono importati nella colonia del Capo e dal 1711 in poi il numero degli schiavi superò quello degli abitanti liberi: nel 1793 c’erano 14.747 schiavi (di cui 9.046 uomini, 3.590 donne e 2.111 bambini), contro 13.830 vrjburgers. (L. Thompson, opera citata, p. 36)

7 M.Zamponi, opera citata, p. 19-20

8 G. Sani, Storia degli italiani in Sud Africa 1489-1989, Edizioni Zonderwater Block, Sudafrica, 1989, nota 9 di p. 18: “… De uytgeweecken Piedmontoisen off dalluyden onse geloofsverwanten” (“… I rifugiati piemontesi delle valli nostri correligionari”). Cfr. Colin Graham Botha, The French refugees at the cape, Struik, Cape Town, 1970, p. 2 e L.Carlesso, A.Berto, Veneti in Sud Africa, Longo Editore snc, Ravenna, 2013, p. 60

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fuggiti precedentemente in Olanda per evitare le persecuzioni che seguirono la revoca dell’Editto di Nantes (Editto di Fontainebleau del 1685), disposta in Francia da Luigi XIV, ma adottata anche in Savoia da Vittorio Amedeo II

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. Questo nucleo, di circa un centinaio di persone, proveniva dalle Valli Valdesi (Val di Pellice, Val Chisone e Valle Germanasca), territorio delle Alpi Cozie, in provincia di Torino, dove avevano trovato rifugio fin dall’epoca medioevale i Valdesi perseguitati nella Francia e nell’Italia settentrionale.

L’accordo tra la Compagnia e i migranti prevedeva che questi ultimi rispettassero il giuramento di fedeltà assoluta verso gli Stati generali delle Province Unite d’Olanda mentre era fornito il passaggio gratuito sulle sue navi fino al Capo, dove gli aspiranti coloni avrebbero ricevuto terra e bestiame. Ognuno sarebbe dovuto rimanere sul fondo assegnato per cinque anni, salvo richiesta di riduzione approvata dalla Voc, mentre chi avesse voluto ritornare in Europa trascorsi i cinque anni avrebbe dovuto pagare il viaggio con propri mezzi. L’anno successivo arrivò a Cape Town un secondo gruppo di piemontesi, composto in gran parte da contadini, commercianti e quattro pastori protestanti

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. Con tutta probabilità, ma difficile da dimostrare, i Valdesi piemontesi portarono con sé ed introdussero nel Capo vitigni delle loro terre, ipotesi avvalorata anche dalla somiglianza dei rinomati vini della zona con quelli corposi e intensi del Piemonte.

La maggior parte dei coloni valdesi si stabilì insieme agli ugonotti francesi ad est di Città del Capo e ben presto si fuse con essi e con i calvinisti olandesi

11

.

Sostiene il prof. Canonici, professore emerito dell’Università del Natal:

D’italiano non conservarono che i cognomi delle loro valli, come Malan, Lombard o Lombaard, Albertyn, e forse anche Botha (Botta), Joubert e Viloen (Viglione)12.

Dopo il 1699 la Compagnia decise però di interrompere l’emigrazione delle famiglie di rifugiati, considerate le alte probabilità di insuccesso legate alle difficili condizioni ambientali e al fatto che molti rifugiati non avevano esperienza nel settore agricolo. Per venire incontro alle esigenze dei vrjburgers e alla crescente domanda di rifornimenti

9 G. Weitzecker, I valdesi nell’Africa Australe, Unione tipografica editrice, Torino 1906, opera citata da V.Iacoponi, opera citata, p. 19 e G. Sani, opera citata, pp. 11-15

10 G. Sani, opera citata, p.13

11 G. Sani, opera citata, p.15

12 N.N. Canonici “Identità, cultura e valorizzazione del patrimonio socio-culturale degli italiani in Sudafrica” citato da M.Macioti, C. Zaccai, Italiani in Sudafrica, Edizioni Angelo Guerini e Associati spa,, Milano, 2006, p. 15 ; “In un colloquio con il ministro d’Italia Fracassi, l’allora primo ministro dell’Unione Sudafricana D.F. Malan affermò di essere originario della Val d’Aosta” nota n. 16 p. 18 di G. Sani, opera citata; A. Bini, Italiani in Sud Africa, Scuole Grafiche Artigianelli, Milano 1957, p. 14

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proveniente dalle navi che sempre più numerose facevano tappa presso il Capo, nel corso del 1700, i governatori della colonia cominciarono a concedere ai coloni bianchi permessi di utilizzo della terra a distanze sempre maggiori da Città del Capo, mettendo in crisi l’economia degli indigeni, che venivano privati di terra e bestiame ed assorbiti nel sistema. Per oltre un secolo i boeri si scontrarono ad intermittenza con le popolazioni indigene del Capo settentrionale e del Capo orientale, finché nel 1778, la frontiera orientale della colonia su fissata sul fiume Fish

13

. (Vedere Cartina 1 p. 9)

A causa della pregiudiziale religiosa anti-cattolica, durante quasi tutto il XVIII secolo, gli italiani, considerati “papisti”, furono assenti fra gli immigrati nei territori del Capo, con l’eccezione di qualche viaggiatore o marinaio di passaggio verso le Indie orientali.

L’interesse per l’Africa australe era tuttavia vivace, come documentato da molte mappe e carte di quelle regioni edite durante il Settecento e come dimostrato dall’apertura a Città del Capo di rappresentanze diplomatiche di stati italiani. Nel 1788 il Granducato di Toscana, sollecitato dai mercanti e dagli armatori livornesi, che avevano interessi commerciali nella zona, nominò console generale toscano Pelgrom, già console austriaco per il Capo di Buona Speranza e l’anno successivo venne nominato anche un vice- console. Nel 1792 anche la Repubblica di Genova nominò un proprio console

14

.

13 M. Zamponi, opera citata, p. 21. Nell’ultima regione annessa, lo Zuurveld, tra il Bushmans River e il Fish River le rivolte khoisan furono sedate dagli inglesi nel 1798

14 G. Sani, opera citata, p.17 e L. Carlesso, A. Berto, Veneti in Sud Africa, Longo Editore, Ravenna, 2008, p. 61

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Cartina 1: La Colonia del Capo: l’espansione della frontiera dal 1652 al 1847.

Fonte: Rielaborazione cartine Thompson, 2014

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10 1.3 L’arrivo degli inglesi nel 1795

La Gran Bretagna assunse il controllo della colonia del Capo nel 1795, quando le truppe rivoluzionarie francesi occuparono i Paesi Bassi. In questo modo gli inglesi vollero prevenire un intervento dei rivoluzionari francesi ed insieme mettere fuori gioco gli olandesi, da secoli avversari della potenza commerciale britannica

15

.

L’occupazione inglese aprì il Capo a nuovi traffici e nuovi modi di pensare: il clima di tolleranza religiosa, finalizzato anche all’indebolimento della componente olandese calvinista, favorì l’arrivo di gruppi di emigranti europei di altre confessioni religiose, tra i quali anche qualche italiano.

Tra il 1820 e il 1821 l’instabilità dei confini della colonia e la pressione demografica in Gran Bretagna convinsero il governo inglese della necessità di finanziare un progetto per il popolamento della costa sud-est, a 500 miglia da Cape Town, per oltre 4.000 persone.

Fecero domanda in oltre 80.000, spinti dalla disoccupazione, dalla povertà e dalla dissidenza religiosa

16

. I settlers (coloni) selezionati non avevano, però, il dovuto spirito pionieristico che l’impresa richiedeva, erano infatti soprattutto artigiani urbani, e la maggior parte di loro non fu in grado di coltivare i terreni loro assegnati, peraltro inadatti all’agricoltura. Nel 1823 delle circa 1.000 famiglie sbarcate con il progetto ne rimasero solo 438

17

. Gli immigrati inglesi introdussero ulteriore complessità nella già complicata società della colonia, accrescendo l’antagonismo tra i bianchi. Con la loro diversa lingua, religione (arrivarono cattolici e anglicani) e tradizioni, i nuovi arrivati erano culturalmente differenti dai primi coloni e furono i primi bianchi a non assimilarsi ad essi, a differenza di quanto avevano fatto, ad esempio, gli ugonotti francesi ed i valdesi italiani.

L’integrazione della colonia del Capo nell’impero britannico comportò la modifica del sistema produttivo, basato fino ad allora sul modello patriarcale e sull’utilizzo di manodopera servile, introducendone uno che faceva riferimento alla libera circolazione della forza lavoro. Il Parlamento britannico abolì la schiavitù nel 1833

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, non soltanto perché lo sviluppo del capitalismo industriale aveva reso economicamente irrilevante il

15 L. Thomson, opera citata, p.52

16 V. Iacoponi, a questo proposito parla di 5.000 coloni e di 90.000 richieste, mentre L. Thompson indica circa 4.000 coloni e circa 80.000 richieste

17 V. Iacoponi, opera citata, p. 22

18 La Camera dei Comuni aveva approvato la legge sull’abolizione della tratta degli schiavi in Gran Bretagna nel 1807, ma solo con la legge del 1833 poterono essere liberati gli schiavi nelle colonie

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sistema di lavoro ad essa improntato, ma perché l’abolizionismo offriva un nuovo modello di legittimazione per l’Impero, che si poneva così di fronte al mondo come fonte di moralità, di civiltà e progresso

19

.

1.4 La testimonianza di un emigrante italiano nella colonia del Capo al tempo dell’abolizione della schiavitù nel 1833

Sani e Iacoponi riportano nei loro lavori sull’emigrazione italiana in Sud Africa una lettera scritta da Rocco Catoggio (Catorzio), originario di Armento “nel departamento di Napoli provincia Basilicata Italia”, arrivato al Capo attorno al 1812, indirizzata ai propri familiari, ancora in Italia, e datata 3 giugno 1833

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. Catoggio racconta la propria avventurosa vicenda personale e di come, una volta arrivato in Spagna da Napoli fosse stato fatto prigioniero dagli inglesi. Questi lo costrinsero ad arruolarsi in un reggimento britannico, che in seguito fu assegnato al Capo di Buona Speranza. Rimase in servizio sei anni, nei quali imparò a fare il calzolaio e il conciatore di pelli, attività che proseguì anche una volta congedato e che gli permise di mettere da parte un po’ di soldi, investiti successivamente in un terreno coltivato a grano, in un mulino e in un forno.

La sua esperienza è ci dimostra che nei primi decenni dell’Ottocento, per l’assenza di reti migratorie e progetti di immigrazione assistita, un italiano poteva arrivare in Sud Africa solo per caso. La sua lettera, poi, è interessante perché in essa vengono descritte le abitudini sociali, le difficoltà dei settlers britannici arrivati nel 1820-1821 e le tensioni generate dalla recente legge del Parlamento inglese che ordinava la liberazione degli schiavi.

Il Capo di Buona Speranza è una bella città che contiene 18 mille persone di dire schiavi e liberi. Gli habitanti bianchi sono la più parte della stirpa Olandesi, Francesi e germanici. Il climate del Capo [è] nell’inverno moderato [...] e nel estate [abbiamo] sempre un vento forte che soffia del levante che tante volte soffia terribilmente, ma come noi che siamo accostomati non ci pensiamo molto; perciò fa che queste poste sono salubre e non habbiamo malatie epidemice. Qui habbiamo tutto cicà Vino inabbondanza, grano di tutte le sorte, e frutti in quantità il vivere è a bon patto carne e pesce in abbondanza, e a buon mercato cesi che uno che è industrioso può vivere honestamente […]. Tanti inglesi si sono stabilliti qui

19 M. Zamponi, opera citata, pp. 29-30

20 Il documento, considerato il reperto italiano più antico ad oggi ritrovato in Sud Africa, è stato oggetto di un interessante studio del ricercatore Guido Benigni, dell’Università di Roma, ed è ritenuto molto importante per le caratteristiche linguistiche, specifiche di Armento, in Lucania, da dove proveniva l’autore.

Il testo integrale si può trovare su lucania1.altervista.org/continua/a1testi/page1.htm pp. 7-9.

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ma la distanza dal Capo a 700 Miglia più di 5.000 e fanne bone; nei primi anni hanno avuto molti ostacoli a surmontare, essendo collocati vicino alle terre di Nativi che si chiamano Cafferi e non conoscendo le stagioni come che qui il più corte giorno da noi è il più longo qui è a vice versa nella stagione l’inverno qui è lestate da voi cesi fu la cagione di tanti ostacoli nel agricoltura ma adesso an meglio e fanno bene hanno commercio dritto dei loro prodotti che consiste in Lana, Pelli, Corni di Bove Dente di Oliante e tante altre cose […].

Al presente […] aspettiamo tutti gli giorni lOrdine del Parlamento dell’Ingelterra per fare liberi tutti gli schiavi, che ci fara molto danno a noi tutti perché qui tutto il Lavoro è fatto dai schiavi, e che essendo fatti liberi non voglieranno più lavorare come prima. Io che ne ho quatro schiavi, se fatti liberi o si bene che il Governo promette di pagare per la loro libertà con tutto ciò non darà mai il prezzo che castano [...]. Così siamo al presente in un dilania di fastidio non sapendo come riuscirà a vedere il risulto di questo cambiamento21.

1.5 Il Groot Trek e la presenza di italiani al seguito dei voortrekkers. La creazione delle Repubbliche Boere del Transvaal e dello Stato libero dell’Orange

Una delle prime conseguenze dell’abolizione della schiavitù fu l’emigrazione di un gran numero di famiglie boere dal Capo verso le rive del fiume Orange (Cartina 2 p. 15). Il

Groot Trek iniziò così, attorno alla metà degli anni trenta dell’Ottocento, e divenne un

vero e proprio esodo organizzato, che non rientrava nel fenomeno del lento e progressivo espandersi della frontiera. Fu un momento importante della storia afrikaner che contribuì molto alla formazione del nazionalismo boero, in quanto fu interpretato come una ricerca di libertà dal dominio britannico e un atto di resistenza contro il sistema coloniale inglese.

Con il Groot Trek gli afrikaner tentarono di creare nuovi Stati in cui ripristinare modelli di lavoro e relazioni di proprietà secondo quell’arcaico ordine patriarcale vigente fino all’arrivo degli inglesi, animati dalla ferma convinzione religiosa di essere un popolo predestinato da Dio ad una grande missione.

In realtà le considerazioni economiche furono più significative di quelle politiche ed ideologiche. Le riforme inglesi, infatti, avevano privato gli afrikaner di un facile accesso alla terra e al lavoro. Con l’avvento degli inglesi il Capo si stava trasformando in una colonia per la produzione di beni su larga scala, grazie all’apporto dei capitali provenienti da Londra. Una nuova classe di proprietari terrieri si stava affermando attraverso l’allevamento di pecore Merinos e l’esportazione della loro lana. Il Grande Trek si sovrappose poi alle crisi legate alle migrazioni di popolazioni che provenivano da nord

21 V. Iacoponi, opera citata p. 24 e nota p. 25 “La lettera di Rocco Catoggio è conservata presso lo Huguenot Memorial Museum di Franschhoek.”; G. Sani, opera citata, p.23

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est a seguito dello mfecane

22, legato a processi riorganizzativi delle entità statuali

africane, causati dalla crescita demografica, da mutamenti ambientali e climatici, dal rafforzamento del Regno Zulu e anche dall’espansione europea

23

. I voortrekkers, con i loro ossewa, enormi carri trainati da dodici coppie di buoi, oltrepassarono il fiume Orange e si diressero ad est, verso Port Natal, l’attuale Durban. Furono coinvolte circa 12.000 persone, metà delle quali erano servitori khoisan o ex-schiavi

24

. Anche alcuni italiani presero parte al Groot Trek, molto probabilmente erano commercianti itineranti, già operanti nei principali centri della Colonia del Capo. Nel suo diario, il reverendo Erasmus Smith racconta che al seguito della carovana dei boeri, di cui anch’egli faceva parte, vi erano anche tre carri di commercianti italiani, pieni di mercanzie

25

. Essi erano accampati fuori dal laager, il recinto difensivo formato dai carri posti a circolo, forse per la diversa nazionalità e religione

26

: questa esclusione molto probabilmente salvò loro la vita. Gli zulu del famoso re Dingane attaccarono l’accampamento e massacrarono i boeri. Teresa Viglione, una ragazza italiana che era accampata fuori dal laager attaccato, nella notte del 17 febbraio 1838 montò a cavallo e galoppò fino all’alba per avvertire dell’imminente pericolo i vari accampamenti nelle vicinanze. Grazie al suo coraggioso intervento i boeri poterono resistere e respingere gli attacchi degli zulu. Dopo ciò trasportò nella sua tenda molti bambini boeri feriti, curandoli con le medicine che aveva portato con sé

27

. Questo episodio, realmente avvenuto, ma poi mitizzato dalla comunità boera insieme a tutta l’esperienza del Groot Trek, è riportato in tutti i testi consultati sull’emigrazione italiana in Sud Africa. L’importanza dell’azione di Teresa Viglione venne anche riconosciuta dal Governo dell’Unione Sudafricana che, nel 1938, le dedicò uno dei grandi bassorilievi di marmo italiano all’interno del monumento ai voortrekkers a Pretoria, in cui è raffigurata a cavallo nell’atto di avvertire i boeri del pericolo indigeno

28

. Dopo aver vinto gli zulu, i boeri istituirono nel 1839 la Repubblica di Natalia, nella zona a sud del fiume Tugela

(Cartina 2 p. 15). Nel 1843 la Repubblica fu annessa dagli inglesi, che nel 1845 crearono

una colonia separata da quella del Capo a cui dettero il nome di Natal

29

. In seguito a

22 “Tempo di problemi” in linguanguni

23 M. Zamponi, opera citata, pp. 40-43

24 A. Butler, Storia e Geopolitica Sudafricana in “Limes” n. 3/2010, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma, p.41

25 G. Sani, opera citata, p. 26

26 M.I. Macioti, C. Zaccai, opera citata, p.17

27 G. S. Preller, Voortrekkermense, Nationale Pers, Kaapstad 1920 p.179-181 citata in G. Sani, opera citata, p. 32

28 I bassorilievi vennero eseguiti a Firenze nello studio del prof. Romano Romanelli, come indicato da G.

Sani, opera citata p. 33

29 M Zamponi, opera citata, p.38

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14

questa annessione alcuni gruppi boeri abbandonarono la regione e si trasferirono a nord, verso l’altipiano che si estendeva oltre il fiume Vaal, entrando in conflitto con il regno degli degli ndebele, che furono spinti oltre il fiume Limpopo, nell’odierno Zimbabwe. Con la “Sand River Convention” del 1852, la Gran Bretagna riconobbe l’indipendenza dei boeri insediati a nord fiume Vaal, ma solo nel 1860 le differenti fazioni boere riuscirono a creare uno Stato centrale, la Repubblica Sudafricana, meglio conosciuta come Repubblica del Transvaal. Nel 1854 nella “Bloemfontein Convention”

fu riconosciuta la seconda repubblica boera indipendente, lo Stato libero dell’Orange (Orange Free State, da cui il nome di Free State dato ad una delle attuali province del Sudafrica)

30

.

30 L. Thompson, opera citata, p.96 e p. 102 e M. Zamponi, opera citata, p.42

(15)

15 Cartina 2: Il “Groot Trek”

Fonte: Thompson, 2014

(16)

16

1.6 Nuovi arrivi dall’Europa nella Colonia del Capo dagli anni quaranta agli anni sessanta dell’Ottocento

Le terre abbandonate dai voortrekkers a causa del loro esodo, furono occupate da circa 5.000 nuovi arrivati dalle isole britanniche, così come avvenne per la colonia del Natal, dove sbarcarono circa 4.800 britannici. Di questi ultimi, però, già dopo il 1852, oltre 1.000 avevano raggiunto l’Australia, richiamati dalle sue miniere d’oro

31

.

La colonia del Capo non era sovrappopolata, nonostante ciò, l’Impero britannico proseguì nella sua espansione ad est e annesse la regione del Ciskey (British Kaffraria – Cartina 1 p. 9. Per assicurare la sicurezza e la stabilità dei confini, si pensò di popolare la regione con contadini-soldati. Furono fatti arrivare circa 2.300 soldati che avevano combattuto la guerra di Crimea nella legione anglo-tedesca (in realtà composta da soldati di tutto il nord Europa), in modo da creare un’unità militare territoriale, e furono fatte arrivare circa mille famiglie di contadini tedeschi e donne provenienti da diversi orfanatrofi irlandesi, con l’intenzione di dare maggior equilibrio e una crescita demografica alla regione. La regione era desolata, priva di risorse idriche ed ostile. Molti soldati appena si presentò l’occasione di un nuovo ingaggio in India, a supporto delle truppe imperiali, lasciarono la Kaffraria

32

e non vi tornarono più. Rimasero solo 448 capi famiglia, mentre gli altri si spostarono verso i centri urbani o trovarono lavoro in polizia o in altri reggimenti

33

. A questo esperimento di popolamento della regione, probabilmente, ipotizzano Sani e Iacoponi, parteciparono anche degli italiani. “Tra gli elenchi dei soldati, conservati presso il museo Amathole di Grahams Town è possibile rintracciare cognomi di origine italiana”, afferma il vice console italiano intervistato nel 2013 da Valentina Iacoponi, ma non sappiamo quanti si fermarono in quella regione. Resta poi il mistero del ritrovamento presso un capo tribù indigeno di un tamburo con sopra inciso “British Italian Legion, 1855”, legione di cui apparentemente non c’è traccia negli archivi storici di Cape Town

34

. Durante questo periodo il governo del Capo cominciò a prendere seriamente in considerazione la sponsorizzazione di un ulteriore afflusso dall’Europa per risolvere i maggiori problemi della colonia: la ricerca di forza lavoro, (che aveva anche prodotto un aumento crescente

31 V. Iacoponi, opera citata, p.26

32 Il nome deriva “kaffir”, il nome con cui gli europei chiamavano gli indigeni sudafricani (eccetto i khoi- khoi e i san), appartenenti al gruppo etnico-linguistico bantu, di cui fanno parte le etnie zulu, xhosa, tswana e sotho.

33 V. Iacoponi, opera citata, pp. 26-28

34 Anche G. Sani afferma che tra i legionari tedeschi c’erano truppe provenienti dall’Italia, ma non indica le sue fonti, opera citata, p.34

(17)

17

dei prezzi), la messa in produzione di enormi distese ancora incolte, la necessità di sostenere la crescita demografica della popolazione bianca. Sono questi i nodi irrisolti della Colonia che si riproporranno periodicamente per tutto il corso dell’Ottocento e nel Novecento, ai quali i governanti non seppero trovare rimedio perché ciò voleva dire mettere in discussione tutto il sistema economico sociale basato sullo sfruttamento degli indigeni e sulla segregazione razziale.

Tra il 1857 e il 1861 la Colonia spese 50.000 sterline per far arrivare 10.000 immigrati, quasi tutti reclutati in Gran Bretagna, che furono impiegati sotto contratto nell’agricoltura e nell’artigianato. Il progetto durò pochi anni per i costi e per l’incertezza dei risultati, da quanto risulta dalle petizioni e dai rapporti al Parlamento. I fallimenti furono numerosi, spesso a causa delle condizioni ostili del territorio e dalla mancanza di cognizioni agronomiche dei coloni, come già era avvenuto nel passato. La produzione per il mercato richiedeva capitali ingenti, farm di grandi proporzioni e braccianti a bassissimo costo. Per questo si propose di far arrivare manodopera a buon mercato da Cina ed India, prendendo esempio dall’esperienza del Natal dove, nelle piantagioni di canna da zucchero e di cotone, furono impiegati lavoratori provenienti dall’India invece dei lavoratori inglesi che erano abituati in patria a paghe più alte e a condizioni di lavoro migliori

35

. Nel 1862 gli

Immigration Boards di Londra e del Capo vennero chiusi e l’emigrazione verso il Sud

Africa perse importanza, per poi riprendere con la scoperta dei diamanti nella regione di Kimberley.

1.7 “Cerco poi gli italiani, ma nessuno ve n’è e nessuno ne trovo”: la presenza italiana fino al 1871

Emigrare in Sud Africa dall’Italia, nonostante il superamento della pregiudiziale anti- cattolica, rimase comunque difficile e casuale, perché si preferì aprire le porte ai sudditi britannici. Dai certificati di morte raccolti tra il 1821 e il 1868 si può risalire a circa 10 casi di uomini provenienti da Genova, Torino, Salò, Saluzzo, Verona e Firenze

36

. Secondo le statistiche ufficiali del MAE, nel 1871, in tutta l’Africa australe vi sarebbero stati solo 13 italiani.

Nel censimento degli italiani all’estero del 1871, addirittura si affermava che “non si ebbe risposta e non si tentò nemmeno il censimento per deficienza di Agenti, ovvero per

35 V. Iacoponi, opera citata, pp. 27-29

36 V. Iacoponi, opera citata, p.30

(18)

18

notevole mancanza di sudditi italiani, nei distretti consolari di Capetown…”.

Nel 1863, nella cronaca di uno dei suoi numerosi viaggi, Cristoforo Negri, capo della

“Divisione per i consolati e per il commercio” del Ministero degli Affari Esteri e fondatore nel 1867 della Società Geografica Italiana, scrisse “Cerco poi gli Italiani nella Città del Capo e nella colonia, ma nessuno ve n’è, e nessuno ne trovo”

37

, rammaricandosi anche per l’assenza di navi mercantili italiane e quindi di traffici commerciali tra i due paesi. Eppure egli osservava:

La Colonia del Capo ha ragguardevole importanza in se stessa, e l’ha altresì come punto d’appoggio a tre linee di navigazione immense, a quelle cioè delle Indie, della Malesia e China e dell’Australia

38

.

Probabilmente, sostiene Sani, i pochi che vi erano immigrati erano ormai naturalizzati e i loro discendenti si erano assimilati completamente con la popolazione locale ma, in realtà, nel “Dictionary of South African biography”, sono presenti, riferiti a quel periodo, diversi nomi italiani. Anche il Premier della colonia, in carica del 1872 al 1878, John Molteno, aveva origini brianzole, anche se la sua famiglia si era trasferita già da un secolo in Inghilterra. In Sud Africa egli si era trasferito nel 1831 e, dopo qualche tempo, era divenuto farmer di successo nel Karoo

39

, dove aveva importato le prime merinos della regione e bovini di razza frisona

40

.

Negri, sempre riferendosi alle nuove Repubbliche Boere, sul “Corriere Mercantile di Genova” dell’8 giugno del 1864, scriveva che Lisbona aveva istituito “un consolato nei Boers […] coperto da un Giovanni Abbazzini, forse d’origine italiana.” In effetti Giovanni Abbazzini, conosciuto anche come Joao Albasini, era figlio di un importante mercante toscano, Antonio Augusto Abbazzini e di una portoghese. Nato nel 1813 a bordo di una nave portoghese presso Oporto, divenne, per la legge portoghese del tempo, cittadino portoghese. Giovanissimo arrivò in Mozambico, dove subito si distinse per la facilità nell’apprendere le lingue indigene, qualità che gli permise di farsi rispettare ed apprezzare dagli africani locali, che nel 1853, addirittura, lo elessero capo supremo di una tribù indigena. Per queste sue capacità politiche e diplomatiche il Presidente della Repubblica Boera Sudafricana, Kruger, lo nominò Console del Portogallo e lo incaricò di

37 “La Stampa”, 27 settembre 1863 citato in G. Sani, opera citata, pp. 35-36

38 Ibidem

39 Regione arida, semi-desertica, ad est di Cape Town, nel Capo orientale. Da” ka-roo” che in lingua khoisan significa “terra della sete”, vedere Cartina 1 p. 9

40 G. Sani, ibidem e A. Bini, opera citata, pp. 14-15

(19)

19

intermediare tra Pretoria e il Mozambico per facilitare il commercio e le relazioni internazionali

41

. Alla sua memoria è stata intitolata la diga “Albasini Dam”, nel Limpopo, e nella stessa area si trova la sua tomba, che è stata dichiarata “monumento nazionale”

42

. Sempre nell’ambito dei rapporti diplomatici, c’è da segnalare che il Regno di Sardegna nel 1852 aprì una sede consolare a Cape Town, ma la scarsità dei documenti conservati presso l’archivio del MAE, sostiene Iacoponi, non consente di valutare l’entità e l’importanza degli scambi economici con questa regione, né la presenza di cittadini del Regno

43

.

41 G. Sani, opera citata, pp. 27-29 e p. 36

42 I. Ferreira, Sulle Orme degli Italiani in Sudafrica, Iacana Media, Sud Africa,2009, pp. 6-7

43 V. Iacoponi, opera citata, p. 31

(20)

20 CAPITOLO 2

La rivoluzione mineraria: lo sviluppo tumultuoso della Colonia del Capo e del Transvaal, le questioni della terra e del lavoro e le nuove opportunità che si aprirono per l’emigrazione italiana.

2.1 La scoperta dei diamanti nel 1867

La scoperta nel 1867 di depositi alluvionali di diamanti a Kimberley, nella regione del Griqualand West

44

, presso la confluenza del fiume Vaal nell’Orange (Cartina 2 p. 15), stravolse gli assetti sudafricani in modo improvviso e rapidissimo. Il Sudafrica divenne meta di migliaia di uomini in cerca di fortuna e, con essi, in poco tempo, nacquero città dal nulla. La produzione mineraria attrasse i capitali europei e rivitalizzò gli scambi commerciali, accrescendo il peso politico ed economico della Colonia del Capo. Nel 1871 essa annesse la regione

45

e nel 1872 ottenne il “governo responsabile”

46

. Si capì ben presto che la natura dei diamanti non era alluvionale e che i filoni diamantiferi si trovavano a grande profondità, lungo il camino di un cratere vulcanico, per cui i

prospectors, i cercatori di diamanti, cominciarono a costruire gallerie per raggiungere

livelli sempre più profondi. A causa dell’incompetenza e della mancanza di mezzi tecnologici, però, i crolli e gli allagamenti furono frequenti e circa metà delle miniere divenne inagibile. In questa fase entrarono prepotentemente in gioco le industrie estrattive che, grazie ai capitali di cui disponevano, realizzarono pozzi, sistemi di aerazione e drenaggio delle acque, ripristinando velocemente tutte le miniere. Le compagnie minerarie assunsero dunque il controllo monopolistico delle miniere, associandosi in

trust. I pionieri furono esclusi così dal processo produttivo, mentre crebbe la domanda di

operai esperti e qualificati (artigiani, falegnami, fabbri, scalpellini, meccanici, macchinisti), per fare fronte alle necessità di una città che nasceva dal nulla e di personale che potesse dirigere la manovalanza nera. Tra il 1876 e il 1877 gli uomini bianchi erano

44 Nell’’attuale provincia del Northern Cape, vedere cartina n. 3 p. 32

45 La sovranità sui campi di diamanti fu rivendicata da quattro autorità: le due Repubbliche boere, la Tribù dei Tswana e la Tribù Griqua, guidata dalla dinastia Waterboer e la colonia del Capo. Nel 1871 un arbitro inglese decise l’assegnazione del territorio a favore dei Griqua, ma il capo Nicholas fu convinto a chiedere la protezione inglese. La regione fu annessa nel 1880 alla Colonia del Capo con il nome di Griqualand West (L. Thompson, opera citata, p. 117 e p. 133).

46 M. Zamponi, opera citata p.27 e V. Iacoponi, opera citata, p.34

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21

circa mille, mentre nel 1881 erano triplicati. Nella sua inchiesta del 1902-3, di cui si parlerà in modo esteso nel Capitolo 3, il Commissario Regio Rossi riferisce che attorno al 1880 gli italiani nella regione erano circa duecentocinquanta

47

. Iacoponi ipotizza che la maggior parte dei minatori italiani sia arrivata tra il 1881 e il 1884, quando aumentò la richiesta di manovalanza bianca non specializzata per la concomitanza di due situazioni.

Innanzitutto perché nel 1881 la prima guerra anglo-boera

48

e la guerra di frontiera con il Basutoland

49

avevano interrotto i collegamenti con le regioni da cui arrivavano i maggiori flussi di lavoratori africani e in secondo luogo perché a Kimberley una coalizione tra i commercianti e i trasportatori della città era sempre più favorevole all’assunzione di lavoratori bianchi non qualificati, per timore di un sovraffollamento del compound destinato ai neri. Nonostante ciò, le imprese minerarie, per le mansioni non qualificate, assunsero i bianchi solo nei momenti in cui era più difficile il reclutamento dei neri. Le condizioni di lavoro erano pericolosissime, ma le paghe dei minatori nel Griqualand West (attuale regione del Northern Cape), erano le migliori del mondo.

Nel 1885 la Società Geografica Italiana incaricò il pastore valdese Giacomo Weitzecker, già da qualche anno missionario nel Basutoland, di verificare di persona se la notizia “che un certo numero di emigranti italiani era sbarcato nell’Africa meridionale a Porto Natal e di là era passato a lavorare nei territori diamantiferi del West-Griqua-Land”

50

fosse vera.

Quando il pastore valdese cominciò il suo viaggio, i campi diamantiferi erano stati scoperti da quasi venti anni e in questo arco di tempo si erano alternati periodi floridi a fasi di crisi. Questo andamento altalenante non permise la trasformazione dell’esperienza dei minatori, italiani e non, da temporanea a permanente. Attorno al 1885 la comunità italiana di Kimberley era composta da centosessanta persone ed era formata prevalentemente da piemontesi che prima di arrivare in Sud Africa avevano lavorato nella costruzione delle ferrovie nord-europee e avevano pensato di trovare lavoro nello stesso settore nella Colonia del Capo. Gli altri erano marinai che provenivano dalla Liguria o dalle regioni meridionali. Weitzecker scrive che c’erano 37 piemontesi, 28 liguri, 11

47 A. Rossi, Le questioni del lavoro nell’Africa Australe, in C.G.E., (a cura di) “Bollettino dell’Emigrazione n. 9 anno 1903”, p.57

48 Nel 1877 la Repubblica del Transvaal fu annessa pacificamente alla Colonia del Capo, secondo un piano architettato dal ministro inglese delle colonie, Lord Carnarvon. I boeri, però, guidati da Paul Kruger, alla fine del 1880, si ribellarono ed inflissero pesanti sconfitte agli inglesi, che furono costretti a restituire piena autonomia al Transvaal.

49 L’attuale Lesotho, colonia inglese fondata nel 1884 per l’incapacità della Colonia del Capo di controllare quel territorio. Indipendente dal 1966. Vedere Cartina 2 p. 15

50 Società Geografica Italiana, Adunanze del Consiglio Direttivo, “Bsgi”, fasc. 12, dicembre 1885, p. 889 come citato in V. Iacoponi, opera citata p. 114

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22

lombardo veneti, 13 toscani, 24 uomini provenienti dall’Italia centrale, 35 napoletani di tutte le province, 9 siciliani e 3 sardi. Circa un centinaio di loro erano operai, mentre una minoranza era composta da lavoratori specializzati: c’erano venti minatori, quaranta tra impresari dei lavori e capisquadra, sei artigiani, di cui quattro falegnami e due imbianchini. Questi lavoratori erano utilizzati per l’apertura delle gallerie, nello scavo dei pozzi e nell’estrazione di terra diamantifera. Le paghe erano buone ed erano cresciute negli anni, ma le spese per il vitto e l’alloggio erano elevatissime, perché a Kimberley non venivano prodotti beni di consumo. Weitzecker a tale proposito osserva che:

La loro condizione non è così florida come si potrebbe credere, sia in certi casi, per la mancanza di economie, sia perché ci sono frequenti interruzioni nel lavoro (in media due o tre mesi all’anno), sia perché le condizioni del vivere sono ancora molto care51

e per questo era diffusa l’abitudine tra gli operai italiani di dividere tra loro una camera.

L’affermazione del Weitzecker sulle poche economie dei minatori, trova conferma nell’intervista ad Alita Boriero, raccolta nell’ambito del presente studio e contenuta per intero nell’Appendice (intervista n. 2). Il pastore sottolinea, inoltre, la pericolosità della cava diamantifera di Kimberley, conosciuta come “la grande buca”, dove moriva un gran numero di lavoratori, (il tasso di mortalità era dodici volte più alto rispetto a quello delle miniere inglesi), facendo notare che i minatori erano ben retribuiti, ma mai sicuri di uscire vivi. Per questo motivo già dalla fine degli anni ’70, gli operai più qualificati cominciarono a fondare associazioni e logge per garantirsi l’assistenza medica, fondi pensione e una copertura in caso di infortunio. Gli italiani fondarono nel 1886 una Società di Mutuo Soccorso che fu chiamata “Italian Association of South Africa for Mutual Protection and Brotherhood”, allo scopo di coprire le spese sanitarie e il ricovero ospedaliero e garantire un funerale decoroso e una degna sepoltura ai suoi membri, grazie all’acquisto di un “campo santo italiano”

52

. Le sorti della comunità italiana di Kimberly seguirono quelli della città. Quando Weitzecker vi arrivò gli italiani erano scesi da duecentocinquanta a centosessanta, mentre quando il Commissario Regio Adolfo Rossi vi soggiornò nel gennaio del 1903, erano rimasti solo ventisette; nel 1911 erano decina.

Chi era rimasto aveva aperto un’attività commerciale, come il Sig. Bernardo Ferraris, arrivato da Curino (Biella) nel 1882 a soli 15 anni e diventato proprietario di una casa di

51 Weizecker, Alla ricerca degli italiani nell’Africa Australe,” Bsgi”, ottobre-novembre 1887 citato in V.

Iacoponi, opera citata, p. 117

52 Ibidem

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23

commercio e di un emporio

53

. Secondo quanto riportato dal Cav. Rossi, aveva portato a Kimberley il Fernet, la conserva di pomodoro, la pasta di Napoli e altri prodotti italiani

54

. Anche il noto esploratore boemo, Emil Holub, nelle sue memorie di viaggio, riferisce di aver incontrato nel 1886, a Kimberley, dei sudditi asburgici di lingua italiana:

A Kimberley e alle miniere diamantifere si trova la colonia austro-ungarica più numerosa di tutta l’Africa del Sud [...]. La massa era composta di lavoratori (tedeschi, croati e italiani) occupati allo scavo delle miniere o in qualità di sorveglianti dei negri nelle miniere, o a sminuzzare e lavare la sabbia diamantifera […]. Molti di quei lavoratori erano ex-marinai venuti nell’Africa australe con bastimenti austriaci che avevano abbandonato per cercar fortuna nei tanto decantati campi diamantiferi. Lo spirito e l’economia dei nostri abitatori delle coste55 è ben noto e colle buone paghe che avevano realizzavano dei bei risparmi.” 56

Nel 1888 la Società Geografica Italiana si occupò di nuovo dei connazionali residenti a Kimberley, nell’ambito di un’indagine sull’entità e la struttura dell’emigrazione italiana.

La Società inviò 400 questionari a corrispondenti, Consoli e Istituti italiani presenti nei continenti extraeuropei. Ne ritornarono compilati solo 123, che vennero raccolti in un volume pubblicato nel 1890. L’unica località sudafricana considerata fu Kimberley, dove non esisteva nessuna istituzione ove gli emigranti potessero rivolgersi per avere informazioni o assistenza. Dalle risposte pervenute emerse che vi risiedevano circa centotrenta italiani (la cifra è compatibile con quella di centosessanta, indicata da Weitzecker nel 1885), che lavoravano quasi tutti in miniera. Il guadagno di un minatore andava dalle 75 alle 150 lire italiane dell’epoca alla settimana, domenica esclusa, mentre un meccanico guadagnava dalle 87 alle 160 lire, salari altissimi per quei tempi. Non vi erano agricoltori tra i connazionali della zona. Alcuni tra gli italiani erano riusciti a comprare una casa con i risparmi accumulati, mentre i nove decimi dei connazionali aveva intenzione di rimpatriare appena fosse stato possibile

57

.

I risultati di questa indagine, con le dovute cautele legate alla ristrettezza del campione esaminato, avvalorerebbero la tesi che, all’inizio, l’esperienza migratoria italiana in Sud Africa fu di tipo temporaneo, legata all’instabile settore minerario e ostacolata dall’inospitalità di una regione fino ad allora disabitata.

53 I. Ferreira, opera citata, p. 106

54 Cav. A. Rossi, opera citata, p. 57

55 Le coste istriane e dalmate, abitate in maggioranza da italiani

56E. Holub “Dalla Città del Capo al paese dei Msciucolumbe” p. 1080 vol. II Hoepli, Milano 1891, come indicato nella nota 5 di p. 50 da G. Sani, opera citata

57 G. Sani, opera citata, p. 45

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2.2 I primi italiani reclutati nelle ferrovie nella Colonia del Capo, tra il 1873 e il 1883

La scoperta dei diamanti aprì una fase di prosperità per la Colonia del Capo che, con un a bilancio in attivo, decise di inaugurare una stagione di progresso e di sviluppo.

Questo programma di crescita si sarebbe dovuto fondare su due cardini: la crescita demografica della popolazione bianca e un sistema di infrastrutture moderno. Infatti, solo una popolazione numerosa avrebbe stimolato il mercato interno, fornito un maggior gettito fiscale e consentito lo sviluppo dei servizi, così da dare alla colonia del Capo quel benessere ormai già raggiunto nelle altre regioni imperiali. Ma l’esigenza di una forte crescita demografica bianca, che poteva essere soddisfatta solo con il ricorso all'immigrazione europea, si scontrava con il bisogno di reclutare manodopera a basso costo. Nella colonia mancavano non solo artigiani qualificati, operai e contadini specializzati, ma anche braccianti e manovali. Agli inizi degli anni ’70 i landlords sudafricani si lamentavano di non avere abbastanza braccia per i lavori agrari, ma per attrarre manodopera dall’Europa, essi dovevano essere disposti ad offrire le condizioni garantite in Australia o in Nuova Zelanda.

L’agricoltura al collasso e l’urgenza di iniziare i lavori ferroviari, imposero al Governo del Capo di agire in fretta, ignorando le polemiche dei proprietari terrieri e pianificando un progetto di emigrazione assistita. A Londra, un Agente del Governo del Capo selezionò 22.000 emigranti, che tra il 1873 e il 1883 sbarcarono in Sud Africa. Furono impiegati nelle ferrovie, nei corpi di polizia e nell’agricoltura. Le retribuzioni della manodopera inglese erano in costante crescita, ma si preferì reclutare in Gran Bretagna, anche se a prezzi più alti, con il preciso intento di aumentare il peso demografico inglese e, di conseguenza, il peso politico della componente inglese su quella afrikaner (il Parlamento dal 1872 aveva poteri decisionali autonomi)

58

.

Questo progetto si rivelò particolarmente oneroso per le finanze pubbliche e sulla stampa si accese il dibattito tra chi criticava l’ingaggio e le retribuzioni degli operai inglesi, chi proponeva l’immigrazione di asiatici, di africani di paesi limitrofi e addirittura di afroamericani dal sud degli Stati Uniti. Il premier John Molteno si oppose all’immigrazione di manodopera non qualificata e sostenne l’idea di far arrivare operai e artigiani dal vecchio continente, fondamentali, secondo lui, per il progresso e lo sviluppo

58 M. Zamponi, opera citata p. 27 e V. Iacoponi, opera citata, p. 34

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25

della colonia. Il problema della scarsità di “braccia” fu però risolto con il reclutamento di

“barbari” dal Mozambico o dalle regioni di frontiera, mentre si continuarono a cercare i lavoratori qualificati nel continente europeo

59

. Lo spazio di inserimento per operai e agricoltori italiani era dunque molto ristretto. Nell’autunno del 1875 il reverendo Fuller, agente per l’emigrazione a Londra, incaricato di cercare manodopera specializzata nel nord Europa, che già diversi mesi prima aveva suggerito, senza successo, il reclutamento degli italiani del nord per le loro qualità e la disciplina sul lavoro, fece sbarcare in Sud Africa 73 italiani, (42 terrazzieri, 6 muratori, 21 sterratori e 3 cuochi), enfatizzandone le qualità. E’ molto probabile che questi lavoratori si trovassero già in nord Europa, in Germania o in Lussemburgo, dove spesso gli italiani lavoravano nella costruzione delle ferrovie. Furono dislocati principalmente sulle linee ferroviarie di Port Elizabeth e East London (porti situati sull’Oceano Indiano, Cartina 1 p. 9). Quattro dei settantatré sbarcati nel 1875 portano lo stesso cognome di altri che saranno in Transvaal alla fine del secolo, tutti provenienti da Brusnengo, in provincia di Biella

60

. Si sa poco sulla loro permanenza nel paese perché, eccetto che per due di loro, non sono stati trovati né certificati di morte, né richieste di naturalizzazione. Si sa che due di loro si erano trasferiti a Cape Town per lavorare in un bar e gestire un albergo

61

. Degli immigrati italiani non si lamentò mai nessuno, mentre i belgi che arrivarono con loro procurarono parecchi problemi per le risse, per il bere e per le assenze sul lavoro. Per questo, nonostante le insistenze di Fuller per l’ingaggio di altri italiani, furono date istruzioni per il reclutamento solo di operai britannici. Così scriveva il Commissioner all’agente Fuller:

Il 23 agosto ultimo, sull’opportunità di procurare navvies (lavoratori impiegati nelle costruzioni di strade e ferrovie) italiani per la colonia, il governo non desidera che vengano ingaggiati altri sterratori, dal momento che dalle ultime relazioni inviate dagli ingegneri emerge che il lavoro dei nativi è molto indicato per queste semplici mansioni manuali. Gli italiani sono bravi lavoratori, ma a meno che non siano artigiani, la loro presenza non è necessaria. E’ possibile che in futuro vengano richiesti dei ganger (caposquadra), ma in questo caso vorrei esprimere il desiderio che vengano selezionati

degli inglesi, dal

momento che dirigono meglio i neri62.

Nel frattempo fu creata una commissione d’inchiesta per valutare di estendere anche agli

59 V. Iacoponi, opera citata, pp. 33-38

60 Letters despatched to emigration Agent n. 11/173 del 15 dicembre 1875 p. 196 e n. 11/355 del 18 settembre 1876 p. 379, come citato da V. Iacoponi, opera citata p. 41

61 Si trattava di Modesto Ferrari e Giuseppe Conti, come risulta da List of voters for Cape Town and Green Point, 1882, come riportato da V. Iacoponi, ibidem

62 Letters despatched to emigration Agent, 2 ottobre 1875, come riportato da V. Iacoponi, opera citata p.

40

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agricoltori il sostegno del governo, in considerazione anche dell’ampia disponibilità di terreni della Corona ancora incolti, che potevano essere assegnati ad un gran numero di agricoltori con un sistema di vendita dilazionata. Anche in questo caso l’iniziativa fu rivolta a cittadini del nord Europa, principalmente scozzesi, svizzeri, tedeschi. Il progetto fu realizzato solo in scala ridotta e non ebbe un grande successo per i problemi legati alla siccità, alle malattie delle piante e degli animali. Solo chi aveva il proprio lotto vicino ad un centro abitato poteva sperare in un mestiere alternativo che gli consentisse di mantenersi in attesa dei primi raccolti. Per queste difficoltà diffuse di inserimento si fece sempre più forte l’idea di dover inserire tra i criteri di selezione dei futuri coloni anche la disponibilità di una somma di denaro, necessaria per il sostentamento durante i primi mesi di permanenza nella colonia

63

.

2.3 I pescatori siciliani e calabresi nella Colonia del Capo

Attorno al 1880, riferiscono Sani e Bini, si costituì a Città del Capo una piccola comunità di pescatori provenienti, per la maggior parte, da Trapani, Messina, Catania e Reggio Calabria. Si trattava di marinai che avevano disertato le navi mercantili italiane al servizio di commercianti inglesi, dove lavoravano in condizioni disumane per stipendi da fame.

Ben presto si riunirono e si organizzarono per la pesca, mestiere che praticavano in patria.

I pescatori italiani utilizzarono la tecnica delle “reti fisse”, introdotta nella Colonia del Capo da alcuni siciliani, metodo mai utilizzato in quei mari e molto più efficace di ogni altro. Il magistrato locale di Malmesbury, nella provincia del Capo Occidentale, a 65 km da Cape Town, riferisce Iacoponi, imputò il successo di questi pescatori alla loro superiorità tecnica, al loro temperamento e alla loro frugalità, caratteristiche grazie alle quali riuscirono velocemente ad accantonare somme consistenti, che investirono nell’acquisto di barche a motore di dimensioni sempre più grandi. Queste consentirono loro di pescare anche a grandi distanze dalla costa, in particolare aragoste, vendute poi alla ditta “Trosbourg & Du Plessis”, che provvedeva all’inscatolamento e alla commercializzazione in Europa. L’ abilità nel mestiere e la ricchezza delle acque permise loro di prosperare nell’attività intrapresa e, grazie all’afflusso di familiari e conoscenti dai paesi d’origine, fu fondato negli anni successivi un villaggio di pescatori nella località di Langebaan, a circa 140 km ad est da Città del Capo. Fino ad allora la pesca in Sudafrica

63 V. Iacoponi, opera citata, pp. 42-43

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era stata monopolio dei malesi, che utilizzavano mezzi e metodi molto primitivi.

Gli italiani nel nuovo villaggio costruirono prima casette in legno e lamiera ondulata e poi case in muratura, depositi e banchine, dando impulso all’attività edilizia, svolta sempre da connazionali. Attorno al 1910 la comunità contava 70 pescatori che avevano a disposizione una flottiglia di 90 battelli e 200 dinghies (barche a remi)

64

.

2.4 Un progetto di emigrazione agricola assistita: i sericoltori italiani di Knysna (1881)

L’unica esperienza documentata di emigrazione agricola assistita che ha visto coinvolte delle famiglie contadine italiane fu quella dei sericoltori, ingaggiati per realizzare il progetto deciso dal Parlamento del Capo di impiantare e sviluppare nella Colonia l’industria della seta. L’agente di Londra fu autorizzato a scegliere famiglie provenienti dal nord d’Italia o dalla Francia, dove la bachicoltura aveva una lunga tradizione. Si ritenne più economico reclutare in Italia e per questo fu pubblicato un annuncio sui giornali di Torino, Firenze e Milano. I contadini che volevano candidarsi, come di consueto, dovevano presentare garanzie di comprovato buon carattere e di professionalità, mentre il contratto che veniva loro proposto era un passaggio gratuito da Londra fino al porto coloniale più vicino ai lotti assegnati, un terreno di 20 acri per famiglia

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al costo di 10 scellini ad acro per anno, per 10 anni di pagamento. Nei pressi dei lotti era prevista un’ampia zona di commonage per il pascolo degli animali e la coltivazione degli orti.

C’era, inoltre la possibilità, per tre o quattro famiglie, di essere prese a contratto come affittuari da un latifondista residente nel distretto di Knysna. Dalla corrispondenza intercorsa tra l’agente per l’emigrazione a Londra e il Commissario dei lavori pubblici risulta chiaro che non esistevano nella zona boschi di gelso selvatico.

I terreni si trovavano vicino al villaggio di Knysna, dove i contadini avrebbero potuto facilmente trovare un impiego temporaneo, almeno fino a quando le piantagioni non fossero entrate in produzione. Ma non fu facile trovare le famiglie con i requisiti richiesti e soprattutto che avessero venti sterline, come disposto. I trentuno sericoltori italiani ingaggiati, esperti nella coltura del gelso, dell’ulivo e del lino e provenienti dalle province di Como, Milano e Treviso, arrivarono a Cape Town a fine aprile 1881, dopo circa venti giorni di viaggio e, prima di essere trasferiti nella località di Gouna, furono tenuti per

64 G. Sani, opera citata, pp. 40-41 e A. Bini, opera citata, pp. 17-23

65 Equivalenti a 8 ettari

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